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Archivio del Tag ‘Cuba’

  • La favola (vera) del paese inglese dove il cibo è gratis

    Scritto il 18/3/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    C’era una volta una piccola cittadina inglese, Todmorten, dove tutto quello che cresceva – broccoli, mele, ribes, patate – poteva essere raccolto e mangiato. Gratuitamente. Sembra quasi una favola per bambini, e invece è cronaca: la cronaca favolosa del Paese Commestibile. Todmorten è una piccola cittadina di 15mila abitanti a nord di Manchester, protagonista da qualche anno di una rivoluzione gentile e generosa, che promuove la produzione e il consumo di cibo locale, conosciuta con il nome di “Incredible edible”. Nata a febbraio del 2008, l’iniziativa è fiorita rigogliosa, ispirando decine e decine di altri centri, dalla Francia a Cuba, da Hong Kong fino all’Australia (in Italia registriamo germogli del progetto a San Bonifacio, nel Veronese). E solo l’anno scorso ha attirato mille curiosi visitatori da ogni angolo del mondo, accorsi a ammirare lo straordinario potere dei piccoli gesti.
    Tutto cominciò dall’orto di Pam, diventato un giorno oggetto di furti. Invece di alzare il muro di recinzione, lei lo abbassò, piantò ortaggi e accanto a loro un cartello con la scritta “Servitevi”. «C’erano annunci che invitavano le persone a prendersi qualcosa dall’orto, ma ci sono voluti mesi alla gente per capire che ciò era davvero possibile», ricorda Pam, all’anagrafe Pamela Warhurst, ambientalista, attivista e fondatrice del movimento “Incredible edible”. Insieme a lei Mary Clear, Estelle e tante altre persone appassionate che da allora lavorano quotidianamente per coltivare piante e relazioni, coinvolgendo negozi, scuole, contadini e l’intera comunità. «Il nostro sogno è quello di diventare la prima cittadina autosufficiente dal punto di vista alimentare».
    Il cibo è servito: fagioli, piselli, erbe aromatiche crescono un po’ ovunque nelle aiuole e nei giardini del paese, persino davanti alla stazione di polizia, all’ospedale e nel giardino del cimitero. «Gli obiettivi del movimento sono quelli di fornire l’accesso al cibo locale per tutti, attraverso il lavoro comune, la diffusione di conoscenze e competenze e il sostegno alle imprese del territorio», dichiarano. Già, perché le ricadute sull’economia locale di questa piccola rivoluzione dal pollice verde hanno anche loro dell’incredibile. I negozi hanno incrementato le loro vendite, puntando soprattutto sul cibo a filiera corta, sono nati una Incredible Farm, una fattoria dove i giovani imparano a diventare imprenditori alimentari, un centro educativo con l’attivazione di un nuovo diploma dedicato allo studio dell’ambiente e del territorio, eventi e corsi di cucina, di panificazione e giardinaggio per tutti. L’eco mediatica che ne stanno ottenendo ha mosso anche il Principe Carlo, loro regale fan, andato in visita a Todmorten nel 2009. Se state già pianificando una trasferta anche voi, ricordate di scrivere alla gentile Estelle, che vi prenoterà lusingata un tour del centro, con presentazione e pranzo nel favoloso Paese Commestibile.
    (Alessandra Mazzotta, “Incredible edible, la favola (vera) del paese inglese dove il cibo è gratis”, dal newsmagazine “Econote”, ripreso da “Tiscali notizie” il 6 marzo 2014).

    C’era una volta una piccola cittadina inglese, Todmorten, dove tutto quello che cresceva – broccoli, mele, ribes, patate – poteva essere raccolto e mangiato. Gratuitamente. Sembra quasi una favola per bambini, e invece è cronaca: la cronaca favolosa del Paese Commestibile. Todmorten è una piccola cittadina di 15mila abitanti a nord di Manchester, protagonista da qualche anno di una rivoluzione gentile e generosa, che promuove la produzione e il consumo di cibo locale, conosciuta con il nome di “Incredible edible”. Nata a febbraio del 2008, l’iniziativa è fiorita rigogliosa, ispirando decine e decine di altri centri, dalla Francia a Cuba, da Hong Kong fino all’Australia (in Italia registriamo germogli del progetto a San Bonifacio, nel Veronese). E solo l’anno scorso ha attirato mille curiosi visitatori da ogni angolo del mondo, accorsi a ammirare lo straordinario potere dei piccoli gesti.

  • Costretto a usare la forza, Putin ha già perso l’Ucraina

    Scritto il 06/3/14 • nella Categoria: idee • (6)

    I balaclava coprono i volti dei giovani soldati russi di stanza in Crimea. Soldati che in queste ore ultimano l’occupazione dei centri nevralgici della penisola, aiutati da alcuni “volontari” locali. Ironia della sorte, i copricapi che nascondono i loro volti portano il nome dalla città di Balaklava, oggi parte della municipalità di Sebastopoli. Teatro in passato di un’importante battaglia della guerra di Crimea. Battaglia che registrò la sconfitta dei russi. In una guerra che, non a caso, vide coinvolte le medesime regioni oggetto dei confronti odierni fra le potenze del XXI secolo e la Federazione Russa: il Mar Nero, il Caucaso, il Baltico, l’Est Europa. Regioni che trovano spazio nei libri di storia, e nella cronaca, ogni qual volta viene posto in essere il tentativo di contenere la Russia, e con essa i propri interessi strategici, entro i “propri confini”. Confini che ogni potenza ha percepito, e percepisce, come differenti. Secondo i propri interessi.
    Ogni qual volta una o più potenze occidentali da un lato, e la potenza russa dall’altro, hanno deciso di sconvolgere, o viceversa, di tentare il consolidamento degli equilibri strategici consolidatesi in queste regioni, hanno frequentemente fallito. Ottenendo, talune volte, risultati catastrofici. Opposti alle rispettive aspettative iniziali. Accadde durante la guerra di Crimea. Accadde con le iniziative politiche e diplomatiche antecedenti le due guerre mondiali. E’ accaduto in parte durante la guerra fredda. Nonché successivamente al crollo dell’Urss. E’ appena accaduto con l’espansione frenetica ad est, effettuata dall’Unione Europea negli anni duemila. E accade oggi. Con la differenza che il colpo che si è tentato di assestare alla Russia, con l’inclusione nell’orbita occidentale ed europea dell’Ucraina, ha tutta l’aria del colpo definitivo. Inaccettabile per Mosca.
    Molti si ricorderanno la “Rivoluzione Arancione”, iniziata nel 2004. Esperienza terminata con la coabitazione ai vertici dello Stato fra i due leader rivali Yanukovich e Juscenko. Le recenti vicende di piazza Maidan sembravano molto simili a quelle del decennio scorso. A tratti speculari. Eppure il risultato è stato assai diverso, con il degenerare di un crisi che è parsa fin da subito inevitabile. Oggi, a differenza di allora, la crisi è sfociata in una occupazione militare ad opera della Russia. L’instabilità ha varcato i confini nazionali ucraini, ora rischia di diffondersi, destabilizzando l’intera regione. Le motivazioni di ciò sono diverse, ma alcune evidenti e di facile individuazione: oggi, a differenza di allora, lo scenario globale è cambiato.
    Dall’inizio della crisi economica, sono andate sempre più consolidandosi nuovi interessi e nuove alleanze strategiche. Alleanze che agli inizi del decennio scorso si intravvedevano appena.  Terminato definitivamente il tentativo unipolare dell’America di Bush, il mondo è andato dividendosi. Sono aumentate le potenze regionali in competizione fra loro per il controllo di aree strategiche, economiche e commerciali. In questo contesto, la strategia obamiana prevede un rapido ridispiegamento, attraverso una riduzione drastica dell’esercito statunitense e la creazione di due zone di libero scambio, una Trans-Pacifica (Tpp) e l’altra Trans-Atlantica (Tap). Un ridispiegamento della potenza americana che lascerà molti spazi liberi sullo scacchiere mondiale. Spazi che altre potenze regionali tenteranno rapidamente di colmare. L’Europa si trova al centro di uno di questi spazi. L’Unione Europea “potrebbe” scegliere fra la possibilità di adesione al nuovo disegno obamiano delle aree di libero scambio, attraverso la Tap, o alternativamente valutare la possibilità di apertura e consolidamento delle relazioni con la Federazione Russa. Conseguentemente anche con il Caucaso, l’ Asia Centrale e poi l’intera regione euroasiatica.
    Ma per l’Est europeo l’amministrazione Obama ha piani ben precisi. Ereditati dalle precedenti amministrazioni e che si sostanziano nell’attività di contenimento della Federazione Russa. Da un lato attraverso lo scudo antimissilistico in fase di dislocamento nei paesi dell’Est e, dall’altro, attraverso l’adesione degli ex paesi europei del blocco socialista, alla Nato. Favorendo lo spostamento del “confine politico” dell’Unione Europea e dei paesi che ruotano nella sua orbita, a ridosso dei confini giuridici della Federazione Russa. Eliminando ogni governo filo-russo che si interponga fra questi confini giuridici e i “confini politici” dell’Unione. Un disegno fondamentale per gli interessi americani, funzionale all’inclusione dell’Unione Europea nell’area di libero scambio Trans-Atlantica. Un disegno che si scontra con la percezione russa dei propri “confini”, mai individuati come un limite statico, ma come un limite dinamico, a seconda dei propri interessi. Un disegno, quello americano, che ha ottenuto il sostegno favorevole di numerosi Stati europei.
    In questo contesto, il tentativo di sottrarre l’Ucraina alla sfera di influenza russa ha sconvolto un equilibrio che aveva profonde radici storiche. Inoltre, la Federazione Russa ha percepito il tentativo di passaggio dell’Ucraina nella sfera europea e occidentale come un passaggio potenzialmente definitivo e irreversibile. Come una minaccia senza precedenti. L’ipotesi di vedere, nell’arco di un decennio, lo Stato ucraino come un partner consolidato della Nato, dotato dello scudo antimissilistico americano, schierato lungo i confini con la Russia, è apparsa a Putin come uno dei peggiori incubi. Al quale si sarebbe aggiunto la perdita della Crimea, con il conseguente venir meno del controllo esercitato sul Mar Nero. Di fronte all’eventualità di questi cambiamenti radicali, Putin non poteva restare a guardare. Ma, nel medesimo tempo, si è trovato senza alternative. Ha dovuto optare per una reazione forte. L’utilizzo della forza militare. Oggi in Ucraina, come ieri in Georgia.
    Ma non si tratta di un punto di forza a suo favore, come molti credono. Anzi, si tratta dell’evidente dimostrazione che la Russia di Putin è sprovvista di validi strumenti di politica estera, diversi dall’uso della forza e dall’esercizio del ricatto energetico. Ricatto che può attuare solo in parte, necessitando dei proventi economici ottenuti dalla commercializzazione degli idrocarburi. Si tratta quindi di una Russia caratterizzata da una manifesta debolezza. Non in grado di esercitare nessun “Soft Power”. Obbligata ad aggrapparsi all’uso della potenza militare. La quale, a sua volta, non garantisce la possibilità di esercitare una influenza continuativa. Non garantisce nemmeno la stabilità interna, nel medio periodo, delle aree sottoposte a questa influenza. A ciò si aggiunge il fatto che il ricorso alla forza può essere esercitato solo per periodi limitati, all’interno del contesto occidentale, pena la marginalizzazione dallo scenario internazionale.
    Quindi, uno dei vantaggi di Puntin, ovvero il fatto che l’Ucraina non ha un esercito degno di questo nome, non può esser sfruttato pienamente. Putin ne è consapevole e per questo la sua strategia odierna si protrae lungo tre direttrici. L’occupazione militare della Crimea, al fine di mantenere inalterati i vantaggi strategici che la penisola offre, compresa l’egemonia navale russa nel Mar Nero e sul Caucaso. Occupazione che Putin spera di consolidare con il “referendum” previsto per fine mese. “Referendum” che si limiterà a confermare una indipendenza da Kiev già sancita nei fatti. Si tratta inoltre di una occupazione che svolge una funzione di “sfogo” parziale delle tensioni e di riassetto, a favore della Russia, dopo il crollo dell’equilibrio precedente. Il secondo obbiettivo, in realtà di primaria importanza per Putin, è la destabilizzazione interna dell’Ucraina. Senza realizzare occupazioni estese ad ampie regioni del territorio. Destabilizzazione da realizzarsi semplicemente mantenendo una presenza militare minima, anche indiretta, ma accompagnata da una minaccia costante di un impiego massiccio della forza.
    Alcune zone si proclameranno indipendenti da Kiev, Mosca ne garantirà l’“indipendenza”, senza la necessità di intervenire in forze all’intero del territorio ucraino. L’intento di Putin è quello di impedire al governo di Kiev di consolidarsi. Sia all’interno del territorio ucraino stesso, sia come partner credibile nei confronti dei paesi europei. Questi due aspetti sono funzionali ad uno scopo ben preciso: poter esercitare maggior peso durante le trattative con la Germania e l’Unione Europea, volte alla risoluzione della crisi. Trattative in cui Putin si aspetta di ottenere quante più garanzie possibili sul futuro dell’Ucraina, sul ruolo che la Nato avrà in questo paese. Così come punta a veder riconosciute ampie garanzie sugli spazi di manovra che Mosca vorrà riservarsi, come prerogativa, sul futuro ucraino.
    Tuttavia Putin, in queste trattative, parte perdente. Questo Putin lo sa, chiaramente. Il suo sogno di fare della Federazione Russa un nuovo centro strategico nei confronti di Stati e potenze minori è fallito. Naufragato ad occidente, con pochi superstiti. Uno di questi è la Bielorussia, ormai rimasta sola, con un semplice salvagente che non le permetterà di restare a galleggiare di fronte ai prossimi cambiamenti europei. Fallito perché ancora una volta Mosca è dovuta ricorrere ai suoi blindati, alla forza, la forza bruta. Uno strumento, quest’ultimo, che può anche risultare funzionante nell’immediato, ma che usato nel contesto occidentale contemporaneo appare sempre più come uno strumento vecchio, un “ferro arrugginito”. Soprattutto se  viene visto nelle mani chi voleva fare del proprio paese una potenza, dotata di una valida capacità attrattiva nei confronti di altri Stati della regione euroasiatica.
    L’uso della forza oggi, da parte di Mosca, appare come una mannaia nelle mani di un chirurgo. Allontanerebbe chiunque. Esattamente ciò che sta accadendo in queste ore. In molti Stati minori, all’interno dell’orbita della Federazione Russa, si registrano preoccupanti reazioni di fronte alla vicenda Ucraina. Di fronte al fatto, evidente, che la propria libertà finisce dove gli interessi della Russia hanno inizio. Il presidente russo è già stato sconfitto. Il suo progetto, il suo disegno del ruolo che la Federazione Russa avrebbe dovuto ricoprire nel mondo, agli inizi del XXI secolo, è fallito. Il suo paese non è in grado di esercitare nessuna pressione differente da quelle derivanti dal ruolo di semplice fornitore di risorse energetiche, materie prime e armi. La Russia non ha espresso nessun modello economico e culturale alternativo e, al tempo stesso, attrattivo nei confronti di altri Stati. Lo “spazio russo” rappresenta semplicemente un’alternativa per gli Stati che, non essendo integrati o integrabili in aree strategiche di altre potenze, non vogliono restare soli nel nuovo scenario internazionale.
    Putin ha perso l’Ucraina. Anche se dovesse riconquistarla interamente con l’uso della forza. Cosa che, quasi certamente, si guarderà bene dal fare. Tratterà quindi una soluzione con la Merkel, ma tratterà da perdente. Putin, in queste condizioni, può solo puntare al raggiungimento di un momentaneo pareggio, illusorio. A molti osservatori è sfuggito il fatto che questa è la più grave crisi europea dal dopoguerra ad oggi. Probabilmente la più grave, dal punto di vista internazionale, dalla crisi dei missili di Cuba. A molti è anche sfuggito il fatto che i fattori per una ulteriore destabilizzazione regionale, e un ulteriore deterioramento della crisi, ci sono tutti. Una grande potenza in declino, obbligata ad affidarsi all’uso della forza, lo scenario internazionale frammentato, una grave crisi della legittimità nel contesto internazionale, una crisi del multilateralismo, la crisi dell’ordine nella società internazionale, una crisi economica con pochi precedenti. E un leader non incline a compromessi. Il presidente russo è già stato sconfitto. Non serve umiliarlo. In queste condizioni è logico offrire a Putin un pareggio, dietro al quale possa nascondere l’irrecuperabile sconfitta. Offrire alla Russia una soluzione accettabile. Al più presto.
    (Lorenzo Andorni, “Nella crisi ucraina Putin entra sconfitto, ma da sconfitto non vorrà uscirne”, dal blog di Aldo Giannuli del 4 marzo 2014).

    I balaclava coprono i volti dei giovani soldati russi di stanza in Crimea. Soldati che in queste ore ultimano l’occupazione dei centri nevralgici della penisola, aiutati da alcuni “volontari” locali. Ironia della sorte, i copricapi che nascondono i loro volti portano il nome dalla città di Balaklava, oggi parte della municipalità di Sebastopoli. Teatro in passato di un’importante battaglia della guerra di Crimea. Battaglia che registrò la sconfitta dei russi. In una guerra che, non a caso, vide coinvolte le medesime regioni oggetto dei confronti odierni fra le potenze del XXI secolo e la Federazione Russa: il Mar Nero, il Caucaso, il Baltico, l’Est Europa. Regioni che trovano spazio nei libri di storia, e nella cronaca, ogni qual volta viene posto in essere il tentativo di contenere la Russia, e con essa i propri interessi strategici, entro i “propri confini”. Confini che ogni potenza ha percepito, e percepisce, come differenti. Secondo i propri interessi.

  • La Grande Ipocrisia del nostro cinema marcio: i partiti

    Scritto il 05/3/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.
    In teoria (ma soltanto in teoria) è stato prodotto da Nicola Giuliano e Francesca Cima (quota Pd di stretta marca burocratica di scuola veltroniana) per conto della Indigo Film, i quali – senza Berlusconi – non sarebbero stati in grado neppure di pagarsi le spese dell’ufficio, dato che su 9 milioni di euro di budget, il buon Berluska ne ha messi 6,5. E’ stata buttata dentro anche la Lega Nord, che ha partecipato con la Banca Popolare di Vicenza (500 mila euro come favore amicale) e con la sponsorizzazione del Biscottificio Verona (in tutto il film non si vede neppure una volta qualcuno mangiare uno dei suoi biscotti), entrambe le aziende vogliose di entrare nel grande giro (sono bastate due telefonate per convincerli).
    Grazie alla malleverie politiche, attraverso fondazioni di partito hanno ottenuto altri 2 milioni di euro incrociati: il Pd se li è fatti dare grazie al solerte lavoro di relazioni europee attraverso il “programma Media Europa” (650 mila euro) mentre Renata Polverini ha partecipato alla produzione dando 500 mila euro per conto della presidenza della Regione Lazio attraverso il “fondo per il cinema e audiovisivi per il rilancio delle attività cinematografiche dei giovani” (soldi che ha dato a Giampaolo Letta, sulla carta lui sarebbe “il giovane” che andava aiutato).
    Nicola Giuliano ha messo su la squadra partitica. In teoria fa il produttore, ma fa anche il docente, il consulente.Ha la cattedra al corso di produzione della Scuola nazionale di cinema di Roma, ma allo stesso tempo ha anche la cattedra di docente di produzione cinematografica presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, oltre che docente di “low cost production” a San Antonio De los Banos nell’isola di Cuba e consulente per la Rai. E’ un funzionario tuttofare che mette su pacchetti partitici, il che poco ha a che fare con il cinema, ma molto ha a che vedere con l’idea italiana di come si fa il cinema. O meglio: molto ha a che fare con l’idea di come si uccide e si annienta una cinematografia.
    Secondo gli esaltatori di questo “prodotto Italia”, il film vincente aprirebbe la strada a investimenti, stimolando i giovani autori e lanciando il nuovo cinema italiano; mentre, invece, l’unico risultato che otterrà sarà quello di far capire a tutti, come severo ammonimento, che “o prendete la tessera di Forza Italia/Pd oppure non lavorate”, chiarendo a chiunque intenda investire anche 1 euro nel cinema che bisogna però passare attraverso la griglia dell’italianità partitica, il che metterà in fuga chi di cinema si occupa e attirerà invece squali di diversa natura il cui unico obiettivo consiste nel fare affari lucrosi in Italia con Berlusconi e il Pd, in tutt’altri lidi.
    I giovani autori, i cineasti italiani in erba, le giovani produzioni speranzose, il cinema indipendente, ricevono da questo premio un danno colossale perchè il segnale che viene dato loro è quella della contundente italianità, quella della Grande Ipocrisia, la vera cifra di questo paese che si rifiuta di aprire il mercato ai meritevoli, ai competenti, a quelli senza tessera. Il film ha vinto esattamente nello stesso modo in cui aveva vinto “Nuovo cinema Paradiso” nel 1990.
    Due parole tecniche per spiegarvi come funziona il meccanismo di votazione dell’oscar. Per votare bisogna essere iscritti al Mpaa (Motion Pictures Academy of Art) e bisogna essere sindacalizzati; dal 1960 vale anche il principio per cui chi è disoccupato non vota, nel senso che bisogna dimostrare con documenti alla mano che “si sta lavorando” da almeno gli ultimi 24 mesi ininterrottamente, garantendosi in tal modo il voto di chi sta veramente dentro al mercato. Perchè per gli americani l’unica cosa che conta per davvero è il mercato, per questo Woody Allen (autore indipendente) detesta Hollywood e non ci va mai, la considera una truffa. I votanti sono all’incirca 6.000 e sono presenti tutte le categorie dei lavoratori (si chiamano industry workers): produttori, registi, sceneggiatori, direttori di fotografia, macchinisti, tecnici del suono, delle luci, scenografi, sarti, guardarobiere, guardie di sicurezza, perfino i gestori degli appalti per gestire i catering sul set, ecc. Ogni voto vale uno, il che vuol dire che il voto di Steven Spielberg vale quanto quello di un ragazzino il cui lavoro consiste nel tenere l’asta del microfono in direzione della bocca del divo di turno nel corso delle riprese, purchè lo faccia da almeno due anni e paghi i contributi.
    Quando si avvicina il giorno della votazione scattano i cosiddetti “pacchetti” e a Los Angeles la lotta è furibonda e comincia la caccia già verso i primi di novembre, con i responsabili marketing degli “studios” (sarebbero le grandi majors) che minacciano, ricattano, assumono, licenziano, per convincere chi ha bisogno di lavorare a votare per chi dicono loro. Per ciò che riguarda i film stranieri la procedura è la stessa ma su un altro binario: vale il cosiddetto “principio Hoover” lanciato dal capo del Fbi alla fine degli anni ‘50: vince la nazione che più di ogni altra in assoluto farà fare affari alle sei grosse produzioni che contano, acquistando i suoi prodotti. E’ il motivo per cui l’Italia è la nazione al mondo che ha collezionato più oscar di tutti (la più serva e deferente) e la Russia e il Giappone quelle che ne hanno presi di meno.
    Quando l’Italia, per motivi politici (o di affari) ha bisogno dell’oscar, allora costruisce un poderoso business (per la serie: vi compro questi quattro telefilm che nessuno al mondo vuole e ve li pago tre volte il suo valore) e lo va a proporre a società di intermediazione di Los Angeles collegate ai due sindacati più potenti californiani, da 40 anni gestiti da famiglie calabresi e siciliane, quelli che danno lavoro alla manovalanza tecnica e gestiscono i pacchetti, dato che controllano il 65% dei voti complessivi. Per i film stranieri bisogna avere un forte “endorsement”, ovvero un sostegno di persona nota nell’industria che garantisce a nome dei sindacati, come è avvenuto quest’anno con Martin Scorsese che si è fatto il giro presso la comunità di amici degli amici a Brooklyn.
    Nel 1989 accadde la stessa cosa: Berlusconi doveva entrare nel mercato americano per mettere su un gigantesco business (quello per il quale è stato definitivamente condannato dalla Cassazione, il cosiddetto “processo media-trade”); doveva entrare a Hollywood dalla porta principale con la Pentafilm. Ma non c’erano film italiani che valessero, era già piombata la mannaia dei partiti, tanto è vero che perfino il compianto Fellini girava a vuoto da un produttore all’altro ed era disoccupato, motivo per cui finì per ammalarsi. Alla fine, l’abile Berlusconi riuscì a convincere il più intelligente e bravo produttore di quei tempi (che se la passava maluccio) Franco Cristaldi, a dargli un prodotto perchè lui doveva vincere comunque. Cristaldi era disperato e non sapeva che cosa fare perchè non poteva fare delle figuracce con gli americani che conoscono il buon cinema e non è facile ingannarli, ma si fece venire in mente un’idea geniale. Aveva fatto una marchetta con RaiTre e aveva prodotto un film, “Nuovo Cinema Paradiso”, che era stato un flop clamoroso, sia alla tivvù, con indici di ascolto minimi, che al cinema, dove era uscito e dopo dieci giorni era stato ritirato per mancanza di pubblico. Il film durava 155 minuti ed era francamente inguardabile, di una noia mortale. Senza dire nulla al regista, Cristaldi ci lavorò da solo – letteralmente – per tre mesi. Rimontò totalmente il film, tagliò e buttò via 72 minuti e usando dei filtri cambiò anche le luci, riuscendo anche a modificare dei dialoghi. Lo fece uscire in Usa dove ottenne un buon successo di critica, sufficiente per passare.
    Berlusconi fu contento ma non gli diede ciò che era stato pattuito. Il giorno in cui Tornatore prese l’oscar, nel 1990, accadde un fatto inaudito per la comunità hollywoodiana. La statuetta venne data al regista e all’improvviso Franco Cristaldi fece un salto sul palco, si avvicinò, strappò di mano la statuetta a Tornatore, prese il microfono in mano e disse «questo oscar è mio, questo premio l’ho vinto io, questo è il mio film, questo è un film del produttore». Fu l’inizio della fine della sua carriera in Italia, perchè il giorno dopo l’intera critica statunitense (in Italia non venne mai fatta neppure menzione degli eventi) lo volle intervistare e lui raccontò come i partiti stessero distruggendo quella che un tempo era stata una delle più importanti industrie cinematografiche del mondo. Lo scaricarono tutti in Italia e finì per lavorare all’estero. Di lì a qualche anno morì.
    Fu in quell’occasione che Tornatore, in una intervista, spiegò come si faceva il regista in Italia: «Bisogna occuparsi di politica, quella è la strada. Io mi sono iscritto al Pci e poi sono riuscito a farmi eleggere alle elezioni comunali in un piccolo paesino della Calabria dove sono diventato assessore. Mi davano da firmare delle carte e io firmavo senza neppure leggerle, dovevo fare soltanto quello. Dopo un po’ di tempo mi hanno detto che potevo anche dimettermi e andare a Roma a fare i film». Aveva ragione lui: in Italia funziona così;
    24 anni dopo è la stessa cosa, con l’aggravante del tempo trascorso. “La Grande Bellezza” appartiene a questo filone dell’italianità e il solo fatto di accostarlo a Fellini o a De Sica è un insulto all’intelligenza collettiva della nazione: è una marchetta politica.
    E si vede, si sente, lo si capisce; nell’arte non si riesce a mentire perchè l’arte è basata su uno squisito paradosso: poichè è finzione totale – e quindi menzogna pura – chi la produce non può darla ad intendere perchè la verità sottostante salta sempre fuori. E’ la cartolina di un piccolo-borghese costruita (a tavolino) per venire incontro agli stereotipi degli americani votanti, attraverso un’operazione intellettualistica che non regala emozioni, ma soltanto suggestioni di provenienza pubblicitaria marketing negativa. In maniera ingegnosa e diabolicamente perversa propone delle maschere in un paese dove la verità artistica passa, invece, nella necessità dello smascheramento, cioè nel suo opposto. E’ la quintessenza del paradosso italiano trasformato nel consueto ossimoro: un brutto film che si pone e si qualifica come la Grande Bellezza; proprio come Mario Monti che lanciò il decreto “salva Italia” che ha affondato il paese e Letta (Enrico) che lanciò il “governo del fare” licenziato dopo pochi mesi perchè non è riuscito a fare nulla.
    Il film, davvero noioso e privo di spessore, è un prodotto subliminare, promosso dai partiti politici italiani al governo solo e soltanto dopo che i due protagonisti, Toni Servillo e Paolo Sorrentino, si sono messi pubblicamente a disposizione della famiglia Letta. Il film, infatti, doveva uscire a settembre del 2013, ma hanno anticipato l’uscita a giugno perchè era il momento in cui era assolutamente necessario usare ogni mezzo per poter azzannare l’opposizione. Il 7 giugno del 2013, Servillo e Sorrentino vengono invitati da Lilli Gruber nella sua trasmissione “8 e 1/2” per l’emittente La7. L’intervista dura 32 minuti. I primi 20 minuti sono noiosi e si parla del film che, si capisce da come andava l’intervista, nessuno avrebbe mai visto. Dal 21esimo minuto in poi, avviene la svolta, fino alla fine. L’attore e il regista, ben imboccati dalla Gruber, si lanciano in un attacco politico personale contro Beppe Grillo e il M5s. Un fatto che non aveva alcun senso, dato che si trattava di un film che nulla – per nessun motivo – aveva a che fare con la vita politica italiana e con il dibattito in corso.
    Servillo fu durissimo nel sostenere a un certo punto che «mi faccio dei nemici ma me li faccio volentieri», spiegando ai telespettatori (che pensavano di ascoltare un attore che parlava di cinema) come «Grillo ripropone un’immagine di leader vecchio che passa da Masaniello a Berlusconi» – cioè il suo produttore –  «e usa un linguaggio violento…. ». Sorrentino gli andò dietro e insieme, per dei motivi incomprensibili a chiunque si occupi di cinema in qualunque parte del mondo (tranne che in Italia) spiegavano che il M5s «è un movimento che vuole togliere la sovranità al Parlamento». Da quel momento i due sono andati in giro a promuovere il loro film in ambito politico nazionale allertando la popolazione sul pericolo rappresentato dal M5s, e così l’establishment nazionale l’ha imposto come moda propagandandolo in maniera esorbitante. Riguardando quell’intervista, ho scoperto, pertanto, che Toni Servillo ha stabilito che io sono un suo nemico. Non lo sapevo. Ieri sera, la Gruber, sempre attenta nel rispettare i codici della rappresentanza che conta, ha dedicato un’altra intervista al film, ma in questo caso ha invitato Walter Veltroni. Forse c’è stato qualche telespettatore che si sarà chiesto «ma che cosa c’entra con questo film?». Appunto.
    (Sergio Di Cori Modigliani, “La Grande Ipocrisia, trionfano le larghe intese consociative spacciandole per prodotto Italia”, dal blog di Modigliani del 4 marzo 2013).

    Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.

  • Brutte notizie: i complottisti hanno ragione, è provato

    Scritto il 03/1/14 • nella Categoria: Recensioni • (4)

    Oggi è di moda l’accusa di “complottismo”. D’altra parte come possiamo pensare che chi stia al potere non dica il vero? Visto che viviamo nel regno della libertà e della trasparenza, come possiamo criticare le nostre fonti informative? Come possiamo pensare che qualcosa di essenziale non ci sia stato detto? In tempi di mobilitazione strategica lo stesso fatto di pensare criticamente è di per sé eversivo. Il culmine della nostra libertà personale sembra sia accettare che i mezzi di comunicazione ci liberino dal fardello della critica. Nel marzo del 2010, Bashar al-Assad, il futuro tiranno siriano, fu decorato ufficialmente da Napolitano, il nostro Presidente della Repubblica. Per la precisione il figlio di suo padre, che all’epoca era buono, meritava il nostro elogio ed ebbe effettivamente la più alta decorazione del nostro paese. L’evento fu realmente memorabile. Assad entrava ufficialmente nel palco dei nostri migliori alleati, assieme al beneamato colonnello Gheddafi.
    Il presidente siriano venne dunque insignito col più importante titolo onorifico italiano, quello di “Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran cordone al merito della Repubblica italiana”. Il titolo sanciva l’inizio di un’alleanza talmente “profonda” che sarebbe finita, di lì a pochi mesi, con l’accusa di essere a capo di uno ‘Stato canaglia’. Pochi anni prima, nel 2007, il comandante supremo delle forze Nato in Europa dal 1997 al 2000, generale Wesley Clark, aveva letteralmente sbigottito il suo uditorio in un incontro pubblico a San Francisco. Rendeva di pubblico dominio un breafing avuto poco dopo l’11 settembre 2001. Sosteneva di essere stato messo al corrente dal vice-presidente Cheney e dal ministro della Difesa Rumsfeld dell’intenzione dell’amministrazione di scatenare una serie di guerre contro Siria, Iraq, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran.
    L’obiettivo era trasformare il “volto” del Medio Oriente prima di essere costretti ad accettare la sfida strategica della prossima superpotenza emergente. Il generale Clark sosteneva che, per costoro, l’esercito americano doveva servire per scatenare guerre e per far cadere governi e non per rafforzare la pace e la stabilità. La sua opinione era che un gruppo di persone avesse preso il controllo del paese con un colpo di Stato politico. Si trattava di inventarsi nemici per destabilizzare intere aree geografiche e dare così vita a nuovi scenari geopolitici. La strategia americana era sostanzialmente quella di produrre caos: seminare vento per raccogliere tempesta. Il punto chiave non è la menzogna in quanto tale. Altre volte nella storia l’alleato è diventato il nemico, l’aggressore ha vestito i panni della vittima e la menzogna ha assunto le parvenze della verità. Le bugie sono sempre esistite, ma oggi sembrano molto più credibili che in passato. Adesso, se una campagna informativa è svolta con un’adeguata potenza di fuoco, qualsiasi cosa può essere creduta vera.
    Da sempre ci vengono fornite informazioni “sicure” che non possiamo verificare; però ora lo stesso fatto di porsi in modo critico appare come un elemento di lesa maestà. In tempi teologici l’uso critico della ragione si chiamava “eresia”; oggi, invece, l’accusa è quella di “complottismo”. In un mondo in cui le cose apparentemente sembrano andare bene, chi afferma il contrario può essere solo un malato, un debole di spirito, un paranoico. Come si può criticare la bontà e la lungimiranza dell’Impero del bene? Il libro di Paolo Sensini, “Divide et impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente”, è un rigoroso tentativo di andare oltre la mostruosa cortina del “politicamente corretto”. L’apparato di note del testo è assolutamente notevole e le chiavi di lettura che il testo permette sono molto variegate.
    Ciò che balza subito agli occhi è il gigantesco lavoro di scavo fatto dall’autore fra i documenti a disposizione. La quantità di dati circolanti è effettivamente molto ampia nelle pubblicazioni in lingua inglese e francese (meno in italiano). La cosa è molto interessante perché anche all’interno del mainstream si trovano autentiche perle che illuminano parecchi degli eventi recenti. Troviamo le dichiarazioni pubbliche del generale Clark sulla politica estera di Bush riportate poche righe sopra; quelle del generale Fabio Mini, che afferma che la politica estera statunitense nel Mediterraneo è asservita agli interessi israeliani; troviamo chiarimenti relativi all’inquietante rapporto fra sunniti e wahhabiti – per inciso, senza il petrolio e l’aiuto statunitense, i wahhabiti sarebbero solo una setta semiereticale di beduini analfabeti che si è impadronita con la forza della Mecca; e troviamo anche molte ragioni del perché una parte dei siriani stia ancora sostenendo, malgrado tutto, Assad.
    Fra tutti i documenti risalta di gran lunga la dichiarazione, sicuramente fatta a braccio, di Karl Rove, l’anima nera dell’entourage di Bush che, in un attimo di vera autenticità esistenziale, dice chiaramente: «Ora noi siamo un Impero e quando agiamo creiamo la nostra realtà. E mentre voi state giudiziosamente analizzando quella realtà, noi agiremo di nuovo e ne creeremo un’altra e poi un’altra ancora che voi potrete studiare. È così che andranno le cose. Noi facciamo la storia e a voi, a tutti voi, non resterà altro da fare che studiare ciò che facciamo». I vertici americani sanno dunque di “scrivere la storia” e non si curano affatto della verità, della giustizia e anche degli eventuali danni collaterali. Sull’argomento vi sono un’infinità di problemi aperti: dalla quantità enorme di stranezze dell’11 settembre 2001, all’influenza della lobby israeliana nelle politiche mediorientali degli Stati Uniti. La cosa interessante è che esiste, e Sensini se ne da conto, un’ampia documentazione. In tale contesto, più che l’informazione puntuale, manca la capacità di formulare i quesiti giusti e di seguire le piste più interessanti.
    Per esempio, perché nessuno si chiede come sia possibile che l’Arabia Saudita, un paese che non permette il voto e la guida alle donne, sia riuscito a diventare, assieme a Israele, nazione che pratica l’apartheid, il difensore della democrazia e dei diritti umani nel mondo arabo? Come è stato possibile che le petromonarchie più integraliste, come gli Stati sunniti del Golfo Persico, abbiano come peggior nemico l’Iran, un altro petrostato integralista musulmano, e non Israele, il loro declamato nemico assoluto? I petrostati sciiti e sunniti non dovrebbero essere, come da teologia islamica, alleati per respingere l’influenza di americani e israeliani? Perché a sua volta Israele, apparentemente uno Stato moderno, “l’unica democrazia del Medio Oriente”, è alleato di queste monarchie medievali? E ancora: perché Assad, che certamente non è un santo, ha sempre avuto dalla sua una parte della popolazione siriana? Perché in tanti anni non è stata raggiunta nell’area neppure una limitata forma di quieto vivere? Che senso storico ha il tentativo, iniziato un decennio fa dal precedente presidente degli Stati Uniti, di cambiare il volto del Medio Oriente?
    Le tesi del libro sono molte e non vorrei togliere al lettore il piacere della lettura. Tuttavia, fra tutti i capitoli, segnalo il gustoso “I precedenti storici dell’11 settembre” nella politica estera statunitense. Si tratta di un capitolo delizioso per brevità e concisione. In queste pagine l’autore mostra alcune costellazioni di eventi che hanno spinto più volte gli Stati Uniti ad agire per “autodifesa”. La trama elementare è quella di un “nemico traditore” che agisce nell’ombra per pugnalare alle spalle l’ingenuo ma coraggioso campione della democrazia; un canovaccio che si ripropone più volte nella storia americana con poche e lievi varianti. La prima guerra provocata da un nemico traditore, fu quella contro la Spagna del 1898. Essa venne dichiarata dopo l’esplosione dell’Uss Maine, una nave da guerra alla fonda nel porto dell’Avana. La colpa dell’esplosione fu attribuita d’ufficio agli spagnoli, venne impedita ogni perizia sulle cause del disastro; poco dopo il Maine fu affondato in alto mare, appena in tempo per iniziare una guerra che la Spagna non aveva alcun interesse a fare.
    Un altro caso molto noto fu quello del Lusitania, un transatlantico civile britannico pieno di materiale bellico (fra l’altro esplosivi ad alto potenziale che esplodono a contatto con l’acqua), che viaggiava a pieno carico di passeggeri in zone dove si sapeva battevano sommergibili tedeschi. Pearl Harbour è un altro esempio paradigmatico. Nel dicembre 1941, la marina americana venne attaccata apparentemente di sorpresa dalla flotta giapponese nelle Hawaii. All’epoca i servizi segreti statunitensi avevano decrittato il cifrario segreto giapponese e seppero con anticipo dell’imminente attacco. Il presidente Roosevelt aveva bisogno di una scusa per entrare in guerra senza problemi. Alla fine della giornata gli unici veramente sorpresi dal bombardamento furono i marinai americani usati come carne da macello. Anche gli incidenti del Golfo del Tonchino dell’agosto 1964, quelli che provocarono l’intervento in forze degli Stati Uniti in Vietnam, erano una bugia. La vicenda finì talmente male, con l’inglorioso ritiro americano di dieci anni dopo, che gli stessi diretti responsabili politici statunitensi furono costretti ad ammettere pubblicamente la loro colossale frode.
    Per brevità tralascio tutta la propaganda che diede inizio alla prima e seconda guerra irachena, come la penosa vicenda delle fotografie dei cormorani incatramati, o la serie di false dichiarazioni fatte al Congresso da testimoni compiacenti istruiti per l’occasione dai servizi segreti statunitensi. Quello che a me interessa è fare notare che gli Stati Uniti sono un paese come gli altri. Il Destino Manifesto non impedisce a questo paese di fare tutte quelle brutte figure che sono così consuete nei paesi in cui abitano i comuni mortali. Certo loro producono telegiornali per tutto il mondo e questo migliora la loro immagine. Per esempio nei pacchetti informativi è implicito chi sia il buono e chi sia il cattivo, così com’è ovvio che loro, che sono buoni, stiano aiutando i buoni. Vorrei solo far notare che anch’io, pur avendo ritenuto certa l’esistenza di Babbo Natale, dopo qualche anno ho smesso di crederci.
    (Alfio Neri, “Breve elogio del complottismo”, recensione del saggio “Divide et impera”, di Sensini, pubblicata da “Carmilla” il 21 dicembre 2013. Il libro: Paolo Sensini, “Divide et impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente”, Mimesis, 322 pagine, 24 euro).

    Oggi è di moda l’accusa di “complottismo”. D’altra parte come possiamo pensare che chi stia al potere non dica il vero? Visto che viviamo nel regno della libertà e della trasparenza, come possiamo criticare le nostre fonti informative? Come possiamo pensare che qualcosa di essenziale non ci sia stato detto? In tempi di mobilitazione strategica lo stesso fatto di pensare criticamente è di per sé eversivo. Il culmine della nostra libertà personale sembra sia accettare che i mezzi di comunicazione ci liberino dal fardello della critica. Nel marzo del 2010, Bashar al-Assad, il futuro tiranno siriano, fu decorato ufficialmente da Napolitano, il nostro Presidente della Repubblica. Per la precisione il figlio di suo padre, che all’epoca era buono, meritava il nostro elogio ed ebbe effettivamente la più alta decorazione del nostro paese. L’evento fu realmente memorabile. Assad entrava ufficialmente nel palco dei nostri migliori alleati, assieme al beneamato colonnello Gheddafi.

  • La geopolitica della menzogna: come distorcere la storia

    Scritto il 15/12/13 • nella Categoria: Recensioni • (Commenti disabilitati)

    Nel suo “Invece della catastrofe”, Giulietto Chiesa afferma senza giri di parole che la lotta di classe è stata storicamente neutralizzata: attraverso il sistema dei media, il “nemico” è riuscito a far credere agli sfruttati di essere soci del club fortuna. Così, il grande capitale ha scatenato l’offensiva finale, prendendosi tutto. «Si poteva evitare questa capitolazione, l’onta di essere assaliti alle spalle quasi senza colpo ferire?». Forse, sostiene Alberto Melotto, «a patto di riconoscere che la cognizione degli uomini, la loro capacità di discernere la realtà esterna, passa attraverso l’abbeverarsi a quella fontana generosa, multicolore e mai spenta che è la società dello spettacolo: chi controlla quei canali di immissione di contenuti fittizi può formare come morbida argilla la coscienza di interi popoli». Disinformazione e consenso attraverso i media, ovvero: la geopolitica della menzogna. E’ il tema di un saggio di Paolo Borgognone, deciso a smascherare l’inganno quotidiano su cui si basano le strategie di dominio.
    Nella prefazione di Giulietto Chiesa, è in primo piano la strage messa in atto alla maratona di Boston. Mostri da sbattere in prima pagina, i fratelli Dzhokar e Tamerlan Tsarnaev, ceceni, dunque islamici, “quindi” terroristi. Cronache improbabili sull’uccisione di Tamerlan, lungo strade affollate di misteriosi addetti alla sicurezza. «Già Edgar Allan Poe, nel racconto “La lettera rubata” ci diceva che spesso la verità va messa in primo piano per poterla meglio nascondere, e in questo i media americani (ed europei) sono davvero maestri», scrive Melotto su “Megachip”. «Ci troviamo di fronte a un altro tassello di quella strategia della tensione su scala planetaria, in versione “bigger than life” per restare all’idioma yankee, che predispone l’uditorio ad una supina passività, ad una studiata altalena di acquiescenza e di smodata partecipazione emotiva, fatta di paura e di aggressività». Dalla orwelliana “settimana dell’odio” siamo giunti a questo lungo, interminabile decennio post 11 Settembre, dove si induce l’essere umano a «rifugiarsi nel già pensato».
    Il capitolo Siria? Ci ha portati a un passo dalla guerra mondiale. E alcuni fattori, come «il tardivo orgoglio del Parlamento britannico, scottato dalla sacra alleanza Bush-Blair (“We won’t get fooled again”, cantavano gli Who)» ci hanno evitato gli scenari peggiori, ma intanto «la ruota dell’intrattenimento globale ha ripreso a girare, e non ci sarà tempo per risolvere le cause di questo e del prossimo conflitto». Borgognone smaschera «molti farisei del politicamente corretto», denunciando la disinformazione costruita nel ‘900 contro l’Urss: «L’Occidente ha demonizzato l’esperienza d’oltrecortina non soltanto per scongiurare le nefaste (a suo modo di vedere) inclinazioni verso la società degli uguali, ma anche per allontanare il pericolo di un modo di intendere l’esistente che non poteva essere “normalizzato” e ridotto agli standard di questa parte di mondo». La stampa occidentale, scrive, «non ha mai indagato le origini e i fondamenti culturali, sociali e di integrazione comunitaria della tradizione russa. Ha preferito insistere sul tema della russofobia, della slavofobia».
    Borgognone, impegnato da anni nel Civs (Centro iniziative verità e giustizia), analizza da vicino il caso di un quotidiano come  l’Economist”, rappresentante di quell’alta borghesia atlantica che, dall’alto del suo “prestigio”, riesce a condizionare le politiche di parlamenti e di Stati sovrani. Né sorprende che sia tenero verso “Occupy Wall Street”, movimento che considera innocuo, sostanzialmente giovanilista e “liberal”. Idem per gli Indignados, dove le particelle anarco-libertarie convivono coi «bravi ragazzi di buona famiglia, che vogliono solo allargare le maglie del sistema per entrare a farne parte in pianta organica». Ma se il pubblico occidentale è totalmente indifeso di fronte ai “produttori di falsità”, le cose cambiano in Sudamerica, dove il popolo non si fida del mainstream e dispone ancora di anticorpi difensivi, contro lo strapotere delle televisioni legate alle grandi corporations. Sono proprio i cittadini del Venezuela, nel 2002, a respingere il golpe contro Hugo Chàvez, deposto per aver democratizzato l’economia nei settori-chiave dell’agricoltura, della pesca e degli idrocarburi, tradizionale appannaggio dell’élite. Mentre Bush e Aznar salutano il “ritorno della democrazia” nell’insediamento dell’industriale golpista Pedro Carmona Estanga, è proprio il popolo a gonfiare per protesta le vie di Caracas, nel nome di Chàvez, reclamando verità e giustizia fino a convincere l’esercito a rimettere in sella il presidente legittimo. Ma, mentre i cecchini sparavano sulla folla facendo 200 morti tra i manifestanti, le reti televisive trasmettevano a tambur battente cartoni animati e filmetti come “Pretty woman”.
    Il caso di Cuba, che occupa la parte finale del volume di Borgognone, secondo Melotto «mostra in modo ancor più evidente – e più imbarazzante per noi occidentali – quanto il racconto di parte sappia tacere, svilire, nascondere fatti che saprebbero destare, questo sì, genuino scandalo, se solo qualcuno si prendesse la pena di renderli noti». Il 6 ottobre 1976 muoiono 73 passeggeri su un volo di linea cubano, appena decollato dalle Barbados. A capo del commando terroristico, il pediatra Orlando Bosch, stretto collaboratore della Cia e leader degli anti-castristi di Miami. «E ancora, epidemie procurate ad hoc» che fecero strage di animali ed esseri umani. «Tutto questo per ripristinare un’olimpica condizione di signoraggio che aveva luogo ai tempi di Fulgenzio Batista». Dall’analisi di Borgognone esce male anche una campionessa del dissenso come Yoani Sanchez, in realtà riempita di dollari per fare propaganda contro Cuba. Molto denaro, annota Melotto: ogni mese, l’equivalente di due anni di salario cubano. E’ così che «la classe dei dissidenti va in paradiso».
    (Il libro: Paolo Borgognone, “La disinformazione e la formazione del consenso attraverso i media”, Zambon editore, 240 pagine, 12 euro. Volume I: “La disinformazione strategica. Caratteri peculiari del fenomeno e analisi del caso latinoamericano”).

    Nel suo “Invece della catastrofe”, Giulietto Chiesa afferma senza giri di parole che la lotta di classe è stata storicamente neutralizzata: attraverso il sistema dei media, il “nemico” è riuscito a far credere agli sfruttati di essere soci del club della cuccagna. Così, il grande capitale ha scatenato l’offensiva finale, prendendosi tutto. «Si poteva evitare questa capitolazione, l’onta di essere assaliti alle spalle quasi senza colpo ferire?». Forse, sostiene Alberto Melotto, «a patto di riconoscere che la cognizione degli uomini, la loro capacità di discernere la realtà esterna, passa attraverso l’abbeverarsi a quella fontana generosa, multicolore e mai spenta che è la società dello spettacolo: chi controlla quei canali di immissione di contenuti fittizi può formare come morbida argilla la coscienza di interi popoli». Disinformazione e consenso attraverso i media, ovvero: la geopolitica della menzogna. E’ il tema di un saggio di Paolo Borgognone, deciso a smascherare l’inganno quotidiano su cui si basano le strategie di dominio.

  • Contro Usa e Israele: il Mandela che non osano citare

    Scritto il 07/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    «Se c’è un paese che ha commesso atrocità indicibili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti d’America. A loro non importano gli esseri umani». Parola di Nelson Mandela. Mentre il mondo ricorda l’eredità di “Madiba” in veste di primo presidente nero del Sudafrica e icona anti-apartheid, va ricordato che fu anche profondamente scettico nei confronti della potenza americana, criticata all’epoca dell’invasione dell’Iraq. Inoltre, Mandela era un sostenitore cruciale dell’Olp di Arafat. «Qui di seguito», annuncia “Rt” in un servizio ripreso da “Megachip”, «potrete leggere le sette citazioni del leader che hanno meno probabilità di essere pubblicate, anche laddove si sta rendendo onore alla sua vita e si commemora la sua morte nei media mainstream». Prima dell’invasione Usa dell’Iraq, Mandela sferzò duramente gli Stati Uniti: al Forum Internazionale delle Donne a Johannesburg, dichiarò che il movente principale dell’allora presidente Bush era «il petrolio». Rincarò la dose intervistato da “Newsweek”: «L’atteggiamento degli Stati Uniti d’America è una minaccia per la pace nel mondo».
    Mandela è stato da lungo tempo sostenitore dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, offrendosi come mediatore politico tra Israele e i suoi vicini. «Israele dovrebbe ritirarsi da tutte le aree che ha conquistato a danno degli arabi nel 1967, e in particolare dovrebbe ritirarsi completamente dalle Alture del Golan, dal sud del Libano e dalla Cisgiordania», dichiarò Mandela, come riferì Suzanne Belling dell’agenzia “Jewish Telegraph”. Storico l’incontro con Fidel Castro nel 1991, insieme a cui tenne un discorso intitolato “Quanto lontano siamo andati noi schiavi”. Il paese stava commemorando il 38° anniversario della presa della caserma Moncada da parte dei castristi, e Mandela salutò il «posto speciale» di Cuba nel cuore della gente dell’Africa. «Fin dai suoi primi giorni, la rivoluzione cubana è stata anche una fonte di ispirazione per tutte le persone che amano la libertà. Ammiriamo i sacrifici del popolo cubano nel mantenere la propria indipendenza e sovranità di fronte alla malvagia campagna imperialista orchestrata per distruggere l’impressionante miglioramento realizzato nel corso della rivoluzione cubana».
    Sempre il leader sudafricano invitò a porre fine alle dure sanzioni imposte dall’Onu alla Libia nel 1997, e promise il suo sostegno a Gheddafi, a sua volta un suo sostenitore di lunga data. «È nostro dovere dare sostegno al leader fratello, soprattutto per quanto riguarda le sanzioni, che non stanno colpendo solo lui ma stanno colpendo la massa della gente qualunque, i nostri fratelli e sorelle africani», dichiarò Mandela. In occasione della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese, il 4 dicembre 1997, Mandela assemblò un gruppo «in qualità di sudafricani, di palestinesi nostri ospiti e di umanisti, per esprimere la nostra solidarietà nei confronti del popolo della Palestina». Nel discorso, fece appello affinché le fiamme metaforiche della solidarietà, della giustizia e della libertà fossero tenute accese. «L’Onu ha preso una posizione forte contro l’apartheid, e nel corso degli anni è stato costruito un consenso internazionale, che ha contribuito a porre fine a questo sistema iniquo. Ma sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi».

    «Se c’è un paese che ha commesso atrocità indicibili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti d’America. A loro non importano gli esseri umani». Parola di Nelson Mandela. Mentre il mondo ricorda l’eredità di “Madiba” in veste di primo presidente nero del Sudafrica e icona anti-apartheid, va ricordato che fu anche profondamente scettico nei confronti della potenza americana, criticata all’epoca dell’invasione dell’Iraq. Inoltre, Mandela era un sostenitore cruciale dell’Olp di Arafat. «Qui di seguito», annuncia “Rt” in un servizio ripreso da “Megachip”, «potrete leggere le sette citazioni del leader che hanno meno probabilità di essere pubblicate, anche laddove si sta rendendo onore alla sua vita e si commemora la sua morte nei media mainstream». Prima dell’invasione Usa dell’Iraq, Mandela sferzò duramente gli Stati Uniti: al Forum Internazionale delle Donne a Johannesburg, dichiarò che il movente principale dell’allora presidente Bush era «il petrolio». Rincarò la dose intervistato da “Newsweek”: «L’atteggiamento degli Stati Uniti d’America è una minaccia per la pace nel mondo».

  • Chomsky: liberarsi dagli Usa, lo Stato-canaglia impunito

    Scritto il 14/11/13 • nella Categoria: idee • (4)

    Durante l’ultima puntata della farsa di Washington che ha stupito e divertito il mondo, un commentatore cinese ha scritto che se gli Usa non possono essere un membro responsabile del sistema mondiale, forse il mondo dovrebbe “de-americanizzarsi” – separarsi dallo Stato-canaglia che regna tramite il suo potere militare, ma sta perdendo credibilità in altri settori. La fonte diretta dello sfacelo di Washington è stato il forte spostamento a destra della classe politica. In passato, gli Usa sono stati talvolta descritti ironicamente – ma non erroneamente – come uno Stato avente un unico partito: il partito degli affari, con due fazioni chiamate democratici e repubblicani. Questo non è più vero. Gli Usa sono ancora uno Stato a partito unico, il partito-azienda. Ma hanno una sola fazione: i repubblicani moderati, ora denominati New Democrats (come la coalizione al Congresso Usa designa se stessa).
    Esiste ancora una organizzazione repubblicana, ma essa da lungo tempo ha abbandonato qualsiasi pretesa di essere un partito parlamentare normale. Il commentatore conservatore Norman Ornstein, dello Enterprise Institute, descrive i repubblicani di oggi come «una rivolta radicale – ideologicamente estrema, sdegnosa dei fatti e dei compromessi, che disprezza la legittimità della sua opposizione politica»: un grave pericolo per la società. Il partito è al servizio dei più ricchi e delle imprese. Siccome i voti non possono essere ottenuti a quel livello, il partito è stato costretto a mobilitare settori della società che per gli standard mondiali sono estremisti. Pazza è la nuova norma tra i membri del Tea Party e una miriade di altri gruppi, al di là della corrente tradizionale. La classe dirigente repubblicana e i suoi sponsor d’affari avevano previsto di usarli come ariete nell’assalto neoliberista contro la popolazione – privatizzare, deregolamentare e limitare il governo, pur mantenendo quelle parti che sono al servizio della ricchezza e del potere, come i militari.
    La classe dirigente repubblicana ha avuto un certo successo, ma ora si accorge che non riesce più a controllare la sua base, con sua grande costernazione. L’impatto sulla società americana diventa così ancora più grave. Un esempio: la reazione virulenta contro l’Affordable Care Act (Atto sulla Salute Conveniente, è il piano nazionale per la sanità, più noto in Italia come ObamaCare, ndt) e il quasi shutdown del governo federale. L’osservazione del commentatore cinese non è del tutto nuova. Nel 1999, l’analista politico Samuel Huntington avvertiva che, per gran parte del mondo, gli Usa stavano diventando «la superpotenza canaglia», visti come «la più grande minaccia esterna per le loro società». A pochi mesi dall’inizio del mandato di Bush, Robert Jervis, presidente della American Political Science Association, avvertiva che «agli occhi di gran parte del mondo, il primo Stato-canaglia oggi sono gli Stati Uniti». Sia Huntington che Jervis hanno avvertito che un tale corso è imprudente. Le conseguenze per gli Stati Uniti potrebbero essere deleterie.
    Nell’ultimo documento emanato da “Foreign Affairs”, uno dei principali giornali, David Kaye esamina un aspetto dell’allontanamento di Washington dal mondo: il rifiuto dei trattati multilaterali, «come se si trattasse di sport». Kaye spiega che alcuni trattati vengono respinti in modo definitivo, come quando il Senato degli Stati Uniti «ha votato contro la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità nel 2012 e il Comprehensive Nuclear – Test Ban Treaty (il trattato sulla messa al bando del nucleare – Ctbt), nel 1999». Per altri trattati si preferisce non agire, se riguardano «temi come il lavoro, i diritti economici e culturali, le specie in pericolo di estinzione, l’inquinamento, i conflitti armati, il mantenimento della pace, le armi nucleari, la legge del mare, la discriminazione contro le donne». Il rifiuto degli obblighi internazionali è cresciuto in modo così radicato, scrive Kaye, che «i governi stranieri non si aspettano più la ratifica di Washington o la sua piena partecipazione nelle istituzioni create dai trattati. Il mondo va avanti; le leggi vengono fatte altrove, con limitato (quando c’è) coinvolgimento americano».
    Anche se non è nuova, la pratica si è effettivamente consolidata in questi ultimi anni, insieme con la tranquilla accettazione, all’interno della nazione, della dottrina secondo cui gli Usa hanno tutto il diritto di agire come uno Stato-canaglia. Per fare un esempio, un paio di settimane fa le forze speciali Usa hanno preso un sospetto, Abu Anas al-Libi, dalle strade della capitale libica Tripoli, portandolo su una nave da guerra per l’interrogatorio, senza avvocato o diritti. Il segretario di Stato americano John Kerry ha informato la stampa che quelle azioni sono “legali” perché sono conformi con il diritto americano, senza suscitare alcun particolare commento. I principi sono validi solo se sono universali. Le reazioni sarebbero un po’ diverse, manco a dirlo, se le forze speciali cubane avessero rapito il prominente terrorista Luis Posada Carriles a Miami, portandolo a Cuba per l’interrogatorio e il processo in conformità alla legge cubana.
    Tali azioni sono limitate agli Stati-canaglia. Più precisamente, a quegli Stati-canaglia abbastanza potenti da agire impuniti, in questi ultimi anni, fino a svolgere aggressioni a volontà e terrorizzare le grandi regioni del mondo, con gli attacchi dei droni e molto altro.  E a sfidare il mondo in altri modi, ad esempio persistendo nel suo embargo contro Cuba, nonostante l’opposizione di lunga durata di tutto il mondo, oltre a Israele, che ha votato con il suo protettore quando le Nazioni Unite hanno condannato ancora una volta l’embargo nel mese di ottobre. Qualunque cosa il mondo possa pensare, le azioni degli Usa sono legittime perché diciamo così. Il principio fu enunciato dall’eminente statista Dean Acheson nel 1962, quando diede istruzioni alla Società americana di diritto internazionale, in base alle quali nessun problema giuridico si pone quando gli Stati Uniti rispondono a una sfida per il loro «potere, posizione e prestigio». Cuba ha commesso quel delitto quando ha sconfitto un’invasione proveniente dagli Stati Uniti e poi ha avuto l’ardire di sopravvivere a un assalto progettato per portare «i terroristi della terra» a Cuba, nelle parole dello storico Arthur Schlesinger, consigliere di Kennedy.
    Quando gli Stati Uniti hanno ottenuto l’indipendenza, hanno cercato di unirsi alla comunità internazionale del tempo. E’ per questo che la Dichiarazione d’Indipendenza si apre esprimendo la preoccupazione per il “rispetto delle opinioni dell’umanità”. Un elemento cruciale fu l’evoluzione da una confederazione disordinata verso un’unica «nazione degna di stipulare trattati», secondo l’espressione storica del diplomatico Eliga H. Gould, che osservava le convenzioni dell’ordine europeo. Con il raggiungimento di questo status, la nuova nazione otteneva anche il diritto di agire a suo piacimento a livello nazionale. Poteva quindi procedere a liberarsi della popolazione indigena e ad espandere la schiavitù, una istituzione così “odiosa” che non poteva essere tollerata in Inghilterra, come l’illustre giurista William Murray, conte di Mansfield, stabilì nel 1772. L’evoluzione del diritto inglese era un fattore che spingeva la società schiavista a sfuggire alla sua portata. Il diventare una “nazione degna di stipulare trattati” conferì molteplici vantaggi: il riconoscimento da parte degli altri Stati e la libertà di agire senza interferenze a casa propria. Il potere egemonico fornisce l’opportunità di diventare uno Stato-canaglia, sfidando liberamente il diritto internazionale e le sue norme, mentre affronta una crescente resistenza all’estero e contribuisce al proprio declino attraverso ferite auto-inflitte.
    (Noam Chomsky, “De-americanizzare il mondo”, intervento pubblicato su “Truth Out” il 5 novembre 2013 e ripreso da “Come Don Chisciotte”).

    Durante l’ultima puntata della farsa di Washington che ha stupito e divertito il mondo, un commentatore cinese ha scritto che se gli Usa non possono essere un membro responsabile del sistema mondiale, forse il mondo dovrebbe “de-americanizzarsi” – separarsi dallo Stato-canaglia che regna tramite il suo potere militare, ma sta perdendo credibilità in altri settori. La fonte diretta dello sfacelo di Washington è stato il forte spostamento a destra della classe politica. In passato, gli Usa sono stati talvolta descritti ironicamente – ma non erroneamente – come uno Stato avente un unico partito: il partito degli affari, con due fazioni chiamate democratici e repubblicani. Questo non è più vero. Gli Usa sono ancora uno Stato a partito unico, il partito-azienda. Ma hanno una sola fazione: i repubblicani moderati, ora denominati New Democrats (come la coalizione al Congresso Usa designa se stessa).

  • Maradona, gli evasori e i pagliacci (tra sdegno e fiction)

    Scritto il 24/10/13 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Maradona, il calcio e le tasse: quando il senso civico «finisce nelle mani dei pagliacci». Che sarebbero, nell’ordine: l’ex grande giocatore argentino e il tele-intrattenitore più coccolato d’Italia, Fabio Fazio. Con la “complicità” indiretta di un grande eretico della televisione italiana, Gianni Minà, “colpevole” di aver contribuito a mitizzare il Pibe de Oro, facendone una sorta di eroe da presentare in prima serata – tra la Littizzetto e l’anonimo Raffaele Fitto – nel bel mezzo del Grande Nulla italiano. E’ il grigio campo di gioco nel quale il mainstream di regime cincischia a bordo campo, proprio come il Dieguito dei bei tempi, pur di non parlare della crisi che sta scotennando il paese. Perfetto, nella grande finzione, anche il sapiente dosaggio emotivo del vicedirettore della “Stampa”, Massimo Gramellini, bravissimo nel dispensare ai telespettatori il suo Libro Cuore

  • Grazie a Putin, il mondo allontana l’incubo della guerra

    Scritto il 19/10/13 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Due missili Tomahawk, sparati contro la Siria ma intercettati dalla flotta russa schierata di fronte a Damasco: citato da molte fonti (ma non confermato da nessuna autorità) questo episodio potrebbe aver “convinto” gli americani a rinunciare all’attacco. Da quel momento, sostiene lo scrittore ebreo russo Israel Shamir, tutto è cambiato di colpo: Obama è giunto a parlare direttamente col presidente dell’Iran, irritando Tel Aviv, e l’Esercito Siriano Libero ha accettato di dialogare con Assad, spiazzando gli alleati jihadisti. Ora il presidente Usa ha potuto utilizzare il rischio-collasso della finanza federale per depennare la guerra (e i suoi costi folli) dall’agenda della Casa Bianca. La crisi siriana tra America e Russia è stata «rapida e rischiosa quanto la crisi dei missili a Cuba nel 1962: le probabilità di un conflitto mondiale erano alte». E i contraccolpi saranno epocali, sostiene Shamir, che quando crollò il Muro di Berlino era a Mosca e scriveva per il quotidiano israeliano “Haaretz”. Potrebbe essere la fine dell’Urss, disse ai dirigenti del Politburo. Gli risero in faccia, ma due anni dopo l’Unione Sovietica non c’era più.
    Ben lieto, Obama, di scrollarsi di dosso la casta militare-industriale? Di sicuro ha colto al volo l’assist di Londra (Cameron bloccato dal Parlamento) per chiedere a sua volta l’ok del Congresso, come alibi per fermare la macchina da guerra. «Non aveva nessuna voglia di dare il via all’Armageddon da solo», e dopo aver «tentato di intimorire Putin al G-20 di San Pietroburgo, ma senza successo», il capo della Casa Bianca «ha salvato la faccia» proprio grazie alla proposta russa di rimuovere le armi chimiche siriane. Disavventura che «ha inferto un colpo magistrale all’egemonia, alla supremazia e all’eccezionalità degli Usa». Attenzione: «Con la fine dell’egemonia statunitense, i giorni del dollaro come valuta delle riserve mondiali sono contati». E se la Terza Guerra Mondiale stava quasi per scoppiare, «dobbiamo dire grazie ai banchieri: hanno troppi debiti, compreso l’insostenibile debito estero degli Stati Uniti». Sicché, «se quei Tomahawk fossero volati, i banchieri si sarebbero appellati alla causa di forza maggiore e non avrebbero più onorato il debito. Milioni di persone sarebbero morte, ma miliardi di dollari si sarebbero salvati nei caveau di Jp Morgan e Goldman Sachs». Sono loro, gli uomini di Wall Street, i veri sconfitti: «Gli Stati Uniti dovranno trovare delle nuove occupazioni per tantissimi banchieri, carcerieri, militari e anche politici».
    Il mondo è cambiato, avverte Shamir, e ce ne accorgeremo. «La ribellione russa all’egemonia americana è iniziata a giugno, quando il volo dell’Aeroflot da Pechino che portava Ed Snowden è atterrato a Mosca», dove il dissidente Cia-Nsa minacciato da Obama ha ricevuto asilo politico. Niente a che vedere con la Russia in macerie degli anni ’90, troppo debole per opporsi alla devastazione Nato della Jugoslavia e all’irruzione delle truppe occidentali verso Est, condotta «infrangendo la promessa fatta a Gorbaciov». Altro passo cruciale, la distruzione della Libia: per nessuna ragione Putin avrebbe sarebbe rimasto alla finestra anche in Siria, dove però la decisiva resistenza di Mosca «non sarebbe stata possibile senza il sostegno della Cina», anch’essa “scesa in campo” per la prima volta, con navi militari inviate nel Mediterraneo. «Miracolosamente, in questo tiro alla fune bellico, i russi hanno avuto la meglio», osserva Shamir. Le alternative sarebbero state tremende: «La Siria sarebbe stata distrutta come la Libia, i cristiani d’Oriente avrebbero perso la loro culla e l’Europa sarebbe stata invasa di milioni di rifugiati».
    La Russia ha capito che, se stavolta non avesse agito con fermezza, «sarebbe apparsa come potenza inutile, incapace di difendere i propri alleati», incoraggiando così l’inesauribile aggressività degli Usa. «Tutto quello per cui Putin aveva lavorato per tredici anni sarebbe sfumato: la Russia sarebbe tornata indietro al 1999, quando Clinton fece bombardare Belgrado». Il punto più critico dello scontro tra i due presidenti? «Putin era infastidito dall’ipocrisia e dall’insincerità che avvertiva in Obama». La Siria, ha chiarito il capo del Cremlino a Bridget Kendall della Bbc, si era dotata di armi chimiche per cautelarsi dalla minaccia nucleare di Israele: per l’Occidente le bombe atomiche di Netanyahu non sono un problema? «Putin ha tentato di parlare amichevolmente con Obama», racconta Shamir. Gli ha chiesto: «Che pensi della Siria?». E Obama: «Sono preoccupato che il regime di Assad non osservi i diritti umani», cioè i diritti infranti dai miliziani jihadisti armati dagli Usa, che hanno scatenato la guerra civile in Siria. «A Putin sarà quasi venuto da vomitare di fronte alla sconcertante ipocrisia di quella risposta». Così, il Cremlino ha deciso di varcare il Rubicone: sfidare apertamente l’America, per evitare la Terza Guerra Mondiale. Il futuro è più che mai incerto, conclude Shamir, ma negli Usa ci sono anche politici come il senatore Ron Paul, che sollecita l’abbandono delle basi militari all’estero e il taglio alla spesa bellica, restituendo sovranità al pianeta. Se così fosse, «il mondo potrà ancora amare l’America».

    Due missili Tomahawk, sparati contro la Siria ma intercettati dalla flotta russa schierata di fronte a Damasco: citato da molte fonti (ma non confermato da nessuna autorità) questo episodio potrebbe aver “convinto” gli americani a rinunciare all’attacco. Da quel momento, sostiene lo scrittore ebreo russo Israel Shamir, tutto è cambiato di colpo: Obama è giunto a parlare direttamente col presidente dell’Iran, irritando Tel Aviv, e l’Esercito Siriano Libero ha accettato di dialogare con Assad, spiazzando gli alleati jihadisti. Ora il presidente Usa ha potuto utilizzare il rischio-collasso della finanza federale per depennare la guerra (e i suoi costi folli) dall’agenda della Casa Bianca. La crisi siriana tra America e Russia è stata «rapida e rischiosa quanto la crisi dei missili a Cuba nel 1962: le probabilità di un conflitto mondiale erano alte». E i contraccolpi saranno epocali, sostiene Shamir, che quando crollò il Muro di Berlino era a Mosca e scriveva per il quotidiano israeliano “Haaretz”. Potrebbe essere la fine dell’Urss, disse ai dirigenti del Politburo. Gli risero in faccia, ma due anni dopo l’Unione Sovietica non c’era più.

  • Wall Street golpista: ancora al potere i killer di Kennedy

    Scritto il 13/9/13 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    C’era un patto segreto tra Kennedy e Khruscev: mettere fine alla guerra fredda, disarmare i missili nucleari e collaborare persino nelle missioni spaziali. L’uccisione di Jfk mise fuori combattimento anche il leader sovietico. Da allora, per decenni, sia a Mosca che a Washington hanno comandato i falchi. Chi erano, negli Usa? Politici, ma in realtà emissari dell’élite finanziaria: Wall Street. Con alle spalle personaggi oscuri, già in affari con la Germania nazista, che dopo la guerra reclutarono nei loro servizi segreti la crema dell’apparato hitleriano di intelligence. Lo sostiene il giornalista investigativo tedesco Mathias Broeckers, autore di un nuovo dirompente libro-inchiesta sulla fine di John Fitzgerald Kennedy: nel 1963, dice Broeckers, è come se fosse finita la democrazia americana, congelata da un colpo di Stato. «In America, la democrazia effettiva tornerà solo quando verrà completamente “sdoganata” la verità sull’omicidio di Dallas». Un giallo per il quale l’allora braccio destro di Nixon, Roger Stone, oggi accusa nientemeno che l’ex presidente George Bush, uomo di Wall Street e dei petrolieri texani. Suo figlio, George Walker, gestirà poi l’altro grande “terremoto opaco” destinato a cambiare il mondo, l’11 Settembre.

  • Il mondo non vuole la guerra? La fermi: ecco come

    Scritto il 05/9/13 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    La rivolta del Parlamento britannico contro il progetto coloniale di David Cameron, seguita dalla trasmissione del fascicolo siriano da Barack Obama al Congresso degli Stati Uniti, modifica profondamente i rapporti di forza internazionali, anche se il Congresso dovesse infine consentire il ricorso ai bombardamenti. Attualmente, tutti gli Stati ritrovano la loro libertà di parola. Solo la Francia è ancora in grado di mettere sotto pressione i propri vassalli per imporre loro una politica bellicista. Né il Regno Unito, né gli Stati Uniti fino al voto del loro Congresso, possono farlo. Ora, la maggior parte degli Stati del mondo è consapevole degli effetti a catena che l’intervento occidentale è in grado di provocare nel Vicino Oriente. Che sostenga la Siria o desideri rovesciare le sue istituzioni, la maggioranza può soltanto opporsi a un bombardamento, fosse anche “chirurgico”, della Siria.

  • In guerra con Cappuccetto Rosso, nel nome dell’America

    Scritto il 01/9/13 • nella Categoria: idee • (1)

    “The impossible, made possibile”: come nella pubblicità, o nelle fiabe. Tipo quella che racconta, il 31 agosto 2013, l’amabile narratore Vittorio Zucconi, una delle voci più influenti del mainstream italiano da quando sono scomparsi dalla scena i grandi giornalisti come Bocca, Biagi, Montanelli, Zavoli. Dai microfoni di “Radio Capital”, l’emittente del Gruppo Espresso, prima delle ultime elezioni – fino all’ultimo giorno – Zucconi condusse una campagna senza quartiere contro Grillo, fidando nella vittoria di Bersani. Poi, già l’indomani – numeri alla mano – “scoprì” all’istante la legittimità democratica dei 5 Stelle, premendo sui “cari amici” di fede grillina perché si decidessero ad allearsi col magnifico Pd. E’ precisamente da quest’alta cattedra di indipendenza giornalistica che proviene la lezione destinata ai lettori di “Repubblica” alla vigilia dell’“inevitabile” conflitto tra America e resto del mondo, stavolta in territorio siriano. Per il novelliere Zucconi – e qui sta la fiaba di giornata – gli Usa sarebbero nientemeno che una specie di Croce Rossa, periodicamente coinvolta suo malgrado in ordinari orrori, causa l’evidente incorreggibilità dei comuni mortali che abitano il pianeta, al di qua dell’Atlantico.

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