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Archivio del Tag ‘crisi’

  • Campo di stelle, la ragazza e la cavalla con un occhio solo

    Scritto il 09/4/16 • nella Categoria: Recensioni • (1)

    La cavalla si chiama Isotta Raminga. Ha un occhio solo, ma vede lontanissimo. Il suo sguardo si allunga su quasi duemila chilometri, dalle Alpi a Finisterre, dove ha fatto il bagno nell’Atlantico insieme alla sua inseparabile compagna, Paola Giacomini, esperta di trekking estremi. Ragazza e cavalla, sole. Sella e taccuino, per annotare le tappe di un pellegrinaggio dell’anima, scoprendo giorno per giorno la poesia dell’andare, lo sgomento dei cieli infiniti, la durezza della fatica, la magia degli incontri lungo il sentiero. Tutto intorno, la geografia più remota del sud-ovest europeo. Era il 2006, un milione di anni fa. In Sicilia l’antimafia arrestava Provenzano, mentre in Cile moriva Pinochet, uno degli ultimi ruderi del ‘900. Il nuovo millennio già si dava da fare: Jack Dorsay lanciava Twitter, Julian Assange fondava Wikileaks. E ancora all’appello mancavano Lehman Brothers e Fukushima, Mario Draghi e la Troika, la macelleria della Grecia, Monti e Fornero, la fine di Gheddafi, la carneficina della Siria, il losco carnevale di sangue firmato Isis. Se il mondo è impazzito, chi può leggerlo meglio di un cavallo con un occhio solo?
    «Insensato cercare di assomigliargli, altrettanto insensato chiedergli di assomigliare a noi», scrive Paola di Isotta Raminga. Un cavallo puoi sempre domarlo, ma «è meno scontato conquistarne l’anima: per raggiungerla, occorre concedergli lo spazio per esprimerla, donargli la propria». L’anima, la grande assente del nostro desolato mainstream, desertificato dall’economia di regime, geopolitica e bellica. Il sistema, dice l’ex avvocato Paolo Franceschetti, autore del saggio “Le religioni”, ha letteralmente cancellato la spiritualità dal nostro paesaggio quotidiano, perché ne ha paura: guai, se sospettiamo che la realtà non si esaurisca nella narrazione che ci viene imposta. La pensa così anche Fausto Carotenuto, già analista strategico dell’intelligence, oggi impegnato nel network “Coscienze in rete”: sopra ogni altra cosa, sostiene Carotenuto, il “main-power” teme che ognuno di noi riconquisti l’accesso alla sua dimensione spirituale, la porta della coscienza. A Paola e Isotta è accaduto tanti anni fa: duemila chilometri di meditazione quotidiana, nel silenzio dei grandi spazi. Qualcosa che ti costringe a fare i conti con la vita, senza finzioni.
    “Campo di Stelle”, singolare diario di viaggio – geografico e interiore – è un esempio di rarissimo nitore espressivo, straordinariamente intenso e coinvolgente: ti porta esattamente là, sul sentiero di Isotta, fra le trepidazioni dei passi alpini e pirenaici, le premure quotidiane per il cibo, la scelta di dove accamparsi per la notte, le incognite del viaggio, le sorprese di un’umanità inattesa. Partire soli, con un cavallo, silenzioso compagno di viaggio. L’animale «catalizza le emozioni, riconosce prima del cavaliere la sua serenità o le sue paure e inquietudini. Se si impara a conoscerlo, si può scoprire un’anima molto più potente del corpo che la contiene». Perché, prima ancora del peso del cavaliere, «sostiene il suo spirito, chiedendogli di vivere in pace e di pensare a una cosa per volta». E se il cavaliere decide inspiegabilmente di lasciare, all’improvviso, il più meraviglioso di tutti i luoghi raggiunti, solo perché è ora di riprendere il viaggio, il cavallo «si stupisce di queste faccende degli uomini che, a volte, non riescono ad accontentarsi di un bel prato e di una fresca fonte».
    Isotta Raminga è un esemplare arabo-avelignese, sauro, dalla criniera bionda. E’ speciale, «perché sa uscire incolume dalle situazioni più difficili», le fiuta in anticipo, «diventa seria e concentrata». Cessato il pericolo, «torna disincantata e noncurante, come se nulla fosse successo». A volte è distratta: «Quando si annoia dimentica l’attenzione e si fa male». L’occhio lo perse a causa di un calcio, rimediato da un altro cavallo. «La cicatrice dell’occhio che ho dovuto far asportare era appena guarita quando siamo partite», racconta Paola. «Il giorno della partenza, Isotta assomigliava ad un mostro. In Francia il primo impatto con le persone era di ribrezzo; mi chiedevano se avesse fatto la guerra. In un certo senso siamo tutti in guerra. C’è chi le ferite le mostra all’esterno e chi le riporta all’interno». “Campo di stelle” insegna che non esiste cicatrice che non possa rimarginare. Ma bisogna trovare il coraggio di lasciarsi alle spalle ogni certezza.
    «L’ultimo addio a qualcuno a cui volevo bene è stato a Briançon», scrive Paola, valicato il Monginevro. «Sto cominciando un’avventura desiderata, eppure un nodo mi stringe la gola». Poi, prevale l’incanto degli elementi: «La notte scorsa, poco sopra il Col des Ayes, il cielo ha buttato giù la prima neve». Giorni e notti, a passo lentissimo: la valle della Durance fino a Sisteron, la Provenza, appunti e incontri. Davide, un maniscalco: «Mi ha chiamata mentre passavo sulla strada, come se mi stesse aspettando». E Yves, «un uomo dai modi aristocratici e dall’aspetto selvatico», che vive «nell’umido fondovalle di queste colline profumate di lavanda», scappato da Parigi nel ‘58, quando aveva diciassette anni. «Tante persone stanno realizzando un’idea al limite dell’utopia, con un’armonia che, senza vedere, è difficile immaginare». A Forcalquier, una tribù ospitale: «Il pane viene cotto nel forno a legna una volta la settimana, la cucina è in comune e l’enorme refettorio anche. Mangio con loro, sparecchio e guardo le stelle». Curiosità: «Il ragazzo che si occupa dei cavalli mi chiede cosa mi spinge a partire il mattino seguente. Si chiede se, secondo me, esiste un posto migliore di quello per fermarsi».
    Acqua e cibo, cartine, la pista più adatta. I deserti pietrosi della Drome, la discesa in Camargue: «Tori, cavalli e fenicotteri oltre recinti di filo spinato». Quindi il Rodano e nuovi silenzi, quelli delle Cevennes. Notti di tregenda: tuoni e lampi, grandine. «Stavolta Isotta è sconsolata e io sono nera come il cielo». L’indomani ricomincia a piovere. «Urlo una bestemmia. Forte. Mi vergogno subito. Dalla casa di fronte si apre una finestra e una signora nigeriana con un sorriso gigante mi chiede, in italiano, se sono italiana». La donna scende in strada in vestaglia, con un ombrellino rosa: «In un attimo sono con lei e la sua pecora in un grande prato recintato con una tettoia, dove metto ad asciugare tutto». Ragazza e cavalla visitano «terre rosse e pietre nere», sostano accanto a una casa dalle cui finestre arriva la musica di un violoncello: «Una pace enorme inonda la terra, quando cala la notte e mi infilo nel sacco a pelo. Grilli e cicale rimbalzano la loro musica. Spengo la luce in ascolto e mi addormento». Altri chilometri, altre lingue: «È la prima notte in Spagna. L’aria è tersa e l’assenza di paesi e di luna fa splendere le stelle all’infinito. Non ho montato il telo».
    A Roncisvalle, compare una coppia straordinaria. Lei di Strasburgo, lui italiano. Si sono conosciuti in Madagascar. «L’amore è una faccenda tremenda che fa volare e precipitare con la stessa velocità e la stessa dolcezza, senza controllo né previsioni. Ciò che immagini possa funzionare scricchiola, ciò da cui ti aspetti un disastro è una meraviglia». Un saluto e la marcia riprende. Altra beata solitudine: «Immersa nella pozza di acqua limpida, i nodi della stanchezza si sciolgono». In mezzo alle montagne iberiche, a Beldorado, Paola rimedia una camicia bianca che le viene offerta: «Non ho detto di no. Dopo mesi di bivacchi e vita all’aria aperta, sempre vicino a un cavallo, il più possibile lontano dalla civilizzazione, si può diventare dei veri selvaggi». Infine, l’Atlantico: «L’ultimo tramonto d’Europa a questa data e a questa latitudine è verso le dieci e mezza di sera, molto tardi. Il progetto è di raggiungere il Capo di Finisterre per vedere il sole tuffarsi nell’oceano proprio in quel momento lì».
    Mesi di viaggio, dalla valle di Susa a Santiago de Compostela: «Quest’avventura l’abbiamo vissuta in due: una persona e una cavalla. Quando siamo partite, io sapevo che avremmo viaggiato a lungo. Lei si è accorta solamente che una mattina siamo andate da un’altra parte, e ci siamo fermate a dormire lontano. Il giorno dopo non siamo tornate indietro, abbiamo continuato a camminare verso ovest». Ogni giorno il ritmo era lo stesso, ma i posti sempre nuovi. «Ogni giorno si incontravano altri cavalli e altre persone. Ogni giorno c’erano fieno, orzo e acqua con sapori diversi». Partire, morire, rinascere. Il senso iniziatico do ogni vero viaggio: «Tutto quello che c’è tra oriente e occidente è solo cammino. Partendo è tutto da inventare e tornando diventa quello che riesci a scoprire». Pensieri e sensazioni, in perfetta simbiosi con la cavalla: «Isotta ha saputo tradurmeli mentre comprendeva i miei errori, insegnandomi un linguaggio». Poi dicono che gli animali non abbiano il dono della parola. «Da sola non sarei stata capace di vedere certe cose». L’occhio di Isotta, il cuore della terra: «È stato un pellegrinaggio, non è ancora finito».
    (Il libro: Paola Giacomini, “Campo di stelle. A Santiago a cavallo”, pagine …. disponibile su Amazon a 15 euro).

    La cavalla si chiama Isotta Raminga. Ha un occhio solo, ma vede lontanissimo. Il suo sguardo si allunga su quasi duemila chilometri, dalle Alpi a Finisterre, dove ha fatto il bagno nell’Atlantico insieme alla sua inseparabile compagna, Paola Giacomini, esperta di trekking estremi. Ragazza e cavalla, sole. Sella e taccuino, per annotare le tappe di un pellegrinaggio dell’anima, scoprendo giorno per giorno la poesia dell’andare, lo sgomento dei cieli infiniti, la durezza della fatica, la magia degli incontri lungo il sentiero. Tutto intorno, la geografia più remota del sud-ovest europeo. Era il 2006, un milione di anni fa. In Sicilia l’antimafia arrestava Provenzano, mentre in Cile moriva Pinochet, uno degli ultimi ruderi del ‘900. Il nuovo millennio già si dava da fare: Jack Dorsay lanciava Twitter, Julian Assange fondava Wikileaks. E ancora all’appello mancavano Lehman Brothers e Fukushima, Mario Draghi e la Troika, la macelleria della Grecia, Monti e Fornero, la fine di Gheddafi, la carneficina della Siria, il losco carnevale di sangue firmato Isis. Se il mondo è impazzito, chi può leggerlo meglio di un cavallo con un occhio solo?

  • E noi dovremmo combattere per quest’Europa da incubo?

    Scritto il 08/4/16 • nella Categoria: idee • (1)

    Se il terrorismo islamico colpisce l’Europa al cuore, occorre rispondere rilanciando il sogno europeo, esprimendo maggiore unità e determinazione nella difesa dei valori che esprime: è questo, in sintesi, e al netto delle solite sparate xenofobe, il motivo dominante nel discorso pubblico degli ultimi giorni. C’è la consapevolezza che ci vorrà molto tempo, ma anche la convinzione che la barbarie sarà sconfitta, come è successo con il nazifascismo. Manca però il senso della realtà: il sogno europeo si è da tempo trasformato in un incubo, incapace di suscitare passioni neppure lontanamente accostabili a quelle che furono alla base della lotta di Liberazione. Proprio in quegli anni venne scritto il celeberrimo Manifesto di Ventotene, nato dalla convinzione che la democrazia comporta l’affermazione dell’«uguaglianza di fatto», e quindi del principio per cui «le forze economiche non debbono dominare gli uomini». A questo, secondo Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, si sarebbe dovuta ispirare la costruzione europea, anche e soprattutto per costituire un argine contro le dittature fasciste, che avevano invece affossato la democrazia per salvare il capitalismo.
    Se si fosse realizzata, l’Europa sognata a Ventotene avrebbe certamente emozionato per le tensioni ideali che l’avevano generata, e appassionato per il progetto politico cha avrebbe a sua volta alimentato. Sarebbe stata un’Europa capace di costruire relazioni internazionali fondate sulla pace e il dialogo, di gettare ponti tra culture, di offrire esempi circa lo stare insieme come società. Un’Europa nella quale credere, per la quale combattere con la forza e la determinazione di chi è mosso da valori alti. Purtroppo l’Europa di Bruxelles non ha nulla a che spartire con l’Europa di Ventotene. È un Superstato di polizia economica, che con ottusità e fanatismo impone l’osservanza delle leggi del mercato, pianificando nel loro nome il dominio sulle persone. Non solo: è un Leviatano che sull’altare del principio di concorrenza sacrifica la democrazia, denigrata come feticcio di chi ancora coltiva l’illusione di poter resistere agli imperativi categorici formulati dal mercato. Altrimenti detto, l’Europa di Bruxelles è la prosecuzione dell’incubo che il sogno di Ventotene voleva definitivamente archiviare.
    Non solo è l’Europa del pareggio di bilancio, dell’austerità, del lavoro precarizzato e svalutato, delle privatizzazioni e liberalizzazioni, della distruzione del welfare, dei debiti pubblici e privati. Ma è anche l’Europa che per realizzare tutto questo deve necessariamente comprimere la democrazia. Le misure appena richiamate producono livelli impressionanti di disoccupazione, sacche di povertà sempre più vaste a fronte di una crescente concentrazione della ricchezza, disagio sociale e scempio ambientale: per imporle occorre disattivare o almeno forzare il circuito democratico. Insomma, il sistema di dominio economico sulle persone presidiato dalla costruzione europea non potrebbe mai essere avallato da un sistema fondato sulla sovranità popolare. Per questo i Trattati europei si sono premurati di spoliticizzare il mercato, di renderlo un luogo messo al riparo dal conflitto democratico, affidato a una tecnocrazia selezionata in quanto depositaria di un sapere scientifico indiscutibile, in virtù del quale provvedere all’efficiente amministrazione dell’esistente. Con ciò mostrando di ritenere, come in epoca fascista, che la democrazia è solamente aritmetica elettoralistica, fiducia mal riposta nella mera consistenza numerica di mutevoli maggioranze che «per loro natura non possono partecipare all’esercizio del potere e all’emanazione di leggi».
    Si usa dire che le crisi possono avviare circoli virtuosi e dunque rappresentare occasioni di riscatto o rinascita tanto insperate quanto robuste. Nel caso dell’Europa di Bruxelles sono invece il momento in cui il Re si appalesa in tutta la sua imbarazzante nudità, l’opportunità per mostrare al mondo l’esaurimento della propria ragion d’essere. La crisi economica e finanziaria ha mostrato tutti i limiti del dogmatismo tecnocratico, incapace di modificare politiche fiscali pensate per un ciclo economico espansivo: di impedire che divenissero il catalizzatore di un declino di cui non si vede la fine. Con il risultato che la Banca centrale europea sta oramai da tempo tentando di supplire attraverso politiche monetarie che per ora si mostrano semplicemente inefficaci, mentre in futuro potrebbero rivelarsi all’origine di nuove bolle finanziarie e dunque di nuovi disastri.  La crisi dei profughi ha sbattuto in faccia a masse di disperati tutta la pochezza e l’isteria di un ceto politico rappresentativo di mezzo miliardo di persone e un terzo circa del prodotto interno lordo mondiale, disposto però ad accogliere solo qualche decina di migliaia di migranti. E per il resto pronto a tutto pur di non vedere la tragedia umanitaria che questo sta provocando e provocherà: occhio non vede e cuore non duole.
    I profughi che giungeranno dalla Turchia verranno infatti restituiti alle autorità di Ankara, a parole nel rispetto del diritto internazionale, ma nei fatti in violazione dei più elementari diritti di chi fugge dalle guerre. In cambio la Turchia potrà perseverare nella sua politica di annientamento del popolo curdo, oltre che di scempio dei diritti del suo popolo, ottenere ingenti aiuti finanziari di cui non si potrà verificare la destinazione, e tornare a sperare in un ingresso nell’Unione europea. E che dire delle reazioni al terrorismo islamico. Nella migliore delle ipotesi hanno condotto a misure eccezionali rivelatesi efficaci solo nell’intaccare il sistema delle libertà fondamentali: con danni all’ordine democratico ora violato, oltre che dalle politiche austeritarie, anche da quelle securitarie. Ma sono altri e forse più gravi i danni provocati dal terrorismo: se lo stato di eccezione ha una scadenza temporale, lo stesso non può dirsi per il dilagare di discorsi identitari incentrati su valori premoderni.
    Assistiamo alla riaffermazione di una sorta di orgoglio cattolico, essenza delle mitiche radici cristiane europee, da agitare contro l’islamizzazione del Vecchio continente. Il tutto articolato secondo il consueto rosario fatto di dio, patria e famiglia, invocati con fervore crociato da un crescente stuolo di invasati che propongono cure sempre meno distinguibili dal male contro cui sono dirette. E ovviamente si tratta degli stessi invasati che, al netto delle generiche invettive contro i complotti orditi dalle banche, sono tra i più rigidi sacerdoti del neoliberalismo: l’altra religione che sta soffocando la politica e l’economia e europee. Insomma, è davvero difficile difendere questa Europa, che più è sotto attacco e più si mostra indifendibile. Forse è questa la vera arma dei terroristi, decisamente più micidiale dei loro ordigni, perché niente e nessuno appare al momento capace di disinnescarla.
    (Alessandro Somma, “Combattere per questa Europa?”, da “Micromega” del 26 marzo 2016).

    Se il terrorismo islamico colpisce l’Europa al cuore, occorre rispondere rilanciando il sogno europeo, esprimendo maggiore unità e determinazione nella difesa dei valori che esprime: è questo, in sintesi, e al netto delle solite sparate xenofobe, il motivo dominante nel discorso pubblico degli ultimi giorni. C’è la consapevolezza che ci vorrà molto tempo, ma anche la convinzione che la barbarie sarà sconfitta, come è successo con il nazifascismo. Manca però il senso della realtà: il sogno europeo si è da tempo trasformato in un incubo, incapace di suscitare passioni neppure lontanamente accostabili a quelle che furono alla base della lotta di Liberazione. Proprio in quegli anni venne scritto il celeberrimo Manifesto di Ventotene, nato dalla convinzione che la democrazia comporta l’affermazione dell’«uguaglianza di fatto», e quindi del principio per cui «le forze economiche non debbono dominare gli uomini». A questo, secondo Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, si sarebbe dovuta ispirare la costruzione europea, anche e soprattutto per costituire un argine contro le dittature fasciste, che avevano invece affossato la democrazia per salvare il capitalismo.

  • Il terrore, per farci ingoiare l’Ue che fabbrica crisi e guerre

    Scritto il 05/4/16 • nella Categoria: idee • (2)

    Samuel Johnson alla fine del 1700 affermò: il patriottismo è l’ultimo rifugio dei mascalzoni. Oggi penso che il peggiore e più pericoloso dei nazionalismi sia il patriottismo europeista. Ne stanno spargendo a piene mani tutti i governi e le élites del potere europeo dopo la strage di Bruxelles. Dopo anni nei quali l’Europa era apparsa solo come il vincolo feroce che faceva sprofondare nella fame la Grecia, dopo le miserie e le infamie sui migranti, dopo i colpi a tutti i diritti sociali e alle costituzioni democratiche sferrati nel nome dell’Euro, quasi non pare vero che si possa di nuovo proclamare la santità dell’Europa. Le stragi terroriste sono contro l’Unione Europea, proclamano i governanti. La nostra civiltà è minacciata aggiungono tutti i componenti del coro. Guai a votare contro l’Europa minaccia un ministro britannico. La malafede di tutte queste affermazioni è però mostrata da tutte le proposte che seguono subito dietro ai proclami. Ci vuole una polizia europea, ci vogliono carceri europee, ci vuole un esercito europeo, ci vuole una guerra europea.
    L’escalation delle proposte europeiste va in una sola direzione, quella del ferro e del fuoco. Non c’è un solo accento autocritico verso tutte le guerre terroristiche che l’Europa ha scatenato nel mondo. Non c’è una sola richiesta di maggiore democrazia e giustizia sociale. Anzi l’europeismo guerrafondaio spiega ai popoli del continente che per avere sicurezza a qualche diritto bisognerà pure rinunciare, qualche altro intervento militare lo si dovrà pure fare. L’europeismo vuole bruciare le tappe per diventare come gli  Stati Uniti, ma di quel paese pare invidiare soprattutto Guantanamo e i droni. E naturalmente le multinazionali. Se si dovessero spiegare gli eventi solo con la categoria del “a chi giova” le stragi terroriste di questi due anni avrebbero un solo beneficiario: l’europeismo guerrafondaio. Ma anche se non si volesse leggere lo stragismo europeo con le stesse lenti con cui alla fine abbiamo visto quello italiano. Se anche si considerassero irripetibili su scala europea quei legami tra terroristi fascisti, servizi segreti, poteri occulti che hanno tracciato la via delle stragi italiane, da piazza Fontana alla stazione di Bologna. Se anche davvero non ci fossero mai stati rapporti tra il terrorismo jihadista, L’Isis e le potenze occidentali ed europee, in ogni caso la reazione europeista alle stragi è un aggravamento del male.
    Le nazioni si forgiano nel sangue, dicevano i nazionalisti dell’800. È certo che questo superstato europeo privo di qualsiasi vera democrazia finora non ha certo scaldato i cuori dei suoi sudditi. Ora le stragi potrebbero cambiare il quadro e finalmente si potrà chiedere di amare la Troika. Non so se ci sia un disegno occulto e se tutte le affermazioni siano in malafede, ma so che il terrorismo jihadista sta stabilizzando la peggiore Europa, quella che sta distruggendo la sua democrazia e il suo stato sociale. Il nazionalismo del passato ha trascinato l’Europa nella catastrofe, ora l’europeismo ripropone la stessa avventura. Non si esce dalla spirale guerra terrorismo senza una rottura, e questa rottura va fatta proprio contro il sistema di potere europeo, che è al centro di quella spirale.
    (Giorgio Cremaschi, “Il più pericoloso dei nazionalismi è l’europeismo”, da “Micromega” del 26 marzo 2016).

    Samuel Johnson alla fine del 1700 affermò: il patriottismo è l’ultimo rifugio dei mascalzoni. Oggi penso che il peggiore e più pericoloso dei nazionalismi sia il patriottismo europeista. Ne stanno spargendo a piene mani tutti i governi e le élites del potere europeo dopo la strage di Bruxelles. Dopo anni nei quali l’Europa era apparsa solo come il vincolo feroce che faceva sprofondare nella fame la Grecia, dopo le miserie e le infamie sui migranti, dopo i colpi a tutti i diritti sociali e alle costituzioni democratiche sferrati nel nome dell’Euro, quasi non pare vero che si possa di nuovo proclamare la santità dell’Europa. Le stragi terroriste sono contro l’Unione Europea, proclamano i governanti. La nostra civiltà è minacciata aggiungono tutti i componenti del coro. Guai a votare contro l’Europa minaccia un ministro britannico. La malafede di tutte queste affermazioni è però mostrata da tutte le proposte che seguono subito dietro ai proclami. Ci vuole una polizia europea, ci vogliono carceri europee, ci vuole un esercito europeo, ci vuole una guerra europea.

  • Rodotà: contro il regime, ci resta l’arma dei referendum

    Scritto il 04/4/16 • nella Categoria: idee • (5)

    Il fastidio di Matteo Renzi questa volta non è per qualche singolo oppositore ma è direttamente per uno strumento costituzionale. Renzi ce l’ha con i referendum, e dice che sono inutili, perché sa che oltre agli effetti concreti sulle norme, quando sono promossi dal basso verso l’alto, dai cittadini o dalle regioni, e non sono plebiscitari come quello che avremo sulla riforma costituzionale, i referendum producono ricomposizione sociale. Ed è invece sulla disgregazione della società che il presidente del Consiglio ha impostato la sua strategia di governo, come dimostra la politica dei bonus, che dà qualcosa a ognuno – il bonus ai giovani, il bonus ai poliziotti, il bonus ai professori – e non a tutti. E con l’attacco frontale ai referendum, cercando ogni modo per non attuarli, come nel caso dell’acqua pubblica, o dicendo che non bisogna andare a votare, come sulle trivellazioni, Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Che è una strada che percorriamo da anni. Si diceva che i cittadini sono ormai carne da sondaggio, ma è un’espressione vecchia. Ora sono carne da tweet o da slide.
    I referendum possono essere inutili, si aggirano, si ignorano? Ma non è certo colpa dei cittadini. È il governo, e il Parlamento, che dovrebbero lavorare per dare attuazione a quanto indicato dalle consultazioni. Ma non succede, con effetti pericolosi: e non solo per lo strumento referendario. Perché il ridursi degli spazi di partecipazione istituzionale produce reazioni extra istituzionali: quando si demonizza il referendum, che sia proposto da una raccolta firme o dalle regioni non cambia, si sta dicendo ai cittadini che è inutile rivolgersi alle istituzioni e alla politica. Quello sull’acqua pubblica è un referendum che ha bloccato un processo di privatizzazione ma che si sta cercando di tradire. Senza peraltro preoccuparsi di farlo in maniera smaccata. Scandaloso, ad esempio, è l’articolo 25 del decreto Madia sui servizi pubblici che prevede “l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, usando esattamente le parole cancellate dal voto sul secondo quesito referendario. È palese l’illegalità costituzionale. Nel 2012 la Corte Costituzionale aveva già dichiarato illegittime le norme che riproducono norme abrogate con il referendum.
    Oggi si dice con superficialità: il voto non ha escluso la via di una gestione privata. Ma quello che il voto ha stabilito è però che quella privata non può essere la via preferenziale, come stabiliva il decreto Ronchi, con Berlusconi, e come vuole stabilire nuovamente il governo Renzi, sempre con il decreto Madia e con l’emendamento che ha riscritto la legge in discussione in Parlamento, che originariamente riprendeva quella di iniziativa popolare. L’indicazione che si fa finta di non vedere è che la gestione dell’acqua deve essere in via prioritaria pubblica, pur nelle forme variamente partecipate, e slegata da logiche di mercato. L’argomento del governo è che il pubblico produce inefficienza e non ha le risorse per i necessari investimenti sulla rete? Ancora una volta è la dimostrazione che si vuole ignorare l’esito referendario: l’argomentazione usata è la stessa di cinque anni fa, come se non ci fosse stato il dibattito.
    E, esattamente come quando si discusse all’epoca, si dice che la gestione pubblica è giocoforza pessima, rimuovendo che i luoghi dove la gestione dell’acqua è migliore sono invece Milano e Napoli, dove è completamente pubblica. Il dialogo è ritenuto pericoloso. Ma il discorso sui beni comuni si sta svolgendo in tutto il mondo ed è un percorso opposto a quello che si vorrebbe imporre in Italia, dove le multiutility vogliono impedire che si avvii. Se si leggessero i libri, se ne troverebbero di scritti con particolare attenzione alle modalità di gestione, senza inconsapevolezza né ideologia. Anche l’uso plebiscitario del prossimo referendum costituzionale sembra indicare una crisi dello strumento. Indica invece l’uso congiunturale che si è ormai soliti fare delle istituzioni. Il referendum viene usato quando fa comodo, quando può essere utilizzato per misurare il consenso del leader, mentre nelle altre occasioni se ne parla male. Invece il referendum – così come lo ha voluto il costituente, che ha escluso i plebisciti perché consapevole dei rischi – è proprio quello dal basso, promosso dai cittadini o da almeno cinque regioni. Ed è quello che rivitalizza la democrazia e la politica.
    Intorno ai referendum si determina una ricomposizione sociale, di cui c’è molto bisogno, visto che ultimamente è stata favorita invece la frammentazione sociale, considerando superflui, ad esempio, i corpi intermedi. La scelta di invitare a disertare le urne referendarie fa il paio con le riforme costituzionali ed elettorali volute da Matteo Renzi? Mi pare evidente. Anche se a voler legger bene la riforma Boschi c’è persino una contraddizione rispetto a quello che è l’atteggiamento di Renzi, che invita all’astensione scommettendo sul mancato raggiungimento del quorum, con una furbizia che prima di lui hanno usato in tanti, dalla Chiesa a Craxi. La riforma invece modifica i requisiti per la validità dei referendum proprio per scoraggiare il gioco dell’astensione. C’è più modernità nei referendum, in questo sulle trivelle e in quelli che avremo nel prossimo anno, per cui si stanno raccogliendo le firme, dal Jobs Act alla scuola, che in tutta la riforma Boschi. Che è anzi una riforma conservatrice, che accentra il potere. Innumerevoli politologi hanno studiato il progressivo accrescimento del potere esecutivo e si sono chiesti come ricostruire gli equilibri costituzionali, come organizzare la politica e le istituzioni nell’era della sfiducia. Una delle principali risposte è quella dei referendum, che riportano il potere nelle mani del cittadino, fosse anche come legislatore negativo.
    (Stefano Rodotà, dichiarazioni rilasciate a Luca Sappino per l’intervista “Referendum, che fastidio i cittadini”, pubblicata da “L’Espresso” e ripresa da “Micromega” il 30 marzo 2016).

    Il fastidio di Matteo Renzi questa volta non è per qualche singolo oppositore ma è direttamente per uno strumento costituzionale. Renzi ce l’ha con i referendum, e dice che sono inutili, perché sa che oltre agli effetti concreti sulle norme, quando sono promossi dal basso verso l’alto, dai cittadini o dalle regioni, e non sono plebiscitari come quello che avremo sulla riforma costituzionale, i referendum producono ricomposizione sociale. Ed è invece sulla disgregazione della società che il presidente del Consiglio ha impostato la sua strategia di governo, come dimostra la politica dei bonus, che dà qualcosa a ognuno – il bonus ai giovani, il bonus ai poliziotti, il bonus ai professori – e non a tutti. E con l’attacco frontale ai referendum, cercando ogni modo per non attuarli, come nel caso dell’acqua pubblica, o dicendo che non bisogna andare a votare, come sulle trivellazioni, Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Che è una strada che percorriamo da anni. Si diceva che i cittadini sono ormai carne da sondaggio, ma è un’espressione vecchia. Ora sono carne da tweet o da slide.

  • Migranti, patto col diavolo: l’Ue vende l’anima alla Turchia

    Scritto il 01/4/16 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    L’accordo con la Turchia è la cosa più sordida a cui io abbia mai assistito nella moderna politica europea. Il giorno in cui i leader dell’Unione Europea hanno firmato l’accordo, Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco, ha scoperto il proprio gioco: «La democrazia, la libertà e lo Stato di diritto… Per noi, queste parole non hanno assolutamente più alcun valore». A quel punto, il Consiglio Europeo avrebbe dovuto chiudere la conversazione con Ahmet Davutoglu, il primo ministro turco, e mandarlo a casa. E invece hanno fatto un accordo con lui – denaro e molto altro ancora, in cambio dell’aiuto nella crisi dei rifugiati. La Turchia si occuperà di ritrasferire circa 72.000 rifugiati arrivati nella Ue – uno swap uno-ad-uno per ogni clandestino che i turchi fanno salire sui barconi nel Mar Egeo. In cambio, l’Ue pagherà alla Turchia 6 miliardi di euro e aprirà un nuovo capitolo nei negoziati di adesione all’Ue – questo, con un paese la cui leadership ha appena abrogato la democrazia.
    L’Ue inoltre è pronta a consentire l’esenzione dal visto per 75 milioni di residenti in Turchia. L’Unione Europea non solo ha venduto la sua anima, quel giorno, ma in realtà ha anche concluso un affare piuttosto scadente. Io non sono in grado di giudicare se questo accordo è conforme alla Convenzione di Ginevra e al diritto internazionale. Presumo che il Consiglio Europeo abbia fatto in modo di poter sostenere un’azione in tribunale. Ma anche se può essere considerato legale, ho dei dubbi che possa essere attuato. Sarà interessante vedere se l’Ue si rimangerà le promesse fatte alla Turchia nel caso che Ankara non riuscisse a mantenere l’impegno. Anche se l’operazione fosse pienamente attuata, non alleggerirebbe la pressione di molto. Il numero atteso di rifugiati che si fanno strada verso l’Ue sarà molto superiore ai 72.000 concordati con la Turchia. Un think-tank tedesco ha fatto i conti sui flussi di profughi per quest’anno e ha messo a punto una stima che va da di 1,8 milioni a 6,4 milioni di persone. Quest’ultima cifra corrisponde allo scenario peggiore, che potrebbe includere un gran numero di immigrati dal Nord Africa.
    La chiusura della rotta dei Balcani occidentali per i rifugiati – dalla Grecia attraverso la Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia e poi in Austria e Germania – ha procurato un sollievo a breve termine per gli europei del nord, ma ci sono numerosi percorsi alternativi che i rifugiati possono prendere. Possono passare attraverso il Caucaso e l’Ucraina, o attraverso il Mediterraneo verso l’Italia e la Spagna. Se i paesi chiudono i loro confini, non riducono il flusso di profughi, ma semplicemente lo deviano. Si tratta di un classico esempio di una politica “beggar-thy-neighbor”. Questo dimostra che una politica dei rifugiati a livello Ue è inevitabile. Uno dei casi più eclatanti di azione unilaterale è la chiusura delle frontiere in Austria. Ora il paese sta ripristinando i controlli alla principale frontiera verso l’Italia – l’autostrada del Brennero. Questa è una delle rotte più trafficate tra Europa meridionale e settentrionale. Una volta che i rifugiati arrivano in Italia, ci si aspetta molto movimento ai confini settentrionali. A quel punto è probabile che Francia, Svizzera e Slovenia decidano di ripristinare i controlli.
    L’Italia potrebbe essere tagliata fuori dall’area Schengen per i movimenti senza passaporto, di cui ora fa parte, e Schengen diventerebbe un piccolo club di paesi del Nord Europa – forse un modello per il futuro dell’Eurozona. Questo sarebbe il primo passo verso la frammentazione della Ue. L’accordo con la Turchia avrà anche un impatto sul dibattito referendario nel Regno Unito. Il campo a favore di un’uscita dall’Unione Europea non avrebbe forse qualcosa da dire sull’esenzione dal visto per 75 milioni di turchi? Chiunque abbia a cuore la democrazia e i diritti umani odierà questo accordo. Come anche chiunque tema il dominio tedesco dell’Ue, avviato da Angela Merkel. Il cancelliere tedesco non ne aveva certo bisogno, per uscire dalla trappola in cui si era cacciata. E’ stata la sua decisione unilaterale di aprire le frontiere della Germania che ha trasformato una crisi dei rifugiati gestibile in un un disastro ingestibile. Non è facile trattare in modo puramente razionale l’ipotesi di un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Ma ormai l’Ue ha perduto la sua superiorità morale, non dovremmo essere sorpresi se la gente comincia a mettere in discussione ciò che essa rappresenta, e che sia un’istituzione necessaria.
    (Wolfgang Münchau, “Firmando l’accordo con la Turchia, l’Ue si è venduta l’anima”, dal “Financial Times” del 20 marzo 2016, ripreso da “Voci dall’Estero”).

    L’accordo con la Turchia è la cosa più sordida a cui io abbia mai assistito nella moderna politica europea. Il giorno in cui i leader dell’Unione Europea hanno firmato l’accordo, Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco, ha scoperto il proprio gioco: «La democrazia, la libertà e lo Stato di diritto… Per noi, queste parole non hanno assolutamente più alcun valore». A quel punto, il Consiglio Europeo avrebbe dovuto chiudere la conversazione con Ahmet Davutoglu, il primo ministro turco, e mandarlo a casa. E invece hanno fatto un accordo con lui – denaro e molto altro ancora, in cambio dell’aiuto nella crisi dei rifugiati. La Turchia si occuperà di ritrasferire circa 72.000 rifugiati arrivati nella Ue – uno swap uno-ad-uno per ogni clandestino che i turchi fanno salire sui barconi nel Mar Egeo. In cambio, l’Ue pagherà alla Turchia 6 miliardi di euro e aprirà un nuovo capitolo nei negoziati di adesione all’Ue – questo, con un paese la cui leadership ha appena abrogato la democrazia.

  • Cremaschi: terrorismo, per puntellare quest’infame Europa

    Scritto il 28/3/16 • nella Categoria: idee • (2)

    È insopportabile la retorica europeista che accompagna le stragi che colpiscono le città europee, ultima Bruxelles. Il dolore per le persone uccise del terrorismo jihadista, la paura di esserne prima o poi vittime, vengono oramai stravolti e sottomessi al dominio ideologico della casa comune europea assediata. Cento e più anni fa il nazionalismo era amministrato paese per paese, oggi viene diffuso in una dimensione continentale, ma con gli stessi scopi e non facendo meno danni. Ricordate l’immagine della manifestazione dei governanti a Parigi, poco più di un anno fa dopo il massacro di Charlie Hebdo? Un clamoroso falso mediatico (dietro i capi di governo non c’era nessuno) che voleva mostrare che i governi europei uniti guidavano il corteo dei loro popoli. Ma di quale Europa stiamo parlando? Di quella che ha fatto mercato dei migranti con la Turchia, organizzando la più grande deportazione di massa dalla fine della seconda guerra mondiale? Quale Europa, quella che con le politiche di austerità sta da anni colpendo le conquiste sociali dei suoi popoli?
    Quale Europa, quella che nelle periferie delle sue città più ricche accumula il rancore dei suoi cittadini figli di migranti, fascinati dal fanatismo assassino dei kamikaze? Quale Europa, quella che da 25 anni viene trascinata in guerre sempre più vaste che hanno fatto milioni di morti, guerre promosse dai governi di Francia, Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti, che non sono europei ma comandano? Abbiamo appreso che l’Italia ha soldati persino in Mali solo perché, nelle stesse ore di Bruxelles, sono sfuggiti ad un attentato. Quale Europa ha deciso di mandarceli? La solidarietà verso le vittime del terrorismo è sentimento ben diverso da quello che la propaganda ci vuole imporre. C’è un potere che usa le stragi per convincere i popoli della bontà della costruzione europea e della necessità di difenderla con le armi. Così chi mette in discussione l’euro è anti patriottico, come lo è chi non vuole che si vada a bombardare, o a invadere, la Libia.
    Bisogna fermare la guerra proprio nel nome delle vittime innocenti delle stragi che si susseguono. La guerra non è la soluzione, è il problema e dopo 25 anni di interventi militari che han solo provocato altri interventi militari e stragi, dovrebbe essere persino scontato. Invece non lo è, perché l’Europa è imprigionata nella spirale guerra-terrorismo e non riesce a muoversi dal vicolo cieco in cui l’hanno portata i suoi governi e il sistema di potere della sua Unione. E il vicolo cieco della guerra è la stessa strada ove la barriera delle politiche di austerità fa dilagare l’ingiustizia sociale e la rottura delle solidarietà. Bisogna uscire da questa costruzione europea e dalle sue guerre prima che sia troppo tardi per tutti i suoi popoli.
    (Giorgio Cremaschi, “Basta con questa Europa e le sue guerre”, da “Micromega” del 22 marzo 2016).

    È insopportabile la retorica europeista che accompagna le stragi che colpiscono le città europee, ultima Bruxelles. Il dolore per le persone uccise del terrorismo jihadista, la paura di esserne prima o poi vittime, vengono oramai stravolti e sottomessi al dominio ideologico della casa comune europea assediata. Cento e più anni fa il nazionalismo era amministrato paese per paese, oggi viene diffuso in una dimensione continentale, ma con gli stessi scopi e non facendo meno danni. Ricordate l’immagine della manifestazione dei governanti a Parigi, poco più di un anno fa dopo il massacro di Charlie Hebdo? Un clamoroso falso mediatico (dietro i capi di governo non c’era nessuno) che voleva mostrare che i governi europei uniti guidavano il corteo dei loro popoli. Ma di quale Europa stiamo parlando? Di quella che ha fatto mercato dei migranti con la Turchia, organizzando la più grande deportazione di massa dalla fine della seconda guerra mondiale? Quale Europa, quella che con le politiche di austerità sta da anni colpendo le conquiste sociali dei suoi popoli?

  • Da Draghi carta straccia, conti azzerati solo con una guerra

    Scritto il 26/3/16 • nella Categoria: idee • (1)

    Come si sa, Mario Draghi ha scelto la strada del rimedio estremo: prestiti a interessi zero in rate da 80 miliardi al mese, nella speranza di riattivare il ciclo consumi-profitti-investimenti-occupazione. Ma possiamo già dire con tranquillità che così non sarà, salvo un breve momento di miglioria passeggera. E non sarà così perché i signori banchieri (e finanzieri in generale) continueranno ad investire il denaro in altri impieghi finanziari, concedendo i crediti per aziende e famiglie con il contagocce e comunque con interessi esosi. E questo per la semplice ragione che nelle attuali condizioni dei “mercati” finanziari (se è lecito chiamare “mercati” le bische). Il denaro tende a non uscire dal gioco finanziario: la Banca X acquista denaro a bassissimo interesse dalla Bce, (poniamo lo 0,25% e, adesso, a costo zero) e lo re-investe per acquistare titoli della finanziaria Y al 2,75% mettendosi in tasca la differenza, la finanziaria Y usa il denaro così ottenuto per comprare oro nella previsione di un suo aumento dalla società Z che a sua volta compera titoli di Sto giapponesi perché pensa che l’oro non salirà ed è più vantaggioso investire nel debito di Tokyo. E così all’infinito.
    Il segnale è l’assenza di inflazione in presenza di immissione di liquidità: una sindrome economica già studiata e si chiama “momento Minsky” dal nome dell’economista che la analizzò formulandole la legge sottostante. Nel tempo della globalizzazione neoliberista il denaro tende stabilmente a non uscire dai circuiti finanziari, con la conseguenza che le immissioni di liquidità non fanno che gonfiare la bolla credito-debito attraverso il meccanismo degli interessi. Ma con una deadline: i crack a catena dei più deboli quando risulti loro impossibile pagare gli interessi, perché la loro esposizione scoraggi anche l’ investitore più spericolato a rifinanziare il debito in scadenza. Quello che non va è il sistema, in permanenza del quale la crisi si cronicizza. Non c’è una via di uscita? Non è esatto, se il sistema permane e con esso la crisi, una via di uscita c’è: una guerra generalizzata. La guerra è un grande consumo di risorse a fondo perduto ed impone una ricostruzione che risucchia risorse finanziarie.
    Che poi il conflitto debba avvenire in forme classiche e come conflitto generalizzato fra grandi potenze, con uso o meno di armi nucleari a bassa intensità, o, piuttosto, attraverso un a generalizzazione dei punti di crisi fra piccole e medie potenze o di guerriglie o guerre “anfibie” o forme di guerra coperta (come nel caso di Daesh), questo è altro discorso da esaminare in apposita occasione (e lo faremo). Quel che conta è che la permanenza dell’iper-capitalismo finanziario è orientato in questa direzione. Ora Draghi riuscirà a tappare la falla per un po’ ed a guadagnare una manciata di mesi, forse addirittura un paio di anni (dopo i quali, peraltro, sulla sua poltrona ci sarà altro banchiere), ma quando la scadenza si ripresenterà avremo finito le munizioni. Infatti, dopo una bordata del genere ed a interessi zero c’è solo il passaggio agli interessi negativi, ma, anche questo non correggerebbe i comportamenti. E di fronte a tutto questo c’è una protesta popolare sacro santa ma che non trova altro sbocco che l’impotente scelta populista. Chi manca all’appello è la sinistra, una vera sinistra che non sia quella di nome dei lacchè socialdemocratici o dai retori parolai della sinistra alla Tsipras, alla Vendola o Ferrero. Non è un gran rimedio dirlo, ma almeno rendiamocene conto.
    (Aldo Giannuli, “Interessi azzerati, la bordata della Bce di Mario Draghi”, dal blog di Giannuli del 18 marzo 2016).

    Una bella guerra mondiale, frontale, a suon di testate nucleari, oppure differita, a rate, in più scenari, come quella già in corso, con epicentro il Medio Oriente. Secondo Aldo Giannuli, è l’unica via d’uscita “tecnica” alla cosiddetta crisi della finanza pubblica, quella degli Stati con i conti in rosso, dopo che hanno permesso alla finanza internazionale di speculare sui debiti pubblici, un tempo “sovrani”. Come si sa, Mario Draghi ha scelto la strada del rimedio estremo: prestiti a interessi zero in rate da 80 miliardi al mese, nella speranza di riattivare il ciclo fatto di consumi, profitti, investimenti e occupazione. Ma sarà solo una breve tregua passeggera, «perché i signori banchieri (e finanzieri in generale) continueranno ad investire il denaro in altri impieghi finanziari, concedendo i crediti per aziende e famiglie con il contagocce e comunque con interessi esosi. E questo – sostiene Giannuli – per la semplice ragione che nelle attuali condizioni dei “mercati” finanziari (se è lecito chiamare “mercati” le bische) il denaro tende a non uscire dal gioco finanziario», impedendo così all’economia reale di riprendersi.

  • Chi comanda il mondo: il potere oscuro esce allo scoperto

    Scritto il 25/3/16 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    Si può definire in tanti modi: governo ombra, stato profondo, squadra segreta. Qualunque sia il nome, l’idea è semplice: dietro la facciata del governo apparente che esercita il potere, c’è un gruppo non eletto, privo di responsabilità, in gran parte sconosciuto, che lavora per il perseguimento di obiettivi a lungo termine, qualsiasi sia il partito politico o il fantoccio in carica. All’interno della temuta comunità dei “teorici della cospirazione”, l’idea è emersa qua e là nel corso degli anni. L’assassinio di Jfk ha dato origine a molti resoconti di tipo confidenziale e a rivelazioni su “The Secret Team”. Lo scandalo Iran-Contra ha portato ad un documentario di Bill Moyers sul governo segreto che dopo 19 anni vale ancora la pena guardare. E’ stato anche apertamente riconosciuto che il 9/11 era stato reso operativo un “governo ombra”. Ma negli ultimi anni ha avuto luogo uno strano fenomeno, che si è intensificato negli ultimi mesi: l’idea di uno “stato profondo” o di un “governo ombra” che controlla la politica, anche negli Stati Uniti, sta diventando mainstream.

  • Lacrime e sangue? Certo, un’altra Europa è impossibile

    Scritto il 18/3/16 • nella Categoria: idee • (3)

    La maggioranza della “sinistra” si crogiola nell’illusione che l’Europa possa mutare pelle sotto la spinta della solidarietà fra i popoli europei. Da dove scaturisca tale speranza non è dato capire. Il problema europeo è legato alla crisi della democrazia, all’anti-politica, alla diffusa disaffezione, se non aperta ostilità di gran parte della popolazione ai meccanismi della rappresentanza e della mediazione politica. In termini più accademici questa è definita la crisi della democrazia. Questa disaffezione si traduce nell’idea che la politica sia tutta uguale, destra e sinistra, e che i politici siano tutti disonesti. Alla base di questa disaffezione, e in fondo anche alla base della pochezza progettuale ed etica dei politici, v’è la sostanziale impotenza della politica nazionale ad affrontare piccoli e grandi problemi, una volta privata delle leve della politica economica, e in particolare della sovranità monetaria, improvvidamente cedute a istanze sovranazionali dominate dalle potenze europee più forti. Questo spiega dunque molte cose.
    Spiega la disaffezione come dovuta all’incapacità dei politici di risolvere i problemi, la disoccupazione in primis, mentre tutti si riempiono la bocca del medesimo mantra delle riforme (operando delle feroci contro-riforme). Spiega la sostanziale somiglianza fra destra e sinistra che agli occhi del comune cittadino è giustamente scomparsa. Qual’è la differenza fra Berlusconi e Prodi? Fra Monti e Bersani? Fra Renzi e Tsipras? La politica è (nei tratti di fondo) la medesima ed è quella dettata da Bruxelles, Francoforte o Berlino. E spiega anche il drammatico scadimento della politica, screditata agli occhi delle persone capaci, per cui chi vale fa altro, e monopolio di personaggi che non hanno altro da occuparsi se non di conservare le poltrone per sé e per le proprie consorterie. Detto in termini un poco più nobili, una volta esautorato e reso impotente lo Stato nazionale, che è il terreno primario in cui si svolge il conflitto sulla distribuzione del reddito, viene a mancare il sale della democrazia.
    Ma in verità il “sogno europeo”, è precisamente questo: un disegno liberista volto a esautorare i popoli nazionali dal potere di incidere sulle scelte dei propri governi nazionali, resi impotenti se non come strumenti d’ordine (vedi le riforme costituzionali in questa direzione). Stati nazionali filiali regionali dell’ordine ordo-liberista che “trasforma le leggi del mercato in leggi dello Stato” (Alessandro Somma), e ben individuato dai tedeschi nel Ministro unico dell’economia. Questa espropriazione dello Stato nazionale perfeziona lo svuotamento del terreno del conflitto sociale, dunque della democrazia, già mortificato dalla globalizzazione del capitale, lasciato libero di collocarsi dove più gli aggrada. E non ci si dica, per favore, che piccoli stati sovrani avrebbero vita dura nell’”economia globalizzata”, come si sente spesso. Polonia e Corea del Sud se la passano meglio dell’Italia, per fare qualche esempio.
    Ma perché, mi si obietta, non lottare per un’Europa diversa? L’analisi economica – a cui invito a prestar fede non in nome della fiducia in una scienza discutibile, ma in nome del realismo politico a cui ci invitava un grande intellettuale, Danilo Zolo – ha da tempo indicato che un’unione monetaria fra paesi a diverso grado di sviluppo può reggere solo con un cospicuo bilancio federale a scopo perequativo, precisamente la “tax-transfer union” tanto temuta dai tedeschi. Di che parliamo allora? Di utopie da cui Danilo Zolo ci suggeriva di sfuggire come la peste? Hayek lo disse chiaramente in un saggio del 1939: uno Stato federale fra paesi culturalmente ed economicamente diversi e dotato di un cospicuo bilancio perequativo non sarebbe destinato a durare, e si lacererebbe presto sulla destinazione delle risorse (Jugoslavia docet). L’unico Stato federale possibile è quello con uno Stato minimo, uno Stato ordo-liberista che detti le sole regole di mercato.
    Ma questo è lo Stato europeo che già abbiamo, e che la potenza dominante di cui parliamo oggi intende rafforzare. Quella che abbiamo è la sola Europa possibile, anzi potrebbe andar peggio. La “sinistra” è responsabile di cotanto disastro continentale. In Inghilterra e negli Stati Uniti, la Thatcher e Reagan si sono resi responsabili di sconfiggere Keynesismo e Stato Sociale. In Europa l’ha in gran parte fatto la sinistra, in nome dell’Europa. Le responsabilità dell’Ulivo devono essere ancora conteggiate – ma c’è chi ha cominciato a farlo, come Giulio Sapelli. Ma forse non c’è n’è bisogno. La sinistra italiana sta finendo da sola nella spazzatura del 3%. Abbiamo invece bisogno di una sinistra italiana che della battaglia per il ripristino dell’autonomia della politica economica nazionale faccia il proprio vessillo. Siccome la sinistra è più sensibile all’orecchio della difesa della Costituzione, bene faremmo ad affiancare questa battaglia a quella della difesa dei valori costituzionali.
    Ma attenzione, se la sinistra ufficiale e intellettuale è sensibile ai valori costituzionali, la gente normale vede questi temi come estranei, lontani. Guarda con favore, per esempio, alla semplificazione dei processi politici. Quindi anche la battaglia per la difesa della Costituzione se ne gioverebbe, se da astratta difesa di principi si mostrasse come strumento di avanzamento sociale su temi concreti come piena occupazione, difesa di salari e Stato Sociale. Un’ultima precisazione. Personalmente non credo che lo slogan “fuori dall’euro” sia oggi popolare. Tuttavia un sentimento anti-Europeo sta montando. L’euro crollerà se e quando diventerà politicamente insostenibile, e quest’esito va perseguito e preparato, progettando il dopo, una nuova Europa di Stati indipendenti e cooperativi. Purtroppo la sinistra italiana, nella sua maggioranza, va nella direzione opposta di coltivare il “sogno europeo”, predisponendosi all’oblio della storia.
    (Sergio Cesaratto, “Sveglia, un’altra Europa è impossibile”, da “Sollevazione” del 12 marzo 2016).

    La maggioranza della “sinistra” si crogiola nell’illusione che l’Europa possa mutare pelle sotto la spinta della solidarietà fra i popoli europei. Da dove scaturisca tale speranza non è dato capire. Il problema europeo è legato alla crisi della democrazia, all’anti-politica, alla diffusa disaffezione, se non aperta ostilità di gran parte della popolazione ai meccanismi della rappresentanza e della mediazione politica. In termini più accademici questa è definita la crisi della democrazia. Questa disaffezione si traduce nell’idea che la politica sia tutta uguale, destra e sinistra, e che i politici siano tutti disonesti. Alla base di questa disaffezione, e in fondo anche alla base della pochezza progettuale ed etica dei politici, v’è la sostanziale impotenza della politica nazionale ad affrontare piccoli e grandi problemi, una volta privata delle leve della politica economica, e in particolare della sovranità monetaria, improvvidamente cedute a istanze sovranazionali dominate dalle potenze europee più forti. Questo spiega dunque molte cose.

  • D’Alema: Renzi deve perdere le città e poi il referendum

    Scritto il 15/3/16 • nella Categoria: idee • (1)

    «Vedo più spettatori che votanti a queste primarie». Oppure: «C’era anche Renzi al funerale? Non l’ho visto». A parlare è un Massimo D’Alema che in questi giorni si mostra di insolita giovialità, quasi spensierato. E così, fra una battuta e l’altra, qualche sera fa, in una cena in cui c’era una giornalista, il lìder Massimo si è lasciato sfuggire una battuta «lieve come un’incudine sui piedi», ovvero: «Renzi è un agente del Mossad, bisogna farlo cadere». Il Mossad, nientemeno! Vero, Renzi «si è sempre mostrato assai comprensivo verso le ragioni di Israele», ammette Aldo Giannuli, che da tempo segnala grandi manovre per far fuori il Rottamatore, che peraltro ha come consigliere economico Yoram Gutgeld, già tenente colonnello dell’esercito israeliano. «Forse, quella del Conte Max era solo una battuta di spirito», aggiunge Giannuli, sarcastico, proprio mentre – da Napoli a Roma – il Pd renziano sta per andare incontro a un possibile disastro, alle amministrative. Il momento è delicato? Ed ecco che interviene D’Alema – un uomo che, per inciso, vanta relazioni europee di altissimo livello, come quelle con pesi massimi del super-potere, del calibro di Jacques Attali, già uomo-ombra di Mitterrand e da sempre presente nel vertice supremo, anche massonico, che pilota le istituzioni europee.
    A ottobre, ricorda Giannuli, c’è il referendum sulle riforme costituzionali: se passa il no, Renzi ha detto che si dimette (ma forse no), nel qual caso potrebbero esserci nuove elezioni: «In fondo, almeno formalmente, il motivo per cui questo incredibile Parlamento è restato in vita nonostante la sua palese illegittimità, è stata la necessità di attuare riforme costituzionali, venute meno le quali, non si capisce perché mai dovrebbe restare in carica». Se invece dovesse vincere il sì, «allora è proprio sicuro che voteremmo dopo pochi mesi», aggiunge il politologo dell’ateneo milanese, «perché un Renzi incoronato da un referendum passerebbe subito all’incasso». In ogni caso, «la squadra renziana (se non lui personalmente) procederebbe alla decimazione dei bersaniani nei gruppi parlamentari». Non solo: anche per il super-potere europeo (la Bce, la Merkel, le grandi banche d’affari) sarebbe più difficile «abbattere un premier fresco di unzione popolare». Quindi, gli anti-renziani «hanno pochi mesi per tentare il colpo», ed ecco spiegato anche l’improvviso attivismo di D’Alema: sa benissimo che, se Renzi supera il referendum, dopo sarà più difficile fermarlo.
    Scenari possibili, nel frattempo? Tanti. Per esempio, un voto contrario in Parlamento: «Cosa facile da farsi in Senato ma di dubbia efficacia, perché sino a quando resta segretario del partito non si potrebbe fare alcun altro governo e si andrebbe alle elezioni anticipate che probabilmente potrebbero essere vinte da Renzi». Piano-B: un congresso straordinario che lo metta in minoranza: «Cosa possibile solo se c’è una spallata fortissima, tale da mandare in frantumi il blocco dominante». Meno improbabile, forse, «un capitombolo sulla questione libica che produca una tale ondata di protesta popolare da spingere una bella fetta del gruppo dirigente ad offrire la testa di Renzi per salvarsi davanti all’elettorato». Ma Renzi non è certo uno sprovveduto: «Si sta dimostrando tutt’altro che propenso ad imbarcarsi in quella avventura». Il pericolo, per Renzi, cresce davvero solo se proviene da Bruxelles: una nuova tempesta dello spread, con lettere e richiami della Bce? Certo, Renzi è meno vulnerabile di Berlusconi – non ha le sue aziende, che in quei giorni persero il 26% del loro valore in Borsa. «Si può provare, ma la riuscita non è garantita», scrive Giannuli. «Poi, in un momento di grande instabilità finanziaria non sarebbe prudente introdurre un altro elemento di fibrillazione: in fondo, l’Italia rappresenta pur sempre il terzo debito mondiale».
    Altri frangenti scivolosi? «Un grosso scandalo, magari aiutato dall’intervento di qualche procura: e qui, fra l’Etruria, la Popolare di Vicenza e altro, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta sulla casella su cui fare la puntata. Però occorre che lo scandalo possa investire personalmente il presidente del Consiglio (non basterebbero uno o tre ministri) e dovrebbero esserci prove di qualche consistenza». Ma la prima pietra d’inciampo sono proprio le amministrative di giugno: l’aria non è buona per il Pd, Napoli e Roma sono piazze difficilissime, qualche problema potrebbe esserci a Torino o Bologna, e a decidere potrebbe essere Milano. «Renzi, che è furbo, ha fiutato il vento e ha già detto che non è su quel test che si misurerà, ma sul referendum: uno schema di gioco che può reggere se il risultato è dignitoso anche se sfavorevole». Oggi tutte le cinque maggiori città, eccetto Napoli, sono governate dal Pd: perdere in una delle altre quattro città sarebbe una sconfitta, ma accettabile (specie se si trattasse di Roma, dove la partita è proibitiva). Ma se a Napoli e Roma si aggiungesse un’altra città? E se la terza sconfitta fosse proprio a Milano? «Le cose andrebbero diversamente e si accenderebbe uno scontro interno al partito in cui potrebbe anche accadere che un pezzo della maggioranza si stacchi per dar vita ad una corrente di centro», cosa che inizierebbe a rendere difficile la vita al fiorentino, conclude Giannuli: difficile credere che non stia pensando proprio a questo, il Conte Max.

    «Vedo più spettatori che votanti a queste primarie». Oppure: «C’era anche Renzi al funerale? Non l’ho visto». A parlare è un Massimo D’Alema che in questi giorni si mostra di insolita giovialità, quasi spensierato. E così, fra una battuta e l’altra, qualche sera fa, in una cena in cui c’era una giornalista, il lìder Massimo si è lasciato sfuggire una battuta «lieve come un’incudine sui piedi», ovvero: «Renzi è un agente del Mossad, bisogna farlo cadere». Il Mossad, nientemeno! Vero, Renzi «si è sempre mostrato assai comprensivo verso le ragioni di Israele», ammette Aldo Giannuli, che da tempo segnala grandi manovre per far fuori il Rottamatore, che peraltro ha come consigliere economico Yoram Gutgeld, già tenente colonnello dell’esercito israeliano. «Forse, quella del Conte Max era solo una battuta di spirito», aggiunge Giannuli, sarcastico, proprio mentre – da Napoli a Roma – il Pd renziano sta per andare incontro a un possibile disastro, alle amministrative. Il momento è delicato? Ed ecco che interviene D’Alema – un uomo che, per inciso, vanta relazioni europee di altissimo livello, come quelle con pesi massimi del super-potere, del calibro di Jacques Attali, già uomo-ombra di Mitterrand e da sempre presente nel vertice supremo, anche massonico, che pilota le istituzioni europee.

  • Italiani buoni a nulla, così l’Ulivo ci ha svenduto ai tedeschi

    Scritto il 11/3/16 • nella Categoria: idee • (8)

    Si chiama “foreign dominance”, dominio esterno: a partire dal Trattato di Maastricht, attraverso l’adesione all’euro e la direzione politica dell’Ulivo di Romano Prodi, ha decretato il declino dell’Italia, come nel Seicento. Il paese è nelle mani di potentati stranieri, in questo caso tedeschi, che stanno letteralmente deindustrializzando il paese, gettandolo in una crisi senza uscita. E’ la tesi di un economista di prestigio come il professor Giulio Sapelli: «La politica economico-monetaria dell’Ulivo ha disarmato le menti e, nel mentre, ha armato nuove classi economico-politiche cosmopolite (i Padoa Schioppa ne sono l’esempio più sconcertante), a cominciare dai Ciampi e dai Draghi e per finire con i Monti, costruiti dai quotidiani e dai poteri situazionali di fatto filo-teutonici e anti-Usa, che già Gramsci aveva ben descritto, seguendo Machiavelli e parlando del “cosmopolitismo”, ossia del servilismo internazionale degli intellettuali italiani». Abbiamo a che fare con «ragionieri del mondo, affascinati dal mito umiliante che narra che gli italiani nulla san far da sé e hanno quindi bisogno, per bene agire, di choc esterni: l’ordoliberalismus teutonico appunto, mito che in qualsivoglia altra nazione farebbe sfidare a duello colui che accusa il suo interlocutore di sostenere tale tesi».
    Si dovrà fare la storia dell’Ulivo che ne affronti la teoria economica prevalente, scrive Sapelli in un’analisi su “Il Sussidiario”. La politica monetaria intrapresa con Maastricht? «Va inserita nella specificità della vicenda monetaria italiana che è sempre stata – come sappiamo – determinata da un’oscillazione e da un intreccio continuo tra “fiscal dominance” e “foreign dominance”». Sapelli sgombra il campo da un presupposto “mitologico” come quello dell’indipendenza delle banche centrali dal Tesoro («per dipendere da chi, se non dalle burocrazie o dalle euroburocrazie spartite in basi a criteri di potenza nazionale?»). Problema che «non incide sui temi della “foreign dominance”», non è determinante. «Ciò che è e fu determinante a partire dai tempi dell’Ulivo (sino a oggi) è il fatto che l’indipendenza delle banche centrali europee dell’Eurozona e quindi dell’Italia fu lo strumento più idoneo allorché si ritenne di potere e voler fare la volontà della nazione accettando, anzi, invocando, il dominio estero sulle nostre scelte di politica monetaria ed economica non in una condizione di condivisione ma, invece, di crescente sottrazione di sovranità».
    La tesi di Sapelli è che proprio l’Ulivo «ha rappresentato l’acme della “foreign dominance” e l’ha reso pressoché irreversibile – almeno nel breve periodo – con l’entrata nell’euro e quindi con la definitiva perdita della sovranità monetaria». Ciò che è stata una delle fasi della “foreign dominance”, ossia l’egemonia tedesca sul sistema economico e su quello monetario in primis italiano grazie all’Europa a dominazione germanica, è ormai divenuta una delle caratteristiche della stessa nazione italiana, continua Sapelli. Non ne ucsiremo, «se l’Europa non muterà volto», ossia se non si riscriverà il Trattato di Maastricht e non cadranno tutti i suoi presupposti: «Essi hanno condannato alla decadenza l’Italia, come fu nella crisi del Seicento. I mezzi furono diversi, gli esiti saranno e già sono assai simili: de-industrializzazione, depauperamento del capitale umano con la sua emigrazione da un lato e la sua emasculazione emotiva dall’altro».
    In parallelo, scontiamo anche la “fiscal dominance”, cioè il ruolo del Tesoro nella creazione monetaria. «Determinare la quantità di moneta e dei tassi d’interesse – scrive Sapelli – è un compito che rimane nelle mani della politica e delle istituzioni finanziarie: oppongono il principio di gerarchia a quello di mercato e allocano le risorse in questo con sistematica prevalenza». In questo senso, «il ruolo del mercato è subalterno e sottoposto al controllo politico anche in un contesto internazionale che può renderlo difficile. Ma questa è stata fondamentalmente la condizione in cui l’Italia si è trovata a operare per la sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro durante tutta la sua storia sino ai primi anni Novanta del Novecento. Proprio gli anni in cui inizia l’esperienza dell’Ulivo». Una storia «contrassegnata da una diversità della “foreign dominance” anche in condizioni ben precedenti l’Ulivo», cioè sin dai tempi di Cavour, «passando per il predominio inglese e francese e poi quello tedesco che fu decisivo per la creazione del sistema bancario italiano e per inverare poi durante il fascismo paradossalmente il predomino nordamericano, con un ruolo decisivo esercitato dalla banca Morgan». Oggi, l’attuale assetto è presentato come non riformabile: dall’Ulivo in poi comanda “l’Europa”, e l’Italia affonda.

    Si chiama “foreign dominance”, dominio esterno: a partire dal Trattato di Maastricht, attraverso l’adesione all’euro e la direzione politica dell’Ulivo di Romano Prodi, ha decretato il declino dell’Italia, come nel Seicento. Il paese è nelle mani di potentati stranieri, in questo caso tedeschi, che stanno letteralmente deindustrializzando il paese, gettandolo in una crisi senza uscita. E’ la tesi di un economista di prestigio come il professor Giulio Sapelli: «La politica economico-monetaria dell’Ulivo ha disarmato le menti e, nel mentre, ha armato nuove classi economico-politiche cosmopolite (i Padoa Schioppa ne sono l’esempio più sconcertante), a cominciare dai Ciampi e dai Draghi e per finire con i Monti, costruiti dai quotidiani e dai poteri situazionali di fatto filo-teutonici e anti-Usa, che già Gramsci aveva ben descritto, seguendo Machiavelli e parlando del “cosmopolitismo”, ossia del servilismo internazionale degli intellettuali italiani». Abbiamo a che fare con «ragionieri del mondo, affascinati dal mito umiliante che narra che gli italiani nulla san far da sé e hanno quindi bisogno, per bene agire, di choc esterni: l’ordoliberalismus teutonico appunto, mito che in qualsivoglia altra nazione farebbe sfidare a duello colui che accusa il suo interlocutore di sostenere tale tesi».

  • Duff: uno di questi pagliacci dominerà gli Usa (e il mondo)

    Scritto il 08/3/16 • nella Categoria: idee • (2)

    Ho appena finito di farmi una barba lunga così ascoltando Mitt Romney e Donald Trump. Cominciamo allora dal livello di assurdità che li distingue: ai tempi della guerra in Vietnam sono stati entrambi degli spregevoli renitenti alla leva. Nel corso della loro vita hanno avuto entrambi dei forti legami con il crimine organizzato. Hanno entrambi ereditato le loro fortune personali, poi incrementate fregando gli altri. Affrontiamo inoltre un’altra verità a lungo dimenticata: il Gop è interamente gestito da Sheldon Adelson, un boss del gioco d’azzardo di Macao, con una storia di cui non possiamo cominciare a discutere sperando poi di poter entrare in una macchina senza l’aiuto di una squadra di artificieri. Ad aiutarli ci sono i ‘gemelli malvagi’, i fratelli Koch, dei mostri indescrivibili. Guidano il Partito Repubblicano e possono evitare di essere considerati come ‘criminalità organizzata’ solo perché sono più grandi e potenti del tradizionale ‘crimine organizzato’, oltre che molto più pericolosi.
    Mentre la gente è costretta a saccheggiare i propri risparmi, sono proprio queste bestie [Adelson, i Koch …] e i politici che esse controllano – sono 350 i membri del Congresso e 22 i governatori di cui tirano le fila, assieme ai cartelli della droga, alle compagnie petrolifere e a Wall Street – ad essere i veri terroristi: sono essi stessi l’Isis, Al-Qaeda, l’incarnazione stessa della guerra. Puntare il dito contro Hillary o George Soros è semplice … sono dei bersagli molto facili, lo ammetto. Sono i pianificatori delle vicende di Bengasi, i sostenitori di Boko Haram, di al Qaeda e dell’Isis. Tuttavia, se vogliamo ‘crescere’ e porci delle domande difficili, chiediamoci perché la tronfia ‘principessa neocon’ [Victoria Nuland], moglie di uno dei fratelli Kagan, fu ‘consacrata’ alla distruzione dell’Ucraina proprio da Hillary Clinton. I ratti stanno spolpando l’Ucraina mentre i politici fascisti che a loro fanno capo, con l’aiuto di una ben orchestrata ‘crisi dei profughi’, stanno prendendo l’Europa dal basso.
    Prendetevi i 6 minuti e 27 secondi che sono necessari e sedetevi su una sedia a guardare il video del “South Front”. Cominciate a pensare alla situazione del mondo intero e al fatto che, mentre stiamo spingendo la Russia verso la bancarotta e la Cina verso la guerra, i nostri ‘salvatori’ dovrebbero essere proprio questi pagliacci. Mi piace veramente tanto ascoltare Trump. Quello che posso dire è che ha un’intelligenza di basso livello, che è un personaggio tutto sbagliato ed essenzialmente la caricatura di se stesso: il cartone animato di un cartone animato. Tuttavia, vale il doppio di Mitt Romney ed è una specie divinità se comparato a Kasich, a McCain o a Jeb Bush. Romney crede veramente di potersi infilare nella corsa alla presidenza e c’è un motivo se può nutrire questa speranza. Il Gop sta alimentando il ‘Dipartimento di Giustizia’ con dei propri files su Trump. Romney, inoltre, sembrerebbe un candidato perfetto, affidabile, con la sua abbronzatura scintillante e i suoi abiti sempre un po’ troppo attillati.
    Mi ricordo di G. W. Bush e della sua enorme tuta antiproiettile, adatta a coprire il suo grosso sedere e le sue spalle strette: un tentativo per bilanciare il suo sguardo, compreso fra quello di uno scimpanzé e quello del ‘Gollum’ [un personaggio del “Signore degli Anelli”]. Romney, invece, ha un aspetto esteriore veramente bello e, dopo aver ascoltato il discorso di Trump, il suo commento ‘in ginocchio’, comincio a pormi un paio di domande al riguardo di Trump. Ma poi, di nuovo, in una nazione governata da pedofili, l’idea di mettere in discussione la natura di qualsiasi relazione fra adulto e adulto – o fra essere umano ed essere umano, se quest’ultimo termine è più chiaro – viola i veri standard morali dell’America, per come essi sono nella realtà. Nel 2012 alcuni amici dell’Fbi vennero a trovarci nella nostra sede, portando con loro la prova della complicità di Romney con la criminalità organizzata, con il traffico di droga – assieme al suo partner Carlos Salinas – e infine i contratti clandestini che aveva stipulato con Castro ed il ‘Kgb’. Le registrazioni di quelle interviste sono su YouTube.
    Qualunque sia la mia opinione su Trump, è un ‘capo’ e ha le spalle ben al di sopra della gente del Gop. Ha introdotto un nuovo livello di chiarezza nel discorso politico americano. Il solo problema è che molto di quello che dice è poco considerato, una conseguenza del suo convulsivo modo di parlare, generato da quello che posso solo immaginare sia un caso di ‘sindrome da deficit di attenzione’. Non credo, comunque, che intenda esprimere, nella realtà, le cose folli che gli escono di bocca ed è senz’altro molto meno ‘pericoloso’ di quanto possa sembrare. Anch’io credo che non sia in possesso delle capacità amministrative e dell’energia personale che possano metterlo davanti al ‘pacchetto’ [dei candidati repubblicani alla presidenza]. Per quanto riguarda i democratici, in questo momento è Hillary la favorita. A meno che non venga uccisa, sarà lei il presidente. Il suo programma di politica interna è eccezionale ma, per quanto riguarda la politica estera, è chiaro che lei è ‘gestita’ da una ‘forza nascosta’ che non ama molto gli Stati Uniti.
    E’ molto doloroso doverlo dire, in particolare per chi come me è sempre più anziano e non è ancora uno stupido integrale. Mi ricordo di Ike, di Nixon e di Reagan. Dei rospi velenosi che avrebbero dovuto essere strangolati nella culla, ma che tuttavia erano lontani mille miglia da ‘W’ [Bush], la più grande mostruosità umana della nostra epoca, di qualsiasi nazione e di qualsiasi specie. Il rischio reale, con Trump, è che nessuno lo può comprare e che lui non condivide i sogni del resto del Gop, capace solo di blandire i ragazzini e ballare al fianco di Tony Scalia, in una gioiosa esaltazione dell’Angelo della Luce [Lucifero]. “Veterans Today” è per la maggior parte un club di bravi ragazzi ma, per quanto riguarda le pubblicazioni, lo staff di Vt è composto più da ‘Bar Fighters’ [combattenti da bar] che da ‘Bible Thumpers’ [coloro che considerano la Bibbia uno strumento per attaccare gli altri e non la guida per una vita corretta]. Ci sono delle verità in quello che stiamo dicendo, per la memoria di cui siamo portatori e che speriamo di condividere con tutti gli altri, mettendo gli orologi indietro fino all’epoca di presidenti ormai morti da molto tempo, come Roosevelt, Truman, Ike e gente simile, come ad esempio il primo ministro Churchill.
    Ma siamo ormai arrivati al momento della ‘ricreazione’ pomeridiana, del football consumato ‘out of the box’. Il pipistrello si è liberato dai legacci e ha messo fuori la testa, sul campo di gioco. Alcuni ragazzi sono rimasti indietro, giocano al ‘salto della corda’ con le ragazze sviluppando quelle capacità che altri vorrebbero aver guadagnato. Altri invece si sono attaccati alle gonne delle insegnanti in attesa del suono della campanella, che consentirà loro di tornare alla sicurezza e al calore delle loro scrivanie. Sono proprio quest’ultimi, coloro che non hanno mai fatto una scelta, che non hanno mai battuto troppi sentieri, sono proprio costoro i nostri leader nazionali. Se guardiamo ai candidati del Gop, a Jeb, a Kasish, a Cruz, a Rubio o a Trump, anche a Romney, ebbene sono proprio loro ‘quei ragazzi’, quelli di cui ci eravamo scordati e che sono riapparsi nella nostra vita come una vile pugnalata alle spalle, con le loro facce che sorridono alle organizzazioni criminali. Ditemi voi se mi sto sbagliando.
    (Gordon Duff, “Solo una goccia d’intelligenza”, da “Veterans Today” del 3 marzo 2016, tradotto da “Come Don Chisciotte”. Veterano del Vietnam, Duff è un prestigioso analista internazionale, molto popolare anche sui media).

    Ho appena finito di farmi una barba lunga così ascoltando Mitt Romney e Donald Trump. Cominciamo allora dal livello di assurdità che li distingue: ai tempi della guerra in Vietnam sono stati entrambi degli spregevoli renitenti alla leva. Nel corso della loro vita hanno avuto entrambi dei forti legami con il crimine organizzato. Hanno entrambi ereditato le loro fortune personali, poi incrementate fregando gli altri. Affrontiamo inoltre un’altra verità a lungo dimenticata: il Gop è interamente gestito da Sheldon Adelson, un boss del gioco d’azzardo di Macao, con una storia di cui non possiamo cominciare a discutere sperando poi di poter entrare in una macchina senza l’aiuto di una squadra di artificieri. Ad aiutarli ci sono i ‘gemelli malvagi’, i fratelli Koch, dei mostri indescrivibili. Guidano il Partito Repubblicano e possono evitare di essere considerati come ‘criminalità organizzata’ solo perché sono più grandi e potenti del tradizionale ‘crimine organizzato’, oltre che molto più pericolosi.

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