Archivio del Tag ‘Creta’
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L’Uomo di Marte: la civiltà che tuttora ci nascondono
«Visto che ci hanno mentito ininterrottamente sulle nostre vere orgini, come potete pensare che ci raccontino la verità su quanto sta accadendo oggi, nel mondo?». La provocazione è firmata da Gianluca Lamberti, infaticabile animatore giornalistico del canale YouTube “Facciamo Finta Che”, sempre a caccia di voci eterodosse e di suggestioni utili a decifrare il presente. Una degli interlocutori abituali è lo storico Nicola Bizzi, portavoce in Italia dell’antica tradizione misterica eleusina. Uno sguardo a 360 gradi, il suo: da saggi di scottante attualità, come “Operazione Corona”, a volumi – ad esempio il recente “I Minoici in America” – che frugano nel passato, sfornando rivelazioni che spiazzano il sapere accademico. Succede di scoprire, per esempio, che il rame destinato a Creta veniva estratto 3.000 anni fa dalle miniere del Michigan: ma l’America non doveva esser stata “scoperta” dall’ipotetico Colombo soltanto 4.500 anni dopo? Stesso discorso per l’omertà che protegge le esplorazioni spaziali. Misteri che, in realtà, sembrano essere soltanto segreti ben custoditi: come quello che annacqua le informazioni sul mondo dei marziani.Marte, ovvero: il desertico Pianeta Rosso, letteralmente inabitabile, o invece la patria di una civiltà identica alla nostra? «Se la scienza ufficiale, oggi, in molti casi è ormai ridotta a produrre semplice mitologia – dice Bizzi – forse la vale la pena di domandarsi seriamente se la mitologia (antica) non nasconda verità anche imbarazzanti, per il sapere ufficiale e per le stesse religioni». Per dire: «Come faceva, Omero, a conoscere precisamente l’esistenza dei satelliti di Marte? E perché ne parla anche Jonathan Swift, l’autore dei Viaggi di Gulliver?». E poi: c’è vita, su Marte? O almeno, c’era? Non sono fantasie. «Basta dare un’occhiata alle ormai tantissime foto scattate sul territorio marziano: è strapieno di evidenti vestigia architettoniche. Perché non se ne vuole ancora parlare?». Forse perché – come scrisse il sumerologo Zecharia Sitchin – il destino di Marte sarebbe legato a quello di Nibiru, il pianeta da cui, secondo i Sumeri, provenivano gli Annunaki, cioè le “divinità aliene” che avrebbero colonizzato la Terra 400.000 anni fa?Al tema marziano, Gianni Viola ha dedicato il saggio “La civiltà di Marte” (“Osservazione, esplorazioni, geografia, esseri intelligenti”, pubblicato già nel 2002 dalle Edizioni Mediterranee). Lo cita lo stesso Bizzi, editore di Aurora Boreale, nella trasmissione “Il Sentiero di Atlantide”, in video-chat con Lamberti. «Tanto per cominciare: a livello mediatico, dalla Nasa in giù, la narrazione su Marte sembra una colossale presa in giro: il pianeta viene tuttora descritto come da sempre “morto” e disabitato. Peccato che a smentire la versone ufficiale siano le immagini – migliaia, ormai – scattate a partire dalle prime missioni Viking, negli anni ‘70, e ora anche dai tanti “rover” terrestri fatti sbarcare su Marte». Emergono manufatti decisamente impressionanti: «Parliamo di oltre 150 piramidi di grandi dimensioni, insieme a fortezze e altre strutture chiaramente di origine artificiale, opera dell’ingegno dei loro costruttori».Su Marte si vedono «scalinate, statue, colonnati, strani condotti tubolari lunghi centinaia di chilometri». E poi anhe «rovine di presunte metropoli, nonché sfingi, giganteschi volti scolpiti (come quello, impressionante, della Piana di Cydonia) e persino resti ossei e teschi palesemente umani». Spiccano complessi statuari rupestri simili a quelli dell’antico Egitto, «accanto a basi recenti – dall’aspetto in questo caso molto terrestre – dotate di pannelli solari». Ultimamente, rileva Bizzi, la Nasa sta pubblicando foto sbalorditive: come per prepararci a una “disclosure”, finalmente? «Recenti immagini all’infrarosso hanno inoltre evidenziato l’esistenza di strutture sotterranee, che emanano calore. Mi domando: esistono realtà sotterranee ancora vitali, sotto la superficie marziana? Teniamo conto del fatto che grandi strutture ipogee, mai del tutto spiegate, costellano anche il sottosuolo terrestre: come se fossero state scavate per cercare riparo da un cataclisma piovuto dal cielo».Secondo Bizzi, infatti, Marte – forse popolato da esseri come noi, fino a pochi millenni fa – potrebbe esser stato travolto dalla stessa pioggia cometaria che devastò anche la Terra fra il 10800 e il 9600 avanti Cristo. Solo che, su Marte, la devastazione sarebbe stata ancora peggiore, con conseguenze definitive. «Tutto porta a pensare che Marte sia stato duramente colpito da quella pioggia di corpi celesti. Il pianeta sarebbe stato letteralmente crivellato, fino a veder distrutto il suo campo magnetico: questo avrebbe provocato la disgregazione della sua atmosfera e l’evaporazione delle acque superficiali, fiumi e mari. Il cataclisma avrebbe quindi causato la morte del pianeta, almeno nella sua superficie. Si può pensare che qualcuno (o qualcosa) si sia comunque salvato, rifugiandosi nel sottosuolo?». Bizzi si sofferma su un indizio: «Le strutture ipogee terrestri – simili a quelle rilevate su Marte – risalgono esattamente a 12.000 anni fa, cioè all’epoca di quegli spaventosi impatti: che sul suolo marziano, peraltro, sembrano aver originato anche grandi crateri e colossali canyon».E’ possibile che, a scatenare la catastrofe, sia stato il transito ravvicinato del pianeta Nibiru, la cui esistenza divide ancora gli scienziati? A questo proposito, aggiunge Bizzi, fa impressione rileggere la traduzione di una particolare tavoletta cuneiforme, che Zecharia Sitchin propone ne “Il libro perduto del dio Enki”, edito da Piemme nel 2004. Secondo Sitchin, in quella tavoletta sumera si legge che gli Anunnaki avrebbero scoperto, proprio su Marte, la tomba del loro capostipite, Alalu. Sarebbe stato il pioniere della colonizzazione terrestre: gli Anunna avrebbero estratto l’oro della Terra per trasferirlo su Nibiru, allo scopo di “ripristinare” l’atmosfera di quel pianeta, che si era deteriorata. Marte? Era una base intermedia per trasferire l’oro dalla Terra a Nibiru. E proprio su Marte sarebbe stato confinato, in esilio, lo stesso Alalu, punito in seguito a gravi controversie sorte con i suoi.Ritrovata la tomba con i resti ossei di quell’ipotetico, antico “Re di Nibiru”, la tavoletta sumera recita: «Sbarrarono di nuovo l’ingresso della caverna con le pietre, e su una grande montagna rocciosa scolpirono – con i raggi – l’immagine di Alalu. Lo ritrassero con un elmetto d’aquila, con il volto scoperto: che l’effigie di Alalu guardi per sempre verso Nibiru, dove regnò». La storia dell’oro dei Sumeri, peraltro, è accreditata anche da Michael Tellinger, scopritore dei resti di quella che sembra un’enorme metropoli, risalente a 200.000 anni fa, a due passi dalle grandi miniere d’oro del Sudafrica. Secondo i testi sumeri, gli Anunna avrebbero “fabbricato” un essere umano simile a loro. Potrebbero aver fatto la stessa cosa anche su Marte, se quel pianeta (non ancora rosso, ma verde e ricco di acque, come la Terra) era davvero una loro antica colonia?«La stessa civiltà umana attuale – dice Bizzi – è probabilmente frutto di molteplici ingerenze genetiche esterne: una di queste, secondo la tradizione eleusina, fu operata dagli dèi Titani provenienti da Tau Ceti, “progenitori” dell’uomo bianco occidentale. Questo spiegherebbe anche l’eterogeneità delle tante etnie umane e le nostre differenti caratteristiche fisiche, non sempre riconducibili a questioni climatiche o all’areale geografico». Conclude Bizzi: «La mia opinione è che la “morte” di Marte risalga a pochi millenni addietro, forse proprio a 12.000 anni fa». Che il pianeta fosse abitato, ormai, appare fin troppo evidente. «Molto probabilmente, quella di Marte era una civiltà gemella della nostra, se non addirittura la stessa. Se così fosse, si tratterebbe di una realtà più che scomoda, per i poteri terrestri, a cominciare da quelli religiosi. E questo spiegherebbe anche il lunghissimo “cover up” che tuttora nasconde la verità su Marte».«Visto che ci hanno mentito ininterrottamente sulle nostre vere orgini, come potete pensare che ci raccontino la verità su quanto sta accadendo oggi, nel mondo?». La provocazione è firmata da Gianluca Lamberti, infaticabile animatore giornalistico del canale YouTube “Facciamo Finta Che”, sempre a caccia di voci eterodosse e di suggestioni utili a decifrare il presente. Una degli interlocutori abituali è lo storico Nicola Bizzi, portavoce in Italia dell’antica tradizione misterica eleusina. Uno sguardo a 360 gradi, il suo: da saggi di scottante attualità, come “Operazione Corona”, a volumi – ad esempio il recente “I Minoici in America” – che frugano nel passato, sfornando rivelazioni che spiazzano il sapere accademico. Succede di scoprire, per esempio, che il rame destinato a Creta veniva estratto 3.000 anni fa dalle miniere del Michigan: ma l’America non doveva esser stata “scoperta” dall’ipotetico Colombo soltanto 4.500 anni dopo? Stesso discorso per l’omertà che protegge le esplorazioni spaziali. Misteri che, in realtà, sembrano essere soltanto segreti ben custoditi: come quello che annacqua le informazioni sul mondo marziano.
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Laboratorio Italia: come trasformare gli uomini in topi
“To live in a land where justice is a game” (Bob Dylan, “Hurricane”, 1976). Non si può che morire di vergogna, per il fatto di vivere in una terra dove, ormai, la giustizia è un gioco. E dove “they try to turn a man into a mouse”, provano a trasformare l’essere umano in topo: non Rubin Carter, il famoso pugile finito in carcere, ma proprio tutti. Il rumore di ceppi e catene si è fatto assordante, lungo i meandri stucchevoli nella neolingua sanitaria che pretende di assoggettare i cervelli e i corpi, sottendendo la fine – sostanziale – di uno Stato di diritto che invece esiste ancora, e per il momento arma la mano di centinaia di avvocati combattivi. Sopravvive tuttora la Costituzione entrata in vigore nel 1948, benché amputata brutalmente una decina d’anni fa con l’inserimento dell’obbligo del pareggio di bilancio. Una Carta ora ritoccata anche con l’ambigua indicazione, teoricamente nobile ma contigua al verbo “gretino”, sulla tutela dell’ambiente (possibile alibi per chissà quali altre torsioni, future o imminenti).Quanto è lontana, da tutto questo, la remotissima America in cui un cantautore carismatico – con una semplice canzone di denuncia – poteva contribuire a restituire la libertà a un atleta finito in cella in quanto afroamericano, per un rigurgito tardivo di razzismo? A contendersi la Casa Bianca, all’epoca, erano Gerald Ford e Jimmy Carter. Oggi il mondo sa che l’inquilino di Pennsylvania Avenue è un anziano diroccato e forse mentalmente presente solo a intermittenza. Un ometto debolissimo, piazzato su quella poltrona da maneggi informatici scandalosamente enormi, su cui le autorità giudiziarie non hanno mai voluto fare piena luce. Un presidente facente funzioni, interamente manovrato da altri, cui oggi tocca misurarsi – in mezzo a gaffe ormai leggendarie – con un personaggio come Vladimir Putin, tra praterie di missili puntati. Il vecchio film, la guerra, sembra un fantasma che ritorna, un vampiro inestinto: solo che stavolta il cittadino medio non riesce ad afferrarne neppure il sapore più superficiale, preso com’è da tutti gli altri assilli che, da due anni, lo inchiodano al baratro di precarietà nel quale la vita di tutti è letteralmente precipitata, in Occidente.Lo stesso Bob Dylan, in pieno terrore pandemico (marzo 2020) ha voluto mettere l’accento sul “murder most foul”, il più disgustoso degli omicidi – quello di John Fitzgerald Kennedy – come sciagurato evento-chiave della seconda parte del secolo, conclusosi davvero solo l’11 settembre 2001 con la sua coda di orrori: l’Iraq e l’Afghanistan, le bombe al fosforo sui civili di Falluja e su quelli di Gaza, Obama e le altre carneficine “regionali” (dalla Libia alla Siria), i tagliagole dell’Isis in azione in Medio Oriente e nelle capitali europee. E’ durata pochissimo, la ricreazione, perché sulla scena ha fatto irruzione il coronavirus-chimera di Wuhan: la globalizzazione della schiavitù psicologica e non solo, con il suo corredo di strumentazioni distopiche. Il “false prophet” dell’ultimo Dylan è uno scheletro che brandisce una siringa, suonando alla porta di casa come per consegnare un regalo ben impacchettato. Nel disco (“Rough and rowdy ways”) manca solo l’estremo omaggio, il corollario: la schedatura definitiva mediante pass vaccinale, e senza neppure la cortesia di un vero vaccino.Il mistero più fitto continua ad aleggiare sui sieri genici C-19: graziosamente, in prima battuta, Pfizer aveva provato a sostenere che sarebbe stato possibile rivelare la loro reale composizione soltanto fra 70 anni. Nel frattempo, le agenzie europee della farmacovigilanza parlano di oltre 30.000 morti sospette e 3 milioni di persone finite nei guai dopo l’inoculo: sembra il bilancio di una guerra, non certo quello di una campagna vaccinale. Nonostante ciò, probabilmente, sfugge la vera ragione che motiva i renitenti, che sono milioni: a farli desistere dal subire l’iniezione è essenzialmente l’atteggiamento ricattatorio di un potere che si è macchiato di un crimine gravissimo, rifiutandosi ostinatamente di approntare terapie efficaci, sollecitamente segnalate dai medici. Questo, si immagina, ha contribuito a causare la morte di migliaia di persone: pazienti non curati, lasciati a casa a marcire da soli in modo da poter poi essere ricoverati, gonfiando in tal modo i numeri televisivi dell’emergenza. Dovrebbe essere intuitivo comprendere il “no” di tanti italiani: com’è possibile accettare di ottenere una sorta di libertà condizionata, a patto di sottoporsi al Tso, se questo è imposto da autorità tanto inaffidabili e pericolosamente sleali?Il caso italiano fa scuola: se è vero che l’uragano psico-politico-sanitario si è abbattuto essenzialmente sull’Occidente, è vero anche che nessun altro paese ha dovuto vivere i supplizi inflitti all’Italia, in termini di vessazioni e distorsioni dell’ordinamento democratico. Perfettamente speculare anche l’acquiescenza della maggioranza dei cittadini-sudditi, ormai rassegnati a subire qualsiasi arbitrio, da parte della voce del padrone (non importa quale). Mentre gli altri paesi occidentali si stanno scrollando di dosso la dittatura sanitaria, nella patria del potere vaticano si usa ancora obbedir tacendo: il governo prolunga oltremisura le restrizioni e ritarda in modo esasperante le cosiddette riaperture, con l’aggravante del Tso esteso in modo pressoché generalizzato. Le discriminazioni sono diventate persecutorie, varcando la soglia degli uffici pubblici, di molti negozi, persino degli sportelli bancari e delle Poste. Questo, per ora, è lo spettacolo offerto da Mario Draghi, destinato a entrare nella storia: esattamente come il Britannia e la svendita del paese negli anni ‘90, come il “whatever it takes” concesso solo dopo la morte civile della Grecia e la capitolazione di Italia e Spagna.Un vero statista, ovviamente, avrebbe innanzitutto messo mano al problema numero uno: lo ha fatto Boris Johnson, nel Regno Unito, fungendo da apripista per svariati paesi, dalla Spagna alla Danimarca. La Francia annuncia la fine del Green Pass entro marzo? Niente paura: il bis-ministro Speranza (in quota alla Fabian Society, che gli italiani non conoscono) va avanti imperterrito con lo squallore settimanale delle Regioni “colorate”, come se davvero fossimo in presenza di un’emergenza ospedaliera. La verità è tristissima: qualcuno, lassù, ha deciso che l’Italia dovesse essere l’area-test per il nuovo ordine sanitario. Le major ordinarono a Obama di procedere, e Renzi rispose: scelsero l’Italia, come paese-cavia per gli obblighi vaccinali, conoscendone il ventre molle (politico) e la solidità dello storico tutore che risiede Oltretevere, il network tentacolare che traffica anche coi cinesi, coi vaccini e coi tamponi. A proposito: non è certo uno scherzo, smontare da un giorno all’altro l’albero della cuccagna. Chiunque ci provasse, va da sé, forse potrebbe anche temere persino per la sua incolumità fisica. Non a caso si è stranamente affollato, il cimitero degli scienziati che avevano osato sdrammatizzare il problema, offrendo soluzioni tempestive e convincenti.Dopo aver bellamente elevato a sistema l’esercizio del ricatto, oggi il signor Draghi – a un anno dall’intronazione – può ben fregiarsi del titolo di grande demolitore: come se fosse sempre lui, il fondo, il vero detentore della specialità rottamatoria. Ci aspetta una crisi socio-economica dai risvolti potenzialmente spaventosi? Ovvio: per un anno intero, il governo (in questo, identico al precedente) ha letteralmente sventrato interi settori vitali, dal commercio al turismo, passando per la scuola, i trasporti, la cultura, lo spettacolo. Come da copione, fa notare qualcuno: l’inferno dei tanti è il paradiso dei pochissimi, quelli che infatti orchestrano la sinfonia di Davos. Non andrà tutto bene? Già. Ma non andrà completamente in porto, a quanto a pare, neppure la conversione definitivamente “cinese” della latitudine occidentale: il grande caos è agitato dallo scontro, sotterraneo e non, di possenti forze contrarie. Se la catastrofe è grandiosamente globale, comunque, l’Italia riesce a brillare di luce propria: nessun altro paese ha usato così bene il Covid per terremotare il proprio tessuto socio-economico.Tornano alla mente i tempi (oscuri, ma non quanto l’attuale) dei tentati golpe e delle stragi nelle piazze: poteri sovrastanti, che manovrano silenziosamente. Il target non è cambiato: l’Italia, gli italiani. A cui lo show offre le prodezze di Sanremo e le carezze che il gesuita Bergoglio dispensa a Greta Thunberg, la ragazzina davanti a cui si genuflette Draghi insieme al ministro Cingolani. Mala tempora: tanti connazionali, ormai, si sentono già esodati: e infatti stanno programmando l’espatrio, verso lidi meno inospitali. Chi può permetterselo, sta seriamente pensando di lasciare il paese: tale è il disgusto che provocano le sue autorità politiche, ma anche la deprimente sottomissione della maggioranza ostile e buia, annichilita dalla paura e fuoriviata dalla disinformazione di regime. Perché proprio l’Italia? Perché proprio l’erede dell’impero che Ottaviano Augusto volle far discendere dal troiano Enea, cioè dalla Creta dei Minosse che la mitologia dipinge come atlantidea? Perché proprio l’Italia, dominata per quasi due millenni dal medesimo potere confessionale, retrivo e oscurantista?Qualcuno intanto si diverte, amaramente, a constatare la strettissima osservanza vaticana delle massime cariche istituzionali: gli inquilini di Palazzo Chigi e del Quirinale, più il neo-presidente della Corte Costituzionale (altro personaggio, Giuliano Amato, rimasto nel cuore degli italiani). Ecco, appunto: gli italiani. Forse sono proprio loro, che mancano all’appello. Dove sono? Facile: eccoli là, in fila per il tampone. Fino a quando? Il palazzo comincia a parlare di allentamenti primaverili: ma chi si fida più, di quelle lingue biforcute? Se lo stanno godendo appieno, il grande spettacolo della schiavizzazione strisciante: in fila per tre, con la brava mascherina sulla faccia. Medici, psicologi e sociologi si esercitano in previsioni apocalittiche: parlano di danni, fisici e mentali, incalcolabili. Sembrano gli effetti di un immane esperimento sulfureo: scoprire fino a che punto si può “trasformare un uomo in un topo”. In Italia, ovviamente. Come sempre.(Giorgio Cattaneo, 12 febbraio 2022).“To live in a land where justice is a game” (Bob Dylan, “Hurricane”, 1976). Non si può che morire di vergogna, per il fatto di vivere in una terra dove, ormai, la giustizia è un gioco. E dove “they try to turn a man into a mouse”, provano a trasformare l’essere umano in topo: non Rubin Carter, il famoso pugile finito in carcere, ma proprio tutti. Il rumore di ceppi e catene si è fatto assordante, lungo i meandri stucchevoli nella neolingua sanitaria che pretende di assoggettare i cervelli e i corpi, sottendendo la fine – sostanziale – di uno Stato di diritto che invece esiste ancora, e per il momento arma la mano di centinaia di avvocati combattivi. Sopravvive tuttora la Costituzione entrata in vigore nel 1948, benché amputata brutalmente una decina d’anni fa con l’inserimento dell’obbligo del pareggio di bilancio. Una Carta ora ritoccata anche con l’ambigua indicazione, teoricamente nobile ma contigua al verbo “gretino”, sulla tutela dell’ambiente (possibile alibi per chissà quali altre torsioni, future o imminenti).
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Virus, vaccini, clima, 5G, Ufo: perché proprio adesso?
Perché proprio adesso? La domanda può sembrare fuori luogo, ma probabilmente non lo è. Il pianeta è sottoposto a uno stress-test senza precedenti, nella storia contemporanea. Una congiuntura più che allarmante, fatta di eventi concentrici e convergenti, spesso traumatici, comunque sconcertanti. Tutti eventi pressoché contemporanei, a partire dal più problematico: perché l’operazione Covid è scattata proprio adesso? Un piano dal respiro planetario, che tende a instaurare un controllo totale sulle persone, attraverso la gestione ultra-emergenziale di una strana epidemia influenzale. E perché proprio adesso una certa élite spinge per la digitalizzazione sistematica dell’essere umano, utilizzando – come primo passo – proprio la schedatura di massa ottenuta con la leva “vaccinale”? E poi: perché proprio adesso imporre l’inoculo di un preparato genico controverso e ancora sperimentale, ben poco efficace come misura di protezione, nei confronti – oltretutto – di un patologia molto meno pericolosa di tante altre, facilmente curabile nella maggior parte dei casi?Inoltre: perché, proprio adesso, introdurre la prassi “vaccinale” universale, in previsione della ventilata, progressiva diffusione di nanochip corporei? Qualcuno dirà: è il progresso, tutto qui. Altri alzeranno barricate, evocando il Grande Reset annunciato a Davos: non un oscuro complotto, ma – al contrario – un progetto di ingegneria sociale (e bio-politica) apertamente esposto. Colpiscono le concomitanze, piuttosto ridondanti, che fanno da corollario all’avvento dell’Era Pandemica: per esempio l’estensione della copertura Internet in ogni angolo del globo e la capillare diffusione della rete wireless 5G, supportata da milioni di antenne e migliaia di satelliti. Altra domanda: perché proprio adesso – parallelamente – è diventata ormai vistosa l’attività di geoingegneria atmosferica, condotta attraverso il rilascio quotidiano (da parte degli aerei) di scie biancastre e persistenti, fino a velare regolarmente il cielo sereno? Ancora: perché proprio adesso – dopo decenni di “negazionismo” ufficiale – viene improvvisamente sdoganata la presenza, sempre nei cieli, di oggetti volanti definiti “non identificati”, cioè teoricamente non rispondenti ad alcunché di noto, a livello terrestre?In questo mosaico di fenomenologie non ancora del tutto spiegate in modo convincente, c’è chi include anche l’anomalia dell’atteggiamento del Vaticano. Ovvero: perché, in un momento come questo, la Santa Sede ha avallato – senza esitazioni – tutte le ferree imposizioni dei governi, che hanno provocato enormi sofferenze sociali? E infine: perché, proprio adesso, viene imposta ufficialmente la narrazione ecologistica incarnata dal personaggio Greta Thunberg? E’ notorio, purtroppo, l’impatto antropico sull’ecosistema terrestre: le attività industriali e i consumi di massa hanno aggravato in modo drammatico l’inquinamento dell’aria, delle acque e dei terreni. E allora perché non concentrarsi sull’avvelenamento della Terra? Perché puntare il dito sulle variazioni climatiche, storicamente sempre avvenute per effetto dell’attività solare? E’ possibile che nell’alterazione delle temperature vi sia anche il (minimo) concorso dell’umanità; ma perché dichiarare che, invece, sia l’uomo il vero responsabile del riscaldamento? Perché – proprio adesso – lasciare che venga messo in disparte il vero problema (l’inquinamento, l’erosione delle risorse naturali) per collegare il clima alla soluzione preconfezionata dalla finanza, cioè il “reset” globale emblematizzato dall’auto elettrica?Clima, ambiente, virus e obblighi vaccinali, digitalizzazione universale, “scie chimiche” e reti wireless. E poi Ufo, cibernetica, “quarta rivoluzione industriale”. Su ogni singolo aspetto dell’assillante attualità di oggi, l’establishment fornisce risposte reticenti o contraddittorie, censurando volentieri ogni voce critica. Il che, inevitabilmente, alimenta anche i più fantasiosi “complottismi”, che finiscono per intorbidire la corretta percezione delle analisi eterodosse, quelle scomode perché serie e documentate. Il clima? Tutta colpa nostra. Il Covid-19? Uno sfortunato incidente. I “vaccini” genici? L’unica soluzione possibile (scartando quindi le terapie: che invece funzionano benissimo). Il Green Pass? Inevitabile. Le scie nel cielo? Niente di cui preoccuparsi: sciocchezze. Le antenne 5G? Innocue. L’interazione uomo-macchina, tramite nano-tecnologie anche inoculabili, oltre che inseribili nel corpo umano mediante microchip? Tutte straordinarie opportunità. Gli Ufo? E’ vero, esistono: ma si chiamano Uap, e non si ha idea di cosa possano essere. Astronavi aliene? Forse. Dunque esistono, gli alieni? Certo: lo ha dichiarato il generale Haim Eshed, già a capo della sicurezza aerospaziale israeliana.Secondo i teorici della paleoastronautica, gli alieni sono qui da sempre e controllano i destini dell’umanità. Il sumerologo Zecharia Sitchin rileva la presenza della “fabbricazione aliena” dell’Homo Sapiens nei testi mesopotamici. Parallelamente, il biblista Mauro Biglino riscontra nella Genesi una analoga “fabbricazione”, sempre genetica, da parte della comunità degli Elohim. Niente di così strano, osserva Biglino: tutti i “racconti delle origini” alludono al ruolo dei Figli delle Stelle nella nascita dell’umanità, che poi ha voluto chiamare dèi i suoi “padri celesti”, trasformandoli in materia religiosa. Chi segue con attenzione questi contributi culturali sa benissimo che ci staremmo avvicinando a un momento fatidico, l’inizio del 2024: un possibile punto di svolta. Gli studiosi di astrologia confidano nel carattere “rivoluzionario” dell’ingresso di Plutone in Acquario. Tra chi osserva il cielo dal punto di vista astronomico, invece, non manca chi parla dell’avvento di una nuova “era precessionale”, tale da mutare il corso della storia in termini pluri-millenari.Uno degli argomenti più controversi è il presunto avvicinamento del misterioso Pianeta X, il Nibiru dei Sumeri: lo sfioramento orbitale – si teme – potrebbe comportare cataclismi devastanti. Altri ancora sono convinti che dal 2024 potrebbe non essere più occultabile la presenza di nuovi visitatori dallo spazio, probabilmente ostili a quelli che – secondo l’ufologo Roberto Pinotti – sono attualmente presenti sulla Terra (come confermato dallo stesso Eshed) e controllano direttamente l’azione dei governi. Eshed parla addirittura di “basi condivise”, nell’ambito di una Federazione Galattica, localizzate sul nostro pianeta ma anche sulla Luna, su Marte e su altri corpi celesti del Sistema Solare. In ambito mitologico, poi, la tradizione dei Misteri Eleusini (che permeò segretamente anche il Rinascimento italiano, tramite le fratellanze orfiche e pitagoriche) parla in modo esplicito del ritorno dei Titani, le divinità che secondo Esiodo sarebbero state “sfrattate” dagli dèi olimpici dell’antica Grecia, quelli descritti nei poemi omerici.I Titani? Si tratterebbe di “divinità” extraterrestri provenienti da Tau-Ceti. Ebbene: 80.000 anni fa avrebbero dato vita a un particolare progenitore dell’uomo bianco occidentale, il Cro-Magnon, diffusosi a partire dall’Atlantide minuziosamente descritta da Platone nel “Timeo” e nel “Crizia” sulla scorta di precise fonti egizie. Nulla che oggi sia politicamente spendibile, s’intende: l’archeologia ufficiale si rifiuta categoricamente di concorrere a una possibile riscrittura dei nostri esordi, nonostante la scoperta dell’origine americana del rame presente a Creta, proveniente dalle miniere dell’Isle Royale sul Lake Superior (Michigan) fondate nel 3700 avanti Cristo. E’ ancora “archeologia proibita” quella che propone la reale datazione delle piramidi, molto più antiche della civiltà dei faraoni, mentre – per fortuna – alcuni siti emersi recentemente (come quello di Göbekli Tepe in Turchia) costringono anche le università ad arrendersi all’evidenza: sul nostro pianeta era presente una civiltà evolutissima e molto più anziana di quelle mesopotamiche o di quelle della Valle dell’Indo.Proprio l’archeologia non ufficiale, che ha rinvenuto in Bosnia piramidi datate 30.000 anni (e in Sudafrica gli indizi di una possibile “metropoli mineraria” fondata addirittura 200.000 anni fa) sta compiendo passi da gigante, intrecciando le sue scoperte con il lavoro di geologi e climatologi, epigrafisti, astronomi, palentologi. Sta prendendo forma una possibile verità alternativa, sulla nostra vera storia? Parrebbe. E il processo sembra perfettamente speculare rispetto alle tappe della clamorosa “disclosure” aliena, avviata dal Pentagono. Per chi ama divertirsi a “unire i puntini”, nel dubbio che passato e futuro possano arrivare a toccarsi, sembra prossima l’ora di rivelazioni definitive, a una manciata di mesi dal fatidico 2024. Nel frattempo, lo spettacolo di fronte ai nostri occhi non è equivocabile, almeno sotto l’aspetto cronologico. I virus e i “vaccini digitali”, la possibile cyber-umanità. E poi le scie nel cielo, gli Ufo, le treccine di Greta. Perché adesso, tutto insieme, di colpo? Perché tanta fretta? Che bisogno c’è, di far precipitare il mondo in un’emergenza infinita, utilizzata per imporre cambiamenti planetari e immediati?Perché proprio adesso? La domanda può sembrare fuori luogo, ma probabilmente non lo è. Il pianeta è sottoposto a uno stress-test senza precedenti, nella storia contemporanea. Una congiuntura più che allarmante, fatta di eventi concentrici e convergenti, spesso traumatici, comunque sconcertanti. Tutti avvenimenti pressoché contemporanei, a partire dal più problematico. Dunque: perché l’operazione Covid è scattata proprio adesso? Un piano dal respiro planetario, che tende a instaurare un controllo totale sulle persone, attraverso la gestione ultra-emergenziale di una strana epidemia influenzale. E perché proprio adesso una certa élite spinge per la digitalizzazione sistematica dell’essere umano, utilizzando – come primo passo – proprio la schedatura di massa ottenuta con la leva “vaccinale”? E poi: perché proprio adesso imporre l’inoculo di un preparato genico controverso e ancora sperimentale, ben poco efficace come misura di protezione, nei confronti – oltretutto – di un patologia molto meno pericolosa di tante altre, facilmente curabile nella maggior parte dei casi?
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1439: perché la Cina cedette a Firenze la via dell’America?
In cambio di che cosa, esattamente, i cinesi “cedettero” alla famiglia Medici l’accesso all’America, nel 1439? Se lo domanda Nicola Bizzi, nella trasmissione web-streaming “Il Sentiero di Atlantide”, sul canale YouTube “Facciamo Finta Che”, di Gianluca Lamberti. Cioè: la Cina e l’America a Firenze, mezzo secolo prima dell’impresa ufficiale di Cristoforo Colombo? Sembra una storia surreale. Ma del resto, c’è qualcosa di più surreale del Green Pass e del regime di segregazione cui è sottoposta l’Italia, da quasi due anni, in virtù della più grande “pandemia di asintomatici” della storia dell’umanità? Sicché, il Celeste Impero avrebbe consegnato alla Firenze medicea le chiavi del continente americano? E ricevendo quale contropartita? «Evidentemente era qualcosa di enorme, che però non è mai trapelato». Un altro ricercatore italiano – Riccardo Magnani – si spinge addirittura a capovolgere il quadro: non sarebbe stata Firenze a mettere le mani sull’America, ma (al contrario) era il continente americano a candidarsi a guidare l’Europa. Come? Insediando a Firenze nientemeno che un esponente della famiglia reale incaica: Lorenzo il Magnifico.
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Oscurati i nostri padri: gli Etruschi, giunti dall’Anatolia
Vi hanno raccontato della necessità assoluta di inocularvi non si sa bene cosa, per poter continuare a vivere liberi e sereni? Se è per questo, vi avranno anche detto che i misteriosi Etruschi erano di origine italiana. E’ normale, dice Nicola Bizzi: l’archeologia ufficiale si comporta sempre così, quando si imbatte in verità scomode. Negazionismo accademico? Fate voi. Però sappiate – avverte Bizzi, sul canale YouTube “Facciamo Finta Che”, di Gianluca Lamberti (di seguito, il testo integrale) – che i nostri antenati etruschi venivano dall’Anatolia, cioè dal mare. Arrivarono via nave dalle coste meridionali della Turchia: Lidia, Misia. In altre parole, dalle parti di Troia: infatti, Roma accettava che il suo mitico fondatore (Enea) fosse un profugo troiano. La migrazione dalle coste dell’attuale Turchia la confermano storici come Erodoto ed Ellanico. In Italia, si tace sulla Cultura di Rinaldone fiorita sul Lago di Bolsena (con scheletri anatolici spariti nel nulla) e sugli imponenti palazzi “cretesi” emersi a Luni sul Mignone, tra Roma e Viterbo. Silenzio anche sulle scoperte dei genetisti: in Toscana e Lazio, il 30% degli abitanti ha un corredo genico anatolico. Viene dall’oltremare anche la più famosa razza bovina toscana, la Chianina. Perché fanno così paura, gli Etruschi? Perché avevano una società matriarcale che introdusse in Italia una civiltà già evolutissima a partire dal 2500 avanti Cristo?Un fitto silenzio circonda il popolo etrusco, di cui l’ufficialità accademica parla il meno possibile, condizionata com’è dal paradigma che ingessa l’archeologia, in modo poco scientifico, rifiutando le fonti scomode e le scoperti recenti. Resiste ancora una vecchia convenzione, quella della presunta italianità degli Etruschi: italianità poi rafforzata dal mito fascista di Roma. Eppure, per i Romani stessi, la civiltà del Tevere era stata fondata da Enea, che era presentato come proveniente da Troia, in Anatolia. Ma chi erano, davvero, gli Etruschi? I Greci li chiamavano Tirreni, mentre i Romani li definivano Tusci. Gli stessi Etruschi chiamavano se stessi con un altro npme: Raslak, o anche Rasena. In Italia, la denominazione più diffusa era quella adottata dai latini: Tirreni. Ora, Tirra è l’antico nome di una regione costiera anatolica, affacciata sull’Egeo, che Omero chiama Meonia, e che poi si chiamerà Lidia ai tempi della grecia classica.La Lidia è situata nel nord-ovest dell’Anatolia (come la Misia), fra Troia e i Dardanelli. Si tratta di zone anticamente popolate da genti affini all’antica civiltà minoico-cretese. Avevano leggi avanzatissime, società fondate sul matriarcato e sul culto delle antiche divinità titaniche. Nel primo libro delle sue “Storie”, il sommo storiografo Erodoto scrive che i Lidi avrebbero colonizzato la Tirrenide, cioè l’Etruria. A spingerli lontano da casa sarebbe stata una gravissima carestia. Di qui l’emigrazione, fino alla terra degli Umbri. Ai Greci dava fastidio la libertà dei costumi etruschi: a differenza di quella greca, la donna etrusca poteva sedere a tavola col marito. Aveva prerogative sacrali e poteva anche dare il proprio nome alla stirpe. Dal X secolo avanti Cristo, queste popolazioni anatoliche riuscirono a colonizzare buona parte della penisola italiana: Lombardia e Veneto, zone della Liguria, l’intera Toscana e l’intero Lazio, parte di Umbria e Marche, parte della Campania: Napoli era stata un approdo etrusco, prima che una colonia della Magna Grecia.Gli Etruschi erano tipicamente orientali: per arte, stile architettonico, cultura. E che venissero dall’Oriente lo conferma un altro autore: Ellanico di Mitilene, storico vissuto dal 490 al 405, contemporaneo di Platone. Nella sua “Foronide”, descrive più migrazioni dall’Anatolia: spiega quante migrazioni sono avvenute, chi le guidava (quali sovrani), dove arrivarono in Italia e quali città italiane avrebbero fondato. Piena conferma, di questo, ci giunge da reperti archeologici e dalla toponomastica dei luoghi: i nomi di decine di località (anche di rilievo, come Ancona e Lucca) corrispondono a quelli di siti presenti sulle coste anatoliche. Sull’isola di Lemnos, patria della metallurgia nell’Egeo – colonizzata già dal 12.000 avanti Cristo, come rilevato da recenti scavi archeologici – sono state rinvenute molte iscrizioni in lingua etrusca: la stessa lingua che troviamo a Tarquinia, a Cere, a Vulci, a Fiesole, nelle città etrusche della Campania e nella Mantova di Virgilio (che discendeva da antenati etruschi).Ci sono squillanti evidenze anche scientifiche: alla fine degli anni ‘90, alcuni docenti universitari spagnoli si sono avvalsi degli studi di genetisti delle università di Madrid e Salamanca. Avevano condotto esami sulla popolazione della Toscana e dell’alto Lazio, confrontando il loro Dna con quello dei popoli anatolici. Ebbene: in oltre il 30% degli attuali abitanti del territorio corrispondente all’antica Etruria, fra l’Arno e il Tevere, i geni corrispondono pienamente con quelli delle popolazioni autoctone dell’Anatolia. E la corrispondenza non interessa solo gli umani: viene dall’Anatolia anche una razza bovina come la Chianina, quella della mitica bistecca fiorentina. Discende cioè da una razza anatolica, portata in Italia circa 4.000 anni fa. Ora, ci volevano i genetisti spagnoli, per capire che gli abitanti dell’Etruria venivano dall’Oriente? Evidentemente sì. Però non basta: perché gli archeologi, quando una scoperta infrange i loro paradigmi, molto spesso la ignorano.Gli archeologi accademici rifiutano ancora la scoperta (geologica) della verà età della Sfinge. E rigettano pure le rivelazioni dell’archeoastronomia, cioè la disposizione di certi siti secondo criteri astronomici. Così hanno rifiutato anche le scoperte della genetica, perché sono scomode per la vecchia tesi dell’autoctonia del popolo etrusco, la cui origine è convenzionalmente italica (per non parlare delle ultime ipotesi, decisamente deliranti e campate per aria, che lo vorrebbero disceso dalle Alpi o addirittura dalla Germania). E questo, nonostante vengano smentiti dagli autori antichi. Sempre Ellanico di Mitilene, ad esempio, parla di un certo Nana, mitico re dei Pelasgi (popoli del mare: grandi navigatori, mercanti e pirati). Attorno al 2500 avanti Cristo, quindi 4.500 anni fa, questo Nana – cacciato dai suoi sudditi – avrebbe risalito l’Adriatico con una sua flotta, per poi fondare importanti nuclei urbani lungo la penisola italiana.Uno studioso “eleusino” come Guido Maria Stelvio Mariani di Costa Sancti Severi, in un articolo uscito quattro anni fa sulla rivista “Archeomisteri” (da me citato nel saggio “I Minoici in America e le memorie di una civiltà perduta”) conferma che il termine Nana lo si ritrova nelle culture lelegiche della Caria, un’altra regione costiera anatolica. Probabilmente, Nana non era un nome proprio di persona, ma una sorta di nome sacrale: un po’ come il Faraone in Egitto, o il Minosse a Creta. Un termine che potrebbe essere assimilabile a quello di “condottiero”, o di Vanax nella civiltà micenea. Ebbene: Ellanico dice che questo Nana avrebbe creato vari scali adriatici, fondando diversi insediamenti. Nelle Marche avrebbe sbarcato un robusto contingente, gettando le basi per la nascita di una città che ancora oggi si chiama Pedaso, nell’attuale provincia di Fermo. E Pedasa è una importante città costiera anatolica: era l’antica capitale dei Lelegi della Caria, davanti all’isola di Rodi.Risalendo la costa marchigiana verso nord, il condottiero Nana avrebbe fondato una città molto importante: Ancona, nientemeno. Il capoluogo marchigiano deriva infatti il suo nome da Ankh e Uni: l’Ankh è la croce della vita per gli egizi, un simbolo molto noto anche alle popolazioni dell’Anatolia, mentre Uni è una dea, parte integrante del pantheon etrusco. Poi, sempre nel 2500 avanti Cristo, Nana avrebbe proseguito il suo viaggio fino a fondare un’altra importante città: Arimna, cioè l’odierna Rimini. E Arimna – guardacaso – è il nome di un altro centro urbano rilevante, nel sud della Licia, sempre sulle coste anatoliche. Nana avrebbe fondato anche Spina, alle foci del Po: importantissimo porto commerciale già dal VII secolo avanti Cristo, gestito “in condominio” da Etruschi e Veneti, sul confine tra le due aree d’influenza. Poi Nana si sarebbe spinto nell’entroterra, verso sud, fondando Curiti: l’odierna Cortona. Quindi avrebbe fondato Ar-Tinia: Arezzo. In etrusco, Ar significa insediamento, mentre Tinia è una delle principali divinità etrusche, un “dio degli elementi” equiparabile a Zeus.Finendo per realizzare un’ulteriore fondazione (Fruntac, corrispondente a Ferento), lo stesso Nana avrebbe seguito un percorso preciso, tracciato sulla base della geografia sacra: evidentemente aveva una meta prestabilita, cioè il Lago di Bolsena. Doveva certo conoscerne l’esistenza: era un posto già considerato sacro, per millenni, da altre popolazioni. Quel lago, poi, sarebbe diventato il luogo sacro d’eccellenza, per il popolo etrusco. Sempre secondo Ellanico, quindi, Nana sarebbe arrivato sul Lago di Bolsena, fondando la città di Vels Nani, poi Volsini Veteres, destinata a diventare la vera capitale sacrale degli Etruschi. Capitale sacra, perché lì convergevano gli ordinamenti di tutte le Lucumonie. Gli Etruschi non hanno mai avuto un regno unitario, erano pòliadi: ogni comunità faceva capo a una Lucumonia, unità amministrativa estesa su una o più città. A volte, queste Lucumonie erano anche in guerra fra loro.Purtroppo, non si allearono mai – tutte insieme – se non quando ormai era troppo tardi. Ed è per questo che poi Roma riuscì ad averne ragione, conquistandole tutte, una dopo l’altra. Però queste Lucumonie facevano tutte capo a Volsini Veteres sul Lago di Bolsena, dove c’era il fanoso Fanus Voltumnae, cioè il tempo di Vultumna, grande dea della civiltà etrusca. Nel tempio venivano stabiliti i conteggi delle epoche: chiodi infissi, di bronzo, scandivano lo scorrere sacro del tempo. Tornando a Nana, avrebbe infine fondato anche Orvieto e Viterbo. Tutte città antichissime, risalenti a 4.500 anni fa: e i riscontri archeologici non mancano. Quella di Nana, però, secondo Ellanico fu solo una prima migrazione. Si ritiene che queste spedizioni fossero intraprese da marinai molto esperti, che a mio parere avevano un fine esplorativo e di colonizzazione. E l’Italia, crocevia del Mediterraneo e piena di risorse minerarie, ha sempre fatto gola: soprattutto ai popoli dell’Oriente. E’ naturale, quindi, che vi siano state queste progressive ondate di colonizzazione.Sempre secondo Ellanico, una seconda grande ondata si sarebbe verificata cinque secoli dopo, attorno al 2000 avanti Cristo. Sarebbe da mettere in relazione con la cosiddetta Cultura di Rinaldone, un villaggio della provincia di Viterbo sulla costa meridionale del Lago di Bolsena. Nel 1903, proprio a Rinaldone venne scoperta una necropoli con scheletri sorprendentemente alti. Non erano giganti, sia chiaro; ma mentre i popoli italiani dell’epoca superavano raramente il metro e sessanta di statura, gli scheletri di Rinaldone oltrepassavano i due metri: e risultavano appartenenti a popolazioni provenienti dall’Anatolia. Ufficialmente, questi resti umani sarebbero stati portati al Museo Archeologico di Firenze. Eppure, dopo un’inchiesta svolta da diversi studiosi, in passato, oggi nessuno sa più dire dove siano. Probabilmente sono nascosti in qualche scantinato, o sono addirittura stati distrutti. Non me ne stupirei: con la loro stessa esistenza, infatti, quegli scheletri provavano la provenienza anatolica di quelle genti finite in Italia. E anche questo la dice lunga su come vengano continuamente occultati certi indizi, certe testimonianze: le prove vengono fatte sparire, soprattutto se sono scomode.Le altre ondate migratorie di cui ci parla Ellanico, poi, sarebbero provenute dalla Misia e dalla Caria, sempre regioni costiere dell’Anatolia affacciate sull’Egeo. Proprio le stirpi arrivate con la seconda ondata avrebbero fondato città fondamentali, per la successiva cultura etrusca: Vulci, Sovana, Sorano (da Sur, “il Sole” in lingua etrusca). Poi Pitigliano, Misa, Tuscania, Poggio Buco, Saturnia, Marsiliana sull’Albenia. Tutti siti importantissimi dell’Etruria vera e propria. Sempre secondo Ellanico, un secolo dopo sarebbe giunta (dalla Licia) una terza ondata migratoria: un’ondata molto importante, guidata da un discendente del primo Nana. Anche in quella occasione, alla spedizione avrebbero preso parte diversi popoli del mare. Per Ellanico, il vero nome dei Lici sarebbe stato Luccu o Lucca. E infatti troviamo la città toscana di Lucca, sulle rive del Serchio, fondata proprio durante questa seconda ondata, insieme a Luni (in Lunigiana) e a diversi altri centri della zona delle Alpi Apuane.Più tardi, attorno al 1800 avanti Cristo, avrebbe avuto luogo quella che possiamo considerare una quarta ondata migratoria: un certo Kuriti (o Corito) avrebbe ampliato, regnandovi, uno dei centri fondati dal precedente Nana nel 2500 avanti Cristo, cioè l’odierna Cortona. E suo figlio, Dardano, disceso verso sud, avrebbe fondato la città di Cori. Secondo la tradizione, poi, Dardano avrebbe intrapreso un viaggio verso Creta, fondando la particolare stirpe dei Teucri Dardani (ma quest’ultimo, sottolineo, è un aspetto mitologico). In seguito ci sarebbero state ulteriori, successive ondate migratorie: ed è proprio grazie a questi arrivi se poi si formò in Italia quello che conosciamo come il popolo etrusco. Ci fu una sesta ondata migratoria, poi un’altra (dal 1800 al 1500 avanti Cristo) che secondo diverse interpretazioni – mitologiche, anche in questo caso – sarebbe stata all’origine di tutte quelle importantissime città del basso Lazio, in particolare della Ciociaria, che vengono chiamate Città Saturnie. Costruite con imponenti mura megalitiche (come Alatri, Ferentino, la stessa Cassino), eppure ignorate per decenni dagli archeologi, che fino agli anni ‘30-40 ne attribuivano l’origine ai Romani.Solo adesso, timidamente, si comincia ad ammettere che quelle città risalirebbero almeno al 1200-1300 avanti Cristo; ma pare vi siano elementi per collocarle anche nel 1500 avanti Cristo. A quella data risalirebbe Luni sul Mignone, a cavallo tra le province di Viterbo e Roma, in una zona oggi inaccessibile: l’hanno proprio esclusa dagli itinerari turistici. Luni sul Mignone venne scavata da una missione archeologica svedese: negli anni ‘60, su una collina costeggiata dal fiume Mignone trovarono un insediamento imponente, con edifici palaziali (di tipo minoico, oserei dire) costruiti in solida pietra, con stanze anche di 10 metri di lunghezza. Ma poi, tutto è stato incredibilmente ricoperto. Finita la missione (finanziata dal re di Svezia, grande appassionato di archeologia), uno dei siti archeologi più straordinari d’Europa è stato nuovamente sepolto dalla terra. Attualmente, il sito è in stato di abbandono: si trova tra il fiume Mignone e la stazione abbandonata di San Romano lungo l’ex ferrovia Orte-Civitavecchia, oggi dismessa. L’accesso è quasi proibitivo: si devono percorrere chilometri a piedi, itinerari scomodi e anche pericolosi.Questo sito l’hanno voluto cancellare dalle mappe archeologiche: perché è scomodo. L’abbiamo visto: per gli autori antichi, gli Etruschi venivano da Oriente. Eppure, è stato fatto di tutto per mettere in discussione questa origine (ormai confermata dalla stessa genetica). Quanto ai Greci, è noto che non amassero gli Etruschi, a cui – attraverso le colonie elleniche della Magna Grecia – hanno sempre conteso i porti e le risorse minerarie della penisola italiana. Spesso e volentieri, gli Etruschi si sono alleati con i Cartaginesi per arginare la colonizzazione ellenica dell’Italia meridionale. Questa rivalità era anche fondata su motivazioni religiose. Una parte della popolazione della Grecia classica continuava a praticare ancestrali forme di religiosità ancora legate all’antico pantheon titanico, ma la maggior parte della dirigenza politica delle poleis greche praticava il nuovo culto delle divinità olimpiche, che gli Etruschi vedevano come fumo negli occhi. Soprattutto, gli Etruschi non digerivano la caratterizzazione patriarcale della civiltà greca, alla quale anteponevano con orgoglio la forma matriarcale della loro società.Tornando al tema archeologico, si parla spesso in maniera impropria della Civiltà Villanoviana, oscurando invece la Cultura di Rinaldone. Ebbene: sono entrambe forme della stessa cultura. Quella che viene definita Civiltà Villanoviana, in realtà, è un falso scientifico, un po’ come le varianti Covid o certi ominidi “inventati” dalla palentologia, che in realtà non sono mai esistiti. Infatti, da alcuni reperti trovati nel sito di Villanova, sull’Appennino bolognese – un po’ come hanno fatto in America con la Cultura Clovis, altro falso clamoroso – hanno voluto creare una cultura a sé stante, dichiarandola prettamente italica e separandola dalla cultura etrusca vera e propria, con il pretesto che la Villanoviana poteva essere identificata come precedente, rispetto a quella propriamente etrusca. Con schematismi a mio parere del tutto fuori luogo, la cultura etrusca la si fa iniziare ufficialmente nell’XVIII secolo avanti Cristo; tutto quello che è le preesistente, riconducibile alla stessa matrice culturale, viene etichettato come “villanoviano”.Da qui l’invenzione della presunta matrice culturale autoctona, per giustificare l’autoctonia del successivo popolo etrusco. E al tempo stesso, si evita di riconoscere la Cultura di Rinaldone, non certo limitata a Rinaldone: era una cultura pre-etrusca, di fatto riconducibile alle migrazioni dall’Anatolia, e aveva caratterizzato almeno metà del territorio italiano. Quindi: vengono ignorati 2.000 anni (1.500, a essere stretti) di ininterrotta civilizzazione della nostra penisola, da parte di una cultura avanzata, proveniente dall’Oriente, che avrebbe portato qui l’agricoltura, la metallurgia, forme evolute di urbanizzazione e di ingegneria (dighe, canali irrigui). Sembra incredibile, ma è così: tutto questo viene ignorato, ripeto, per non ammettere l’origine orientale della matrice etrusca. Eppure fu proprio questa Cultura Rinaldoniana ad arrivare in Italia: già formatasi, già pronta. Fu questa, gradualmente, a fondersi poi e a integrarsi gradualmente con popolazioni locali come quelle dei Piceni delle Marche e degli Umbri veri e propri (quelli dell’Umbria), che avevano un’origine – loro sì – prettamente italica.Gli Etruschi entrarono in contatto con gli stessi Latini, con i Sabini. La stessa Roma è stata etrusca per secoli, assimilando dagli Etruschi gli ordinamenti, la divisione in centurie, molte simbologie (come lo stesso fascio littorio, che è di origine etrusca). Con il pretesto che la lingua etrusca non sia stata correttamente tradotta e interpretata, si continua a ricamare – sugli Etruschi – tutto quello che si vuole, a completa discrezione dei paradigmi di certi studiosi, di certi baroni universari. E non è nemmeno vero che l’etrusco non sia stato tradotto. E’ una lingua di matrice assolutamente non indoeuropea (come invece il latino e alcune lingue di origine celtica). La lingua etrusca è la stessa che veniva parlata in Anatolia e sull’isola di Lemnos, scritta con i medesimi caratteri. E’ stata tradotta; solo, non disponiamo di testi abbastanza estesi da poter ampliare il vocabolario. Il testo più lungo che conosciamo è quello della cosiddetta Mummia di Zagabria: una mummia tardo-egizia, di epoca tolemaica, conservata nel Museo Archeologico della capitale croata.Quella mummia è stata bendata con strisce di lino “riciclate”; erano etrusche, e su quelle gli Etruschi avevano scritto lunghi testi sacri, di natura religiosa, che probabilmente sarebbero andati perduti se non fossero stati utilizzati per fasciare quel corpo. Esistono poi vari testi scritti su tavole di bronzo, di natura giuridica o commerciale: il loro vocabolario è quindi limitato. Poi la lingua etrusca è andata arenandosi, purtroppo, già all’inizio dell’epoca dell’Impero Romano. Sono sopravvissute a livello religioso varie confraternite etrusche, alcune delle quali ancora attive ai tempi di Costantino, che però mantenevano l’uso della lingua solo per competenze strettamente inizitiche e cerimoniali, riservate esclusivamente agli adepti. Poi, con la soppressione di queste confraternite, si è perso l’ultimo uso effettivo della lingua etrusca. E’ pur vero però che il grande imperatore romano Claudio, vissuto nel I secolo dopo Cristo, aveva una moglie etrusca, Tanaquilla: una sacerdotessa, una donna di elevatissima cultura.Claudio si appassionò alla storia degli Etruschi, e raccolse tutte le documentazioni ancora disponibili, al suo tempo. Tant’è che l’imperatore fu probabilmente l’ultimo romano a saper parlare e leggere in maniera corretta la lingua etrusca. Poi, con l’assimilazione delle ultime Lucumonie (tra cui quella di Vulci), gli Etruschi entrarono completamente nella romanizzazione. Le loro città divennero municipalità romane, e iniziarono forzatamente a utilizzare la lingua latina: nel giro di 3-4 generazioni, gli Etruschi persero completamente l’uso della loro lingua. E lo avevano anche previsto: sapevano che la loro civiltà di sarebbe conclusa nel corso di quello che per noi è il I secolo dopo Cristo. Eppure, tantissimo è rimasto, di loro. Erano uno dei popoli più religiosi dell’antichità, oltre che uno dei più evoluti sul piano sociale e culturale. Avevano espressioni artistiche uniche, incredibili.A volte imitavano l’arte greca, tendevano a prendere il meglio delle culture altrui. Erano in grado di realizzare ceramiche di tipo attico, “made in Etruria”, addirittura superiori alle originali: e le esportavano, anche per dare fastidio al commercio dei greci. Ci hanno lasciato testimonianze straordinarie: scultoree, di fusione del bronzo. Per non parlare delle opere idrauliche: anche nei pressi di Firenze hanno trovato antichi acquedotti etruschi, potenzialmente ancora funzionanti. E nonostante questo, le Sorvintendenze continuano a ignorare certi ritrovamenti. Ci sono tantissimi siti etruschi in rovina, coperti dalle erbacce. Tombe meravigliose, le cui pitture stanno scomparendo: mai state oggetto di una adeguata conservazione. Quello etrusco – ripeto – è un popolo volutamente dimenticato, perché dà fastidio. Gli Etruschi fondavano ogni istante della loro vita sul confronto con le divinità. La Disciplina Etrusca era fondata su determinati libri, andati perduti (almeno, ufficialmente). Ne è rimasto ben poco, anche se nell’800, in Inghilterra, pare sia spuntata una trascrizione dei Libri Sibillini, o ciò che ne resterebbe (impossibile verificare, dato che non disponiamo più degli originali).Sappiamo comunque che gli Etruschi dividevano il territorio secondo una geografia sacra incredibilmente strutturata. Non solo conoscevano la precessione degli equinozi e le dinamiche dei solstizi, ma costruivano ogni loro sito secondo precisi schemi di geografia sacra. Nulla era mai costruito a caso, neppure la singola abitazione privata: tutto andava realizzato su determinati punti del terreno, che erano sacralizzati dal lucumone o dal sacerdote. Quei luoghi dovevano emanare determinate energie ctonie, telluriche, in sintonia con gli dèi. Costruire un edificio in un luogo non propizio, considerato funesto dalle regole della Disciplina Etrusca, sarebbe stato un sacrilegio. Piuttosto che far passare una strada in un’area inadatta, cioè fuori dalle direttrici delle “porte solstiziali”, erano capaci di spianare una collina, affrontando un lavoro di mesi.Un grande ricercatore come Giovanni Feo, appena scomparso, è stato forse tra i pochissimi a capire davvero l’anima del popolo etrusco. Ci ha lasciato libri bellissimi, che ci spiegano l’origine della religiosità fondata sulla Disciplina Etrusca e il rapporto costante che avevano con gli dèi. Interrogavano le forze della natura in ogni cicostanza, per le azioni più importanti: e attendevano i responsi, che poi ottenevano (così almeno interpretavano la caduta di un fulmine, il volo di alcuni uccelli). Il loro era un rapporto di simbiosi – forte, irrinunciabile – con le forze della natura, sia quelle del sottosuolo che quelle degli dèi celesti. E’ un popolo fondamentale, per le nostre origini: e tuttora se ne parla il meno possibile, e non certo in modo corretto. La reticenza sugli Etruschi, in sostanza, non fa che confermare l’inattendibilità spesso tendenziosa di una archeologia cattedratica che stenta a riconoscere alcune tra le più importanti scoperte sulla nostra vera origine, proprio perché la costringerebbero ad archiviare il suo paradigma convenzionale, ormai superato.(Nicola Bizzi, dalla trasmissione “Etruschi: origine e storia di una civiltà scomoda”, in diretta streaming il 1° agosto 2021 nella rubrica “Il Sentiero di Atlantide”, sul canale YouTube “Facciamo Finta Che”, di Gianluca Lamberti. Nel libro “I Minoici in America”, Bizzi svela come l’archeologia stenti ancora a riconoscere come i Popoli del Mare, di origine titanico-atlantidea secondo la tradizione eleusina, abbiano dominato il Mediterraneo e l’Atlantico ben prima dell’affermarsi delle civiltà successive – mesopotamica, egizia, greco-romana).Vi hanno raccontato della necessità assoluta di inocularvi non si sa bene cosa, per poter continuare a vivere liberi e sereni? Se è per questo, vi avranno anche detto che i misteriosi Etruschi erano di origine italiana. E’ normale, dice Nicola Bizzi: l’archeologia ufficiale si comporta sempre così, quando si imbatte in verità scomode. Negazionismo accademico? Fate voi. Però sappiate – avverte Bizzi, sul canale YouTube “Facciamo Finta Che”, di Gianluca Lamberti (di seguito, il testo integrale) – che i nostri antenati etruschi venivano dall’Anatolia, cioè dal mare. Arrivarono via nave dalle coste meridionali della Turchia: Lidia, Misia. In altre parole, dalle parti di Troia: infatti, Roma accettava che il suo mitico fondatore (Enea) fosse un profugo troiano. La migrazione dalle coste dell’attuale Turchia la confermano storici come Erodoto ed Ellanico. In Italia, si tace sulla Cultura di Rinaldone fiorita sul Lago di Bolsena (con scheletri anatolici spariti nel nulla) e sugli imponenti palazzi “cretesi” emersi a Luni sul Mignone, tra Roma e Viterbo. Silenzio anche sulle scoperte dei genetisti: in Toscana e Lazio, il 30% degli abitanti ha un corredo genico anatolico. Viene dall’oltremare anche la più famosa razza bovina toscana, la Chianina. Perché fanno così paura, gli Etruschi? Forse perché avevano una società matriarcale “titanica” che introdusse in Italia una civiltà “inspiegabilmente” evoluta già nel 2500 avanti Cristo?
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I Minoici in America: come occultare Atlantide e i Titani
E se tutto questo improvviso agitarsi attorno all’ultimo tabù, quello degli Ufo, nascondesse anche la paura per qualcosa che potrebbe accadere nel 2024, con l’ingresso di Plutone in Acquario, che per gli astrologi significa “rivoluzione”, cambio di passo epocale per il pianeta? Non è che i protagonisti dell’attuale ultimo show, la cosiddetta “disclosure aliena” (perfetta per archiviare l’altro spettacolo planetario, quello del Covid) hanno il fondato timore che, esattamente fra tre anni, lo spazio possa riservare sorprese indesiderabili, per gli odierni dominatori della Terra? Ragionando ad alta voce a “L’Orizzonte degli Eventi”, sul canale YouTube di “Border Nights”, Nicola Bizzi la butta lì: c’è chi pensa sia possibile che, proprio nel 2024, tornino dalle nostre parti quelli che la tradizione mitologica ha chiamato Titani. Ovvero: “divinità” che sarebbero approdate 90.000 anni fa alle nostre latitudini, provenienti dal sistema solare di Tau-Ceti.Ne parla Esiodo nella Titanomachia racchiusa nella Teogonia: i Titani sarebbero stati sfrattati 20.000 anni fa dopo aver perso una “grande guerra cosmica” con altre entità, che poi si sarebbero fatte conoscere come dèi olimpici nell’Ellade, e con nomi diversi in altri continenti. E perché mai sarebbero così importanti, i Titani come Prometeo, Atlante e Poseidone? Perché sarebbero stati i nostri “padri”, nientemeno: i discendenti di Giapeto ci avrebbero “fabbricati” geneticamente 80.000 anni fa, dando origine all’Uomo di Cro-Magnon, nei territori – non ancora sommersi e non ancora frazionati in arcipelago – del più mitico dei continenti scomparsi: Atlantide. Un’area vastissima, probabilmente estesa dalle Azzorre alle Svalbard, con le sue propaggini orientali non distanti da Gibilterra. Era comodo, il “continente perduto”, per raggiungere sia l’America che il Mediterraneo.Bene, e chi lo dice? Chi la racconta, questa storia? Platone, innanzitutto: nel Crizia, soprattutto nel Timeo e poi forse anche nell’Ermocrate, altro dialogo del sommo filosofo greco (andato smarrito o addirittura mai scritto, solo pensato). Però l’esistenza di Atlantide la davano per scontata anche autori come Tucidide e Tertulliano, Diodoro Siculo, Strabone, Plinio il Vecchio, Seneca: per loro era storia, non leggenda. Lo ricorda lo stesso Bizzi, nel monumentale saggio “I Minoici in America”, che ripercorre “le memorie di una civiltà perduta”. Dettaglio: anche tramite Solone, suo avo, Platone attinge le sue informazioni dall’Egitto, dove i sacerdoti avrebbero conservato il ricordo ancestrale dei primissimi colonizzatori venuti dal mare: la Stirpe del Leone, che avrebbe disseminato le rive del Nilo di piramidi e sfingi dalla testa leonina.Se l’origine “titanica” dell’umanità occidentale è una radicata convinzione della tradizione misterica eleusina, non suffragata però da documenti originali e fonti dell’epoca, Nicola Bizzi – con lo sguardo dello storico, monitorando attentamente l’archeologia – dimostra il clamoroso oscuramento, più che sospetto, della maggiore civiltà mediterranea che gli eleusini considerano di origine “atlantidea”: l’Impero Minoico di Creta. La tesi esposta: i “popoli del mare” risalenti a quel tempo (lelegi, pelasgi, egei e, infine, cretesi e troiani) restano “scomodi”, da studiare; si tende a sminuirne il ruolo, proprio per non dover approfondire la loro provenienza. Da dove venivano, le genti che seppero erigere i palazzi di Festo e Cnosso millenni prima dell’età greca?Erano provetti navigatori, presenti in Egitto ben prima dei faraoni. Guerrieri, mercanti, formidabili architetti. Una civiltà stranamente avanzata, in possesso di una lingua come il Lineare A. La progenie dei Minosse si era espansa in tutto il Mare Nostrum, fino all’Anatolia e al Mar Nero, anche se si stenta sempre a evidenziare le sue tracce. Mezza Europa, poi – dalla Sardegna alle Isole Britanniche – mostra i segni di una cultura affine, megalitica, che “specchia il cielo con le pietre” riproducendo costellazioni, esattamente come poi faranno le culture precolombiane dell’America centro-meridionale. C’era un mondo molto più vasto, nel 3000 avanti Cristo, di quello che la storiografia ufficiale (sempre più spiazzata dai ritrovamenti recenti, come quello di Göbekli Tepe in Turchia) sia tuttora disposta a riconoscere? C’era stato un Grande Prima, che poi è stato meticolosamente occultato fino ai nostri giorni?Purtroppo, premette Bizzi, l’archeologia resta ingessata nelle sue ataviche pigrizie: continua a non ammettere (con un atteggiamento ben poco scientifico) la necessità di incrociare i propri dati con quelli di altre discipline. Per esempio: solo nel 2014, i geofisici hanno finito di capire che la Terra è stata terremotata da un doppio schianto apocalittico, di origine cometaria: la prima onda d’urto nel 10800, la seconda nel 9600 avanti Cristo. Il che – annota lo storico – corrisponde con la datazione (tradizionale, eleusina) dell’inabissamento di Atlantide. Una sorta di spaventoso Grande Reset, dal quale quella civiltà sarebbe poi risorta – dopo il “diluvio” – arrivando a rifiorire nel Mediterraneo fino all’altro cataclisma, l’esplosione del vulcano Santorini (attorno al 1600) che decretò il declino irreversibile dei Minoici, la cui ultima battaglia – la Guerra di Troia, che Omero narra nell’Iliade – verso il 1250 avrebbe messo fine all’ultimo capitolo dei popoli di origine “titanica”, non indoeuropea.In realtà, alle fonti eleusine è dedicato solo l’ultimo capitolo de “I Minoici in America”, in cui Bizzi esibisce inediti documenti custoditi dai discendenti italiani di quella corrente culturale, che si vuole originata dall’apparizione a Eleusi (alle porte di Atene) della dea Demetra: nel 1216, caduta Troia, la dea avrebbe rivelato alla comunità eleusina (di origine minoica) la sua vera storia, preannunciando un lunghissimo esilio, le persecuzioni in arrivo (puntualmente verificatesi, da Teodosio in poi) e infine un ritorno, da parte delle divinità “titaniche”. Chi è appassionato ai risvolti meta-storici, spesso classificati come mitologici, noterà certe ricorrenti ridondanze: per gli eleusini, Demetra veniva da Enna, in Sicilia, mentre Virgilio (nell’Eneide) affiderà al troiano Enea il ruolo di fondatore di Roma. La radice “En”, avverte Bizzi, significa “inizio”. E proprio En’n era il nome dell’isola maggiore del leggendario arcipelago perduto nell’Atlantico.Loro, gli Ennosigei, avrebbero egemonizzato le Sette Grandi Isole del Mar d’Occidente: da un loro geroglifico (”Hath-Lan-Thiv-Jhea”) il nome Atlantide, che in antico suonerebbe “la Grande Madre venuta dal mare”, a sottolineare l’impostazione matriarcale delle origini. Per gli eleusini, dice Bizzi, non è un caso che – sconfitti i Titani – le nuove divinità “usurpatrici” abbiano imposto culti dogmatici e schemi sociali basati sul potere patriarcale. Sempre secondo l’autore, il corpus sapienziale eleusino (il Tesoro del Tempio e gli Hierà) riuscì a sopravvivere in clandestinità grazie a Nestorio il Grande, leggendario Pritan degli Hierofanti eleusini, che lo fece sparire prima che a Eleusi facessero irruzione i Goti di Alarico, invitati dai vescovi cristiani perché mettessero le mani su tutti quei rotoli. Come se il culto “titanico” dovesse sparire dalla scena, per cancellare la memoria dell’imbarazzante origine atlantica? Operazione riuscita solo a metà, se è vero che l’ombra di Eleusi – mille anni dopo – riuscì ad allungarsi sul Rinascimento italiano, ispirando svariate signorie italiane a cominciare da quella medicea.Va però precisato che “I Minoici in America” non è un libro a tesi: attraverso 600 pagine di trattazione documentata, densa di citazioni puntualissime e corroborata da una bibliografia scientifica imponente, Nicola Bizzi si concentra soprattutto sugli studi dei ricercatori di oggi, pronti e denunciare le falle più vistose dell’archeologia ufficiale. Si mettono così a nudo le lacune e le contraddizioni di una narrazione che sembra voler parlare il meno possibile di Creta e dei suoi regnanti, delle loro fondamentali conquiste agevolate dalle superiori conoscenze di cui erano in possesso. Una su tutte – quella metallurgica – avrebbe permesso al Mediterraneo di entrare nell’Età del Bronzo, attingendo di colpo a un’enorme quantità di rame, ben superiore a quella disponibile a Cipro.«E’ stato stimato che oltre un milione di tonnellate di rame sia stato estratto, da ignoti minatori e per un periodo continuativo di circa mille anni, in migliaia di pozzi e gallerie sull’Isle Royal e sulla penisola Keweemaw, nello Stato americano del Michigan, nella zona dei Grandi Laghi al confine con il Canada». Lo si legge nell’incipit del capitolo “Le miniere minoiche del Michigan”: la datazione al radiocarbonio dei resti delle travi di legno utilizzate nelle gallerie risale fino al 3700 avanti Cristo. Secondo punto: per l’odierna mineralogia, che consente di determinare il “Dna” dei metalli e dunque la loro provenienza, il rame di Creta corrisponde esattamente a quello del Michigan. Terzo punto: come si naviga (a vela e a remi) dall’Egeo al Lago Superiore? Lo spiegano benissimo i tanti navigatori, antichi e poi medievali, che dall’America andavano e venivano tramandandosi rotte segrete e gelosamente custodite, dai tempi dei fenici e, prima ancora, dell’Impero dei Minosse.Dopo “Da Eleusi a Firenze” (e in attesa di “Da Eleusi a Washington”), chi apprezza le indagini di Bizzi non potrà che trovare appagante l’immersione tra le pagine di quest’ultimo prezioso lavoro, capace di incrociare dati ufficiali, riscontri mitologici e testimonianze archeologiche “scomode”, lungo una narrazione sempre avvincente e scorrevole malgrado l’esorbitante abbondanza di note, citazioni e riferimenti bibliografici estremamente accurati, classici e contemporanei. L’impressione è quella di percorrere una storia parallela, i cui punti cardinali coincidono con quelli convenzionali, facendogli però cambiare segno: come se davvero una specie di grande segreto proteggesse scoperte scoraggiate in ogni modo, dalle navi minoiche cariche di lingotti alle città (greche) rinvenute nella selva amazzonica da esploratori coraggiosi, poi spariti nel nulla. Non c’è bisogno di fantasticare sugli eventuali Ufo “titanici” del 2024, per interrogarsi sulla domanda di fondo a cui Bizzi prova a rispondere: perché tanto accanimento, nel secolare “cover up” archeologico sui Minoici?(Il libro: Nicola Bizzi, “I Minoici in America e le memorie di una civiltà perduta”, Edizioni Aurora Boreale, 616 pagine, 30 euro).E se tutto questo improvviso agitarsi attorno all’ultimo tabù, quello degli Ufo, nascondesse anche la paura per qualcosa che potrebbe accadere nel 2024, con l’ingresso di Plutone in Acquario, che per gli astrologi significa “rivoluzione”, cambio di passo epocale per il pianeta? Non è che i protagonisti dell’attuale ultimo show, la cosiddetta “disclosure aliena” (perfetta per archiviare l’altro spettacolo planetario, quello del Covid) hanno il fondato timore che, esattamente fra tre anni, lo spazio possa riservare sorprese indesiderabili, per gli odierni dominatori della Terra? Ragionando ad alta voce a “L’Orizzonte degli Eventi“, sul canale YouTube di “Border Nights”, Nicola Bizzi la butta lì: c’è chi pensa sia possibile che, proprio nel 2024, tornino dalle nostre parti quelli che la tradizione mitologica ha chiamato Titani. Ovvero: “divinità” che sarebbero approdate 90.000 anni fa alle nostre latitudini, provenienti dal sistema solare di Tau-Ceti.
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Bizzi: Cro-Magnon, l’Uomo di Atlantide venuto dalle stelle
Chi siamo? Da dove veniamo? Sono domande che ci interpellano da sempre. «La maggior parte dell’umanità è predisposta alla sottomissione: gente inconsapevole, gestita completamente». Lo scrive in un libro il biologo Giovanni Cianti, in una considerazione erroneamente attribuita a Carlos Castaneda. «Chi ha capito, ha capito: non ha bisogno di consigli. Chi non ha capito, non capirà mai. Io non biasimo queste persone», scrive Cianti: «Sono strutturate per vivere, e basta: mangiare, bere, respirare, partorire, lavorare, guardare la televisione e mangiare la pizza il sabato sera, andare a vedere una partita. Il mondo, per loro, finisce lì: non sono in grado di percepire altro. C’è invece un piccolissimo gruppo di esseri umani, che possono essere definiti “difetti di fabbricazione”. Sono sfuggiti al “controllo qualità” della linea di produzione. Sono pochi, sono eretici e sono guerrieri». Mi piace molto, questa frase, forse perché anch’io sento di appartenere a questa minoranza. Ma non è solo questione di rifiutare i dogmi, le imposizioni, e di sentirsi guerrieri. E’ anche una questione di sensibilità. Si tratta di porsi domande, di chiedersi sempre il perché delle cose.
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Gli eroi di Stalingrado: vinsero la Seconda Guerra Mondiale
Il 2 febbraio di quest’anno è stato il 75° anniversario della fine della più grande, più lunga e sanguinosa battaglia della storia del genere umano: uno scontro che aveva distrutto la punta di lancia di quella invincibile macchina da guerra nazista che aveva conquistato tutta l’Europa in soli tre anni e che sembrava in procinto di conquistare il mondo intero: eppure, incredibilmente, tutti i media occidentali, specialmente negli Stati Uniti, lo hanno fino ad ora completamente ignorato. La battaglia di Stalingrado era stata la svolta definitiva del destino: aveva deciso il risultato della Seconda Guerra Mondiale. La scala colossale di quello straordinario scontro, all’epoca, era ben nota agli americani e ai britannici, ma da allora è stata completamente dimenticata. Le nazioni occidentali l’hanno seppellita in fondo al buco nero dei ricordi proibiti, che George Orwell riconoscerebbe fin troppo bene. Nonostante ciò, Stalingrado ha fatto passare in secondo piano tutte le altre battaglie di quella guerra. Era iniziata nell’agosto del 1942 come ultima, disperata difesa di quella che sembrava essere un’Armata Rossa condannata alla sconfitta da una invincibile Wehrmacht che, in meno di tre anni, aveva conquistato l’intero continente europeo, dalla punta settentrionale della Norvegia a Creta e il deserto del Sahara libico. Ma a Stalingrado era cambiato tutto.“Al di là del Volga non c’è niente!”, era il grido di battaglia sovietico, e non c’era veramente nulla. Ancora oggi, guardando ad est dall’alto della collina di Mamayev Kurgan, è inquietante vedere che, dall’altra parte del grande Volga, l’incarnazione dell’anima russa, non c’è letteralmente niente. Mamayev Kurgan è un monumento ai caduti come nessun altro sulla Terra, perchè è dominato da una dea irata. La statua più gigantesca, impressionante ed inquietante del mondo, Rodina-Mat, la dea madre della Russia, si eleva per quasi 50 metri senza piedistallo, 6 metri più in alto della Statua della Libertà. Pesa 1.000 tonnellate, oltre 15 volte la Statua della Libertà. Ma questo è il meno. A New York, Lady Liberty è tranquilla e serena, ma Rodina-Mat è dinamica e furiosa. Il suo viso bellissimo e sorprendentemente giovanile trasmette shock, rabbia e una furia da incubo. Il braccio di Rodina-Mat non è rilassato e disteso e non porta una torcia come quello di Lady Liberty. È sollevato e regge una spada lunga più di 20 metri, e la alza così in alto nel cielo che sulla punta hanno dovuto installare una luce di navigazione rossa per allertare gli aerei che volano a bassa quota.Visto da lontano, lo spettacolo è ancora più impressionante, persino terrificante. Perché Rodina-Mat è nel punto più alto delle alture che dominano la città, il luogo dove si era combattuto con più accanimento. La si può vedere da qualunque parte lungo le principali arterie nord-sud che costeggiano il Volga. Sembra sempre in movimento, viva, pronta a calare sugli invasori la sua incredibile spada. È come se Atena o Afrodite fossero uscite dalle pagine dell’Iliade di Omero e, attraverso il tempo, dai campi di battaglia di Troia, o come se un gigantesco dio-astronauta idealizzato da Erich von Daniken fosse nuovamente giunto sulla Terra. Nei 200 giorni della Battaglia di Stalingrado, a Mamayev Kurgan si era combattuto per 130. Oggi è il luogo dove riposano 35.000 soldati sovietici. Gli storici militari occidentali riconoscono che nella battaglia di Stalingrado erano morti 1,1 milioni di soldati sovietici, e questo calcolo non include almeno 100.000 civili (e forse il triplo) massacrati dai bombardamenti aerei indiscriminati della Luftwaffe.Nella prima settimana di incursioni aeree a Stalingrado erano morti il doppio dei civili rispetto ai bombardamenti alleati di Dresda. Quando gli interrogatori sovietici avevano chiesto al maresciallo di campo Friedrich Paulus, il comandante catturato della Sesta Armata, perché avesse autorizzato un massacro così inutile, aveva risposto che stava solo eseguendo gli ordini. Anche le perdite naziste erano state colossali. Secondo le stime russe, 1,5 milioni di soldati tedeschi e dell’Asse avevano perso la vita durante l’intera campagna, più di cinque volte i morti in combattimento degli Stati Uniti durante tutta la guerra, e più del doppio dei morti combinati dell’Unione e dei Confederati nella Guerra Civile Americana. Neanche uno dei resti dei soldati dell’Asse, trovati e identificati, sono sepolti all’interno della città. È terreno sacro per il popolo russo. Solo gli eroici difensori di Stalingrado e della patria, o Rodina, hanno il massimo onore di riposarvi.L’intera Sesta Armata tedesca, 300.000 uomini, all’epoca considerata la forza militare più invincibile della Terra, era stata distrutta a Stalingrado. Solo 90.000 di loro erano sopravvissuti ed erano stati fatti prigionieri quando Paulus si era arreso. Il quartier generale di Paulus, nel seminterrato dell’Univermag, il grande magazzino nel centro della città, è stato trasformato in museo, uno dei più strani al mondo e in sorprendente contrasto con l’imponenza primordiale, eroica, epica della statua e dei monumenti di Mamayev Kurgan. Nel 2005, quando l’avevo visitato l’ultima volta, Univermag era ancora un grande magazzino, molto simile a quelli che si trovano nel cuore degli Stati Uniti, in luoghi come Sioux City o Iowa City, costruiti negli anni ’20 e che avevano prosperato fino a quando Wal-Mart non li aveva inghiottiti tutti. Si entra nell’Univermag di Volgograd attraverso l’ingresso principale, si passa accanto ai giocattoli per bambini, si gira a sinistra, oltre i pigiami per signora e gli oggetti in vetro e, senza alcun preavviso, si è lì.Il seminterrato è pieno di ricostruzioni dell’ultima resistenza della Sesta Armata. Dietro una porta, i manichini di due soldati tedeschi morenti giacciono in quella che sembra veramente una sala operatoria di emergenza. Dietro un’altra porta, un robotico Paulus continua ad alzarsi dalla sua scrivania per ascoltare da un altro ufficiale le ultime notizie della catastrofe. Dappertutto, il lamento dell’impietoso vento invernale della steppa e lo spietato sibilo delle Katyushe sovietiche, i lanciarazzi “Caterina,” fanno da accompagnamento. Ilya Ehrenburg, il più grande di tutti i corrispondenti di guerra, aveva scritto che i soldati arroccati nei seminterrati e fra le macerie e che resistevano sulle rive del Volga a pochi metri dall’acqua, adoravano quei lanciarazzi. Ed era ancora vero nel 2005: i volti dei veterani ottantenni e superdecorati si erano illuminati di entusiasmo e di gioia fanciullesca quando avevo chiesto loro quale fosse stata la loro arma preferita dell’intera guerra. “Katyusha!” avevano gridato quei meravigliosi vecchietti, saltando su e giù, mentre gli anni sparivano come per magia. “Katyusha!”.Settantacinque anni dopo la resa di Paulus e dopo più di settant’anni dalla sconfitta del Terzo Reich, i ricordi e le cicatrici di quella lotta fanno ancora parte della Russia moderna. Il comunismo è morto. Ma il patriottismo russo no. Ed è per questo che, in questa era di crescenti differenze e alienazione tra la Russia e l’Occidente, lo straordinario eroismo e il sacrificio di tutti quei soldati dell’Armata Rossa e il prezzo terribile che avevano pagato per salvare il mondo devono essere ricordati dai vecchi alleati della Russia. Le emozioni selvagge, feroci ma assolutamente autentiche che appaiono sullo straordinario volto di Rodina-Mat testimoniano gli incredibili sacrifici che si erano consumati sulle rive del Volga per distruggere il male estremo. I leader e i popoli occidentali devono ricordare, ancora una volta, coloro avevano distrutto quel male, il prezzo terribile che avevano pagato e la gratitudine che ancora dobbiamo loro.(Martin Sieff, “Gli eroi di Stalingrado e il debito che abbiamo con loro”, da “Strategic Culture” del 31 gennaio 2020; articolo tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”. Analista geopolitico e reporter per testate come “Washington Times” e “The Globalist”, Sieff è stato dirigente della United Press International e tre volte candidato al Premio Pulitzer).Il 2 febbraio di quest’anno sarà il 75° anniversario della fine della più grande, più lunga e sanguinosa battaglia della storia del genere umano: uno scontro che aveva distrutto la punta di lancia di quella invincibile macchina da guerra nazista che aveva conquistato tutta l’Europa in soli tre anni e che sembrava in procinto di conquistare il mondo intero: eppure, incredibilmente, tutti i media occidentali, specialmente negli Stati Uniti, lo hanno fino ad ora completamente ignorato. La battaglia di Stalingrado era stata la svolta definitiva del destino: aveva deciso il risultato della Seconda Guerra Mondiale. La scala colossale di quello straordinario scontro, all’epoca, era ben nota agli americani e ai britannici, ma da allora è stata completamente dimenticata. Le nazioni occidentali l’hanno seppellita in fondo al buco nero dei ricordi proibiti, che George Orwell riconoscerebbe fin troppo bene. Nonostante ciò, Stalingrado ha fatto passare in secondo piano tutte le altre battaglie di quella guerra. Era iniziata nell’agosto del 1942 come ultima, disperata difesa di quella che sembrava essere un’Armata Rossa condannata alla sconfitta da una invincibile Wehrmacht che, in meno di tre anni, aveva conquistato l’intero continente europeo, dalla punta settentrionale della Norvegia a Creta e il deserto del Sahara libico. Ma a Stalingrado era cambiato tutto.
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Boat People: quando l’Italia andò a salvarli in capo mondo
Premessa importante: questa è Storia, non opinioni. Ho raccontato e raccolto testimonianze di fatti accaduti quarant’anni fa di cui oggi ricorre l’anniversario. Chiunque desideri fare parallelismi o “interpretarlo” lo fa di sua iniziativa, non mia. 30 aprile 1975: Saigon cade, e assieme a lei tutto il Vietnam del Sud. I comunisti si scatenano in un vortice di vendette verso militari e civili, instaurando un regime totalitario. Al loro arrivo un milione di persone viene prelevato per essere “rieducato”; sono sacerdoti, bonzi, religiosi, politici regionali, intellettuali, artisti, scrittori, studenti. A ogni angolo di strada spuntano “tribunali del popolo” in cui gli accusati non hanno diritto alla difesa, e a cui seguono esecuzioni sommarie. A migliaia vengono tolte case, beni, proprietà e vengono gettati nelle paludi, dette “Nuove Zone Economiche”, dove avrebbero dovuto creare fattorie e coltivazioni dal nulla. In realtà, li mandano a morire di fame. L’intero Vietnam del Sud diventa un grande gulag, dove accadono orrori simili a quelli della Kolyma di Stalin. Nel 1979, la popolazione cerca di scappare. Non possono farlo via terra, perché i paesi confinanti li respingono; l’unica opzione per intere famiglie consiste nel prendere barconi improvvisati e gettarsi in mare, lontano dai fucili e dai “tribunali del popolo”.Le immagini di questi disperati fanno il giro del mondo e dividono l’opinione pubblica mondiale, ancora divisa per ideologie pre-muro di Berlino. Il comunismo non può essere contestato né fare errori, sono «menzogne raccontate dai media che ingigantiscono la faccenda per strumentalizzarla». Mentre l’Occidente blatera, i rifugiati sui barconi scoprono di non poter sbarcare da nessuna parte. Vengono ribattezzati “boat people”, disperati con a disposizione due cucchiai d’acqua e due di riso secco al giorno che raccolgono l’acqua piovana coi teli di plastica e sono in balia di tempeste e crudeltà. Il governo della Malesia li rimorchia a terra per spennarli di tutti i loro averi, poi li rimette sulle barche dicendogli che stanno arrivando degli aiuti e li rimorchia in alto mare, dove taglia le funi e li abbandona a morire. A volte le tempeste tropicali li affondano, altre volte pescatori armati saltano a bordo e uccidono e stuprano finché sono stanchi, poi li abbandonano lì. A bordo c’è così tanta puzza da far svenire, e la fame è tale che ci sono episodi di cannibalismo. Navi occidentali si affiancano e gettano qualcosa da mangiare per fotografarli, poi se ne vanno.Intanto, l’Italia è un mondo diverso. Sono anni difficilissimi tra inflazione alle stelle, bombe e attentati, ma il neonato benessere è ancora troppo recente per far dimenticare agli italiani il loro passato di povertà, ruralità ed emigrazione. Quando le immagini dei boat people vengono rese pubbliche da Tiziano Terzani il 15 giugno 1979, invece di aggiungersi al dibattito globale di opinionisti e intellettuali impegnati a decidere se salvare dei profughi di un regime comunista sia un messaggio capitalista o no, Pertini capisce che ogni minuto conta, chiama Andreotti e dà ordine di recuperarli e portarli in Italia. Andreotti è presidente del Consiglio, ma è stato prima ministro della difesa. Quella che riceve è una richiesta folle, perché l’Italia non ha mai fatto missioni simili né per obiettivo né per distanza. Ora però il ministro della difesa è Ruffini, e dice che in teoria è fattibile. Insieme scelgono come braccio destro Giuseppe Zamberletti, uno che aveva già dimostrato un’estrema capacità organizzativa in situazioni di crisi, e si mettono a studiare il da farsi. Non sanno quanti sono, né in che zona precisa; sono fotografie sfocate in mezzo al nulla.Se il primo problema è il dove, subito dopo vengono tempo e lingua. Il mondo del 1979 non parla inglese, figurarsi il vietnamita. Anche gli interpreti scarseggiano e non c’è tempo di trovarli, però c’è la Chiesa. Andreotti domanda al Vaticano se ha a immediata disposizione preti vietnamiti e gli arrivano padre Domenico Vu-Van-Thien e padre Filippo Tran-Van-Hoai. Per un terzo interprete, i carabinieri piombano all’università di Trieste, scorrono i registri e reclutano sul posto uno studente, Domenico Nguyen-Hun-Phuoc. A quel punto, Ruffini può alzare il telefono. L’incrociatore Vittorio Veneto dell’ottavo gruppo navale è alla fonda a Tolone, in Francia, dopo aver finito la stagione. L’equipaggio di 500 uomini non vede l’ora di sbarcare per abbracciare le proprie famiglie, quando nelle mani del comandante Franco Mariotti arriva un cablogramma urgentissimo dall’ammiraglio di Divisione Sergio Agostinelli, a bordo dell’Andrea Doria. Ordina di tenere a bordo solo il personale addetto alle armi, poi di riadattare l’assetto della nave e salpare alla volta di La Spezia per riunirsi all’Andrea Doria per una missione di recupero. Quando capiscono di cosa si tratta, gli equipaggi si esaltano.Mariotti lascia a terra 350 uomini, che invece chiedono di restare a bordo per aiutare. Predispone 300 posti letto per donne e bambini su letti a castello nell’hangar a poppa, e 120 posti per gli uomini a prua. L’alloggio sottufficiali diventa un’estensione dell’infermeria, e sotto il ponte di volo viene adibita la zona d’aria. Servono almeno dieci bagni in più, ma ce la fa. Impiega cinque giorni a cambiare l’assetto, e solo al quarto giorno, prima di partire, ordina agli uomini di scendere a salutare le famiglie. Arrivano a La Spezia il 4 luglio, dove vengono caricati e istruiti medici, infermieri, interpreti, medicinali e vestiti. Il giorno dopo salpano alle 10 diretti verso il sud di Creta, dove si riuniscono con la nave logistica Stromboli, comandata dall’ammiraglio Sergio Agostinelli; in totale ci sono 450 posti letto sulla Vittorio Veneto, 270 sulla Doria e 112 sulla Stromboli. È un viaggio orrendo, nella stagione peggiore. Oltre al caldo mostruoso del Mar Rosso, i monsoni dell’Oceano Indiano portano il vento a forza 7. Onde lunghe e gigantesche che mettono a dura prova i 73.000 cavalli vapore degli incrociatori.Dopo 10 giorni di navigazione ininterrotta, il 18 luglio ormeggiano a Singapore e caricano le provviste supplementari, così da dare il tempo all’intelligence di fare “ricognizione informativa” e di improntare un piano. In quattro giorni parlano con l’ambasciatore della Malesia, con l’addetto della marina militare inglese, i portavoce di World Vision International e definiscono le zone da pattugliare. Le direttrici di fuga sono cinque: due verso Thailandia e Hong Kong, di scarso interesse perché passano per acque territoriali. Le altre tre sono di preminente interesse, cioè dall’estremo sud del Vietnam verso la Thailandia (costa occidentale del Golfo del Siam), verso Malesia e isole Anambas dell’Indonesia. Le ultime due sono le più probabili perché sono vicine alla piattaforma petrolifera della Esso, che per chi mastica poco il mare è l’unico polo di attrazione. Alle 10 del 25 luglio salpano alla volta del Mar Cinese Meridionale e Golfo del Siam. Durante la notte, va e viene un eco-radar. Il giorno dopo il mare è a forza 4 (esempio), e il ponte viene spazzato da raffiche di vento e acqua. Alle 8.15, con un coraggio notevole, l’Agusta Bell 212 si alza in volo per investigare le coordinate e localizza la prima barca alla deriva. È un catorcio di 25 metri carico fino all’inverosimile che sta colando a picco davanti alla piattaforma della Esso.L’Andrea Doria dà l’avanti tutta e arriva a prenderli alle 9.20, carica su un gommone interprete, medici, scorta e glielo manda incontro in mezzo alla burrasca che monta, raccomandandosi di rispettare norme di prevenzione e contagio. Il gommone si affianca e gli interpreti recitano un testo che hanno imparato a memoria. «Le navi vicine a voi sono della Marina Militare Italiana e sono venute per aiutarvi. Se volete potete imbarcarvi sulle navi italiane come rifugiati politici ed essere trasportati in Italia. Attenzione, le navi ci porteranno in Italia, ma non possono portarvi in altre nazioni e non possono rimorchiare le vostre barche. Se non volete imbarcarvi sulle navi italiane potete ricevere subito cibo, acqua e assistenza medica. Dite cosa volete e di cosa avete bisogno». Un’onda allontana il gommone, e una donna vietnamita, convinta che gli italiani li stiano abbandonando come tutti, gli lancia il proprio figlio a bordo. I marinai erano italiani del 1979, un mondo in cui non esistevano i social e queste scene non erano già state raccontate. A quella vista, impazziscono. Tutte le procedure per evitare contagi vengono infrante, e dallo scafo tirano fuori 66 uomini, 39 donne e 23 bambini.Teodoro Porcelli, all’epoca marinaio di vent’anni, è sul barcarizzo di dritta quando riconsegna il figlio alla madre. Lei per tutta risposta gli accarezza i capelli e si mette a piangere, poi portano insieme il bambino dal dottore. Sono i primi di tanti altri che arriveranno nei giorni successivi. A bordo degli incrociatori, gli uomini sgobbano come animali. Infermerie, lavanderie, forni e cucine lavorano senza sosta, coi panettieri che danno il turno e i cuochi che devono allestire 1000 pasti al giorno, di cui una doppia razione per i macchinisti che sono ridotti a pelle e ossa per a far andare le quattro caldaie Ansaldo-Foster Wheeler contro le onde, il tutto con temperature tropicali e navi tutt’altro che adatte. Medici e marinai devono stare attenti a 125 bambini che una volta nutriti corrono dovunque, ma ovviamente prediligono il ponte di volo. Il 31 luglio a bordo dell’Andrea Doria nasce un bambino che la madre battezza col nome di Andrea. Pasquale Marsicano lo avvolge con un vestitino di seta che doveva regalare a sua figlia. I vietnamiti più in salute vogliono essere d’aiuto e fare qualcosa, così vengono messi a fare i lavori del mozzo secondo il vecchio e famosissimo proverbio della Marina: “Pennello e pittura, carriera sicura”.Il 1° agosto a bordo delle navi non c’è più spazio fisico; hanno navigato per 2.640 miglia, esplorato 250.000 kmq di oceano e salvato 907 anime. L’ammiraglio dà ordine di tornare a casa, e il 21 agosto 1979 gli incrociatori entrano in bacino San Marco. Ad accoglierli c’è un oceano di gente, oltre a chi ha pianificato l’operazione fin dall’inizio: Andreotti, Ruffini, Zamberletti e Cossiga, che in seguito alla crisi di governo ha sostituito Andreotti. A bordo ci sono malattie anche tropicali e uomini malmessi, così a qualcuno viene in mente che Venezia, riguardo a importazioni di merci e uomini, qualcosina ne sa. Così, proprio come faceva la Serenissima novecento anni prima, i vietnamiti vengono messi in quarantena nel Lazzaretto vecchio e in quello nuovo. Quelli che non ci stanno vengono spediti in Friuli. Sono entrati così in simbiosi con l’equipaggio che a parte pianti, abbracci, baci e giuramenti, alcuni si rifiutano di scendere dalla nave chiedendo se possono arruolarsi.Alla fine ci sarà uno scambio di dichiarazioni tra vietnamiti ed equipaggio: «Ammiraglio, comandante, ufficiali, sottufficiali e marinai; grazie per averci salvati! Grazie a tutti coloro che con spirito cristiano si sono sacrificati per noi notte e giorno. Voi italiani avete un cuore molto buono; nessuno ci ha mai trattato così bene. Eravamo morti e per la vostra bontà siamo tornati a vivere. Questa mattina quando dal ponte di volo guardavamo le coste italiane una dolce brezza ci ha accarezzato il viso in segno di saluto e riempito di gioia il nostro cuore. Siete diversi dagli altri popoli; per voi esiste un prossimo che soffre e per questa causa vi siete sacrificati. Grazie». L’ammiraglio risponde da parac… da italiano: «Noi siamo dei militari; ci è stata affidata una missione e abbiamo cercato di eseguirla nel modo migliore. Siamo felici d’aver salvato voi e così tanti bambini e di portarvi nel nostro paese. L’Italia è una bella terra anche se gli italiani, a volte, hanno uno spirito irrequieto. Marco Polo andò con pochi uomini alla scoperta dell’Asia; voi venite in tanti nel nostro piccolo mondo. Sappiate conservare la libertà che avete ricevuto». Vengono creati campi d’accoglienza a Chioggia, Cesenatico e Asolo. Il popolo italiano si mobilita in massa; vengono raccolti 26.500.000 di lire tramite raccolta di abiti usati e altrettanto arriva tramite donazioni private.Arrivano offerte di lavoro e di abitazione, una famiglia si offre di costruire una casa alle famiglie, una ditta si offre di arredarla. Una scolaresca raccoglie i soldi per comprare un motorino e una macchina da cucire, i dipendenti della Banca Antoniana si tassano lo stipendio fino all’agosto del 1980, versando ogni mese i loro risparmi nel conto corrente della Caritas. I commercianti padovani inviano generi alimentari, molti ospitano i rifugiati nelle loro case ad Arsego, San Giorgio delle Pertiche, Fratte e Zugliano. Ruffini, ricordando la storia, dirà: «Potevo considerarmi soddisfatto della mia intera esperienza politica per il solo fatto di aver potuto contribuire alla salvezza di quei fratelli asiatici». I vietnamiti si integrano alla perfezione, diventano italiani o disperdendosi per l’Italia arrivando oggi alla terza generazione. Parecchi marinai prenderanno la medaglia di bronzo. Quarant’anni dopo, i marinai e i profughi hanno aperto un gruppo Facebook per ritrovarsi. State attenti ad aprirlo se avete la lacrima facile. «A tutti i marinai della “Stromboli”, noi vietnamiti vi siamo molto riconoscenti. Se non ci foste venuti in aiuto, noi ora non saremmo probabilmente vivi. Vi pensiamo spesso, ora che siamo qui al sicuro e ricordiamo quanto buoni e gentili siete stati con noi. Il vostro ricordo rimarrà sempre nel nostro cuore e anche se non ci vediamo più, noi vi penseremo che con affetto, riconoscenza e nostalgia. Grazie ancora!».(Nicolò Zuliani, “Quando negli anni ’80 la marina militare italiana riuscì a fare l’impossibile”, da “Termometro Politico” del 3 agosto 2019. Le foto presentate a corredo dell’articolo sono di Roberto Vivaldi).Premessa importante: questa è Storia, non opinioni. Ho raccontato e raccolto testimonianze di fatti accaduti quarant’anni fa di cui oggi ricorre l’anniversario. Chiunque desideri fare parallelismi o “interpretarlo” lo fa di sua iniziativa, non mia. 30 aprile 1975: Saigon cade, e assieme a lei tutto il Vietnam del Sud. I comunisti si scatenano in un vortice di vendette verso militari e civili, instaurando un regime totalitario. Al loro arrivo un milione di persone viene prelevato per essere “rieducato”; sono sacerdoti, bonzi, religiosi, politici regionali, intellettuali, artisti, scrittori, studenti. A ogni angolo di strada spuntano “tribunali del popolo” in cui gli accusati non hanno diritto alla difesa, e a cui seguono esecuzioni sommarie. A migliaia vengono tolte case, beni, proprietà e vengono gettati nelle paludi, dette “Nuove Zone Economiche”, dove avrebbero dovuto creare fattorie e coltivazioni dal nulla. In realtà, li mandano a morire di fame. L’intero Vietnam del Sud diventa un grande gulag, dove accadono orrori simili a quelli della Kolyma di Stalin. Nel 1979, la popolazione cerca di scappare. Non possono farlo via terra, perché i paesi confinanti li respingono; l’unica opzione per intere famiglie consiste nel prendere barconi improvvisati e gettarsi in mare, lontano dai fucili e dai “tribunali del popolo”.
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Atlantide, la scienza convalida Platone: cataclisma nel 9500
Aveva ragione Platone: Atlantide esisteva davvero e fu sommersa dall’oceano attorno al 9.600 avanti Cristo. La causa? L’impatto di una “pioggia cometaria” catastrofica. A confermarlo non è l’archeologia, ma la geologia: grazie a Richard Firestone e James Kennett, ora sappiamo che il pianeta fu sconvolto da una sequenza impressionante di cataclismi di origine cosmica, come dimostrano i sedimenti di nano-diamanti “extraterrestri” rinvenuti nelle aree degli impatti. Nel “Crizia” e nel “Timeo” il sommo filosofo greco aveva parlato di una civiltà superiore, preesistente alla nostra, spazzata via da una specie di diluvio universale? E’ andata proprio così, dicono i geologi dal 2014 a questa parte. O meglio: gli scienziati spiegano che proprio 12.000 anni fa – nel periodo indicato da Platone – ci fu un azzeramento planetario. E questo spiazza gli archeologi, che ancora si ostinano a far risalire le nostre origini a un’epoca assai più recente, benché vengano smentiti, di giorno in giorno, dalle scoperte della “rivoluzione archeologica” ormai in atto, difficilmente arrestabile. Lo sostiene Graham Hancock, massimo divulgatore mondiale in materia. E lo sottolinea Nicola Bizzi, autore dell’originalissimo saggio “Da Eleusi a Firenze”.Il lavoro di Bizzi, edito da Aurora Boreale, conferma in modo impressionante come le ultime rivelazioni scientifiche non siano mai state un segreto per gli iniziati ai “misteri eleusini”, comunità di cui lo stesso Bizzi fa parte, per via familiare, essendo stata ben radicata – sottotraccia – nella fiorentissima Firenze dei Medici. Il cosiddetto “mito” eleusino nasce alle porte di Atene, quando la dea Demetra – ultima discendente dei Titani, sconfitti dagli dei olimpici – mette a parte i seguaci del “segreto” dell’origine umana: saremmo stati “fabbricati” dalle divinità titaniche come Poseidone. Da allora (1300 avanti Cristo), il santuario di Eleusi diventa il presidio di questa “verità misterica”, custodita dai sacerdoti di Demetra, eredi di quell’antica rivelazione. Suggestioni vertiginose: per volere di Augusto, il poeta Virgilio celebra la nascita di Roma ad opera di Enea, ultimo eroe di Troia. La guerra omerica dell’“Iliade” sarebbe la traccia letteraria della resa dei conti finale tra i Titani e Zeus, di cui parla anche Esiodo nella sua “Teogonia”.Attenti ai simboli: per la tradizione misterica, la stessa Demetra arrivò a Eleusi partendo da Enna, in Sicilia. In queste tre fonti (Omero, l’“Eneide” e il culto eleusino) ricorre la radice “En’n” (inizio). Non casuale, quindi, il nome di Enea: il troiano fondatore di Roma sarebbe stato l’erede della civiltà “atlantidea”, estesasi nel Mediterraneo prima del grande cataclisma “cometario” che stravolse la Terra. Ma in realtà, anziché “atlantidea”, quella civiltà-madre (nord-atlantica e poi anche minoica, basata a Creta e poi in tutto l’Egeo fino all’Asia Minore) era chiamata “ennosigea”, dal nome di una delle principali di quelle sette macro-isole, chiamata appunto En’n. Questa possibile verità parallela – tranquillamente esposta da Platone – fu tollerata per quasi duemila anni, fino allo sciagurato Editto di Tessalonica del 380 dopo Cristo, quando l’imperatore Teodosio trasformò il neonato Cristianesimo in religione di Stato, l’unica autorizzata, mettendo fuorilegge tutte le altre e dando il via alla feroce persecuzione del paganesimo.A partire da quell’anno, scrive Bizzi nel suo affascinante saggio, tutti i templi eleusini fuorno distrutti – tranne quello di Eleusi, che venne semplicemente abbandonato. Da allora, la “comunità eleusina” si rassegnò a sopravvivere in clandestinità, con esiti spesso clamorosi come il Rinascimento italiano, promosso da principi illuminati del calibro di Lorenzo il Magnifico, espressione della tradizione eleusino-pitagorica. Stando a Bizzi, in possesso di documenti inediti e gelosamente conservati per secoli, erano “eleusini” anche i grandi architetti della Roma rinascimentale, ingaggiati dai Papi medicei. E sempre a Firenze, alla fine del Trecento, si svolse il più incredibile dei summit: alla corte dei Medici si sarebbero confrontati i rappresentati vaticani e persino gli emissari del Celeste Impero cinese, per decidere se e come diffondere la notizia della spedizione navale dello scozzese Henry Sinclair, conte delle Orcadi, sbarcato in America (cent’anni di prima di Colombo) con 40 navi templari sulle coste del Rhode Island.Siamo alla vigilia di scoperte sensazionali sulla vera storia della nostra civiltà? Certo non ci è d’aiuto l’archeologia ufficiale, scrive Bizzi in un’accurata ricostruzione su Facebook, in cui spiega le ragioni dell’assurda reticenza della disciplina archeologica accademica, oggi quotidianamente scavalcata dai nuovi ricercatori, archeologi e non, disposti a procedere incrociando i loro dati con quelli dei geofisici, dei climatologi, dei paleontologi, degli astrofisici. «Considerata in passato come scienza ausiliaria della storia, adatta a fornire documenti materiali per quei periodi non sufficientemente illuminati dalle fonti scritte – ragiona Bizzi – l’archeologia è stata sempre considerata come una delle quattro branche dell’antropologia (insieme all’etnologia, la linguistica e l’antropologia fisica)». I suoi difetti? «Ottusità, malafede, e soprattutto anti-scientificità». Dice Bizzi: «È doloroso doverlo affermare, ma l’archeologia è oggi una delle poche discipline scientifiche (o con pretesa di scientificità) che non procedono secondo un metodo “scientifico”».Una disciplina, l’archeologia, «corrosa e inquinata da pesanti rivalità professionali, da miopia e da ristrettezza di vedute», nonché «minata da una cronica mancanza di fondi per gli scavi e per la preservazione del patrimonio finora scoperto». Soprattutto, «anziché comportarsi da vera disciplina “complementare”, come dovrebbe essere», l’archeologia «si rifiuta di accettare i dati di supporto della geologia, della chimica, della biologia, dell’astronomia e di altre discipline, e resta chiusa in sé stessa e nel suo immobilismo». Risultato: «Tutte le scoperte “scomode”, che rischiano di alterare o stravolgere il “paradigma” comunemente accettato, vengono sistematicamente nascoste, occultare: ne viene negata la pubblicazione e la conoscenza da parte dell’opinione pubblica». Così, a forza di “questo non si può dire”, il sapere «si riduce a dogma di fede». Nel testo “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, lo storico della scienza Thomas Kuhn definisce il paradigma scientifico «un risultato universalmente riconosciuto che, per un determinato periodo di tempo, fornisce un modello e soluzioni per una data comunità di scienziati».Solo le discipline più mature, non a caso, possiedono un paradigma stabile, osserva Bizzi. «E il paradigma prevalente rappresenta spesso una forma specifica di vedere la realtà o le limitazioni di proposte per l’investigazione futura». In altre parole, «un freno e un limite talvolta inaccettabile». Lo stesso Hancock, parlando di “paradigma archeologico”, sostiene che l’archeologia ortodossa si basa su «presupposti aprioristici riguardo a ciò che accadde in passato», e li usa come pretesto «per non effettuare indagini ad ampio raggio su ciò che effettivamente accadde». Scarsa cultura, stupidità o malafede? E’ Kuhn il primo a sostenere che, in modo complementare, «una rivoluzione scientifica sia necessariamente caratterizzata da un cambiamento di paradigma». E questa “rivoluzione”, archeologica e non solo, secondo Bizzi è ormai in corso da vent’anni. Cambio di paradigma, appunto: «Benché persistano all’interno degli ambienti accademici una grande miopia e una malcelata ottusità, stiamo assistendo fortunatamente ad un ricambio generazionale, alla crescita professionale e all’avvento di una nuova generazione di giovani storici e archeologi con uno spettro di vedute un po’ più ampio della precedente, e soprattutto con più determinazione e con una maggiore apertura verso la multidisciplinarietà».Certo, «sono ancora pochi quelli disposti a rischiare, magari a compromettere le loro carriere pur di portare avanti teorie innovative». Ma comunque «quei pochi ci sono, e sono sempre di più». Aggiunge Bizzi: «Questa rivoluzione è ormai partita e ritengo che niente possa più fermarla». Un dato sicuramente a favore dei pochi coraggiosi “pionieri” di questo nascente revisionismo storico-archeologico – spiega Nicola Bizzi – è sicuramente il rinnovato interesse da parte dell’opinione pubblica, indubbiamente favorito dall’avvento e dalla diffusione di Internet, che ha potenzialmente ampliato in maniera esponenziale l’accesso ai dati e alle notizie. «Inoltre, grazie alla pubblicazione e alla diffusione a livello mondiale di libri rivoluzionari di studiosi come Robert Bouval, Graham Hancock, John Antony West, Alan Alford, e alla nascita di importanti testate giornalistiche e riviste specializzate a larga diffusione, come l’italiana “Archeomisteri”, sta sempre più crescendo nell’opinione pubblica l’interesse per l’archeologia, e soprattutto la voglia di sapere, di conoscere, di non limitarsi alle apparenze e alle verità ufficiali e di comodo».Bizzi cita il ricercatore italiano Mauro Quagliati, secondo cui «la rivoluzione archeologica parte dall’Egitto». È infatti proprio grazie a tutta una serie di nuove scoperte inerenti alla Sfinge e alle piramidi, che questa “rivoluzione” ha potuto finalmente aprirsi un varco nell’immobilità degli accademici. Nonostante le negazioni a oltranza di certe “autorità”, proprio dall’Egitto sono emersi dei dati estremamente importanti. Recenti scoperte hanno dimostrato ad esempio, con il supporto della geologia, che la Sfinge è stata scolpita non meno di 12.000 anni fa. Il suo corpo è stato infatti eroso da millenni di piogge tropicali, quando l’Egitto aveva un clima ben diverso dall’attuale. Molte altre nuove scoperte tenderebbero a datare alla stessa epoca le tre piramidi di Giza, il Tempio della Valle e molti altri monumenti egizi. «A chi mi chiede se la mitica Atlantide descritta da Platone sia realmente esistita o se si tratti solo di una leggenda – scrive Bizzi – solitamente ribadisco che prima di rispondere dobbiamo partire dalla constatazione di quella che è una realtà oggettiva: la storia della civiltà umana sulla Terra si spinge molto più indietro nel passato di quanto ci venga oggi insegnato sui banchi di scuola».Fino a pochi anni fa, il passato dell’uomo sembrava non avere misteri: sulla base di alcuni rinvenimenti gli scienziati credevano di poter stabilire, a grandi linee, la storia della nostra evoluzione, di essere in grado cioè di seguire lo sviluppo della civiltà attraverso le Età della Pietra, del Bronzo e del Ferro. Ma lo schema fissato da questi studiosi era troppo semplicistico per rispecchiare la realtà. Lo dimostrarono migliaia di successive scoperte che, lungi dal completare il mosaico, lo ampliarono, estendendone le tracce in ogni direzione e rendendolo più incomprensibile che mai. «Oggi ci troviamo di fronte a tracce di grandi culture fiorite in epoche che avrebbero dovuto essere caratterizzate da un’assoluta primitività, almeno secondo le teorie canoniche della “scienza ufficiale”. Segni evidenti ci attestano l’esistenza di importanti baluardi di civiltà là dove non li avremmo mai sospettati». In sostanza, «oggi gli storici e gli scienziati avrebbero in mano dati, nozioni e prove ormai certe tali da poter retrodatare di migliaia di anni la storia della civiltà umana», come dimostra la rivoluzionaria scoperta di Göbekli Tepe, nella Turchia orientale: un sito archeologico imponente e straordinario, fino ad oggi solo in minima parte portato alla luce, la cui datazione ufficiale si attesta oltre il 9.500 avanti Cristo.Per non parlare di altri siti come quello bosniaco di Visoko, le cui impressionanti piramidi sono state datate addirittura al 29.000 avanti Cristo. «Penso sinceramente che, se non assisteremo a una “manipolazione” di questa rivoluzione archeologica – sostiene Bizzi – il castello di carte degli storici accademici sia destinato inesorabilmente a crollare». Sarà allora, aggiunge lo storico, che il “paradigma” sarà finalmente rovesciato. Quel giorno, «la verità inizierà a venire alla luce in tutto il suo splendore». Per ora, resta “pericoloso” mettere in discussione, dal punto di vista storico, persino alcuni eventi della Seconda Guerra Mondiale, «quindi possiamo immaginarci quanto pericoloso possa essere mettere in discussione l’intera cronologia ufficiale della storia dell’uomo». Per Bizzi, «esistono dei “poteri forti”, delle vere e proprie “lobby” che pretendono di decidere sulle teste dei cittadini di questo mondo in tutti campi, non soltanto nella politica e nell’economia, ma anche nella storia: lobby di potere che hanno sempre attuato una sistematica e deliberata soppressione delle informazioni relative alle scoperte archeologiche più “scomode”, operando simultaneamente, oltre al taglio dei fondi e delle risorse, al discredito professionale degli archeologi impegnati in determinate ricerche e in determinati scavi».Francamente, ammettere l’esistenza di una civiltà avanzata prima dell’inizio della nostra era «comporterebbe una vera rivoluzione dei parametri storici: tutto sarebbe da riscrivere e molti ostinati negatori di certe realtà perderebbero la faccia». Per gli studiosi “ortodossi” è molto più facile attenersi al vecchio “paradigma” e ignorare le nuove scoperte, piuttosto che «intraprendere ricerche archeologiche e subacquee che si rivelerebbero costosissime ed estremamente difficoltose». Ma alla fine, «anche i più miopi e ostinati non potranno farlo ancora a lungo». Queste nuove scoperte “scomode” infatti si susseguono, sempre più numerose, con un ritmo ormai impressionante. «E gli argini della diga del “paradigma” mostrano crepe e spaccature ogni giorno più grandi». Come evidenzia Graham Hancock nel suo libro “Il ritorno degli Dei”, una casa costruita sulla sabbia rischia sempre di crollare. «E le prove dimostrano con sempre maggiore evidenza che l’edificio del nostro passato eretto dagli storici e dagli archeologi poggia su fondamenta difettose e pericolosamente instabili». Tra il 10.800 e il 9.600 il nostro pianeta «venne sconvolto da un cataclisma di dimensioni apocalittiche». Si trattò, come sottolinea Hancock, di «un evento che ebbe conseguenze globali e che influì molto profondamente sul genere umano», restando vivo nella memoria, nei miti e nelle tradizioni di tutti i popoli.Un evento sul quale molto è stato scritto, dibattuto e teorizzato, dal medioevo fino ad oggi. Ma soltanto fra il 2007 e il 2014 è stato pienamente confermato dalle prove e dalle testimonianze scientifiche, afferma lo storico fiorentino. Il lavoro divulgativo di Hancock, basato su rigorose ricerche scientifiche, riporta tutti i riscontri oggettivi del cataclisma che sconvolse il mondo tra 12.800 e 11.600 anni fa. «Ci fornisce le tanto attese prove che ci permettono di far uscire una volta per tutte questo evento di portata apocalittica dal calderone delle ipotesi e dalle nebbie del mito, contestualizzandolo cronologicamente e geograficamente». Come ha scritto Randall Carlson in “My Journey to Catastrophism”, «il nostro è un pianeta terribilmente dinamico, che ha subito cambiamenti profondi su una scala che supera di gran lunga qualsiasi cosa accaduta in un arco di tempo a noi prossimo». Quello che chiamiamo “la nostra storia”, dice Carlson, «è semplicemente la testimonianza di eventi umani che si sono verificati a partire dall’ultima grande catastrofe planetaria».Eppure, i popoli con i quali solitamente si vuol fai iniziare la storia “ufficiale”, ovvero i Sumeri e gli Egiziani, ci hanno lasciato documenti scritti che parlano di migliaia di anni della loro storia, precedenti a quella che conosciamo: migliaia di anni di storia precedenti al grande evento apocalittico che, in tutte le culture, fa da cerniera temporale fra il “prima” e il “dopo”. Come osserva lo stesso Hancock, alla luce delle nuove scoperte ci troviamo nel mezzo di un profondo “cambiamento di paradigma” per quanto riguarda il modo in cui guardiamo l’evoluzione della civiltà umana. Gli archeologi? Hanno la pessima abitudine di considerare gli impatti cosmici come fossero lontani milioni di anni, e in più «sostanzialmente irrilevanti nell’arco dei 200.000 anni di esistenza dell’uomo anatomicamente moderno». Finché si credeva che l’ultimo grande impatto fosse stato quello con l’asteroide che 65 milioni di anni fa si ritiene che abbia spazzato via i dinosauri, aveva ovviamente poco senso cercare di correlare gli incidenti cosmici su questa scala quasi inimmaginabile con l’arco di tempo molto più breve della storia dell’umanità. Ma a cambiare tutto, scrive Bizzi, è «lo scenario da incubo emerso dalle ricerche di quel gruppo di scienziati che ha recentemente dimostrato il devastante impatto del Dryas Recente, vale a dire quell’evento sconvolgente di dimensioni apocalittiche che ha sconvolto il nostro pianeta solo 12.800 anni fa, alle porte della nostra storia “ufficiale”».Significa «rovesciare il tavolo con tutto quello che c’è sopra», come si intuisce osservando «le tenaci e disperate resistenze dell’establishment accademico, fin dall’inizio rivolte verso gli studi rivoluzionari di Joseph Harlen Bretz prima e verso le scoperte di Jim Kennett e del suo team di scienziati poi». Resistenze paradossali, visto che ora emerge le nostra civiltà non nasce affatto nel Neolitico, ma assai prima. Ovvio: il vecchio “paradigma”, semplicemente, ignorava il cataclisma planetario. Si scatenò nel Dryas Recente (tra i 12.800 e gli 11.600 anni fa) e venne immediatamente seguito da grandi e importanti segnali di civiltà, come quella di Göbekli Tepe in Turchia. «Non si trattava di civiltà primitive appena uscite dalle caverne, bensì di popoli con strutture sociali complesse e già evolute, con alto senso artistico e religioso e con conoscenze astronomiche e architettoniche chiaramente riscontrabili negli imponenti edifici e monumenti che ci hanno lasciato». Oggi, ormai costretti dall’evidenza e dalle datazioni, gli archeologi definiscono i resti di Göbekli Tepe «primi esperimenti di vita civilizzata», che ebbero luogo subito dopo il “punto di interruzione” rappresentato dal Dryas Recente. «Ma non tengono conto del trauma immane e della distruzione globale messi in moto dagli impatti cosmici che causarono il Dryas Recente». E questo, per Bizzi, «rappresenta una vera e propria carenza nei metodi di ricerca e di valutazione».Peggio ancora: «Non si è pensato di considerare anche solo per un momento la possibilità che capitoli cruciali della storia umana, forse persino una grande civiltà della remota preistoria, possano essere stati cancellati (anche se ciò non è avvenuto nella memoria storica e nei miti di tutti i popoli antichi) da questi impatti e dalle inondazioni, dalle piogge nere bituminose, dall’oscurità e dal freddo indescrivibile che ne seguirono». Fino a non molti anni fa gli studiosi e i ricercatori indagavano su questo cataclisma apocalittico, di cui esitevano molteplici evidenze, ma non ancora le prove scientifiche delle sue cause. Ipotizzavano l’impatto di un meteorite di considerevoli dimensioni, sul modello di quello che si ritiene abbia provocato la scomparsa dei dinosauri. Con l’inizio del nuovo millennio, invece, si è fatta strada un’ipotesi «assai più inquietante, corroborata dalla massa crescente di indizi attestanti che 12.800 anni una cometa gigante, in viaggio su un’orbita che la portò a intersecare il Sistema Solare interno, si frantumò in una miriade di frammenti». Molti dei quali, con un diametro anche superiore ai 2 chilometri, colpirono la Terra.Epicentro del disastro: il Nord America. Luogo dell’impatto: la calotta glaciale nord-americana. Conseguenze: «Lo scioglimento di colossali masse di ghiaccio causò spaventose alluvioni e maremoti, proiettando grandi nuvole di polvere nell’alta atmosfera, avvolgendo l’intero pianeta e impedendo per lungo tempo ai raggi del Sole di raggiungere la superficie». Era stata finalmente individuata la vera causa, che negli anni successivi sarebbe stata corroborata da solide prove scientifiche, del misterioso e repentino periodo di congelamento globale che i geologi chiamano Dryas Recente. «In sostanza, stava emergendo una verità a lungo solo ipotizzata e da molti, in ambito scientifico ed accademico, temuta e rifiutata». L’ultima conferma viene da “The Journal of Geology”, che riporta «la scoperta di un grandissimo quantitativo di nanodiamanti, rilevati in una vasta aerea ritenuta quella dei principali impatti». Si tratta di «diamanti microscopici che si formano in condizioni estremamente rare di pressione e calore di livelli altissimi, e sono ritenuti le impronte caratteristiche – proxy, o indicatori diretti, nel linguaggio scientifico – di potenti impatti di comete o asteroidi».E il team di scienziati guidato da Richard Firestone e da James Kennett, nel 2014, dopo sette anni di accese discussioni e dibattiti, spiegò che i campioni di sedimento sui quali si fondavano le prove contenevano, oltre ai nanodiamanti, diversi altri tipi di detriti che potevano avere unicamente un’origine extraterrestre, riconducibili a una cometa o a un asteroide. Tra i detriti, «minuscole sferule di carbonio che si formano quando goccioline di materiale organico fuso si raffreddano rapidamente a contatto con l’aria e molecole di carbonio contenenti il raro isotopo Elio-3, molto abbondante nel cosmo, ma non sulla Terra». Il team arrivò poi alla conclusione che la causa della devastazione fosse da imputare a una cometa, e non a un asteroide, dal momento che nello strato principale dei sedimenti esaminati erano del tutto assenti gli alti livelli di Nichel e Iridio che caratterizzano gli impatti degli asteroidi. «Si delineavano così con chiarezza le cause scatenanti del Dryas Recente: l’impatto dei frammenti di una super-cometa che avrebbero colpito la calotta glaciale nord-americana in più punti e una vasta aerea dell’emisfero settentrionale, arrivando a toccare il Mediterraneo, la Turchia e la Siria».Riassumendo: gli autori dello studio immaginano «un’onda d’urto devastante e di altissima temperatura che provocò un picco di sovrapressione, seguito da un’onda di pressione negativa, che diede luogo a venti intensi che spazzarono il Nord America viaggiando a centinaia di chilometri orari, accompagnati da potenti vortici generati dagli impatti». Non solo: «Una sfera di fuoco rovente avrebbe saturato la regione vicina agli impatti». E a distanze maggiori, il rientro in atmosfera ad altissima velocità del materiale surriscaldato (espulso al momento delle collisioni) avrebbe provocato «enormi incendi che avrebbero decimato foreste e praterie, distruggendo le riserve di cibo degli erbivori e producendo carbone, fuliggine, fumi tossici e cenere». E in che modo tutto ciò avrebbe potuto causare il drammatico congelamento del Dryas Recente? Gli autori dello studio propongono varie concause: la più rilevante sarebbe stata «l’enorme pennacchio di vapore acqueo proveniente dallo scioglimento della calotta glaciale». Sarebbe stato scagliato nell’atmosfera, combinato a immense quantità di polvere e detriti composti da frammenti dei corpi impattanti, dalla calotta glaciale e dalla crosta terrestre sottostante, oltre al fumo e alla fuliggine prodotta dagli incendi che devastarono l’intero continente.Nel complesso, come rileva Hancock, risulta abbastanza facile capire in che modo una tale quantità di detriti proiettata nell’atmosfera potesse aver portato ad un rapido raffreddamento, bloccando il passaggio della luce solare. L’insieme di vapore acqueo, fumo, fuliggine e ghiaccio – continua Bizzi – avrebbe generato una cortina persistente di nubi “nottilucenti”, con conseguente diminuzione della luce solare e raffreddamento della superficie, riducendo in tal modo l’insolazione alle alte latitudini, aumentando l’accumulo nevoso e causando un ulteriore abbassamento delle temperature in un ciclo continuo di retroazione. Per quanto devastanti, questi fattori diventano quasi insignificanti se paragonati alle conseguenze che gli impatti possono aver avuto sulla calotta glaciale: «Il maggiore effetto potenziale sarebbe stata la destabilizzazione e quindi lo scioglimento parziale della calotta glaciale in seguito all’impatto. Nel breve periodo ciò avrebbe liberato repentinamente acqua di disgelo e enormi blocchi di ghiaccio negli oceani del Nord Atlantico e dell’Artico, abbassando la salinità con conseguente raffreddamento superficiale».«Gli effetti di congelamento a lungo termine – aggiungono gli studiosi – sarebbero derivati in gran parte dal successivo indebolimento della circolazione termoalina nell’Atlantico Settentrionale, mantenendo un clima freddo nel Dryas Recente per più di 1.000 anni, fino a quando i meccanismi ciclici ripristinarono la circolazione oceanica». I risultati pubblicati su “Proceedings of the National Academy of Science” il 4 giugno 2013 beneficiarono inoltre dei più recenti progressi nella tecnologia del radiocarbonio per raffinare la datazione dell’impatto cosmico da 12.900 a 12.800 anni fa e resero possibile una mappatura molto più particolareggiata dell’area di dispersine del materiale da impatto, che incluse quasi 50 milioni di chilometri quadrati del Nord, Centro e Sud America, una grande sezione dell’Oceano Atlantico e gran parte dell’Europa, del Nord Africa e del Medio Oriente. E il fatto che i calcoli, presenti negli studi del 2013, indicassero il deposito di oltre dieci milioni di tonnellate di sferule all’interno di questo vasto campo di caduta, uniti agli studi presentati l’anno successivo sulla presenza nell’area interessata di enormi quantità di nanodiamanti, fece sì da togliere dalla mente dei ricercatori ogni dubbio sul fatto che al centro di tutto questo vi fosse un impatto cosmico, e nello specifico l’impatto di una supercometa.Sono stati, infine, individuati con chiarezza anche diversi punti d’impatto: la depressione di Charity Shoal nel Lago Ontario, la conca di Bloody Creek nella Nuova Scozia, il cratere di Corossol nel Golfo di San Lorenzo in Canada e l’area di Quebacia Terrain, sempre in Canada, ad Ovest di Corossol. E questi elencati, aggiunge Bizzi, sono i punti d’impatto che è stato possibile individuare grazie alle evidenze geologiche, mentre si ritiene che quelli maggiori e più devastanti, dovuti a frammenti della cometa di dimensioni nell’ordine di due chilometri e mezzo di diametro, abbiano riguardato la calotta di ghiaccio in punti più a Nord e più a Ovest. Ciò che colpisce in special modo, nel risultato di queste scoperte, secondo Hancock è il fatto che i cambiamenti climatici (avvenuti sia all’inizio che alla fine del Dryas Recente) abbiano avuto estensione planetaria e si compirono entrambi nell’arco di una generazione umana: 12.800 anni fa, una forza esplosiva combinata (10 milioni di megatoni) avrebbe sollevato nell’atmosfera sufficiente materiale da far piombare la Terra in una lunga, prolungata oscurità simile ad un inverno nucleare, cioè quel “periodo di oscurità” di cui parlano tanti antichi miti.Poi, il repentino riscaldamento verificatosi 11.600 anni fa, che pose fine al Dryas Recente, sarebbe sì in parte spiegabile con la dispersione finale della nuvola di materiale espulso. Ma vi sarebbe, a completare il quadro, anche un’altra spiegazione complementare: secondo gli scienziati, molti frammenti della cometa (anche enormi) sarebbero rimasti in orbita, fino a impattare nuovamente con il nostro pianeta nel 9.600 avanti Cristo. «La Terra, quindi, avrebbe nuovamente interagito 11.600 anni fa con la scia di detriti della medesima cometa frammentata che aveva causato l’inizio del Dryas Recente, determinandone una repentina fine». Stavolta, anziché nell’Artico, l’impatto di sarebbe verificato nell’Atlantico Settentrionale: cosa che avrebbe provocato «l’innalzamento di enormi pennacchi di vapore acqueo» capaci di creare un effetto serra, «dando il via ad una rapida fase di riscaldamento globale». Gli scienziati, aggiunge Bizzi, stimano che questa seconda ondata di impatti abbia determinato – nel giro di appena cinquant’anni – un aumento delle temperature medie di oltre 7 gradi centigradi, con il conseguente scioglimento di enormi masse di ghiacci e il repentino aumento, in tutto il mondo, del livello dei mari e degli oceani di decine e decine di metri. Era il grande diluvio, o diluvio universale?Sicuramente, scrive Bizzi, le aree del secondo impatto «erano abitate e popolate dall’uomo». Su di esse, «probabilmente fiorivano diverse civiltà». Gli archeologi “ortodossi” si sono sforzati per anni nel sostenere che Platone si fosse inventato tutto. Nei suoi dialoghi “Timeo” e “Crizia”, è datata 9.000 anni prima di Solone la scomparsa di Atlantide per via di un terribile cataclisma di fuoco. Da Platone, per l’ufficialità, ci è giunta solo «un’opera di fantasia o di mera speculazione metaforica e filosofica». Ma gli “ortodossi” hanno sempre ignoranto deliberatamente «l’esistenza di centinaia di miti e antiche tradizioni che, in tutto il mondo, dalle Americhe al Mediterraneo, dall’Africa all’Asia, confermano, direttamente o indirettamente, la narrazione platonica», ora corroborata dalla scienza. «Narrazione che, peraltro, è pienamente avvalorata dal corpo dei testi della Disciplina Arcaico Erudita tramandati dalle scuole misteriche eleusine, i quali – rivela Bizzi – ci raccontano la storia di una civiltà evolutasi su quelle che vengono menzionate come “le Sette Grandi Isole del Mar d’Occidente”».Cos’erano? Testualmente: «Un insieme di vaste terre che sorgevano nell’Atlantico Settentrionale e che si sarebbero inabissate esattamente nel 9.600 avantio Cristo». Quei testi, spiega lo storico fiorentino, «ci descrivono una società avanzata, con grandi conoscenze scientifiche». Evolutasi nell’arco di circa 10.000 anni, quella civiltà «sarebbe arrivata, all’apice del suo splendore, a conquistare e colonizzare l’America Centrale e Meridionale, il bacino mediterraneo, l’Europa Meridionale, il Medio Oriente e parte dell’Asia e dell’Africa, portandovi la propria cultura e le proprie tradizioni». Una civiltà che non chiamava se stessa “atlantidea”, bensì “ennosigea”, dal nome di una delle principali di queste sette terre, chiamata appunto En’n. Proprio la terra di En’n, situata ad Ovest dello stretto di Gibilterra (le mitiche Colonne d’Ercole dell’antichità) era grande quanto Francia e Spagna messe insieme. E stando sempre ai testi eleusini, a En’n «esisteva una regione, collocata in posizione nord-orientale, denominata Hathlanthivjea», un tempo «fiorente Stato indipendente, prima della conquista ennosigea avvenuta attorno al 12.000 avanti Cristo».Hathlanthivjea, cioè Atlantide? «Il suo nome, composto da quattro diversi geroglifici, significherebbe “la Grande Madre venuta dal Mare”», spiega Bizzi, che premette: «I testi delle scuole misteriche eleusine non costituiscono una “prova”»; anche se attribuiti ad autori dell’antichità, «sono stati oggetto di più trascrizioni attraverso il medioevo e i secoli successivi, e non se ne possiedono più gli originali». Tuttavia, «non si può escludere che Platone, nelle sue narrazioni, faccia proprio riferimento alla regione di Hathlanthivjea». Tornando a Hancock, l’autore scozzese ha ragione quando sostiene che le riserve su Platone alludono al fatto che il filosofo abbia forse basato il suo racconto su un cataclisma molto più recente avvenuto nel Mediterraneo, come ad esempio l’eruzione di Thera (Santorini) attorno al 1500 avanto Cristo. «Ma si tratta di una visione miope e di convenienza, del resto ormai superata e surclassata dal pieno riconoscimento scientifico dell’impatto cometario del Dryas Recente», taglia corto Bizzi.Il concetto di un disastro globale verificatosi più di 11.000 anni fa, e in particolare l’idea eretica che esso abbia potuto spazzare via una grande civiltà evoluta esistente in quell’epoca, è sempre stato strenuamente respinto e ridicolizzato dall’archeologia “ufficiale”. Chiaro il motivo, dice Hancock: «Ovviamente gli archeologi dichiarano di “sapere” che non vi fu, e non avrebbe mai potuto esistere in nessuna circostanza, una civiltà altamente sviluppata in quel periodo. Lo “sanno” non grazie a prove inconfutabili che permettano di escludere l’esistenza di una civiltà tipo Atlantide nel Paleolitico Superiore, ma piuttosto basandosi sul principio generale che il risultato di meno di duecento anni di archeologia “scientifica” rappresenti una linea temporale accettata per il progresso della civiltà, che vede i nostri antenati uscire lentamente dal Paleolitico Superiore per entrare nel Neolitico intorno al 9.600 e da lì in poi evolvere attraverso lo sviluppo e il perfezionamento dell’agricoltura nei millenni successivi».Tirando le somme, a Bizzi sembra evidente che stiamo ormai assistendo alla fine dell’attuale “paradigma” e che la rivoluzione archeologica in atto sia ormai incontenibile e irreversibile. «È stato geologicamente provato, grazie alle ricerche condotte da numerose spedizioni oceanografiche, che vaste aree di quello che è oggi l’Atlantico Settentrionale si trovavano in stato di emersione, fino a circa 12.000 anni fa». E non solo: «Il fondale atlantico, proprio in quelle aree – che vanno dai Carabi fino alle Azzorre e a Gibilterra – è cosparso di rovine, di mura, di strutture piramidali e di veri e propri resti di città, estese anche numerosi ettari, con strade che si intersecano perfettamente ad angolo retto». Attenzione: «Stiamo parlando di strutture la cui origine non può essere assolutamente attribuita alla natura. Si tratta di opere dell’uomo realizzate in un’epoca ovviamente precedente alla sommersione di questi tratti di fondale. Sommersione che, grazie a campioni di tectiti, di fossili e di lava vulcanica prelevati dai fondali e opportunamente analizzati, è databile grosso modo al 9.600 avanti Cristo: guarda caso, si tratta della stessa data fornitaci da Platone in merito all’affondamento della “sua” Atlantide».Senza insistere necessariamente su Atlantide, conclude Bizzi, occorre prendere atto che di “Atlantidi” ne sono esistite numerose, in ogni angolo del globo. Quantomeno, sono esistite diverse “civiltà madri” precedenti alla nostra: «E ci hanno lasciato le loro testimonianze inconfutabili, dal Perù ai fondali dell’Atlantico, dal Medio Oriente alla Siberia, dall’Amazzonia all’Indonesia, dal Pacifico all’Antartide». Mentre la gran parte dell’archeologia universitaria continua a tacere, rifiutando di accettare le logiche conclusioni delle ultime rivoluzionarie scoperte, «le prove scientifiche dell’impatto cometario del Dryas Recente», che decretò la scomparsa di quelle antiche civiltà, «costituiscono quello che in gergo poliziesco si chiama “pistola fumante”». Chiosa Nicola Bizzi: «La Storia è ormai da riscrivere, da riscrivere completamente, e non ci sarà “paradigma” che possa impedire di farlo».(Il libro: Nicola Bizzi, “Da Eleusi a Firenze. La trasmissione di una conoscenza segreta”, vol. 1, Aurola Boreale, 800 pagine, 35 euro).Aveva ragione Platone: Atlantide esisteva davvero e fu sommersa dall’oceano attorno al 9.600 avanti Cristo. La causa? L’impatto di una “pioggia cometaria” catastrofica. A confermarlo non è l’archeologia, ma la geologia: grazie a Richard Firestone e James Kennett, ora sappiamo che il pianeta fu sconvolto da una sequenza impressionante di cataclismi di origine cosmica, come dimostrano i sedimenti di nano-diamanti “extraterrestri” rinvenuti nelle aree degli impatti. Nel “Crizia” e nel “Timeo” il sommo filosofo greco aveva parlato di una civiltà superiore, preesistente alla nostra, spazzata via da una specie di diluvio universale? E’ andata proprio così, dicono i geologi dal 2014 a questa parte. O meglio: gli scienziati spiegano che proprio 12.000 anni fa – nel periodo indicato da Platone – ci fu un azzeramento planetario. E questo spiazza gli archeologi, che ancora si ostinano a far risalire le nostre origini a un’epoca assai più recente, benché vengano smentiti, di giorno in giorno, dalle scoperte della “rivoluzione archeologica” ormai in atto, difficilmente arrestabile. Lo sostiene Graham Hancock, massimo divulgatore mondiale in materia. E lo sottolinea Nicola Bizzi, autore dell’originalissimo saggio “Da Eleusi a Firenze”.
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Ashkenaz, il super-sapiens, ci schiavizza col debito eterno
Menti raffinatissime, le chiamava Giovanni Falcone. Nel suo caso, avevano piazzato una bomba davanti alla sua villetta sul mare, tre anni prima del fatale attentato di Capaci. Sono speciali, quelle menti – e altrettanto criminali – anche per Giovanni Angelo Cianti, che non è un giudice antimafia ma a suo modo si occupa lui pure di criminologia, per così dire, se si volesse leggere come un’epocale, sterminata stagione criminogena quella aperta dalla stessa misteriosa comparsa sulla Terra dell’homo sapiens, tuttora non spiegata (men che meno dall’evoluzionismo darwininano). L’ultima fatica letteraria di Cianti – che esordì addirittura come autore del fumetto-cult “Ken Parker”, creato nel ‘74 da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo – si intitola “Benvenuti all’inferno”, in questo richiamando l’ombra del manicheismo, tra risonanze gnostiche e poi catare. Una “creazione dannata”, la nostra, opera di divinità infere esiliate nel mondo della materia? Premessa pragmatica: siamo quasi 8 miliardi e stiamo devastando il pianeta, come cavallette inarrestabili. Un formicaio di insetti onnivori e famelici, e al tempo stesso docili e malleabili, senza più coscienza né memoria della propria origine. Solo colpa nostra? No, risponde Cianti: la grande attenuante è incarnata da chi lo dirige più o meno segretamente, il “formicaio”.La solita, bieca massoneria mondiale? Gli uomini invisibili del famigerato “complotto giudaico-massonico” caro ai cospirazionisti? Nemmeno, scrive Cianti, mettendo a fuoco un altro gruppo, che definisce “super-sapiens”. «Si chiamano Ashkenazi, e si sono mimetizzati tra gli ebrei, a insaputa degli ebrei stessi. Ma attenzione: gli “Ahskenazim” non sono ebrei, e nemmeno semiti. Sono i veri manipolatori dell’umanità, fin dai primordi, attraverso il denaro e il credito usuraio». Sarebbero stati loro a danneggiare in primo luogo gli ebrei, provocando la catastrofe dell’antisemitismo. Da dove spuntano? Ne parla la Bibbia, probabilmente, quando – nella Genesi – racconta la “fabbricazione” degli adamiti: strani ibridi, praticamente degli Ogm ante litteram, clonati mescolando i geni del sapiens con quelli dei Figli delle Stelle, che l’Antico Testamento chiama Elohim (come Yahvè e colleghi) mentre per i Sumeri si chiamavano Anunna o Anunnaki. Stessa schiatta di dominatori – venuti dal cielo, secondo il sumerologo Zecharia Sitchin, affascinante e controverso teorico della paleo-astronautica. La missione: trasformare la Terra, fino a quel momento popolata solo da tribù nomadi, in un immenso campo di lavoro.Per produrre cibo, energia e poi anche tecnologia occorrevano “servi” intelligenti e obbedienti, i sapiens, che ancora non c’erano. E per dirigere i sapiens ci voleva una super-razza, in grado di dominarli per conto terzi. Impressionante la consonanza con le rivelazioni che l’avvocato Paolo Rumor affida al saggio “L’altra europa”, edito da Panda, con prefazione dell’eminente politologo Giorgio Galli. La tesi: un’élite immutabile, sempre la stessa, reggerebbe il mondo da quasi 12.000 anni. Origine: Golfo Persico, poi Mesopotamia, Egitto, Mediterraneo fenicio e poi minoico e greco-romano. Pietra miliare: l’antico insediamento nella città caldea di Ur, alla foce del Tigri. E’ la stessa geografia che ripercorre Cianti, inseguendo il fantasma dei progenitori di quelli che (erroneamente, sostiene) verranno poi chiamati “ebrei askhenaziti”, diffusisi nell’Est europeo. La comparsa dell’Adàm biblico, «non ancora ebraico, verosimilmente sumero», risalirebbe a un’epoca collocabile tra il 15.000 e il 20.000 avanti Cristo. Seguono 9 discendenti quasi millenari, i patriarchi pre-diluviani, fino ad arrivare a Noè, cioè intorno all’anno 5.600.Stando alla Bibbia, Noè generò Sem, Cam e Jafet. Da Sem si arriva a Giacobbe-Israele per linea retta attraverso Ever, Terach, Abramo e Isacco: in altre parole, ecco gli ebrei (quelli veri), poi suddivisi nelle famose 12 tribù, inclusa quella israelitica di Giuda e Davide. «Quindi – conclude Cianti – solo i discendenti di Abramo possono essere considerati semiti». Gli altri, cioè la super-razza di cui si occupa “Benvenuti all’inferno”, sarebbero la discendenza di Jafet: il fratello di Sem e Cam «generò tra gli altri Gomer, capostipite dei Cimmeri», il cui figlio si chiamerà Ashkenaz, «dall’assiro Askuza»: nome col quale, secondo la Tavola nelle Nazioni, «si indicavano i popoli nomadi della regione sciita del Caucaso». Insieme ai Minniti e al Regno di Ararat, continua Cianti, i nomadi caucasici Ashkenaz si opposero ai Babilonesi, almeno secondo la Bibbia (Geremia 51-27), e in seguito diedero origine ai popoli slavi. «Gli Ashkenaziti – conclude Cianti, citando sempre l’Antico Testamento – sono dunque “jafeti”, cimmeri o sciiti – ma non semiti, quindi non ebrei».Per l’autore si tratta di un “cluster genetico” autonomo, «una popolazione nomade di origini turcomanne che si reinventa continuamente». Prima sciiti (da “sak”, nomade), poi Kazari (dal turco “qaz”: nomade, ancora). Per Cianti erano di religione tengrista, un mix di sciamanesio, animismo e totemismo diffuso nell’Asia Centrale. «Si convertirono all’ebraismo per convenienza», e molto tardi: solo fra il 740 e il 920 dopo Cristo. «Alla dissoluzione del Canato di Kazaria, conquistato dal russo Sviatoslav I, si dispersero in tutta Europa, attribuendosi l’appellativo di “ebrei erranti”», evidentemente abusivo. Nell’alto medioevo, continua Cianti, li ritroviamo nella valle del Reno e nel Nord della Francia: «Ed è da questo momento che iniziano a usare l’yiddish, lingua germanica con elementi di ebraico e aramaico». Poi si spostano verso Est: Lituania e Polonia, Moldavia, Russia. Il ritorno in Germania comincerà nel 1200 e terminerà solo nell’Ottocento. In tutti quei secoli, scrive l’autore, gli Askuza-Ashkenaz sciameranno di terra in terra perché «perseguitati per l’attività usuraia». Sono loro gli “inventori” del sistema creditizio?Il prestito a interesse, dice Cianti, compare contemporaneamente in Mesopotamia, India e Cina. «L’invenzione stessa della scrittura nasce lì, da quella nuova necessità». A Uruk (oggi Warka, Iraq) a raccontare quella storia sono 5.000 tavolette d’argilla risalenti al quarto millennio avanti Cristo: «Si iniziò allora a parlare di prestiti, tassi d’interesse, garanzie, usura, derivati e pignoramenti». La banca dell’epoca era il Tempio; non prestava solo denaro ma anche cereali, vino e birra, metalli pregiati: «Si cominciò a prestare argento a tassi fino al 60%». Attraverso il mondo mesopotamico, poi fenicio e persiano, ellenico e romano, il network nomade del denaro si trasferisce dove gli conviene, tendenzialmente da Est a Ovest, col progredire dei nuovi fiorenti imperi. Proto-scienziati della finanza? Cianti li chiama “i nostri mandriani”. Il loro metodo non cambia: usura, per conquistare il potere. Obiettivo: «Mantenere nella sottomissione non solo le masse ma anche gli stessi governanti, che in pratica diventano i loro burattini. E se qualcuno di loro si oppone, viene destituito o ucciso, come i Kennedy».Per Cianti, gli Ahskenaz restano un gruppo ristretto e rigorosamente chiuso al suo interno, per via matrilineare, attraverso i secoli. Sono i “ruler”, gli attuali “padroni dell’universo”. Veri fenomeni: si tratta di «individui di eccezionale intelligenza». Oltre a mercanti e banchieri, nei millenni, «hanno espresso anche filosofi, scienziati, pensatori che hanno determinato le sorti dell’umanità». L’élite dell’élite: «Nomadi e apolidi, seguono lo sviluppo dei più importanti centri di potere, in una traiettoria sempre diretta verso ovest che oggi, dalla West Coast degli Stati Uniti, ha spiccato il balzo verso la Cina». Sono loro i teorici e i registi del globalismo finanziario, secondo Cianti: religioni e massonerie, Ur-Lodges e centri di potere paramassonici sarebbero solo cinghie di trasmissione del super-sapiens Ashkenaz, protagonista del club più inaccessibile del vero potere.Lungo le sue 400 pagine, “Benvenuti all’inferno” esamina con estrema cura le più recenti asserzioni scientifiche, dall’astrofisica alla paleontologia fino alla climatologia, demolendo Darwin: «La Terra è passata attraverso eventi catastrofici che hanno provocato ripetute estinzioni di massa. E ogni volta il pianeta è stato ripopolato con specie nuove, che non avevano niente a che fare con le precedenti». Fino al sapiens, ultimissimo prodotto di queste “introduzioni”: «Una specie bio-ingegnerizzata, nel cui corredo è stato introdotto Stamina, il gene della paura che ci rende così docili di fronte al potere». Nel saggio “Resi umani” scritto con Mauro Biglino, il prestigioso biologo molecolare Pietro Buffa (già attivo al King’s College di Londra) spiega che il “missing link” tra uomo e scimmia non è mai esistito: a quanto pare siamo stati “fabbricati” diversi, dalla nascita, ben distinti dai primati e dagli stessi ominidi – persino dal Neandearthal, a noi vicinissimo nel tempo, probabilmente sterminato dai nostri antenati.A lungo traduttore ufficiale della Bibbia per le Edizioni San Paolo, Biglino sostiene che l’Antico Testamento – alla lettera – racconti l’avvento sulla Terra dei Figli delle Stelle. Proprio loro avrebbero “costruito” il sapiens, riservandosi poi la “fabbricazione”, sempre per via genetica, di una super-specie di lavoratori particolarmente intelligenti: gli adamiti, collocati nel Gan-Eden (da cui poi furono cacciati, dopo che ebbero scoperto la possibilità di riprodursi in modo autonomo, sessualmente). Tuttora, nessun sumerologo sa spiegare esattamente l’origine della civiltà sumera, sorta improvvisamente appena a Sud del Gan-Eden (situato nel Caucaso) e immediatamente dotata di favolose competenze tecniche: scrittura e architettura, matematica, astronomia. E soprattutto: agricoltura. «Proprio la rivoluzione agricola – sostiene Cianti – ha cambiato in modo irrimediabile il pianeta, devastando i suoli e sottraendo acqua, impoverendo la nostra dieta e determinando una vera e propria mutazione antropologica: i primi sapiens erano liberi di muoversi e cacciare, noi invece siamo schiavi inurbati, costretti a lavorare e a nutrirci di cibo ormai avvelenato».La stanzialità come sciagura è il tema del saggio “Dominio”, nel quale Francesco Saba Sardi collega all’introduzione dell’agricoltura la nascita del nuovo potere, prima sconosciuto, che “inventa” la religione per trasformare gli esseri umani in servi, lavoratori della terra e soldati. Figure sociali che non esistevano, prima del neolitico: nacquero con l’agricoltura insieme alla religione e alla sua sorella gemella, la guerra, grazie alla comparsa di quell’inedito potere, configurato in forma di dominio. A questo, Giovanni Cianti aggiunge un’altra disgrazia: l’alimentazione. Giornalista e già pubblicitario, appassionato studioso di biologia, Cianti è anche e soprattutto un nutrizionista, disciplina attraverso cui ha rivoluzionato la pratica del body-building partendo proprio dalla dieta. La minaccia più grande? L’abuso di cereali. Il pane – che ha nutrito milioni di individui – viene dal grano, che è comparso sulla Terra di colpo. Discende dal farro selvatico, che però non è commestibile. Chi l’ha trasformato geneticamente in cereale dolce, da farina? I medesimi, misteriosi individui – si suppone – che allo stesso modo, all’epoca di Adamo ed Eva, “fabbricarono” la patata, insieme con la pecora.Cibo pronto uso e a basso costo, per schiere di futuri lavoratori? L’ipotesi è ora vagliata da scienziati di tutto il mondo, ormai convinti che convenga rivalutare e rileggere con occhi nuovi i testi antichi, poi trasformati arbitrariamente in “libri sacri” dalle religioni che, più tardi, se ne impossessarono, travisandoli: e se in quelle pagine ci fossero gli indizi di una storia attendibile? Se cioè il racconto – incluso quello biblico, con la comparsa degli Elohim (Figli delle Stelle) – spiegasse davvero la nostra origine genetica, altrimenti non ricostruibile solo per via evolutiva? Nel qual caso, dice Cianti, sarà meglio aggiungere una riflessione piuttosto decisiva: se qualcuno – venuto dal cielo? – impiantò sulla Terra la sua “mandria” da mungere, di sicuro non scordò di assicurarla alla custodia di servitori speciali e fidatissimi, a loro volta “bio-ingegnerizzati” alla bisogna: i nostri “mandriani”.Non manca nessuno, nella “hall of fame” dei dominatori che Cianti esibisce, dai secoli passati fino ai giorni nostri: spicca il visionario oligarca Jacques Attali, lo sconcertante mentore di Emmanuel Macron, oscuro profeta del transumanesimo post-democratico. C’è l’eterno Zbigniew Brzezinski, lo storico stratega della Casa Bianca (sodale di Kissinger) che reclutò in Afghanistan un certo Osama Bin Laden, poi protagonista della strategia della tensione globale sotto l’egida dei Bush. Riflettori su Al Gore, l’ex vice di Clinton, ormai «frontman mondiale della bufala del global warming di origine antropica», il nuovo catechismo recitato dalla piccola Greta, la ragazzina svedese spuntata (in apparenza) dal nulla. Gore ha appena vinto due Oscar con il documentario “Una scomoda verità”, «diretto dal regista “ashkenazi” Davis Guggenheim». Manipolazione? «Se è per questo, erano “ashkenazi” anche Walt Disney e Edward Bernays, l’inventore della propaganda pubblicitaria», dice Cianti, «come pure i fratelli Andy e Larry Whachowski», gli sceneggiatori di “Matrix”, film nato per metterci in guardia «sul destino della “mandria umana”, costretta a vivere come nella caverna di Platone, cioè in un mondo virtuale completamente avulso dalla realtà».Tra i protagonisti negativi, invece, dominano politici e finanzieri: si va da Madeleine Albright, che difese la necessità inevitabile del bagno di sangue nei Balcani negli anni ‘90, alla quasi-popstar George Soros, «ashkenazi di elevata esposizione mediatica, quindi verosimilmente di rango inferiore». Nulla, in confronto ai veri “dominus”, più appartati, come ad esempio i campioni delle celeberrime dinastie Rothschild, Warburg e Rockefeller, sinistramente implicati nell’ascesa di Hitler (e nel nascente sionismo), ben sapendo che il dittatore nazista avrebbe sterminato milioni di ebrei: era il mostruoso prezzo necessario per ottenere poi lo Stato di Israele? Incubi e interrogativi storici a parte, dell’immenso potere di quelle famiglie parla anche il professor Pietro Ratto nei suoi recenti saggi, che rivelano l’incredibile pervasività (purtroppo attualissima) della loro influenza, persino nell’odierna editoria scolatica validata dai ministeri attraverso commissioni, strutture e aziende di cui non parla mai nessuno. Ma quei nomi così famosi – i vituperati Rothschild, tanto per cambiare – potrebbero essere solo la vetta dell’iceberg, la parte visibile.Chi sono e cosa vogliono, quelli che Cianti chiama “i nostri mandriani”? Lo spiega lo stesso Attali, nella sua “Breve storia del futuro”, «libro che anticipa le mosse dei “mandriani” fino al 2100», fornendo «una descrizione terrificante delle loro intenzioni nonché l’evidenza di una straordinaria assenza di empatia, mista a follia e delirio di onnipotenza». L’umanità ridotta a formicaio pilotabile, prevedibile? Il genere umano eventualmente anche sterminabile, all’occorrenza, con le pratiche più insospettabili? Cianti menziona il cibo cancerogeno, i medicinali-killer e l’imposizione di vaccini pieni di alluminio e altri metalli pesanti, come quelli che scendono dal cielo, da una ventina d’anni, diffusi nella bassa atmosfera dalle strane scie bianche rilasciate dagli aerei di linea. Di fronte a questo, il mainstream grida immancabilmente al complottismo, fingendo di non sapere che le teorie più eretiche (incluse quelle bislacche e ridicole) nascono proprio dal silenzio ufficiale, dalla ostinata reticenza di chi dovrebbe fornire spiegazioni convincenti dei fenomeni che allarmano la popolazione. Peccato che sia lo stesso sistema dei media a essere strettamente detenuto da pochissime mani.Oltre a controllare Intesa SanPaolo e Unicredit, scrive Cianti, la filiera Rothschild («connessa agli Agnelli-Elkann e ai Caracciolo») è presente in Facebook, in Telecom Italia, nell’agenzia “Reuters”, nel francese “Libération”, nei britannici “Daily Telegraph” e “The Economist”. Sempre secondo Cianti, il gruppo Rcs (Rizzoli e “Corriere della Sera”) è invece appannaggio della scuderia Rockefeller, mentre il gruppo Sassoon controllerebbe “Sunday Times” e “The Observer”. Stessa musica per i grandi network televisivi internazionali. In Italia, aggiunge Cianti, «appartiene al “cluster” anche Carlo De Benedetti», fondatore del gruppo “Espresso-Repubblica”, che «ha alle spalle Lazard e Lehman Brothers». Un’unica discendenza, addirittura, collegherebbe gli attuali Master of the Universe? «La risposta definitiva – ipotizza Cianti – potrebbe venire dall’Us Trust Corporation, istituita a suo tempo da Walter Rothschild», che però è inaccessibile alla consultazione pubblica. «Secondo alcuni “insider” – aggiunge l’autore del saggio – si tratterebbe di otto-dieci linee di sangue millenarie». I nomi? Goldman Sachs, Rockefeller, Lehman e Kuhn-Loeb di New York. Poi i Rothschild di Parigi e Londra. Poi gli inglesi Windsor, già Sassonia-Coburgo-Gotha, insieme ai Warburg di Amburgo, ai Lazard di Parigi, alla dinastia Israel Moes Seif di Roma.Si tratta di «famiglie che da sole posseggono tutte le banche e le corporation del mondo, attraverso un sistema di scatole cinesi: il vertice della piramide, totalmente “ashkenazi”, resta estremamente ristretto e al di fuori di ogni forma di controllo». Gioielli della collezione, dagli Usa all’Europa fino alla Cina, le superpotenze bancarie: Hsbc Holding, Bnp Paribas, Jp Morgan, Icbc Bank of China e Agricoltural Bank of China, Wells Fargo, Bank od America, China Construction Bank. In generale, scrive Cianti, il meccanismo del big business «riguarda tutti i settori industriali strategici: cibo ed energia, farmaci, armi, informazione e intrattenimento, ma anche droga e traffico di esseri umani e di organi». Il volume mastodontico dell’attuale sistema iper-capitalista e neoliberale, interconnesso dalla globalizzazione, lo fornisce ad esempio il database Orbis 2007, che (come documenta uno studio svizzero pubblicato nel 2011 da “Plos One”) ha passato al setaccio qualcosa come 37 milioni di aziende e investitori globali. Le strutture che detengono il 97% della ricchezza del pianeta, riassume Cianti, sono soltanto 147: in cima alla classifica Barclays, Capital Group Companies, Frm Corporation, Axa Assicurazioni, State Street Corporation, Jp Morgan, Legal General Group, Vanguard Group, Ubs e Merrill Lynch.«Una rete capillare ed estesa, di soggetti che si posseggono a vicenda». Blackrock, «il più grande fondo d’investimento del pianeta, fondato da Lawrence Fink (ashkenazi) ha tra i maggiori azionisti Pnc Financial Service, Norges Bank, Vanguard, Bank of America, Wellington Management Group». A sua volta, Jp Morgan è gestita da Vanguard e Blackrock, insieme a State Street, Bank of New York e altri soci. Sempre le stesse aziende possiedono anche il colosso farmaceutico Merk. La notizia? Secondo Cianti, il vertice è costituito da consanguinei, tutti discendenti dell’ipotetica, originaria super-razza, quella che già agli albori della civiltà inventò il “debito inestinguibile”. Dalla Mesopotamia si arriverebbe tranquillamente fino ai veri campionissimi del terzo millennio, come il sudafricano Elon Musk, fondatore della Tesla, e il fenomenale Mark Zuckerberg, l’enfant prodige di Facebook. A proposito, chi c’è nell’azionariato del social network che “scheda” oltre due miliardi di esseri umani? «Sempre gli stessi: Vanguard e Blackrock, Frm-Lcc, State Street Corporation, Prince T Rowe, Capital World Investors».Globalizzazione? Termine in uso dagli anni ‘80, quando si pianificò l’abolizione dei dazi per merci e capitali. Ma, stando a Cianti, non sarebbe che l’ultimo passaggio tecnico del mondialismo ante litteram perseguito dal misterioso “cluster” del super-sapiens, fin dagli albori della nostra storia. Possibile? L’autore invita a riflettere sul vero significato dell’agenda dell’Onu, organismo – pochi lo sanno – poderosamente finanziato da donatori privati (sempre loro, i mattatori del superclan). Mondialismo mercantilista, che dichiara guerra alle identità – di genere, nazione, religione – per omologare la “mandria” che popolerà l’Iper-Impero dopo l’imminente declino della potenza Usa. Un “impero totale” esteso in ogni continente «con la sola eccezione della Russia, che per ora resiste ma finirà accerchiata da America, Europa, Cina e India». Viaggia sempre verso ovest, dunque, il super-sapiens di cui parla Cianti? Lo conferma, secondo l’autore, il matrimonio di Zuckerberg: «Sua moglie, Priscilla Chan, è nata negli Usa da genitori rifugiati Hou, un gruppo minoritario di usurai cinesi del Vietnam». Gli Hou, scrive Cianti, discendono dagli “ashkenazi d’Oriente” come la famiglia Li (o Lee), che duemila anni fa, al tempo della dinastia Zhou – introdussero la moneta cartacea.Oggi, come dire, si sono portati avanti col lavoro: «Già legati a Mao Tse-Tung, hanno espresso presidenti cinesi come Li-Peng e Li-Xinnian. Oggi, Lee Kwan Yew è il presidente di Singapore». Un altro esponente della dinastia, Li Ka-Shing, secondo “Forbes” ha un patrimonio di 4 miliardi di dollari, mentre Li Kwok-Po gestisce la Bea (Banca dell’Est Asiatico) agendo «in collegamento coi Warburg e restando in ottimi rapporti coi Rothschild, i Rockefeller e i Bush». La nuova corsa all’Ovest, assicura Cianti, vede una strana migrazione: i boss dell’impero digitale della Silicon Valley ormai puntano verso la Nuova Zelanda, che sta diventando «il santuario dei super-sapiens ashkenazi». Il passaggio dalla California all’Oceania «sarà seguito dallo spostamento degli iper-nomadi dell’Ordine Mercantile Usuraio in una sede geograficamente più vicina ai loro nuovi affari, cioè il subcontinente indocinese».La Nuova Zelanda? Un’area scarsamente abitata e pressoché intatta, dal punto di vista naturalistico. Il resto del mondo, invece – prevede Cianti, in modo apocalittico – sarà «costretto a condizioni invivibili, catastrofi climatiche, epidemie indotte, crollo dell’ordine pubblico, terrore nucleare e collasso della civiltà». Le isole dell’Oceania «saranno l’ultimo rifugio: il nuovo santuario dell’élite, sicuro e intoccabile». Scrive Cianti: «Centinaia di tecno-plutocrati e finanzieri stanno acquistando terreni in queste isole per costruire lussuose ville-bunker. Il Deep State, cioè il vero potere dell’impero americano, ha già creato il governo del “santuario”: si tratta di una oligarchia socialista, che li accoglierà garantendo loro sicurezza, anonimato e impunità». L’attuale primo ministro neozelandese, la trentanovenne Jacinda Ardern, già leader dell’Unione internazionale della gioventù socialista, «è una creatura di Hillary Clinton, che le ha fatto da mentore nella carriera politica», guidandone l’ascesa.Il recente attentato di Christchurch contro le moschee musulmane, lo scorso marzo – aggiunge Cianti – era una classica “false flag” (con morti reali) escogitata «per testare la rapidità con la quale si riesce a far sparire da Internet ogni testimonianza diretta di una strage», e ha fornito «il pretesto per disarmare immediatamente tutti i civili del paese». E’ già una specie di bunker, la Nuova Zelanda: «Per risiedervi sono necessari beni per milioni di dollari, oppure bisogna essere cooptati in quelle ristrettissime liste di personale di servizio necessario al sistema. Ogni altra forma di immigrazione è proibita e immediatamente repressa», alla faccia della politica di accoglienza (quella che oggi, per dire, viene imposta all’Italia). Allucinazioni fantapolitiche? Non proprio: nel suo ponderoso volume, ad ogni pagina, l’autore acclude note, link, riferimenti, citazioni. “Benvenuti all’inferno” si inserisce nella recente letteratura divulgativa che tenta di dare risposte ai pesanti interrogativi del presente, rileggendo la storia antica e provando a sincronizzarla con l’attualità.E’ l’ennesimo catastrofista, Angelo Cianti? In realtà si mostra ottimista rispetto alle possibilità del libero arbitrio. Non smette di credere nel sapiens, in fondo. E infatti sogna di rinaturalizzare l’Appennino con il suo Evo Village Project, presentato nel 2018 al ministro dell’agricoltura Gian Marco Centinaio. Obiettivo: ricolonizzare i versanti con una rete di ecovillaggi, verso un’economia sostenibile e slegata dalle catene del sistema-debito. La sua tesi sul ruolo dell’ipotetico super-sapiens rischia di apparire fin troppo facilmente demonizzante, col risultato di introdurre discriminazioni “etniche” e scoraggiare i lettori, posti di fronte a un avversario super-umano e quindi invincibile? Intanto, è notevolissimo lo sforzo compiuto dall’autore nel collegare realtà in apparenza lontane fra loro, nel tempo e nella geografia planetaria. Uno stimolo per farsi domande, allargare la mente e verificare connessioni, scovando strane coincidenze nel ricorrere, invariabile, delle medesime “famiglie” che – come si può vedere – in molti casi detengono da secoli (da millenni, secondo Cianti) le redini del globo. Dinastie che mostrano la straordinaria capacità di rendersi invisibili, mimetizzandosi nella società – magari anche a spese dei veri israeliti, di cui si parla spessissimo a sproposito.(Il libro: Giovanni Angelo Cianti, “Pianeta Terra, benveuti all’inferno! Passato, presente e probabile futuro della mandria umana”, Evo Editorial, 401 pagine, euro 27,78 su Amazon).Menti raffinatissime, le chiamava Giovanni Falcone. Nel suo caso, avevano piazzato una bomba davanti alla sua villetta sul mare, tre anni prima del fatale attentato di Capaci. Sono speciali, quelle menti – e altrettanto criminali – anche per Giovanni Angelo Cianti, che non è un giudice antimafia ma a suo modo si occupa lui pure di criminologia, per così dire, se si volesse leggere come un’epocale, sterminata stagione criminogena quella aperta dalla stessa misteriosa comparsa sulla Terra dell’homo sapiens, tuttora non spiegata (men che meno dall’evoluzionismo darwininano). L’ultima fatica letteraria di Cianti – che esordì addirittura come autore del fumetto-cult “Ken Parker”, creato nel ‘74 da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo – si intitola “Benvenuti all’inferno”, in questo richiamando l’ombra del manicheismo, tra risonanze gnostiche e poi catare. Una “creazione dannata”, la nostra, opera di divinità infere esiliate nel mondo della materia? Premessa pragmatica: siamo quasi 8 miliardi e stiamo devastando il pianeta, come cavallette inarrestabili. Un formicaio di insetti onnivori e famelici, e al tempo stesso docili e malleabili, senza più coscienza né memoria della propria origine. Solo colpa nostra? No, risponde Cianti: la grande attenuante è incarnata da chi lo dirige più o meno segretamente, il “formicaio”.
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La storia proibita: Bizzi e l’Aurora Boreale della conoscenza
Sempre meno persone oggi, purtroppo, leggono i libri, soprattutto la saggistica storica. E sono sempre più le persone che, vivendo la propria quotidianità in quest’epoca di profonda crisi economica e sociale, tendono a dimenticare le proprie radici, le proprie origini culturali, perdendo così la propria identità ed i propri valori. Le Edizioni Aurora Boreale sono un marchio editoriale libero e indipendente, creato per dare spazio e voce ad un’editoria fuori dagli schemi e per molti versi scomoda. Sappiamo tutti quanto sia difficile al giorno d’oggi fare cultura e informazione in una società in costante involuzione culturale, ottenebrata da una televisione spazzatura ed alle prese con continue crisi economiche più o meno pilotate dagli speculatori e dai grandi burattinai della finanza internazionale; una società in cui l’informazione mainstream appare sempre più come falsata e addomesticata da chi ci governa e in cui ogni tentativo di andare controcorrente viene inesorabilmente e ipocritamente bollato come “non politicamente corretto”, o unpolitically correct, per dirlo all’inglese.Troppe cose vengono taciute all’opinione pubblica, troppe informazioni distorte vengono inoculate alla massa e troppe realtà vengono ignorate perché la conoscenza di esse non si rivelerebbe un profitto, ma anzi un danno, per il potere costituito. Lo dimostrano i continui tagli alla cultura e all’editoria, nel tentativo chiaro ed evidente di imbavagliare ogni tipo di informazione non allineata con il sistema. Noi ci proponiamo di fare cultura e di fare informazione, anche a costo di essere scomodi, di non omologarci con il gregge e, per quanto privi di risorse economiche e di finanziatori “altolocati”, dedicare tutto il nostro tempo e tutte le nostre energie al servizio di un’informazione libera, nella quale, nonostante tutto, ancora crediamo. Il nostro progetto editoriale può essere riassunto in tre termini molto forti, ma efficaci: Identità, Tradizione, Rivoluzione, termini che riteniamo abbiano ancora un grande carattere di attualità in un’epoca come la nostra, contraddistinta da una forzata e artificiosa globalizzazione, dal mondialismo e dal relativismo culturale.Identità perché siamo e ci consideriamo identitari, credendo nell’essenza dell’uomo integrale e nelle potenzialità che i popoli hanno di riconoscersi come tali, di autodeterminarsi nel rispetto reciproco e di rifiutare ciò che non si confà con il proprio destino, la propria natura e la propria cultura. Crediamo nella Tradizione, perché abbiamo delle radici e veniamo da lontano, perché abbiamo la consapevolezza che millenni di storia, di idee e di civiltà ci rendano forti e capaci di sopportare e superare a testa alta le avversità della vita. E crediamo nella Rivoluzione, soprattutto quella delle coscienze. La Tradizione afferma che l’evoluzione della civiltà non procede per graduale costanza ma con cicli di evoluzione e involuzione che sono spesso motivo di sconcerto e sofferenza per l’umanità, vere e proprie rivoluzioni analoghe a quelle astronomiche.Rivoluzione sta così ad indicare il movimento, l’azione, il dinamismo necessario perché ogni tradizione si trasformi in innovazione e cambiamento. La Tradizione diviene così il vero fondamento di ogni autentica rivoluzione, ed è il seme, la radice, la base di ogni innovazione. La nostra casa editrice ritiene quindi giusto offrire a quei lettori caparbi e mai stanchi di conoscere cosa accade realmente nel mondo dei prodotti di qualità che sappiano andare oltre le notizie addomesticate e confezionate che ci propinano quotidianamente i giornali e i telegiornali. Un’editoria, quindi, senza dubbio e orgogliosamente “politicamente scorretta”, un’editoria per pensare, per reagire e, soprattutto, per acquisire consapevolezza.(“Chi siamo”, introduzione al sito dell’editrice Aurora Boreale, fondata e diretta da Nicola Bizzi. Storico indipendente e originalissimo, Bizzi ha firmato volumi di estremo interesse, come il recentissimo “Atlantide e altre pagine di storia proibita”, e “Ipazia di Alessandria e l’enigma di Santa Caterina”, usciti nel 2018. All’anno precedente risale il saggio-denuncia “La crisi della Repubblica dei partiti. Dal crollo del Muro di Berlino a Tangentopoli”. Sempre nel 2017, Bizzi ha pubblicato il primo volume della spettacolare ricerca “Da Eleusi a Firenze”, nella quale rivela la sopravvivenza “clandestina”, fino ai nostri giorni – e con epicentro nel Rinascimento italiano – dell’antichissima tradizione dei Misteri Eleusini. In quella che Bizzi chiama “eleusinità”, espressione risalente al II millennio avanti Cristo, si riverbera la mitica creazione di un’umanità primigenia, quella degli Egei cretesi, la cui origine è attribuita ai Titani, divinità benevole che si opposero ai successivi dèi dell’Olimpo, fino allo “scontro di civiltà” simboleggiato dalla Guerra di Troia, da cui poi anche la fondazione di Roma per opera del profugo troiano Enea).Sempre meno persone oggi, purtroppo, leggono i libri, soprattutto la saggistica storica. E sono sempre più le persone che, vivendo la propria quotidianità in quest’epoca di profonda crisi economica e sociale, tendono a dimenticare le proprie radici, le proprie origini culturali, perdendo così la propria identità ed i propri valori. Le Edizioni Aurora Boreale sono un marchio editoriale libero e indipendente, creato per dare spazio e voce ad un’editoria fuori dagli schemi e per molti versi scomoda. Sappiamo tutti quanto sia difficile al giorno d’oggi fare cultura e informazione in una società in costante involuzione culturale, ottenebrata da una televisione spazzatura ed alle prese con continue crisi economiche più o meno pilotate dagli speculatori e dai grandi burattinai della finanza internazionale; una società in cui l’informazione mainstream appare sempre più come falsata e addomesticata da chi ci governa e in cui ogni tentativo di andare controcorrente viene inesorabilmente e ipocritamente bollato come “non politicamente corretto”, o unpolitically correct, per dirlo all’inglese.