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Roma ha paura della rivoluzione di Michele Giovagnoli?
Di cosa ha paura, il governo che prende a sprangate in faccia gli italiani, trattandoli come animali d’allevamento? Le piazze ribollono, contro l’incombente dittatura sanitaria. Ma forse gli slogan furenti sono più facili, da tollerare, rispetto ai messaggi realmente rivoluzionari: forse anche perché il sentimento della rabbia può essere “nutriente”, per chi esercita il dominio, quasi quanto l’altrui sofferenza, l’altrui dolore. Un male in questo caso inferto a milioni di persone mentendo a tutti, cioè raccontando ancora la fiaba di un’emergenza artificiale, per avere l’alibi che porti a quello che fin dall’inizio era il vero obiettivo, la digitalizzazione totale di massa imposta per decreto. Il sogno di Davos: l’obbedienza universale definitiva, per via cibernetica, pensata per una popolazione post-umana (che l’Istat prevede in forte declino demografico, immaginando un’Italia dimezzata e ridotta a una nazione di appena 32 milioni di persone).Se gli esperti di proiezioni statistiche parlano di “denatalità”, la sensazione è che le fauci di un mostro siano ormai spalancate, pronte – dal 15 ottobre 2021 – ad azzannare chiunque, in nome di imprecisate divinità, proprio nell’anno in cui Bergoglio ha reso omaggio in Iraq alla piramide di Ur, simbolo del culto mesopotamico degli Anunnaki, i signori delle stelle che secondo Zecharia Sitchin discesero dal pianeta Nibiru. Tornando coi piedi per terra: nell’ottobre del 1931 il regime fascista richiese il giuramento di fedeltà ai professori universitari. Soltanto in 14 (nella storiografia ufficiale se ne indicano 12) rifiutarono di subire l’imposizione. Oggi appartiene a tutt’altro contesto, la motivazione di chi si oppone alla coercizione di sapore totalitario varata dal governo Draghi. E’ un diktat che fa a pugni con la Costituzione italiana e con le stesse direttive dell’Unione Europea, che proibiscono di discriminare i cittadini intenzionati a non sottoporsi all’inoculo del siero sperimentale, l’intruglio presentato come farmaco “vaccinale” progettato per inibire la sindrome Covid e frenare la diffusione virale del morbo.In televisione, voci come quelle di Mario Giordano e Carlo Freccero (in tandem con Barbara Palombelli) hanno cominciato a smontare la farsa che tiene in ostaggio l’Occidente da un anno e mezzo, mentre il resto del mondo se ne va liberando e gran parte dell’Europa – dalla Gran Bretagna alla Spagna, passando il Nord Europa e l’Est Europeo – non intende seguire l’Italia nella sua pericolosa follia. Le cifre sono lapidarie: in Inghilterra, 9 malati su 10 sono stati “vaccinati” (fonte: il ministero della sanità britannico). Analogo il bilancio di Israele: gli ospedali sono pieni di pazienti Covid, reduci anche da tre dosi di siero. Eppure, secondo Bergoglio, sottoporsi all’inoculo sarebbe “un atto d’amore”. E per Draghi, addirittura, sottrarsi all’iniezione equivale a commettere omicidio. Testualmente: «Se non ti vaccini, ti ammali e muori. E fai morire anche gli altri». E’ vero il contrario: secondo l’Ema, sono ormai 24.000 le morti sospette e direttamente correlabili all’inoculo, senza contare i 2 milioni di europei costretti a ricorrere a cure sanitarie dopo l’iniezione.Il cosiddetto vaccino-Covid non protegge nessuno: né chi lo ha assunto, né le persone che vengono in contatto con i “vaccinati”, che possono restare contagiosi. Nonostante questo, il governo Draghi vara l’obbligo vaccinale mascherato, grazie al ricatto del Green Pass, infliggendo alla popolazione italiana la più grande confisca delle libertà personali e degli stessi diritti umani. A motivare la ribellione morale di tanti milioni di cittadini è proprio la piena consapevolezza dell’abuso fondato sulla menzogna, commesso dopo aver negato, oscurato e criminalizzato le terapie che consentono di trattare il Covid come qualsiasi altra malattia. Il fatto che solo per questa patologia venga messo in piedi un regime che non ha precedenti, nella storia degli ultimi settant’anni, annulla di per sé il valore di qualunque possibile intervento l’esecutivo possa promuovere, per ridare fiato all’economia dopo il blackout del 2020, che è stato un vero e proprio colpo di grazia dopo decenni di rapina neoliberista ed eurocratica, orchestrata da strateghi come lo stesso Draghi.Se la politica è clinicamente morta e i reggenti (tutti quanti, da Confindustria ai sindacati) si accodano alle direttive autoritarie del governo zootecnico, c’è chi tiene duro e continua a marciare “in direzione ostinata e contraria”, per citare l’anarchico Fabrizio De André. Tra questi, spicca la figura atipica di Michele Giovagnoli, alchimista, di professione formatore. Già all’inizio del 2020 aveva fiutato il Grande Freddo in arrivo, e negli ultimi due mesi si è messo in marcia, visitando le principali piazze italiane, per il suo “Agorà d’amore”. Incontri entusiasmanti, rincuoranti, seguiti (sul web) da decine di migliaia di persone. “Il santone dell’amore”, lo ha prontamente ribattezzato il “Resto del Carlino”, canzonandolo per l’esposizione del simbolo della sua campagna: il cuore. Messaggio esplicito: se si archivia la sterile protesta e, semplicemente, si abbandona il campo in nome dei valori umani più autentici, si aiuta a far nascere una comunità alternativa e non più solo di nicchia, con le sue scuole parentali ormai affollate di alunni e insegnanti decisi a stare alla larga dalla scuola pubblica, trasformata in reclusorio per bambini.In altre parole: disertare, per sottrarsi a ogni ricatto e restare liberi. Fa paura, tutto questo? Sembrerebbe di sì, se è vero che il 25 settembre le autorità di Roma hanno negato a Giovagnoli il permesso di incontrare i suoi supporter in piazza Campo dei Fiori, ai piedi della statua di Giordano Bruno. Un modo come un altro per impedirgli di parlare, da quel luogo simbolico. Corsi e ricorsi: il 17 febbraio 1600 fu messa la mordacchia, a Filippo Bruno da Nola, già frate Giordano, in modo che non potesse rivolgere neppure un estremo saluto alla folla che si era radunata per assistere alla sua morte. Dava così fastidio, l’idea che Giovagnoli potesse richiamare direttamente il sacrificio di Giordano Bruno e la sua titanica fermezza nel rifiutare l’abiura? Giovagnoli omaggia i tanti italiani che stanno pagando di persona per sottrarsi al ricatto. Come Andrea Camperio Ciani, sociologo di fama internazionale, che ha lasciato un presidio culturale prestigioso come l’Università di Padova.Non certo una città a caso, ricorda Michele, in un video girato a tarda ora dopo aver dovuto abbandonare Roma: come dimenticare il padovano Palazzo della Ragione, realizzato da Pietro D’Abano con il contributo di personaggi come Giotto e Dante? Concepirono un meraviglioso zodiaco vivente, per insegnare a leggere le energie dell’universo (la cui divulgazione portò Giordano Bruno sul rogo). Tre secoli prima, il Palazzo della Ragione – ispirato all’antico Calendario Tebaico Egizio – era costato la vita anche a Pietro d’Abano: arrestato, torturato, ucciso, processato e infamato anche da morto (la salma, riesumata per essere bruciata). «Sono tanti, oggi, gli eroi che si stanno muovendo al nostro fianco», dice l’alchimista Michele. Tra questi il dottor Riccardo Szumski, medico e sindaco di Santa Lucia di Piave, Treviso: per aggirare vaccino-Covid e Green Pass ha trasferito il suo ufficio in piazza, allestendo un gazebo.Onore anche al maestro Stefano Leoni, docente e vicedirettore del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino: «Si è dimesso da vicedirettore, ma non da docente: continuerà a insegnare online per non abbandonare i suoi ragazzi». Ha tanti volti, l’Italia libera che sta sorgendo in questi giorni: centinaia di insegnanti rifiutano di tornare in una scuola dell’orrore, trasformata in carcere. Francesca Del Santo, professoressa di biologia a Sacile (Pordenone) ha scelto di restare a casa. «Pensate agli ex allevi di questi insegnanti, a come saranno fieri di loro: non si sono comportati come i cantanti italiani, gli idoli dei ragazzi, che oggi se ne stanno ben zitti, tutti quanti, di fronte a quello che sta succedendo». E’ un’Italia degna, quella che si va disvelando giorno per giorno: come nel caso di Fabrizio Masucci, presidente e direttore del Museo Cappella Sansevero di Napoli, che ospita il “Cristo velato” di Giuseppe Sanmartino. Anche Masucci ha fatto la sua scelta: dimissioni.«Sono persone che tengono la schiena diritta», dice Giovagnoli, «e ricordano a tutti cos’è davvero l’umanità». Applausi anche «ai docenti dell’Alto Adige che si sono dimessi o si sono fatti sospendere, per tener fede alla loro dignità: grazie a tutti loro, questo tempo finirà». Un messaggio diretto, rivolto ai “disertori”: «Tornerete di fronte ai vostri ragazzi e sarete riconosciuti come quelli che hanno saputo resistere, uomini e donne, tutti pronti a immolarsi per essere fedeli a una causa più alta». Dagli insegnanti alla sterminata lista dei medici, intimiditi e vessati: come Massimo Citro, «fermissimo nelle sue convinzioni nonostante le insolenze subite in televisione: un atteggiamento, il suo, che rivela la stessa fermezza dimostrata da Luc Montagnier». Per inciso: il tour di Michele Giovagnoli è interamente dedicato al dottor Giuseppe De Donno, martire italiano delle cure per il Covid.“Un altro mondo è possibile”, era lo slogan dei No-Global che a furono letteralmente fatti a pezzi nelle strade di Genova, vent’anni fa. Sembrava l’ultimo rigurgito, fuori tempo massimo, del fuoco innescato nel Sessantotto. «Il potere aveva davvero paura di quei ragazzi», ha dichiarato Wayne Madsen, già dirigente dell’intelligence Usa: «Nel 2001 le multinazionali avevano il terrore di un movimento così trasversale e universale, deciso a contestare il tipo di globalizzazione che si andava costruendo». Di lì a poco crollarono le Torri Gemelle, segnando l’agenda del ventennio: guerre, terrorismo, austerity finanziaria. Poi è arrivato il morbo di Wuhan, a chiudere il cerchio. Mezza Europa è determinata a uscire dall’incubo, nel quale paesi come l’India e la Russia non sono mai neppure entrati. Sotto tiro restano Usa e Canada, Australia, Nuova Zelanda e Francia, mentre l’Italia politica (annichilita, azzerata) sottoscrive il delirio inaugurato da Conte e ora reso permanente da Draghi.In questi mesi, Michele Giovagnoli ha riscaldato cuori e contribuito a contenere lo smarrimento di decine di migliaia di persone, tradite dal governo. Che fare? Semplice: restare fermi, immobili, di fronte alle intimidazioni. E cominciare a disertare ristoranti, cinema, manifestazioni. Il Green Pass? No, grazie. Dovremo rinunciare a molti aspetti piacevoli della vita? Sì, ma temporaneamente. Perché – dice Michele – se saremo abbastanza numeri (e lo siamo, a quanto pare) il governo non potrà permettersi il costo anche economico di una diserzione di massa. Comunque la si veda, la politica della paura e della coercizione (che collega Conte a Draghi, senza soluzione di continuità) sta rendendo palese la natura di una certa declinazione del potere, facendo scoprire definitivamente “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Non è per niente allettante, il mondo che stanno apparecchiando. E francamente, non lo era neppure prima che l’abisso si spalancasse.«Noi siamo quelli “sbagliati”», ammette Giovagnoli. «Quelli che vorrebbero utilizzare il cuore, come strumento fondamentale: per questo ci hanno sempre canzonato, fino a emarginarci». Le rivolte studentesche di mezzo secolo fa? «Forse erano troppo in anticipo, sui tempi». Però avevano inaugurato un certo risveglio delle coscienze. «Ora ci hanno sottoposti a una magia potente, quella della paura. Ma così hanno gettato la maschera, mostrando il loro vero volto: non sono qui per fare il nostro bene». Il divorzio sociale è ormai una realtà: è incalcolabile, la quota di cittadini che non si fidano più dei media, dei partiti e delle istituzioni. Sullo strumento della politica, Giovagnoli non scommette più: non c’è più tempo, dice. Le cose ci stanno crollando addosso alla velocità della luce. Non c’è altro da fare, insiste: restare fermi, non aderire a quanto ci viene proposto. «La nostra passività può riuscire addirittura devastante, per chi ha cattive intenzioni: lo dimostra la storia di Gandhi». Tempi durissimi, in arrivo: «Ci sarà un prezzo da pagare, certo. Ma ricordiamocelo: liberi siamo arrivati, su questa Terra, e liberi torneremo a casa».Di cosa ha paura, il governo che prende a sprangate in faccia gli italiani, trattandoli come animali d’allevamento? Le piazze ribollono, contro l’incombente dittatura sanitaria. Ma forse gli slogan furenti sono più facili, da tollerare, rispetto ai messaggi realmente rivoluzionari: forse anche perché il sentimento della rabbia può essere “nutriente”, per chi esercita il dominio, quasi quanto l’altrui sofferenza, l’altrui dolore? Un male in questo caso inferto a milioni di persone mentendo a tutti, cioè raccontando ancora la fiaba di un’emergenza artificiale, per avere l’alibi che porti a quello che fin dall’inizio era il vero obiettivo, la digitalizzazione totale di massa imposta per decreto. Il sogno di Davos: l’obbedienza universale definitiva, per via cibernetica, pensata per una popolazione post-democratica (che l’Istat prevede in forte declino demografico, immaginando un’Italia dimezzata e ridotta a una nazione di appena 32 milioni di persone).
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Oscurati i nostri padri: gli Etruschi, giunti dall’Anatolia
Vi hanno raccontato della necessità assoluta di inocularvi non si sa bene cosa, per poter continuare a vivere liberi e sereni? Se è per questo, vi avranno anche detto che i misteriosi Etruschi erano di origine italiana. E’ normale, dice Nicola Bizzi: l’archeologia ufficiale si comporta sempre così, quando si imbatte in verità scomode. Negazionismo accademico? Fate voi. Però sappiate – avverte Bizzi, sul canale YouTube “Facciamo Finta Che”, di Gianluca Lamberti (di seguito, il testo integrale) – che i nostri antenati etruschi venivano dall’Anatolia, cioè dal mare. Arrivarono via nave dalle coste meridionali della Turchia: Lidia, Misia. In altre parole, dalle parti di Troia: infatti, Roma accettava che il suo mitico fondatore (Enea) fosse un profugo troiano. La migrazione dalle coste dell’attuale Turchia la confermano storici come Erodoto ed Ellanico. In Italia, si tace sulla Cultura di Rinaldone fiorita sul Lago di Bolsena (con scheletri anatolici spariti nel nulla) e sugli imponenti palazzi “cretesi” emersi a Luni sul Mignone, tra Roma e Viterbo. Silenzio anche sulle scoperte dei genetisti: in Toscana e Lazio, il 30% degli abitanti ha un corredo genico anatolico. Viene dall’oltremare anche la più famosa razza bovina toscana, la Chianina. Perché fanno così paura, gli Etruschi? Perché avevano una società matriarcale che introdusse in Italia una civiltà già evolutissima a partire dal 2500 avanti Cristo?Un fitto silenzio circonda il popolo etrusco, di cui l’ufficialità accademica parla il meno possibile, condizionata com’è dal paradigma che ingessa l’archeologia, in modo poco scientifico, rifiutando le fonti scomode e le scoperti recenti. Resiste ancora una vecchia convenzione, quella della presunta italianità degli Etruschi: italianità poi rafforzata dal mito fascista di Roma. Eppure, per i Romani stessi, la civiltà del Tevere era stata fondata da Enea, che era presentato come proveniente da Troia, in Anatolia. Ma chi erano, davvero, gli Etruschi? I Greci li chiamavano Tirreni, mentre i Romani li definivano Tusci. Gli stessi Etruschi chiamavano se stessi con un altro npme: Raslak, o anche Rasena. In Italia, la denominazione più diffusa era quella adottata dai latini: Tirreni. Ora, Tirra è l’antico nome di una regione costiera anatolica, affacciata sull’Egeo, che Omero chiama Meonia, e che poi si chiamerà Lidia ai tempi della grecia classica.La Lidia è situata nel nord-ovest dell’Anatolia (come la Misia), fra Troia e i Dardanelli. Si tratta di zone anticamente popolate da genti affini all’antica civiltà minoico-cretese. Avevano leggi avanzatissime, società fondate sul matriarcato e sul culto delle antiche divinità titaniche. Nel primo libro delle sue “Storie”, il sommo storiografo Erodoto scrive che i Lidi avrebbero colonizzato la Tirrenide, cioè l’Etruria. A spingerli lontano da casa sarebbe stata una gravissima carestia. Di qui l’emigrazione, fino alla terra degli Umbri. Ai Greci dava fastidio la libertà dei costumi etruschi: a differenza di quella greca, la donna etrusca poteva sedere a tavola col marito. Aveva prerogative sacrali e poteva anche dare il proprio nome alla stirpe. Dal X secolo avanti Cristo, queste popolazioni anatoliche riuscirono a colonizzare buona parte della penisola italiana: Lombardia e Veneto, zone della Liguria, l’intera Toscana e l’intero Lazio, parte di Umbria e Marche, parte della Campania: Napoli era stata un approdo etrusco, prima che una colonia della Magna Grecia.Gli Etruschi erano tipicamente orientali: per arte, stile architettonico, cultura. E che venissero dall’Oriente lo conferma un altro autore: Ellanico di Mitilene, storico vissuto dal 490 al 405, contemporaneo di Platone. Nella sua “Foronide”, descrive più migrazioni dall’Anatolia: spiega quante migrazioni sono avvenute, chi le guidava (quali sovrani), dove arrivarono in Italia e quali città italiane avrebbero fondato. Piena conferma, di questo, ci giunge da reperti archeologici e dalla toponomastica dei luoghi: i nomi di decine di località (anche di rilievo, come Ancona e Lucca) corrispondono a quelli di siti presenti sulle coste anatoliche. Sull’isola di Lemnos, patria della metallurgia nell’Egeo – colonizzata già dal 12.000 avanti Cristo, come rilevato da recenti scavi archeologici – sono state rinvenute molte iscrizioni in lingua etrusca: la stessa lingua che troviamo a Tarquinia, a Cere, a Vulci, a Fiesole, nelle città etrusche della Campania e nella Mantova di Virgilio (che discendeva da antenati etruschi).Ci sono squillanti evidenze anche scientifiche: alla fine degli anni ‘90, alcuni docenti universitari spagnoli si sono avvalsi degli studi di genetisti delle università di Madrid e Salamanca. Avevano condotto esami sulla popolazione della Toscana e dell’alto Lazio, confrontando il loro Dna con quello dei popoli anatolici. Ebbene: in oltre il 30% degli attuali abitanti del territorio corrispondente all’antica Etruria, fra l’Arno e il Tevere, i geni corrispondono pienamente con quelli delle popolazioni autoctone dell’Anatolia. E la corrispondenza non interessa solo gli umani: viene dall’Anatolia anche una razza bovina come la Chianina, quella della mitica bistecca fiorentina. Discende cioè da una razza anatolica, portata in Italia circa 4.000 anni fa. Ora, ci volevano i genetisti spagnoli, per capire che gli abitanti dell’Etruria venivano dall’Oriente? Evidentemente sì. Però non basta: perché gli archeologi, quando una scoperta infrange i loro paradigmi, molto spesso la ignorano.Gli archeologi accademici rifiutano ancora la scoperta (geologica) della verà età della Sfinge. E rigettano pure le rivelazioni dell’archeoastronomia, cioè la disposizione di certi siti secondo criteri astronomici. Così hanno rifiutato anche le scoperte della genetica, perché sono scomode per la vecchia tesi dell’autoctonia del popolo etrusco, la cui origine è convenzionalmente italica (per non parlare delle ultime ipotesi, decisamente deliranti e campate per aria, che lo vorrebbero disceso dalle Alpi o addirittura dalla Germania). E questo, nonostante vengano smentiti dagli autori antichi. Sempre Ellanico di Mitilene, ad esempio, parla di un certo Nana, mitico re dei Pelasgi (popoli del mare: grandi navigatori, mercanti e pirati). Attorno al 2500 avanti Cristo, quindi 4.500 anni fa, questo Nana – cacciato dai suoi sudditi – avrebbe risalito l’Adriatico con una sua flotta, per poi fondare importanti nuclei urbani lungo la penisola italiana.Uno studioso “eleusino” come Guido Maria Stelvio Mariani di Costa Sancti Severi, in un articolo uscito quattro anni fa sulla rivista “Archeomisteri” (da me citato nel saggio “I Minoici in America e le memorie di una civiltà perduta”) conferma che il termine Nana lo si ritrova nelle culture lelegiche della Caria, un’altra regione costiera anatolica. Probabilmente, Nana non era un nome proprio di persona, ma una sorta di nome sacrale: un po’ come il Faraone in Egitto, o il Minosse a Creta. Un termine che potrebbe essere assimilabile a quello di “condottiero”, o di Vanax nella civiltà micenea. Ebbene: Ellanico dice che questo Nana avrebbe creato vari scali adriatici, fondando diversi insediamenti. Nelle Marche avrebbe sbarcato un robusto contingente, gettando le basi per la nascita di una città che ancora oggi si chiama Pedaso, nell’attuale provincia di Fermo. E Pedasa è una importante città costiera anatolica: era l’antica capitale dei Lelegi della Caria, davanti all’isola di Rodi.Risalendo la costa marchigiana verso nord, il condottiero Nana avrebbe fondato una città molto importante: Ancona, nientemeno. Il capoluogo marchigiano deriva infatti il suo nome da Ankh e Uni: l’Ankh è la croce della vita per gli egizi, un simbolo molto noto anche alle popolazioni dell’Anatolia, mentre Uni è una dea, parte integrante del pantheon etrusco. Poi, sempre nel 2500 avanti Cristo, Nana avrebbe proseguito il suo viaggio fino a fondare un’altra importante città: Arimna, cioè l’odierna Rimini. E Arimna – guardacaso – è il nome di un altro centro urbano rilevante, nel sud della Licia, sempre sulle coste anatoliche. Nana avrebbe fondato anche Spina, alle foci del Po: importantissimo porto commerciale già dal VII secolo avanti Cristo, gestito “in condominio” da Etruschi e Veneti, sul confine tra le due aree d’influenza. Poi Nana si sarebbe spinto nell’entroterra, verso sud, fondando Curiti: l’odierna Cortona. Quindi avrebbe fondato Ar-Tinia: Arezzo. In etrusco, Ar significa insediamento, mentre Tinia è una delle principali divinità etrusche, un “dio degli elementi” equiparabile a Zeus.Finendo per realizzare un’ulteriore fondazione (Fruntac, corrispondente a Ferento), lo stesso Nana avrebbe seguito un percorso preciso, tracciato sulla base della geografia sacra: evidentemente aveva una meta prestabilita, cioè il Lago di Bolsena. Doveva certo conoscerne l’esistenza: era un posto già considerato sacro, per millenni, da altre popolazioni. Quel lago, poi, sarebbe diventato il luogo sacro d’eccellenza, per il popolo etrusco. Sempre secondo Ellanico, quindi, Nana sarebbe arrivato sul Lago di Bolsena, fondando la città di Vels Nani, poi Volsini Veteres, destinata a diventare la vera capitale sacrale degli Etruschi. Capitale sacra, perché lì convergevano gli ordinamenti di tutte le Lucumonie. Gli Etruschi non hanno mai avuto un regno unitario, erano pòliadi: ogni comunità faceva capo a una Lucumonia, unità amministrativa estesa su una o più città. A volte, queste Lucumonie erano anche in guerra fra loro.Purtroppo, non si allearono mai – tutte insieme – se non quando ormai era troppo tardi. Ed è per questo che poi Roma riuscì ad averne ragione, conquistandole tutte, una dopo l’altra. Però queste Lucumonie facevano tutte capo a Volsini Veteres sul Lago di Bolsena, dove c’era il fanoso Fanus Voltumnae, cioè il tempo di Vultumna, grande dea della civiltà etrusca. Nel tempio venivano stabiliti i conteggi delle epoche: chiodi infissi, di bronzo, scandivano lo scorrere sacro del tempo. Tornando a Nana, avrebbe infine fondato anche Orvieto e Viterbo. Tutte città antichissime, risalenti a 4.500 anni fa: e i riscontri archeologici non mancano. Quella di Nana, però, secondo Ellanico fu solo una prima migrazione. Si ritiene che queste spedizioni fossero intraprese da marinai molto esperti, che a mio parere avevano un fine esplorativo e di colonizzazione. E l’Italia, crocevia del Mediterraneo e piena di risorse minerarie, ha sempre fatto gola: soprattutto ai popoli dell’Oriente. E’ naturale, quindi, che vi siano state queste progressive ondate di colonizzazione.Sempre secondo Ellanico, una seconda grande ondata si sarebbe verificata cinque secoli dopo, attorno al 2000 avanti Cristo. Sarebbe da mettere in relazione con la cosiddetta Cultura di Rinaldone, un villaggio della provincia di Viterbo sulla costa meridionale del Lago di Bolsena. Nel 1903, proprio a Rinaldone venne scoperta una necropoli con scheletri sorprendentemente alti. Non erano giganti, sia chiaro; ma mentre i popoli italiani dell’epoca superavano raramente il metro e sessanta di statura, gli scheletri di Rinaldone oltrepassavano i due metri: e risultavano appartenenti a popolazioni provenienti dall’Anatolia. Ufficialmente, questi resti umani sarebbero stati portati al Museo Archeologico di Firenze. Eppure, dopo un’inchiesta svolta da diversi studiosi, in passato, oggi nessuno sa più dire dove siano. Probabilmente sono nascosti in qualche scantinato, o sono addirittura stati distrutti. Non me ne stupirei: con la loro stessa esistenza, infatti, quegli scheletri provavano la provenienza anatolica di quelle genti finite in Italia. E anche questo la dice lunga su come vengano continuamente occultati certi indizi, certe testimonianze: le prove vengono fatte sparire, soprattutto se sono scomode.Le altre ondate migratorie di cui ci parla Ellanico, poi, sarebbero provenute dalla Misia e dalla Caria, sempre regioni costiere dell’Anatolia affacciate sull’Egeo. Proprio le stirpi arrivate con la seconda ondata avrebbero fondato città fondamentali, per la successiva cultura etrusca: Vulci, Sovana, Sorano (da Sur, “il Sole” in lingua etrusca). Poi Pitigliano, Misa, Tuscania, Poggio Buco, Saturnia, Marsiliana sull’Albenia. Tutti siti importantissimi dell’Etruria vera e propria. Sempre secondo Ellanico, un secolo dopo sarebbe giunta (dalla Licia) una terza ondata migratoria: un’ondata molto importante, guidata da un discendente del primo Nana. Anche in quella occasione, alla spedizione avrebbero preso parte diversi popoli del mare. Per Ellanico, il vero nome dei Lici sarebbe stato Luccu o Lucca. E infatti troviamo la città toscana di Lucca, sulle rive del Serchio, fondata proprio durante questa seconda ondata, insieme a Luni (in Lunigiana) e a diversi altri centri della zona delle Alpi Apuane.Più tardi, attorno al 1800 avanti Cristo, avrebbe avuto luogo quella che possiamo considerare una quarta ondata migratoria: un certo Kuriti (o Corito) avrebbe ampliato, regnandovi, uno dei centri fondati dal precedente Nana nel 2500 avanti Cristo, cioè l’odierna Cortona. E suo figlio, Dardano, disceso verso sud, avrebbe fondato la città di Cori. Secondo la tradizione, poi, Dardano avrebbe intrapreso un viaggio verso Creta, fondando la particolare stirpe dei Teucri Dardani (ma quest’ultimo, sottolineo, è un aspetto mitologico). In seguito ci sarebbero state ulteriori, successive ondate migratorie: ed è proprio grazie a questi arrivi se poi si formò in Italia quello che conosciamo come il popolo etrusco. Ci fu una sesta ondata migratoria, poi un’altra (dal 1800 al 1500 avanti Cristo) che secondo diverse interpretazioni – mitologiche, anche in questo caso – sarebbe stata all’origine di tutte quelle importantissime città del basso Lazio, in particolare della Ciociaria, che vengono chiamate Città Saturnie. Costruite con imponenti mura megalitiche (come Alatri, Ferentino, la stessa Cassino), eppure ignorate per decenni dagli archeologi, che fino agli anni ‘30-40 ne attribuivano l’origine ai Romani.Solo adesso, timidamente, si comincia ad ammettere che quelle città risalirebbero almeno al 1200-1300 avanti Cristo; ma pare vi siano elementi per collocarle anche nel 1500 avanti Cristo. A quella data risalirebbe Luni sul Mignone, a cavallo tra le province di Viterbo e Roma, in una zona oggi inaccessibile: l’hanno proprio esclusa dagli itinerari turistici. Luni sul Mignone venne scavata da una missione archeologica svedese: negli anni ‘60, su una collina costeggiata dal fiume Mignone trovarono un insediamento imponente, con edifici palaziali (di tipo minoico, oserei dire) costruiti in solida pietra, con stanze anche di 10 metri di lunghezza. Ma poi, tutto è stato incredibilmente ricoperto. Finita la missione (finanziata dal re di Svezia, grande appassionato di archeologia), uno dei siti archeologi più straordinari d’Europa è stato nuovamente sepolto dalla terra. Attualmente, il sito è in stato di abbandono: si trova tra il fiume Mignone e la stazione abbandonata di San Romano lungo l’ex ferrovia Orte-Civitavecchia, oggi dismessa. L’accesso è quasi proibitivo: si devono percorrere chilometri a piedi, itinerari scomodi e anche pericolosi.Questo sito l’hanno voluto cancellare dalle mappe archeologiche: perché è scomodo. L’abbiamo visto: per gli autori antichi, gli Etruschi venivano da Oriente. Eppure, è stato fatto di tutto per mettere in discussione questa origine (ormai confermata dalla stessa genetica). Quanto ai Greci, è noto che non amassero gli Etruschi, a cui – attraverso le colonie elleniche della Magna Grecia – hanno sempre conteso i porti e le risorse minerarie della penisola italiana. Spesso e volentieri, gli Etruschi si sono alleati con i Cartaginesi per arginare la colonizzazione ellenica dell’Italia meridionale. Questa rivalità era anche fondata su motivazioni religiose. Una parte della popolazione della Grecia classica continuava a praticare ancestrali forme di religiosità ancora legate all’antico pantheon titanico, ma la maggior parte della dirigenza politica delle poleis greche praticava il nuovo culto delle divinità olimpiche, che gli Etruschi vedevano come fumo negli occhi. Soprattutto, gli Etruschi non digerivano la caratterizzazione patriarcale della civiltà greca, alla quale anteponevano con orgoglio la forma matriarcale della loro società.Tornando al tema archeologico, si parla spesso in maniera impropria della Civiltà Villanoviana, oscurando invece la Cultura di Rinaldone. Ebbene: sono entrambe forme della stessa cultura. Quella che viene definita Civiltà Villanoviana, in realtà, è un falso scientifico, un po’ come le varianti Covid o certi ominidi “inventati” dalla palentologia, che in realtà non sono mai esistiti. Infatti, da alcuni reperti trovati nel sito di Villanova, sull’Appennino bolognese – un po’ come hanno fatto in America con la Cultura Clovis, altro falso clamoroso – hanno voluto creare una cultura a sé stante, dichiarandola prettamente italica e separandola dalla cultura etrusca vera e propria, con il pretesto che la Villanoviana poteva essere identificata come precedente, rispetto a quella propriamente etrusca. Con schematismi a mio parere del tutto fuori luogo, la cultura etrusca la si fa iniziare ufficialmente nell’XVIII secolo avanti Cristo; tutto quello che è le preesistente, riconducibile alla stessa matrice culturale, viene etichettato come “villanoviano”.Da qui l’invenzione della presunta matrice culturale autoctona, per giustificare l’autoctonia del successivo popolo etrusco. E al tempo stesso, si evita di riconoscere la Cultura di Rinaldone, non certo limitata a Rinaldone: era una cultura pre-etrusca, di fatto riconducibile alle migrazioni dall’Anatolia, e aveva caratterizzato almeno metà del territorio italiano. Quindi: vengono ignorati 2.000 anni (1.500, a essere stretti) di ininterrotta civilizzazione della nostra penisola, da parte di una cultura avanzata, proveniente dall’Oriente, che avrebbe portato qui l’agricoltura, la metallurgia, forme evolute di urbanizzazione e di ingegneria (dighe, canali irrigui). Sembra incredibile, ma è così: tutto questo viene ignorato, ripeto, per non ammettere l’origine orientale della matrice etrusca. Eppure fu proprio questa Cultura Rinaldoniana ad arrivare in Italia: già formatasi, già pronta. Fu questa, gradualmente, a fondersi poi e a integrarsi gradualmente con popolazioni locali come quelle dei Piceni delle Marche e degli Umbri veri e propri (quelli dell’Umbria), che avevano un’origine – loro sì – prettamente italica.Gli Etruschi entrarono in contatto con gli stessi Latini, con i Sabini. La stessa Roma è stata etrusca per secoli, assimilando dagli Etruschi gli ordinamenti, la divisione in centurie, molte simbologie (come lo stesso fascio littorio, che è di origine etrusca). Con il pretesto che la lingua etrusca non sia stata correttamente tradotta e interpretata, si continua a ricamare – sugli Etruschi – tutto quello che si vuole, a completa discrezione dei paradigmi di certi studiosi, di certi baroni universari. E non è nemmeno vero che l’etrusco non sia stato tradotto. E’ una lingua di matrice assolutamente non indoeuropea (come invece il latino e alcune lingue di origine celtica). La lingua etrusca è la stessa che veniva parlata in Anatolia e sull’isola di Lemnos, scritta con i medesimi caratteri. E’ stata tradotta; solo, non disponiamo di testi abbastanza estesi da poter ampliare il vocabolario. Il testo più lungo che conosciamo è quello della cosiddetta Mummia di Zagabria: una mummia tardo-egizia, di epoca tolemaica, conservata nel Museo Archeologico della capitale croata.Quella mummia è stata bendata con strisce di lino “riciclate”; erano etrusche, e su quelle gli Etruschi avevano scritto lunghi testi sacri, di natura religiosa, che probabilmente sarebbero andati perduti se non fossero stati utilizzati per fasciare quel corpo. Esistono poi vari testi scritti su tavole di bronzo, di natura giuridica o commerciale: il loro vocabolario è quindi limitato. Poi la lingua etrusca è andata arenandosi, purtroppo, già all’inizio dell’epoca dell’Impero Romano. Sono sopravvissute a livello religioso varie confraternite etrusche, alcune delle quali ancora attive ai tempi di Costantino, che però mantenevano l’uso della lingua solo per competenze strettamente inizitiche e cerimoniali, riservate esclusivamente agli adepti. Poi, con la soppressione di queste confraternite, si è perso l’ultimo uso effettivo della lingua etrusca. E’ pur vero però che il grande imperatore romano Claudio, vissuto nel I secolo dopo Cristo, aveva una moglie etrusca, Tanaquilla: una sacerdotessa, una donna di elevatissima cultura.Claudio si appassionò alla storia degli Etruschi, e raccolse tutte le documentazioni ancora disponibili, al suo tempo. Tant’è che l’imperatore fu probabilmente l’ultimo romano a saper parlare e leggere in maniera corretta la lingua etrusca. Poi, con l’assimilazione delle ultime Lucumonie (tra cui quella di Vulci), gli Etruschi entrarono completamente nella romanizzazione. Le loro città divennero municipalità romane, e iniziarono forzatamente a utilizzare la lingua latina: nel giro di 3-4 generazioni, gli Etruschi persero completamente l’uso della loro lingua. E lo avevano anche previsto: sapevano che la loro civiltà di sarebbe conclusa nel corso di quello che per noi è il I secolo dopo Cristo. Eppure, tantissimo è rimasto, di loro. Erano uno dei popoli più religiosi dell’antichità, oltre che uno dei più evoluti sul piano sociale e culturale. Avevano espressioni artistiche uniche, incredibili.A volte imitavano l’arte greca, tendevano a prendere il meglio delle culture altrui. Erano in grado di realizzare ceramiche di tipo attico, “made in Etruria”, addirittura superiori alle originali: e le esportavano, anche per dare fastidio al commercio dei greci. Ci hanno lasciato testimonianze straordinarie: scultoree, di fusione del bronzo. Per non parlare delle opere idrauliche: anche nei pressi di Firenze hanno trovato antichi acquedotti etruschi, potenzialmente ancora funzionanti. E nonostante questo, le Sorvintendenze continuano a ignorare certi ritrovamenti. Ci sono tantissimi siti etruschi in rovina, coperti dalle erbacce. Tombe meravigliose, le cui pitture stanno scomparendo: mai state oggetto di una adeguata conservazione. Quello etrusco – ripeto – è un popolo volutamente dimenticato, perché dà fastidio. Gli Etruschi fondavano ogni istante della loro vita sul confronto con le divinità. La Disciplina Etrusca era fondata su determinati libri, andati perduti (almeno, ufficialmente). Ne è rimasto ben poco, anche se nell’800, in Inghilterra, pare sia spuntata una trascrizione dei Libri Sibillini, o ciò che ne resterebbe (impossibile verificare, dato che non disponiamo più degli originali).Sappiamo comunque che gli Etruschi dividevano il territorio secondo una geografia sacra incredibilmente strutturata. Non solo conoscevano la precessione degli equinozi e le dinamiche dei solstizi, ma costruivano ogni loro sito secondo precisi schemi di geografia sacra. Nulla era mai costruito a caso, neppure la singola abitazione privata: tutto andava realizzato su determinati punti del terreno, che erano sacralizzati dal lucumone o dal sacerdote. Quei luoghi dovevano emanare determinate energie ctonie, telluriche, in sintonia con gli dèi. Costruire un edificio in un luogo non propizio, considerato funesto dalle regole della Disciplina Etrusca, sarebbe stato un sacrilegio. Piuttosto che far passare una strada in un’area inadatta, cioè fuori dalle direttrici delle “porte solstiziali”, erano capaci di spianare una collina, affrontando un lavoro di mesi.Un grande ricercatore come Giovanni Feo, appena scomparso, è stato forse tra i pochissimi a capire davvero l’anima del popolo etrusco. Ci ha lasciato libri bellissimi, che ci spiegano l’origine della religiosità fondata sulla Disciplina Etrusca e il rapporto costante che avevano con gli dèi. Interrogavano le forze della natura in ogni cicostanza, per le azioni più importanti: e attendevano i responsi, che poi ottenevano (così almeno interpretavano la caduta di un fulmine, il volo di alcuni uccelli). Il loro era un rapporto di simbiosi – forte, irrinunciabile – con le forze della natura, sia quelle del sottosuolo che quelle degli dèi celesti. E’ un popolo fondamentale, per le nostre origini: e tuttora se ne parla il meno possibile, e non certo in modo corretto. La reticenza sugli Etruschi, in sostanza, non fa che confermare l’inattendibilità spesso tendenziosa di una archeologia cattedratica che stenta a riconoscere alcune tra le più importanti scoperte sulla nostra vera origine, proprio perché la costringerebbero ad archiviare il suo paradigma convenzionale, ormai superato.(Nicola Bizzi, dalla trasmissione “Etruschi: origine e storia di una civiltà scomoda”, in diretta streaming il 1° agosto 2021 nella rubrica “Il Sentiero di Atlantide”, sul canale YouTube “Facciamo Finta Che”, di Gianluca Lamberti. Nel libro “I Minoici in America”, Bizzi svela come l’archeologia stenti ancora a riconoscere come i Popoli del Mare, di origine titanico-atlantidea secondo la tradizione eleusina, abbiano dominato il Mediterraneo e l’Atlantico ben prima dell’affermarsi delle civiltà successive – mesopotamica, egizia, greco-romana).Vi hanno raccontato della necessità assoluta di inocularvi non si sa bene cosa, per poter continuare a vivere liberi e sereni? Se è per questo, vi avranno anche detto che i misteriosi Etruschi erano di origine italiana. E’ normale, dice Nicola Bizzi: l’archeologia ufficiale si comporta sempre così, quando si imbatte in verità scomode. Negazionismo accademico? Fate voi. Però sappiate – avverte Bizzi, sul canale YouTube “Facciamo Finta Che”, di Gianluca Lamberti (di seguito, il testo integrale) – che i nostri antenati etruschi venivano dall’Anatolia, cioè dal mare. Arrivarono via nave dalle coste meridionali della Turchia: Lidia, Misia. In altre parole, dalle parti di Troia: infatti, Roma accettava che il suo mitico fondatore (Enea) fosse un profugo troiano. La migrazione dalle coste dell’attuale Turchia la confermano storici come Erodoto ed Ellanico. In Italia, si tace sulla Cultura di Rinaldone fiorita sul Lago di Bolsena (con scheletri anatolici spariti nel nulla) e sugli imponenti palazzi “cretesi” emersi a Luni sul Mignone, tra Roma e Viterbo. Silenzio anche sulle scoperte dei genetisti: in Toscana e Lazio, il 30% degli abitanti ha un corredo genico anatolico. Viene dall’oltremare anche la più famosa razza bovina toscana, la Chianina. Perché fanno così paura, gli Etruschi? Forse perché avevano una società matriarcale “titanica” che introdusse in Italia una civiltà “inspiegabilmente” evoluta già nel 2500 avanti Cristo?
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Ddl Zan, tutti in ginocchio: clericalismo imposto per legge
«Egregio Presidente Draghi ed egregi confratelli della Loggia Laica del Grande Occidente, se volete davvero difendere la laicità dello Stato, del governo e del Parlamento italiano, dovete prendere meglio la mira. Scappucciatevi per vedere bene la realtà circostante. Non è la Chiesa cattolica apostolica romana, e tantomeno la Chiesa bergogliana, umanitaria e accogliente, a vagheggiare il ritorno a uno Stato confessionale, prono ai precetti religiosi e teso a restaurare la devozione popolare». Così Marcello Veneziani, su “La Verità”, smaschera il “nuovo clericalismo” che si vorrebbe imporre per legge, col Ddl Zan contro l’omofobia. «Per una volta – in modo magari maldestro, “gesuitico” e un po’ vile, appellandosi al Concordato – la Chiesa ha perorato il suo contrario, ha sposato una causa che più laica non si può: si è richiamata alle leggi, alla libertà di pensiero e di espressione, messa in pericolo dalla Legge Zan». Non è ingerenza nella vita laica dello Stato e della politica italiana, «nemmeno paragonabile alle numerose ingerenze della Chiesa bergogliana in tema di migranti, modelli sociali ed economici, giudizi politici e ideologici».Al contrario, scrive Veneziani, stavolta il Vaticano chiede di fermare «l’ingerenza di una legge, col relativo strascico d’intimidazione psicologica e ideologica, nella vita dei cittadini, non solo credenti e praticanti, se solo trasgrediscono ai precetti della nuova religione bioetica imposta al culto di tutti». Insiste Veneziani: «Se volete difendere davvero la laicità dello Stato, della politica, del governo e del Parlamento italiano, abbiate il coraggio di affrontare il nuovo clericalismo e la nuova Inquisizione che stanno instaurando in Italia e in Occidente le leggi, le proposte, i comitati di vigilanza, denuncia e sconfessione, che sorgono qua e là nel nostro paese a difesa e protezione della nuova religione umanitaria fondata sull’antifascismo, l’antirazzismo e l’antiomotransfobia». Una religione “anti”, molto curiosa, «imperniata sul principio di “odiare gli odiatori”, “perseguitare i persecutori”, farsi intollerante con gli intolleranti». Con la differenza che i presunti odiatori, persecutori e intolleranti «sono in larga parte inermi, innocui, e non dispongono del potere e delle armi di cui dispone la nuova Macchina dell’Inquisizione che dovrebbe colpirli a norma di legge».Il meccanismo ideologico-punitivo, secondo Veneziani, si fonda su un’inversione: ogni tentativo di difendere la famiglia o proteggere i bambini o di tutelare la sovranità nazionale e la civiltà in pericolo «viene letta e condannata al contrario come attacco a gay e trans o razzismo contro neri e migranti». Ragionando con la mente sgombra e senza «imbecillità di gregge e conformismo ideologico», ci si accorge che alla vita laica di tutti i giorni verrebbe applicato «un protocollo clericale fatto di processi alle intenzioni, catechismi impartiti in tutte le sedi, a cominciare dai bambini, caccia alle streghe, battesimi e cresime progressiste o al contrario scomuniche, esorcismi e sospensioni a divinis, inginocchiatoi e santini, devozioni e ricorrenze, nel nome di quel canone ormai sacro che ci nausea ripetere per l’ennesima volta: il politically correct e i suoi derivati tossici». Nel dettaglio, «la blasfemia, l’oltraggio alla religione, la bestemmia e la dissacrazione posti una volta a tutela della religione vengono trasferiti pari pari alle nuove categorie protette: neri senza g di mezzo, femministe del me-too, omotrans e affini, rom e altre categorie minori».«Non si può nemmeno fare una battuta su di loro, è ritenuta e punita come blasfemia», come se si trattasse di proteggere entità “intoccabili”, introducendo il reato d’opinione (di cui si occuperà «la Nuova Laica Inquisizione»). «Come chiamate tutto questo se non clericalismo, riduzione della laicità a uno Stato confessionale, regime teocratico col nuovo Dio Nero-Arcobaleno? E come chiamate i nuovi imam, i nuovi muezzin, i nuovi ayatollah che queste leggi stanno partorendo nei tribunali, nelle commissioni di vigilanza, nei comitati politici?». Clero, risponde Veneziani: «Sono clero, alle cui dirette dipendenze lavora la polizia psicopolitica, i nuovi battaglioni della Santa Fede. Il servizio d’ordine del Pci e di Lotta Continua è diventato ora milizia di stato della Nuova Religione Umanitaria. E se non ti puniscono in modo esemplare, ti intimano quanto meno di cospargerti il capo di cenere: Chiedi Scusa! Inginocchiati! Fai la penitenza! Recita l’atto di Contrizione, dieci Avemarie al gay profanato, cento Paternoster al Migrante dissacrato, ricordati di Santificare le lesbiche». Accusa Veneziani: «Il nuovo clericalismo da cui dovremmo difendere la laicità dello Stato e delle istituzioni è proprio quello che state elevando sugli altari e i tribunali a norma di legge».«Egregio Presidente Draghi ed egregi confratelli della Loggia Laica del Grande Occidente, se volete davvero difendere la laicità dello Stato, del governo e del Parlamento italiano, dovete prendere meglio la mira. Scappucciatevi per vedere bene la realtà circostante. Non è la Chiesa cattolica apostolica romana, e tantomeno la Chiesa bergogliana, umanitaria e accogliente, a vagheggiare il ritorno a uno Stato confessionale, prono ai precetti religiosi e teso a restaurare la devozione popolare». Così Marcello Veneziani, su “La Verità”, smaschera il “nuovo clericalismo” che si vorrebbe imporre per legge, col Ddl Zan contro l’omofobia. «Per una volta – in modo magari maldestro, “gesuitico” e un po’ vile, appellandosi al Concordato – la Chiesa ha perorato il suo contrario, ha sposato una causa che più laica non si può: si è richiamata alle leggi, alla libertà di pensiero e di espressione, messa in pericolo dalla Legge Zan». Non è ingerenza nella vita laica dello Stato e della politica italiana, «nemmeno paragonabile alle numerose ingerenze della Chiesa bergogliana in tema di migranti, modelli sociali ed economici, giudizi politici e ideologici».
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Biglino, la Bibbia Nuda aiuta il Brasile dei Figli delle Stelle
Figli delle Stelle: furono lontani antenati, non terrestri, a donare agli sciamani il potere di connettersi con l’invisibile. Ne sono convinti i leader delle comunità indigene dell’Amazzonia e del Mato Grosso, come quella di Maria de Lourdes da Conceição Alves, per tutti “Cacique Pequena”, la Piccola Capa. Piccola, ma in realtà grandissima: la prima donna a diventare “capo”, nelle terre ancestrali incastonate dentro il Sudamerica travolto dalla Conquista cristiana e poi regolarmente colonizzato, ieri da spagnoli e portoghesi e oggi dagli “yanquis” nordamericani. «E gli sparvieri desolarono le isole», scrisse il comunista Pablo Neruda nel “Canto Generale del Cile”, che gli valse il Nobel per la Letteratura. Un atto di dolore per la fine dell’antica civiltà andina e il suo culto del Sole, sbaraccato insieme a tutto il resto nell’immane genocidio, per mano cattolica, dell’intero continente sudamericano. Una strage di proporzioni incalcolabili, a cui si sono sottratti praticamente soltanto loro, i nativi della selva: quelli che praticano la Tameana e in qualche modo parlano ancora, coi Figli delle Stelle venuti dalle Pleiadi. Poteva non incontrarli, Mauro Biglino?
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I Minoici in America: come occultare Atlantide e i Titani
E se tutto questo improvviso agitarsi attorno all’ultimo tabù, quello degli Ufo, nascondesse anche la paura per qualcosa che potrebbe accadere nel 2024, con l’ingresso di Plutone in Acquario, che per gli astrologi significa “rivoluzione”, cambio di passo epocale per il pianeta? Non è che i protagonisti dell’attuale ultimo show, la cosiddetta “disclosure aliena” (perfetta per archiviare l’altro spettacolo planetario, quello del Covid) hanno il fondato timore che, esattamente fra tre anni, lo spazio possa riservare sorprese indesiderabili, per gli odierni dominatori della Terra? Ragionando ad alta voce a “L’Orizzonte degli Eventi”, sul canale YouTube di “Border Nights”, Nicola Bizzi la butta lì: c’è chi pensa sia possibile che, proprio nel 2024, tornino dalle nostre parti quelli che la tradizione mitologica ha chiamato Titani. Ovvero: “divinità” che sarebbero approdate 90.000 anni fa alle nostre latitudini, provenienti dal sistema solare di Tau-Ceti.Ne parla Esiodo nella Titanomachia racchiusa nella Teogonia: i Titani sarebbero stati sfrattati 20.000 anni fa dopo aver perso una “grande guerra cosmica” con altre entità, che poi si sarebbero fatte conoscere come dèi olimpici nell’Ellade, e con nomi diversi in altri continenti. E perché mai sarebbero così importanti, i Titani come Prometeo, Atlante e Poseidone? Perché sarebbero stati i nostri “padri”, nientemeno: i discendenti di Giapeto ci avrebbero “fabbricati” geneticamente 80.000 anni fa, dando origine all’Uomo di Cro-Magnon, nei territori – non ancora sommersi e non ancora frazionati in arcipelago – del più mitico dei continenti scomparsi: Atlantide. Un’area vastissima, probabilmente estesa dalle Azzorre alle Svalbard, con le sue propaggini orientali non distanti da Gibilterra. Era comodo, il “continente perduto”, per raggiungere sia l’America che il Mediterraneo.Bene, e chi lo dice? Chi la racconta, questa storia? Platone, innanzitutto: nel Crizia, soprattutto nel Timeo e poi forse anche nell’Ermocrate, altro dialogo del sommo filosofo greco (andato smarrito o addirittura mai scritto, solo pensato). Però l’esistenza di Atlantide la davano per scontata anche autori come Tucidide e Tertulliano, Diodoro Siculo, Strabone, Plinio il Vecchio, Seneca: per loro era storia, non leggenda. Lo ricorda lo stesso Bizzi, nel monumentale saggio “I Minoici in America”, che ripercorre “le memorie di una civiltà perduta”. Dettaglio: anche tramite Solone, suo avo, Platone attinge le sue informazioni dall’Egitto, dove i sacerdoti avrebbero conservato il ricordo ancestrale dei primissimi colonizzatori venuti dal mare: la Stirpe del Leone, che avrebbe disseminato le rive del Nilo di piramidi e sfingi dalla testa leonina.Se l’origine “titanica” dell’umanità occidentale è una radicata convinzione della tradizione misterica eleusina, non suffragata però da documenti originali e fonti dell’epoca, Nicola Bizzi – con lo sguardo dello storico, monitorando attentamente l’archeologia – dimostra il clamoroso oscuramento, più che sospetto, della maggiore civiltà mediterranea che gli eleusini considerano di origine “atlantidea”: l’Impero Minoico di Creta. La tesi esposta: i “popoli del mare” risalenti a quel tempo (lelegi, pelasgi, egei e, infine, cretesi e troiani) restano “scomodi”, da studiare; si tende a sminuirne il ruolo, proprio per non dover approfondire la loro provenienza. Da dove venivano, le genti che seppero erigere i palazzi di Festo e Cnosso millenni prima dell’età greca?Erano provetti navigatori, presenti in Egitto ben prima dei faraoni. Guerrieri, mercanti, formidabili architetti. Una civiltà stranamente avanzata, in possesso di una lingua come il Lineare A. La progenie dei Minosse si era espansa in tutto il Mare Nostrum, fino all’Anatolia e al Mar Nero, anche se si stenta sempre a evidenziare le sue tracce. Mezza Europa, poi – dalla Sardegna alle Isole Britanniche – mostra i segni di una cultura affine, megalitica, che “specchia il cielo con le pietre” riproducendo costellazioni, esattamente come poi faranno le culture precolombiane dell’America centro-meridionale. C’era un mondo molto più vasto, nel 3000 avanti Cristo, di quello che la storiografia ufficiale (sempre più spiazzata dai ritrovamenti recenti, come quello di Göbekli Tepe in Turchia) sia tuttora disposta a riconoscere? C’era stato un Grande Prima, che poi è stato meticolosamente occultato fino ai nostri giorni?Purtroppo, premette Bizzi, l’archeologia resta ingessata nelle sue ataviche pigrizie: continua a non ammettere (con un atteggiamento ben poco scientifico) la necessità di incrociare i propri dati con quelli di altre discipline. Per esempio: solo nel 2014, i geofisici hanno finito di capire che la Terra è stata terremotata da un doppio schianto apocalittico, di origine cometaria: la prima onda d’urto nel 10800, la seconda nel 9600 avanti Cristo. Il che – annota lo storico – corrisponde con la datazione (tradizionale, eleusina) dell’inabissamento di Atlantide. Una sorta di spaventoso Grande Reset, dal quale quella civiltà sarebbe poi risorta – dopo il “diluvio” – arrivando a rifiorire nel Mediterraneo fino all’altro cataclisma, l’esplosione del vulcano Santorini (attorno al 1600) che decretò il declino irreversibile dei Minoici, la cui ultima battaglia – la Guerra di Troia, che Omero narra nell’Iliade – verso il 1250 avrebbe messo fine all’ultimo capitolo dei popoli di origine “titanica”, non indoeuropea.In realtà, alle fonti eleusine è dedicato solo l’ultimo capitolo de “I Minoici in America”, in cui Bizzi esibisce inediti documenti custoditi dai discendenti italiani di quella corrente culturale, che si vuole originata dall’apparizione a Eleusi (alle porte di Atene) della dea Demetra: nel 1216, caduta Troia, la dea avrebbe rivelato alla comunità eleusina (di origine minoica) la sua vera storia, preannunciando un lunghissimo esilio, le persecuzioni in arrivo (puntualmente verificatesi, da Teodosio in poi) e infine un ritorno, da parte delle divinità “titaniche”. Chi è appassionato ai risvolti meta-storici, spesso classificati come mitologici, noterà certe ricorrenti ridondanze: per gli eleusini, Demetra veniva da Enna, in Sicilia, mentre Virgilio (nell’Eneide) affiderà al troiano Enea il ruolo di fondatore di Roma. La radice “En”, avverte Bizzi, significa “inizio”. E proprio En’n era il nome dell’isola maggiore del leggendario arcipelago perduto nell’Atlantico.Loro, gli Ennosigei, avrebbero egemonizzato le Sette Grandi Isole del Mar d’Occidente: da un loro geroglifico (”Hath-Lan-Thiv-Jhea”) il nome Atlantide, che in antico suonerebbe “la Grande Madre venuta dal mare”, a sottolineare l’impostazione matriarcale delle origini. Per gli eleusini, dice Bizzi, non è un caso che – sconfitti i Titani – le nuove divinità “usurpatrici” abbiano imposto culti dogmatici e schemi sociali basati sul potere patriarcale. Sempre secondo l’autore, il corpus sapienziale eleusino (il Tesoro del Tempio e gli Hierà) riuscì a sopravvivere in clandestinità grazie a Nestorio il Grande, leggendario Pritan degli Hierofanti eleusini, che lo fece sparire prima che a Eleusi facessero irruzione i Goti di Alarico, invitati dai vescovi cristiani perché mettessero le mani su tutti quei rotoli. Come se il culto “titanico” dovesse sparire dalla scena, per cancellare la memoria dell’imbarazzante origine atlantica? Operazione riuscita solo a metà, se è vero che l’ombra di Eleusi – mille anni dopo – riuscì ad allungarsi sul Rinascimento italiano, ispirando svariate signorie italiane a cominciare da quella medicea.Va però precisato che “I Minoici in America” non è un libro a tesi: attraverso 600 pagine di trattazione documentata, densa di citazioni puntualissime e corroborata da una bibliografia scientifica imponente, Nicola Bizzi si concentra soprattutto sugli studi dei ricercatori di oggi, pronti e denunciare le falle più vistose dell’archeologia ufficiale. Si mettono così a nudo le lacune e le contraddizioni di una narrazione che sembra voler parlare il meno possibile di Creta e dei suoi regnanti, delle loro fondamentali conquiste agevolate dalle superiori conoscenze di cui erano in possesso. Una su tutte – quella metallurgica – avrebbe permesso al Mediterraneo di entrare nell’Età del Bronzo, attingendo di colpo a un’enorme quantità di rame, ben superiore a quella disponibile a Cipro.«E’ stato stimato che oltre un milione di tonnellate di rame sia stato estratto, da ignoti minatori e per un periodo continuativo di circa mille anni, in migliaia di pozzi e gallerie sull’Isle Royal e sulla penisola Keweemaw, nello Stato americano del Michigan, nella zona dei Grandi Laghi al confine con il Canada». Lo si legge nell’incipit del capitolo “Le miniere minoiche del Michigan”: la datazione al radiocarbonio dei resti delle travi di legno utilizzate nelle gallerie risale fino al 3700 avanti Cristo. Secondo punto: per l’odierna mineralogia, che consente di determinare il “Dna” dei metalli e dunque la loro provenienza, il rame di Creta corrisponde esattamente a quello del Michigan. Terzo punto: come si naviga (a vela e a remi) dall’Egeo al Lago Superiore? Lo spiegano benissimo i tanti navigatori, antichi e poi medievali, che dall’America andavano e venivano tramandandosi rotte segrete e gelosamente custodite, dai tempi dei fenici e, prima ancora, dell’Impero dei Minosse.Dopo “Da Eleusi a Firenze” (e in attesa di “Da Eleusi a Washington”), chi apprezza le indagini di Bizzi non potrà che trovare appagante l’immersione tra le pagine di quest’ultimo prezioso lavoro, capace di incrociare dati ufficiali, riscontri mitologici e testimonianze archeologiche “scomode”, lungo una narrazione sempre avvincente e scorrevole malgrado l’esorbitante abbondanza di note, citazioni e riferimenti bibliografici estremamente accurati, classici e contemporanei. L’impressione è quella di percorrere una storia parallela, i cui punti cardinali coincidono con quelli convenzionali, facendogli però cambiare segno: come se davvero una specie di grande segreto proteggesse scoperte scoraggiate in ogni modo, dalle navi minoiche cariche di lingotti alle città (greche) rinvenute nella selva amazzonica da esploratori coraggiosi, poi spariti nel nulla. Non c’è bisogno di fantasticare sugli eventuali Ufo “titanici” del 2024, per interrogarsi sulla domanda di fondo a cui Bizzi prova a rispondere: perché tanto accanimento, nel secolare “cover up” archeologico sui Minoici?(Il libro: Nicola Bizzi, “I Minoici in America e le memorie di una civiltà perduta”, Edizioni Aurora Boreale, 616 pagine, 30 euro).E se tutto questo improvviso agitarsi attorno all’ultimo tabù, quello degli Ufo, nascondesse anche la paura per qualcosa che potrebbe accadere nel 2024, con l’ingresso di Plutone in Acquario, che per gli astrologi significa “rivoluzione”, cambio di passo epocale per il pianeta? Non è che i protagonisti dell’attuale ultimo show, la cosiddetta “disclosure aliena” (perfetta per archiviare l’altro spettacolo planetario, quello del Covid) hanno il fondato timore che, esattamente fra tre anni, lo spazio possa riservare sorprese indesiderabili, per gli odierni dominatori della Terra? Ragionando ad alta voce a “L’Orizzonte degli Eventi“, sul canale YouTube di “Border Nights”, Nicola Bizzi la butta lì: c’è chi pensa sia possibile che, proprio nel 2024, tornino dalle nostre parti quelli che la tradizione mitologica ha chiamato Titani. Ovvero: “divinità” che sarebbero approdate 90.000 anni fa alle nostre latitudini, provenienti dal sistema solare di Tau-Ceti.
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Nell’Ombra del Mondo, il potere invisibile degli Arconti
S’era mai visto un “noir” così atipico, nel quale il poliziotto entra in scena solo nel finale? E s’era mai vista – lontano dai testi di Paolo Franceschetti – una tale ridondanza dell’accoppiata formata dalla doppia lettera R? Va da sé che, se di «melma infernale» si tratta, a sbrogliare in caso (se così si può dire) non possa essere che lui, Mikael, «l’arcangelo delle ombre»: dalle tenebre esce per combattere alla luce del sole, fino a tornare poi ad annidarsi lungo la corrente energetica della Linea del Drago, magari sugli scogli irlandesi dell’Isola di Skelling. Elegante e volatile, la dissolvenza con cui Stefano Pica si congeda dal suo strano Viaggiatore, frastornato dai colpi di scena giocati con maestria sul limite friabile che separa il nostro quotidiano dall’Ombra del Mondo. Porte girevoli, pagina dopo pagina, in una successione incalzante e inesorabile di incidenti e sogni, proiezioni mentali e ammazzamenti veri, in un’illusione ottica che centra l’obiettivo di regalare al lettore la felicità di non sapere più dove si trova, esattamente: nel mondo del potere visibile, in mezzo ai suoi crimini, o nella matrice invisibile che forse lo determina, forgiandolo attraverso la sapienza “magica” di spietati Arconti?Giovane psicologo clinico con orientamento junghiano, esperto in criminologia forense, Stefano Pica s’inventa una fiaba senza tempo eppure attualissima, intrisa di simbologie esoteriche. Trama rocambolesca, ambientata nella Roma di oggi e innescata dalla misteriosa comparsa di «un libro non scritto», “Umbra mundi”, che funziona come tramite tra luce e ombra, scaraventando in una dimensione parallela il malcapitato studente universitario Renato Ranucci (prima accoppiata RR: per Franceschetti acronimo di Rossa Rossa, oscura società segreta che sarebbe annidata nel massimo potere, dedita anche alla pratica abominevole dei cosiddetti omicidi rituali). Certo, nel romanzo di Pica il simbolo ricorre: non è un caso, probabilmente, che si chiami Ruber Romero il famoso giudice pronto a insabbiare le indagini, allontanando l’investigatore “angelico”, né che la doppia R sia contenuta anche nel nome del personaggio-chiave, l’enigmatico professor Roman de la Rosa, in cui il fatidico fiore è espresso per intero, senza nemmeno cercare di nasconderlo.“Nell’ombra del mondo – Il Viaggiatore”, conferma l’editore (Terre Sommerse) è un romanzo sul potere, «con una trama psicologica e metafisica nata dal “fango infero” di un percorso iniziatico di tipo massonico dell’autore». Il suo avatar letterario, Renato Ranucci, è un giovane laureando in storia e filosofia, innamorato di Giordano Bruno. Pensando al grande Nolano, lo studente sottolinea l’idea che si possa «influenzare il mondo naturale agendo direttamente sulla sua ombra, attraverso la scienza, l’arte e la magia». Dopo averlo letteralmente rubato da una vestusta biblioteca, Renato (ri-nato, e forse anche Nato Re) scoprirà che quel misterioso libro rivelatore – che poi scatenerà una pericolosa caccia all’uomo – offre a chi lo possiede la tremenda facoltà di viaggiare dentro i sogni, ma in carne e ossa, tra amici che spariscono davvero, apprendisti stregoni, maghe e imperatrici, roghi medievali e fragorose bande di bikers, pronti a materializzarsi al momento giusto, in sella alle loro Harley, per evitare il peggio.«Si tratta di un romanzo che può avere una certa affinità con il periodo difficile che stiamo vivendo», dice l’autore, alludendo a «questa ‘Covid-crazia’ che sembra il tentativo, solo in parte riuscito, di completare l’inscatolamento della nostra coscienza all’interno di uno schema prefissato e gestito da una minoranza dominante che, nel mio romanzo, chiamo Arconti». Se una profetica canzone degli anni Ottanta (”Living in a box”) rendeva bene l’idea della situazione odierna, il “viaggiatore” Renato Ranucci, invece, “le scatole” le rompe, eccome: sbalzato fuori bordo, si troverà catapultato “nell’Ombra del Mondo”. Un viaggio che lo metterà di fronte ai tanti volti del potere, «uno dei quali è rappresentato da un Re che non riesce più a gestire il peso della Corona, che paradossalmente ritroviamo oggi sul capo di un virus (che in greco vuol dire veleno)», dice Stefano Pica. «Un virus incoronato “Re del mondo” che ha trasformato gli uomini in sudditi spaventati e gli ‘scienziati’ nei suoi gran sacerdoti».Spiega ancora Stefano: «Il Viaggiatore (Renato) è un archetipo legato al perdersi e al ritrovarsi, all’essere e al non essere, ma soprattutto al percorso di conoscenza di se stessi e del mondo, dove la meta non è mai delineata». L’Ombra del Mondo invece, ispirata dalla sapienza di Giordano Bruno, di fatto «è una dimensione speculare al mondo naturale: una dimensione onirica, dalla quale è possibile condizionare il mondo reale, come sta avvenendo oggi con il piano di manipolazione “asettica” che sta interessando la nostra vita». Nel romanzo, di fronte allo “spettacolo” di un’esecuzione capitale in epoca medievale, si legge: «La contemplazione del potere da parte delle masse popolari fornisce a queste ultime la sensazione illusoria di essere anche potenti, tanto da diventare sorde e cieche davanti a un potere che agisce contro di loro per soggiogarle». Il potere degli Arconti, appunto: «Una congrega operante nell’Ombra del Mondo, con lo scopo di ottenere energia da utilizzare per condizionare il mondo naturale e la vita delle persone comuni».Sacerdoti oscuri, contro-iniziatici, pronti a utilizzare «una spiritualità ierocratica e cerimoniale, rovesciata nel suo significato originario, per ottemperare ad ambizioni strettamente materialiste e orientate al dominio». Quando finalmente Renato Ranucci finisce in trappola, a tu per tu con uno di loro, scopre che per gli Arconti il potere-dominio consiste nel «superare l’etica attraverso una visione del mondo elitaria, a tratti sacrilega», forte di una «smisurata autocelebrazione titanica». Ecco una delle scoperte del Viaggiatore: «Il sacrificio era anche uno degli strumenti utilizzati dal dominio per legittimare la sua estetica e la sua etica, nel mondo, attraverso una sanguinosa sacralità fatta di guerre e genocidi». Tradotto: «La creazione di conflitti rappresentava la modalità migliore per produrre l’energia necessaria per far girare le ruote dell’occulta macchina del dominio, che gli Arconti gestivano sapientemente all’Ombra del Mondo», in una sorta di «culto cannibale, che utilizzava la conoscenza e il dominio per divorare l’esistenza delle persone fino alle ossa».Stefano Pica (o meglio, Renato Ranucci) sa benissimo che «ogni potere necessita spesso di sacrifici cruenti». Ma sa anche che, «per assurdo, ciò che nel mondo reale può farti ammalare, all’ombra di esso può farti guarire». Non c’è da allarmarsi più di tanto, se nel romanzo un alchimista può trasformarsi addirittura nel più fedele degli animali, o se è un uccello – a un certo punto – a mettere l’ispettore di polizia sulla strada giusta per risalire agli autori di un orrendo triplice omicidio, provocato dalla brama di mettere le mani su quel maledetto libro. «Quel tomo funzionava come un campo di coordinazione energetico, dove ogni situazione e persona incontrata nel viaggio onirico si legava alla realtà del viaggiatore attraverso fili invisibili». Solo esaminando quei fili attraverso le loro ombre, riflette Renato, è possibile comprendere «il nesso che lega ogni esistenza umana alle sue molteplici manifestazioni», e grazie a questa conoscenza diventare infine “Re di stessi”, «costruttori del proprio destino».(Il libro: Stefano Pica, “Nell’Ombra del Mondo – Il Viaggiatore”, Terre Sommerse, 180 pagine, 16 euro).S’era mai visto un “noir” così atipico, nel quale il poliziotto entra in scena solo nel finale? E s’era mai vista – lontano dai testi di Paolo Franceschetti – una tale ridondanza dell’accoppiata formata dalla doppia lettera R? Va da sé che, se di «melma infernale» si tratta, a sbrogliare il caso (se così si può dire) non possa essere che lui, Mikael, «l’arcangelo delle ombre»: dalle tenebre esce per combattere alla luce del sole, fino a tornare poi ad annidarsi lungo la corrente energetica della Linea del Drago, magari sugli scogli irlandesi dell’Isola di Skelling. Elegante e volatile, la dissolvenza con cui Stefano Pica si congeda dal suo strano Viaggiatore, frastornato dai colpi di scena giocati con maestria sul limite friabile che separa il nostro quotidiano dall’Ombra del Mondo. Porte girevoli, pagina dopo pagina, in una successione incalzante e inesorabile di incidenti e sogni, proiezioni mentali e ammazzamenti veri, in un’illusione ottica che centra l’obiettivo di regalare al lettore la felicità di non sapere più dove si trovi, esattamente: nel mondo del potere visibile, in mezzo ai suoi crimini, o nella matrice invisibile che forse lo determina, forgiandolo attraverso la sapienza “magica” di spietati Arconti?
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Gerusalemme: “Clonare David e creare un nuovo messia”
Scavare nel sottosuolo di Gerusalemme per rintracciare i resti del leggendario Re Davide, clonarli e permettere al Vaticano (niente meno) di “fabbricare” un personaggio da presentare poi come “nuovo messia”, ovviamente cristiano. Non è la trama di un film, ma il contenuto a margine della denuncia ufficiale presentata da un movimento ebraico – Regavim – che si batte per la tutela dei siti storico-archeologici nel territorio israeliano. Lo scorso 9 marzo, il gruppo ha presentato una petizione al tribunale contro il Comune di Gerusalemme, accusandolo di aver «nascosto l’esistenza di un tunnel sotterraneo scavato dalla Chiesa della Dormizione», uno dei maggiori luoghi di culto cristiano nella capitale dell’ebraismo. «La Dormizione, situata appena fuori dalla Porta di Sion, nel punto più alto dell’antica Gerusalemme, è inclusa nello storico complesso di conservazione noto come “Parco nazionale di Sovev Homot [bastioni di Gerusalemme]», ricorda Regavim sul suo sito.«Nonostante l’importanza nazionale, religiosa, scientifica e storica dell’area nel suo insieme – scrive il movimento israelinao – la Chiesa della Dormizione ha scavato un tunnel sotterraneo, lungo più di 100 metri, per collegare la Chiesa con “Beit Josef”, un dormitorio-pensione». Per anni, aggiungono gli attivisti, l’esistenza di quel tunnel non è stata altro che una semplice voce, condivisa tra i residenti locali e le istituzioni ebraiche attive sul Monte Sion: fino a quando Regavim non ha inviato una richiesta ufficiale al Comune di Gerusalemme, nel 2019, per confermare la sua esistenza. Sono stati richiesti «dettagli precisi sulla posizione del tunnel, al fine di determinare la misura in cui invade il suolo pubblico, nonché la misura in cui antichità inestimabili possono essere state danneggiate dagli scavi, effettuati senza supervisione». L’anno scorso, su richiesta dello stesso Regavim (e dopo che il Comune di Gerusalemme era stato costretto ad ammettere che esisteva, infatti, un “vecchio tunnel” a Beit Josef), è stata finalmente prodotta la documentazione ufficiale, che documenta «il passaggio sotterraneo illegale, di circa 150 metri».Secondo Regavim, riassume Davide Giancristofaro Alberti sul “Sussidiairo”, quei passaggi segreti sotto la basilica della Dormizione di Maria dovrebbero essere chiusi. Come riferito da “Dagospia” citando il tabloid britannico “Daily Star”, Regavid ha ora lanciato una petizione pubblica per spingere la città di Gerusalemme a chiudere i tunnel, che sarebbero stati aperti “clandestinamente” 12 anni fa. «Secondo quanto affermato dal rabbino Daniel Asor dell’istituto Yanar, fra i leader spirituali di Regavim, il tunnel sarebbe stato costruito per permettere ai membri della chiesa della Dormizione di riesumare i resti di Davide, il re d’Israele che uccise il gigante Golia, resti seppelliti sul monte Sion». Ma c’è di più, aggiunge Alberti, perché secondo Asor vi sarebbe un disegno ben più grande, dietro la costruzione di questi tunnel: «Il rabbino sostiene infatti che sarebbe il Vaticano a spingere affinché vengano riesumati i resti di Re Davide, in modo da ottenerne il Dna e clonare un essere umano, per poi illudere i credenti circa il ritorno del messia».Il caso resta controverso, oltre che certamente clamoroso. «La Israel Antiquities Authority ha negato che esista un tunnel sotto la chiesa, anche se il Comune di Gerusalemme ha spiegato che esiste un vecchio tunnel sotterraneo lungo 150 metri», aggiunge il “Sussidiario”: «Nessuna pronuncia della Chiesa, invece, sul presunto complotto». Dal canto suo, Regavim non molla: «Quando i dettagli hanno iniziato a essere messi a fuoco, abbiamo chiesto più e più volte che il Comune di Gerusalemme pubblicizzasse la documentazione dei suoi risultati, come richiesto dalla legge sulla libertà di informazione. Abbiamo inoltre chiesto che le procedure di supervisione, ispezione e applicazione della legge vengano prese immediatamente, per riportare il sito alle condizioni precedenti sigillando o demolendo il tunnel», affermano gli avvocati Avi Segal e Yael Cinnamon del movimento Regavim, i cui attivisti si rono risolti a ricorrere alla petizione «solo quando le nostre ripetute richieste al Comune di Gerusalemme – dicono – non hanno avuto risposta».Scavare nel sottosuolo di Gerusalemme per rintracciare i resti del leggendario Re Davide, clonarli e permettere al Vaticano (niente meno) di “fabbricare” un personaggio da presentare poi come “nuovo messia”, ovviamente cristiano. Non è la trama di un film, ma il contenuto a margine della denuncia ufficiale presentata da un movimento ebraico – Regavim – che si batte per la tutela dei siti storico-archeologici nel territorio israeliano. Lo scorso 9 marzo, il gruppo ha presentato una petizione al tribunale contro il Comune di Gerusalemme, accusandolo di aver «nascosto l’esistenza di un tunnel sotterraneo scavato dalla Chiesa della Dormizione», uno dei maggiori luoghi di culto cristiano nella capitale dell’ebraismo. «La Dormizione, situata appena fuori dalla Porta di Sion, nel punto più alto dell’antica Gerusalemme, è inclusa nello storico complesso di conservazione noto come “Parco nazionale di Sovev Homot [bastioni di Gerusalemme]», ricorda Regavim sul suo sito.
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L’Egitto ’schiera’ i suoi faraoni contro i signori del Covid
Attenti all’Egitto: ora riesuma i suoi antichi faraoni, per far rinascere lo spirito nazionale. E lo fa con una gigantesca kermesse, che rivela due intenti: scrollarsi di dosso un certo globalismo-canaglia, quello che ha imposto il “panico Covid” nella sua agenda, e al tempo stesso “resuscitare” l’antico culto egizio, quello della civiltà delle piramidi ereditata dai Figli delle Stelle, per avvertire quella élite che ancora oggi, segretamente e in modo inconfessabile, sembra devota alle divinità mesopotamiche (Moloch) declinate in modo pericolosamente anti-umano. E’ la lettura che Matt Martini fornisce della grandiosa “Pharaohs’ Golden Parade” andata in scena il 3 aprile al Cairo, per il trasferimento di 22 salme regali, trasportate dal museo egizio della capitale al museo nazionale della civiltà egizia a Giza, proprio all’ombra della Sfinge. Senza nascondere i tratti «anche un po’ kitsch» della “Parata d’oro dei faraoni”, Martini – esperto di orientalistica e co-autore del saggio “Operazione Corona”, edito da Aurora Boreale – avverte: siamo in presenza della volontà (esibita) di far “risorgere” l’Egitto, interpretato come erede di divinità venute dal cielo, “richiamate in servizio” per soccorrere la Terra, caduta in preda agli eccessi del mondialismo più criminale.Una lettura visionaria? Per capire che così non è, basta osservare l’espressione dell’attuale “faraone” in carica, il generale Al-Sisi, appena colpito dall’oscuro, minaccioso blocco del Canale del Suez con l’anomalo incagliamento del cargo Ever Given, riconducibile (nella compagine azionaria degli armatori) al club di Bill Gates e Hillary Clinton. Nelle immagini televisive della “Pharaohs’ Golden Parade”, Al-Sisi ostenta un’espressione inequivocabile: ai suoi occhi, quelle mummie in viaggio sono una sorta di totem nazionale, il cuore sacro dell’Egitto. Attenzione: è un classico, il ricorso alla simbologia (esoterica) da parte del grande potere. Sul suo canale YouTube, Giorgio Di Salvo ha sottolineato le stranezze della cerimonia di insediamento dello stesso Joe Biden: «E’ stata la rappresentazione di un vero e proprio rito di iniziazione, incentrato sulla figura dell’eccentrica Lady Gaga, abbigliata in modo da riprodurre il vestiario e il corredo della Statua della Libertà: non quella famosa, al porto di New York, ma quella che per i massoni americani è la vera Statua della Libertà. Si tratta della statua che sormonta la cupola del Campidoglio, a Washington: la “libertà armata”, che richiama la dea greca Athena».Come se non bastasse, Di Salvo rievoca un’altra cerimonia di insediamento, quella di Emmanuel Macron a Parigi: «Per un attimo (in modo però attentamente studiato) le braccia levate del neo-eletto, sullo sfondo della piramide del Louvre, disegnano alla perfezione la combinazione simbolica costituita da squadra e compasso». Da Napoleone in poi, l’Egitto si è conquistato un posto d’onore, sulle rive della Senna. «Ma mentre i riti massonici di ispirazione egizia sono di origine moderna, nelle terre che vanno dal Nilo all’Eufrate sopravvivono in modo clandestino le ritualità cultuali antiche», precisa lo storico Nicola Bizzi, presente con Matt Martini e Tom Bosco nella trasmissione “L’Orizzonte degli Eventi”, sul canale YouTube di “Border Nights”. Lo stesso Martini cita la religione egizia tuttora praticata da «importanti sceicchi del Cairo», sotto la vernice ufficiale dell’Islam. Dal canto suo, Bizzi conferma che in Iraq «si praticano culti di origine sumerica, al riparo dei circoli Sufi (in teoria, islamici) che ospitavano personalità vicinissime al potere già all’epoca del regime di Saddam Hussein».Curioso che poi lo stesso Saddam sia stato abbattuto dai Bush – padre e figlio – che Gioele Magaldi presenta come fondatori della nefasta superloggia “Hathor Pentalpha”, dedita anche al terrorismo internazionale, avendo arruolato tra le sue fila prima Osama Bin Laden e poi Abu Bakr Al-Baghdadi, leader dell’Isis. C’è chi fa notare il collegamento tra l’acronimo Isis (Islamic State of Iraq and Sirya) e il nome della dea egizia Iside, chiamata anche Hathor. Iside-Hathor è la vedova di Osiride, nonché la madre di Horus: il trio incarna la “sacra famiglia” dell’antico Egitto faraonico, la “trimurti” fondativa del Nilo. Padre, madre e figlio, a sottolineare una tripartizione “energetica” successivamente reinterpretata in modo difforme dalla Trinità cristiana, rimodellando teologicamente la Tetractis triangolare di Pitagora: figura ricomparsa – in modo clamoroso – nella coreografia della grande Parata dei Faraoni appena proposta al Cairo, nel segno del recupero dell’antica sapienza “pagana”.«La grande kermesse egiziana è stata anche un atto di magia cerimoniale», sostiene Matt Martini a “L’Orizzonte degli Eventi”. «Obiettivo: risvegliare “l’eggregore” nazionale, il genio egizio: una vera e propria evocazione, tramite il ruolo delle mummie solennemente traslate da un museo all’altro, in mezzo ad ali di folla». Le mummie regali egizie, dice Martini, vanno considerate – nelle intenzioni degli organizzatori – come «veri e propri talismani umani: quelle salme sono state preparate ritualmente e trattate come oggetti di culto: per migliaia di anni, hanno ricevuto offerte votive». Dunque, per Martini, «sul piano magico sono strumenti perfetti, per fare da ponte con altre dimensioni». Spiega il saggista: «Si crede che la mummia, se conservata, contenga ancora il Ka del defunto: un’impronta dell’anima. A sua volta, il Ka viene visitato dal Ba, cioè l’anima che sale e scende. Infine, il Ba comunica con l’Akh, lo spirito trasfigurato dell’iniziato (il faraone), che secondo l’antica religione egizia resta in contatto con la dimensione degli Aku, i principi divini, gli Splendenti». In altre parole: un ascensore per il cielo, nel nome dell’Egitto delle piramidi.Martini invita a far caso ai numeri: sono state trasferite 22 salme, precisamente quelle di 18 faraoni e di 4 regine. Tutti regnanti compresi tra la 17esima e la 20esima dinastia. «La 17esima dinastima fu l’ultima del Secondo Periodo Intermedio, quello dominato dal caos, quando l’Egitto fu invaso dagli Hyksos. La dinastia successiva, quella Ramesside, segnò invece la restaurazione del potere faraonico egizio: l’inizio del Nuovo Regno». Anche al Cairo, assicura Martini, il potere gioca con i simboli: è come se il generale Al-Sisi paragonasse se stesso ai faraoni di nome Ramses, rifondatori dell’Egitto dopo le tempeste della storia. L’ultima, in questo caso, si chiama Covid: «Si noti: la mascherina non viene indossata né dai figuranti, spesso assiepati, né dalle migliaia di spettatori che assistono al corteo, stretti l’uno all’altro». Sembra un messaggio diretto ai “signori del coronavirus” e agli stessi vicini israeliani, che hanno trasformato il loro paese in area-test per la vaccinazione di massa. Per inciso: in concomitanza con lo strano incidente di Suez, Al-Sisi ha fatto riaprire (dopo anni) il valico di Rafah, a Gaza: l’unico non controllato da Israele.Oggi l’Egitto è un paese islamico e anche cristiano, ricorda Martini, alludendo all’importante confessione copta. Ma Al-Sisi – aggiunge – come militare impegnato in politica è pur sempre erede del nazionalismo laico, incarnaato dall’ex partito Baath, socialista e panarabo, cresciuto nel mito del grande leader terzomondista Abdel Gamal Nasser, che sfidò Francia, Gran Bretagna e Israele per rivendicare la piena sovranità del suo paese. Non si scherza, con l’Egitto: nel 1956 – quando inglesi e francesi sbarcarono a Porto Said per rovesciare Nasser, che aveva bloccato il Canale di Suez perché la Banca Mondiale non voleva concedere agli egiziani il prestito per erigere la diga di Assuan – l’Unione Sovietica (con il tacito consenso degli Usa) arrivò a minacciare gli invasori anglo-francesi di ricorrere alla bomba atomica, se non avessero lasciato l’Egitto. Finì nell’ignominia – e con il trionfo politico di Nasser – l’ultimo colpo di coda del colonialismo europeo nel Mediterraneo. Poi gli uomini del pararabismo Baath sono stati perseguitati: ucciso Saddam, invasa la Siria di Assad.Abdel Fattah Al-Sisi, in qualche modo erede di Mubarak (già allievo della scuola ufficiali di Mosca) si è imposto nel 2014 incarcerando i Fratelli Musulmani, inizialmente votati dagli egiziani dopo la turbolenta “primavera araba” innescata al Cairo dallo storico discorso incendiario del massone Obama, con l’obiettivo di “resettare” le oligarchie nordafricane non-allineate al potere di Washington (preservando invece le brutali petro-monarchie del Golfo, in primis quella saudita, devotissime al superpotere statunitense). Siamo tuttora in pieno caos: Giulio Regeni, reclutato (a sua insaputa) dall’intelligence britannica tramite una Ong universitaria, è stato barbamente assassinato per ostacolare i nascenti rapporti strategici tra Italia ed Egitto, dopo la scoperta da parte dell’Eni di un immenso giacimento marittimo di gas e petrolio al largo delle coste egiziane. Regeni – scrisse il “Giornale”, citando servizi segreti italiani – fu ucciso da manovalanza del Cairo, ma su ordine inglese, proprio per mettere in imbarazzo Al-Sisi, proprio mentre l’Italia stava chiedendo la protezione militare dell’Egitto, allora influente in Cirenaica, nell’ipotesi di inviare un contingente italiano in Libia.Oggi, Bengasi è passata sotto il controllo della Russia: è avvenuto dopo che, in modo simmetrico, Tripoli è caduta nelle mani della Turchia. Altro volto del caos di oggi è l’insidioso neo-ottomanesimo di Erdogan, supermassone reazionario e illustre membro della spietata “Hathor Pentalpha”, secondo Magaldi. Con un gesto inaudito, che riporta l’Italia al centro della scena in politica estera, Mario Draghi ha definito “un dittatore” il sultano di Ankara. Si tratta di un messaggio in codice – spiega Dario Fabbri, di “Limes” – rivolto agli Usa: Draghi li invita a non sacrificare gli interessi italiani in Libia, dopo che Ergodan ha promesso di aprire il Mar Nero alle portaerei americane (in funzione anti-russa) se lo Zio Sam chiuderà un occhio, anzi due, sulle ambizioni imperiali dei turchi nel Mediterraneo. Dalla parte dell’Italia c’è sicuramente l’Egitto, nuovo Eldorado per l’Eni dopo i problemi sopraggiunti in Libia. Nonostante le proteste per il doloroso caso Regeni, infatti, l’Italia ha appena ceduto al Cairo due fregate Fremm, gioiello della marina militare che l’Egitto immagina di dover impiegare, come arma di dissuasione, anche e soprattutto contro la Turchia di Erdogan.Modernissime fregate lanciamissili, ma non solo: la vera arma di Al-Sisi, a quanto pare, potrebbero essere proprio i venerati faraoni della 18esima dinastia, omaggiati come il Graal dell’Egitto. «Nella “Pharaohs’ Golden Parade” – insiste Matt Martini – si può leggere il ritorno alle origini ancestrali della nazione». Martini è attentissimo ai dettagli: le salme traslate con tutti gli onori sono 22, «come le lettere dell’alfabeto ebraico, che potrebbe derivare dall’alfabeto geroglifico egizio». Il trait d’union, dice l’analista, potrebbe essere stato l’alfabeto proto-sinaitico, una forma linguistica di transizione tra l’egizio geroglifico e gli alfabeti semitici (fenicio e aramaico, fino poi al più recente ebraico biblico). Sempre 22 – aggiunge Martini – erano anche i Nòmoi (i distretti amministrativi) dell’Alto Egitto, che aveva per capitale Tebe, la città della dinastia Ramesside. «Sono numeri non casuali: esprimono un preciso linguaggio, simbolico e operativo: quello di un’operazione di magia cerimoniale, a scopi politici e meta-politici».Indicazioni che Martini trae dall’analisi della grande parata del Cairo. «Allì’inizio, la soprano al centro della scena canta un inno a Iside. Poi, i militari sfilano in un viale illuminato di rosso, che è il colore di Seth e anche degli Hyksos: quindi, è come se i militari egiziani stessero calpestando gli Hyksos, nemici dell’Egitto». Quindi, il cambio di scenografia: «A un certo punto, il viale diventa blu: ed entra in scena una figurante (blu, anch’essa) che incarna Nuit, o Nut, la dea egizia del cielo stellato». Si vede una moltitudine di ancelle agitare un contenitore luminoso: «Qui punti di luce simboleggiano proprio le stelle, con un’allusione precisa: i nostri antenati ancestrali – di cui i faraoni erano i rappresentanti terreni – venivano dal cielo: erano Figli delle Stelle».Al Cairo, la grande parata è conclusa dal corteo dalle mummie, racchiuse nei loro sarcofagi trasportati su carri scenografati in modo un po’ hollywoodiano, per ricordare i mezzi di trasporto di migliaia di anni fa. «Per la religione tradizionale egizia – precisa Martini – le mummie vengono dal Duat, dalla dimensione stellare degli Aku. Questi faraoni non sono comuni mortali: sono tecnicamente delle divinità, non vengono dall’oltretomba infero ma dalla dimensione stellare». Significati sottolineati dalla stessa data scelta per la grandiosa cerimonia: «Il 3 aprile è il 23esimo giorno del mese di Ermuti, dedicato a Iside. Ed è l’ultimo giorno di un ciclo di festività dedicate a Horus, che è il vendicatore di suo padre, e dunque il vendicatore dell’Egitto». Messaggio: «Il potere che ha allestito la parata ha voluto celebrare un atto magico, per il risveglio nazionale dell’Egitto». Si tratta di un’élite che «lavora anche sul piano “sottile” e pratica ancora la teurgia, cioè l’arte di comunicare con le divinità». Non pensiate – assicura Martini – che la cosa sia sfuggita, ai “signori del Covid”: «Queste sono operazioni molto temute, da chi vuole nascondere certe cose». L’oligarchia ostile è avvisata: contro i nemici, ora l’Egitto schiera i suoi faraoni.Attenti all’Egitto: ora riesuma i suoi antichi faraoni, per far rinascere lo spirito nazionale. E lo fa con una gigantesca kermesse, che rivela due intenti: scrollarsi di dosso un certo globalismo-canaglia, quello che ha imposto il “panico Covid” nella sua agenda, e al tempo stesso “resuscitare” l’antico culto egizio, quello della civiltà delle piramidi ereditata dai Figli delle Stelle, per avvertire quella élite che ancora oggi, segretamente e in modo inconfessabile, sembra devota alle divinità mesopotamiche (Moloch) declinate in modo pericolosamente anti-umano. E’ la lettura che Matt Martini fornisce della grandiosa “Pharaohs’ Golden Parade” andata in scena il 3 aprile al Cairo, per il trasferimento di 22 salme regali, trasportate dal museo egizio della capitale al museo nazionale della civiltà egizia a Giza, proprio all’ombra della Sfinge. Senza nascondere i tratti «anche un po’ kitsch» della “Parata d’oro dei faraoni”, Martini – esperto di orientalistica e co-autore del saggio “Operazione Corona”, edito da Aurora Boreale – avverte: siamo in presenza della volontà (esibita) di far “risorgere” l’Egitto, interpretato come erede di divinità venute dal cielo, “richiamate in servizio” per soccorrere la Terra, caduta in preda agli eccessi del mondialismo più criminale.
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Bizzi: la Sfinge e il Leone, in Egitto il sigillo di Atlantide
La civiltà Ennosigea, che ci viene descritta dai testi misterici di provenienza eleusina, era di tipo matriarcale: comandavano le donne, c’erano regine guerriere che detenevano il potere. Era impensabile che ci fosse un re maschio: finché una regina non dava alla luce una femmina, non c’era l’erede. Questa società aveva una religione fondata sul culto degli antichi dèi Titani: divinità che avrebbero creato l’uomo, attraverso l’azione di quattro di esse. Atlante, Menezio, Prometeo ed Epimeteo sarebbero stati i creatori dell’umanità, o almeno di una parte dell’umanità (quella occidentale). La civiltà Ennosigea, che venerava quegli dèi Titani, era basata essenzialmente sul ricordo di un tempo mitico, come lo Zep Tepi egizio. Era il ricordo di qualcosa che c’era stato prima. I testi misterici fanno iniziare questa civiltà attorno al 19.000 avanti Cristo. Inizia sostalmente da zero: dalle caverne, dalle palafitte. Ma la cosa inquietante è che ci viene narrato che la civiltà ricominciò da zero dopo una distruzione: non la distruzione di Atlantide del 9600 avanti Cristo, ma qualcosa che sarebbe avvenuto 10.000 anni prima.E’ qualcosa che, anche in questo caso (come il cataclisma di origine cometaria che avrebbe innalzato i mari sommergendo Atlantide) sarebbe avvenuto in tutto il mondo: la tradizione greca, con Esiodo, la chiama Titanomachia. Un’epica guerra tra divinità: da una parte i Titani, che all’epoca (in una sorta di Età dell’Oro) vivevano fianco a fianco con gli esseri umani, e dall’altra nuove divinità venute dall’esterno, esseri che la tradizione misterica considera come usurpatori. Queste nuove divinità avrebbero dichiarato guerra ai Titani, e li avrebbero sconfitti. La guerra avrebbe comportato la distruzione completa di buona parte del mondo. Ed è in questo contesto che si parla dell’inabissamento del continente di Mu, che si trovava nel Pacifico. Qui si parla di armi di distruzione di massa, dal potenziale incalcolabile: dunque, quello del 19.000 avanti Cristo non sarebbe stato un cataclisma, dovuto alla caduta dei frammenti di una cometa. Si parla invece di una guerra, combattuta con armi terribili. Una guerra che poi si ritrova anche nei testi indiani: il Mahabharata e il Ramayana sono densi di notizie, riguardo a questo conflitto. Si parla di armi sconvolgenti: se si prendono i testi alla lettera, non troviamo differenze rispetto agli effetti di Hiroshima e Nagasaki.L’intera religiosità della civiltà Ennosigea (o “atlantidea”) era legata a quell’antica stirpe di dèi, i Titani, che erano i loro padri. Gli Ennosigei vivevano nel ricordo della presenza dei Titani, sulla Terra, e mantennero la religione dei Titani, la tradizione religiosa legata a queste particolari divinità, rifiutando l’imposizione del culto dei cosiddetti nuovi dèi, che poi nella tradizione mediterranea assunsero la denominazione di “olimpici” (cambiando nome, in altre parti del mondo). Quindi: sulla Terra accade qualcosa di terribile, circa ventimila anni fa, che annientò una civiltà relativamente avanzata e pose repentinamente termine a una mitica Età dell’Oro, in cui uomini e dèi vivevano fianco a fianco, in pace e in armonia. La civiltà atlantidea – chiamiamola così – nel ricordo di quella tradizione dichiarava guerra e attaccava i popoli che si erano asserviti al culto dei nuovi déi. E’ vero che questa civiltà venne unificata dalla nazione Ennosigea, basata nel Nord Atlantico, ma poi arrivò a conquistare tutto il Mediterraneo. Nei testi si menziona una conquista dell’Egitto già precedente: la civiltà della “nazione atlantidea” avrebbe colonizzato l’Egitto attorno al 13.000 avanti Cristo.Sempre in questi testi misterici si parla poi anche di una probabile interpretazione della Sfinge. La civiltà Ennosigea, che avrebbe dapprima unificato l’intera isola-continente di En e poi dominato il bacino mediterraneo, arrivò a conquistare l’Europa sotto una particolare dinastia, il cui nome era Fania, e il cui emblema era un leone. Non a caso, in origine, la Sfinge della piana di Giza aveva una testa leonina, poi erosa o addirittura crollata, e infine risagomata con le sembianze di un successivo faraone. Moltissimi indizi, quindi, attestano il fatto che buona parte dei monumenti egizi più antichi siano stati realizzati da questa civiltà, e che quindi buona parte della mitologia e della tradizione dell’antico Egitto sia di matrice atlantidea. Questo spiegherebbe anche perché Solone abbia acquisito proprio in Egitto, dai sacerdoti che le avevano conservate, determinate informazioni su Atlantide, poi riprese da Platone nel Crizia e nel Timeo.(Nicola Bizzi, “Atlantide e le antiche civiltà”: affermazioni rilasciate nella trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, poi ripresa da “Anubi Radio” anche su YouTube).La civiltà Ennosigea, che ci viene descritta dai testi misterici di provenienza eleusina, era di tipo matriarcale: comandavano le donne, c’erano regine guerriere che detenevano il potere. Era impensabile che ci fosse un re maschio: finché una regina non dava alla luce una femmina, non c’era l’erede. Questa società aveva una religione fondata sul culto degli antichi dèi Titani: divinità che avrebbero creato l’uomo, attraverso l’azione di quattro di esse. Atlante, Menezio, Prometeo ed Epimeteo sarebbero stati i creatori dell’umanità, o almeno di una parte dell’umanità (quella occidentale). La civiltà Ennosigea, che venerava quegli dèi Titani, era basata essenzialmente sul ricordo di un tempo mitico, come lo Zep Tepi egizio. Era il ricordo di qualcosa che c’era stato prima. I testi misterici fanno iniziare questa civiltà attorno al 19.000 avanti Cristo. Inizia sostalmente da zero: dalle caverne, dalle palafitte. Ma la cosa inquietante è che ci viene narrato che la civiltà ricominciò da zero dopo una distruzione: non la distruzione di Atlantide del 9600 avanti Cristo, ma qualcosa che sarebbe avvenuto 10.000 anni prima.
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Bergoglio coi Rothschild, Soros e il Great Reset di Davos
Donald Trump annuncia di aver raggiunto la più grande vittoria elettorale di sempre, nella storia degli Stati Uniti, con qualcosa come 74 milioni di voti: la frode contestata a Biden tramite «brogli di proporzioni mostruose» non sarebbe stata solo una beffa, ma un vero e proprio attentato alla dimensione democratica del paese. Mentre Trump mobilita la base in vista della battaglia legalitaria che dovrebbe culminare il 6 gennaio, con il rifiuto parlamentare di convalidare il risultato “truccato” da Biden, grazie all’abuso del voto postale e alla manipolazione che sarebbe stata realizzata dai dispositivi elettronici Dominion attraverso il software Smartmatic, l’influente George Soros ha appena nominato a capo della sua Open Society Foundation proprio il presidente di Smartmatic Voting System: si tratta di Lord Mark Malloch-Brown, alto funzionario delle Nazioni Unite. Se i media hanno già “deciso” che il nuovo presidente americano sarebbe Biden (in realtà non ancora eletto: il voto espresso dai suoi grandi elettori il 14 dicembre non conta nulla, data l’opposizione di Trump), dalla parte di Biden, Soros e colleghi sembra schierarsi anche Jorge Mario Bergoglio. Duramente attaccato da Mike Pompeo per aver concesso a Pechino il potere di nomina dei vescovi cattolici in Cina, Papa Francesco ha formalizzato un’alleanza in Vaticano con il Council for Inclusive Capitalism, organismo promosso da Lynn Forester de Rothschild, «grande amica di Hillary Clinton e di Jeffrey Epstein», l’uomo che ricattava i potenti tramite favori sessuali a base di minorenni.
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Conte, Merkel e gli zombie che “Politico” scambia per eroi
«Giuseppe Conte è il leader più credibile al mondo», sintetizza “Tpi” nel presentare la clamorosa classifica che sta rimbalzando ovunque. Se i comici sono un po’ fuori allenamento, in mezzo alle disgrazie del 2020, a tirare su il morale a tutti provvede infatti l’edizione europea dello statunitense “Politico”, realizzata a Bruxelles in jount-venture con il principale editore digitale in Europa, il tedesco Axel Springer. “Politico” vanta un team di 500 redattori, distribuiti in tutto il mondo: la tribuna vip del mainstream media internazionale, quello che non ha mai osato raccontare la nuda verità né previsto nessuna crisi. E cosa dicono, i gran sacerdoti dell’informazione? Tra cose, innanzitutto. La prima riguarda Angela Merkel, incoronata Papessa d’Europa (questo sì, che è uno scoop). La seconda: la merkeliana Ursula von der Leyen sarebbe la leader dei “sognatori”. E qui si comincia a ridere, ma non quanto di fronte al ritratto di “Giuseppi” Conte, numero uno degli “spender” europei, una specie di Masaniello dal tocco felice. Per capire in che mani sia l’informazione, basta leggere le pagelle di quelli che “Politico” presenta come “Gli attori, i sognatori e i rivoluzionari che daranno forma al prossimo anno in Europa”.Una galleria di zombie, che “Politico” scambia per esseri politicamente viventi, nonché capaci di decisioni autonome: come se non esistessero nemmeno, i poteri che dominano il mondo, che oggi lo stanno mettendo alla frusta come in tempo di guerra (e che, per inciso, presiedono alla somministrazione editoriale delle notizie destinate al gregge). La simpatica macellaia Angela Merkel, reginetta del rigore e affamatrice di mezza Europa, Grecia in primis, dopo i brillanti esordi come spia della Stasi, feroce polizia politica della Germania Est (”Le vite degli altri”, al cinema), su “Politico” rifulge, abbagliante, in tutto il suo splendore. «Dopo quasi 16 anni come cancelliera, Angela Merkel è destinata a ritirarsi dopo le elezioni tedesche dell’autunno 2021», singhiozzano i redattori di “Politico”, «con un record segnato dalla stabilità piuttosto che dall’ambizione». In confronto ad Angela, Batman e Superman non sono nessuno: «Negli ultimi dieci anni e mezzo, la Merkel è stata la mano ferma attraverso una serie di cataclismi, dalla Grande Recessione e dalla crisi dell’Eurozona al Covid-19». Che tempra: «Ha tenuto insieme l’Europa di fronte alla Brexit e alla belligeranza di Donald Trump», quel noto mascalzone, «diventando, per processo di eliminazione, il “leader del mondo libero”, di fatto, quando Washington si è ritirata».Al ritratto “giornalistico” manca solo l’incoronazione imperiale, ma soltanto perché il Sacro Romano Impero non è ancora stato nominalmente istituito. Quanto al culto merkeliano, niente paura: l’altare, come si legge, è bell’e pronto. E alla destra della divinità siede già la regina dei “dreamer”, la quasi altrettanto divina Ursula, che infatti «vuole rendere di nuovo grande l’Europa». E come? Presto detto: la prima voce citata da “Politico” è «il rafforzamento dei diritti Lgbt», la cui fragilità – com’è noto – ha determinato la grande crisi europea, la morte per denutrizione dei bambini greci, le spietate politiche di rigore, i tagli alla sanità e alle pensioni, l’esplosione del precariato e della disoccupazione. Insieme al “diritti Lgbt” è citata l’altra grande sfida che assilla gli europei nel 2020, ovvero «la lotta al razzismo». A seguire: «La garanzia di un salario minimo a tutti i lavoratori europei, la riduzione delle emissioni di gas serra del 55% e la creazione di un’Unione Europea della Sanità che darebbe alla burocrazia dell’Ue maggiore influenza su una prerogativa nazionale ferocemente custodita». C’è da mettersi a piangere dalla commozione, vero? Meglio tenere il fazzoletto a portata di mano, allora, perché “Politico” riesce a superare se stesso nel celebrare il primo ministro italiano, amatissimo dai poteri che contano.«Il coronavirus ha devastato l’Italia, ma per Conte, almeno politicamente, è stato un vantaggio»: almeno questo, “Politico” lo ammette. Comunque, «se l’Italia è troppo grande per fallire, Giuseppe Conte è l’uomo che l’Europa spera sarà in grado di continuare a sostenerla». Eccoci al punto: “Giuseppi” sarebbe la pedina su cui puntano i massimi poteri, quelli che muovono i fili delle marionette Angela & Ursula. La tesi di “Politico”: ha fatto benissimo, Conte, a imporre all’Italia il brutale lockdown di marzo e aprile: così facendo ha infatti costretto l’Ue a provare «vergogna», al punto da indurre i cattivoni di Bruxelles a metter mano al portafogli con una pioggia di miliardi (di cui non s’è ancora vista nemmeno l’ombra: l’Italia infatti sta in piedi solo grazie alla generosità di Christine Lagarde, ma la signora della Bce è relegata in posizione assai defilata, tra i benefattori). Del resto, “Politico” bada al sodo: di Conte apprezza «il suo stile cliché italiano fiammeggiante», e cioè il fatto di «presentarsi alle riunioni a bordo di una Maserati, in un abito neo-dandy, cercando di flirtare con Angela Merkel». Certo, “Giuseppi” dovrà guardarsi dall’invidia dei paesi “frugali” (che infatti friggono, di fronte allo spettacolo dell’improvvisa ricchezza degli italiani, trasformati in nababbi). E dovrà anche «gettare qualche osso» ai suoi avversari «di estrema destra», cioè «Salvini e l’ascendente Giorgia Meloni».La leader di Fratelli d’Italia figura al terzo posto tra i “disgregatori” europei, contrapposti a valorosi “doers” come Orban, Macron, Erdogan e il “bluffer” Boris Johnson. La piccola Giorgia («sono italiana, sono cristiana») è presentata come «leader appena incoronata dell’estrema destra europea», al punto che ora sembra «pronta a diffondere», in tutto il continente, «la sua capacità di distruggere senza autodistruggersi» (in questo, seconda solo al coronaviurs). Tra i biechi disgregatori figura il russo Pavel Durov, reo di aver creato un social media come Telegram, capace di fare concorrenza a WhatsApp, ovvero di «fare a pezzi le persone», divenendo uno strumento del Male. «Telegram è anche il modo in cui i teorici della cospirazione tedeschi di “QAnon” e i manifestanti anti-maschera organizzano marce a Berlino». Capito, che guaio? Ma niente paura, già si ode l’avanzata dei cavalieri del Bene, cioè le piattaforme immacolate come Facebook e Twitter, le quali «cercano di reprimere la disinformazione e l’incitamento alla violenza». A proposito di disinformazione e omissioni: è grande come una casa, la maggiore “dimenticanza” di quegli sbadati di “Politico”: nel loro pantheon europeo è clamorosamente vuota la poltrona di uno dei personaggi più influenti del pianeta, Mario Draghi. Strano, no?Proprio Draghi, già sommo pontefice dell’euro-potere, si macchiò nel 2019 del peggiore dei crimini: rinnegò le sue malefatte e si mise a bocciare le politiche “fallimentari” dei suoi ex sodali, cioè i morti viventi, gli ectoplasmi, i camerieri e i maggiordomi che oggi “Politico” finge di scambiare per statisti decisivi per il futuro europeo. Compreso il più fantasmatico di tutti, il nostro anonimo “Giuseppi”, con il suo stile «cliché italiano fiammeggiante»: senza i poderosi acquisti della Bce, non avrebbe potuto sfoggiare a lungo la Maserati e la pochette, menando ancora il can per l’aia dopo un anno di supercazzole sui “ristori”. E se è stata la Bce ad acquistare camionate di Btp a costo zero, lo si deve anche e soprattutto al grande assente, nel pantheon di “Politico”: quel Draghi che a marzo, sul “Financial Times”, aveva messo in chiaro che vent’anni di politica europea (cioè di Angela Merkel e sudditi) andrebbero gettati al macero, pena la morte civile di un continente tuttora in mano ai prestanome di un’associazione a delinquere che ha organizzato a tavolino l’inesistente “scarsità di denaro”, a scopo predatorio e di dominio. E quindi: come lo si sarebbe potuto invitare, l’imbarazzante Draghi, tra i Magnifici del 2021? E se si fosse messo a dire la verità, come sta facendo da un anno e mezzo a questa parte? Volete mettere, lo sconcerto?La voglia di ridere, se mai ci fosse, svanirebbe comunque velocemente nello scoprire che il Tribunale Islamico di “Politico” mette nel mirino anche una scrittrice, nientemeno: si tratta di Joanne Kathleen Rowling, celeberrima creatrice di Harry Potter, relegata tra i reprobi “disgregatori”. Sembra di rivivere, sia pure in modo incruento, l’epoca della “fatwa” scagliata dall’ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie, autore dei “Versi satanici” che secondo i teocrati dell’Iran insolentivano il Profeta. Merita dunque la condanna a morte anche la Rowling? Certo, il suo crimine è scioccante: ha osato contestare uno dei massimi dogmi della nuova religione, cioè la sacralità dei diritti civili (Lgbt) utilizzata per oscurare i diritti sociali e quindi annullare il futuro dei giovani, dando loro l’illusione di essere liberi, anche se quella sessuale è l’unica vera libertà che ormai viene loro lasciata. L’accusa mossa all’autrice di Harry Potter è spaventosa: “transbofia”. Roba da plotone d’esecuzione. Quello di “Politico”, per ora si esercita sulla Rowling. Ma solo a un demente potrebbe sfuggire qual è il vero bersaglio: noi, la nostra libertà di opinione. All’avvento del totalitarismo nazista, Bertolt Brecht si affrettò a lasciare la Germania. Con lui Theodor Adorno, Herbert Marcuse, Erich Fromm. Non è mai un bel posto, quello dove si mettono alla berlina i filosofi e gli scrittori. E il Verbo di “Politico”, sotto forma di carta straccia digitale, è un avvertimento maleodorante: essere eretici, d’ora in poi, costerà caro.(Giorgio Cattaneo, “Conte, Merkel e gli zombie che ‘Politico’ scambia per nostri amici”, dal blog del Movimento Roosevelt dell’8 dicembre 2020).«Giuseppe Conte è il leader più credibile al mondo», sintetizza “Tpi” nel presentare la clamorosa classifica che sta rimbalzando ovunque. Se i comici sono un po’ fuori allenamento, in mezzo alle disgrazie del 2020, a tirare su il morale a tutti provvede infatti l’edizione europea dello statunitense “Politico”, realizzata a Bruxelles in joint-venture con il principale editore digitale in Europa, il tedesco Axel Springer. “Politico” vanta un team di 500 redattori, distribuiti in tutto il mondo: la tribuna vip del mainstream media internazionale, quello che non ha mai osato raccontare la nuda verità né previsto nessuna crisi. E cosa dicono, i gran sacerdoti dell’informazione? Tra cose, innanzitutto. La prima riguarda Angela Merkel, incoronata Papessa d’Europa (questo sì, che è uno scoop). La seconda: la merkeliana Ursula von der Leyen sarebbe la leader dei “sognatori”. E qui si comincia a ridere, ma non quanto di fronte al ritratto di “Giuseppi” Conte, numero uno degli “spender” europei, una specie di Masaniello dal tocco felice. Per capire in che mani sia l’informazione, basta leggere le pagelle di quelli che “Politico” presenta come “Gli attori, i sognatori e i rivoluzionari che daranno forma al prossimo anno in Europa“.
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Teotihuacan: un ‘circuito elettronico’ costruito 2000 anni fa
Visto dall’alto, sembra la copia perfetta di un moderno circuito elettronico, come quelli che fanno funzionare i computer. Solo che, al posto dei chip, sorgono piramidi. E l’asse principale attorno a cui si snoda il “circuito” non è in silicio, ma in pietra: è il Viale dei Morti. Stiamo parlando di Teotihuacan, uno dei maggiori misteri su cui l’archeologia contemporanea si interroga, senza trovare risposte precise. Il centro – enorme – sorge a 35 miglia da Città del Messico. Apparteneva a una antica civiltà, particolarmente evoluta, di cui conosciamo ancora poco. Lo ricorda Mauro Biglino, in un appunto pubblicato sul sito di UnoEditori. «Con i suoi grandiosi templi a piramide, Teotihuacan era una delle più grandi città del mondo antico: al suo apice, si calcola che ospitasse oltre 130.000 abitanti». Vivevano in edifici a più piani, capaci di accogliere diversi nuclei familiari. Tanto per cambiare, gli edifici hanno un orientamento stellare: sembrano riprodurre gli astri che compongono la Cintura di Orione. Chi fondò quel monumentale centro urbano? E poi: come si spiega la presenza di un minerale come la mica, che all’epoca poteva essere estratto – secondo gli studiosi – solo da miniere presenti in Brasile, a tremila miglia di distanza?La città fu abitata fino al VII-VIII secolo dopo Cristo, riassume Biglino, notissimo al pubblico per i suoi bestseller che propongono una rivalutazione realistica dell’antichità, basata sulla rilettura letterale della Bibbia. Depurato dalle interpretazioni tradizionali (teologiche e simbologiche), il vasto corpus testuale dell’Antico Testamento – in lingua ebraica – sembra rivelare essenzialmente la comparsa sulla Terra di individui misteriosi, che la Bibbia chiama Elohim, che avrebbero dato origine all’homo sapiens mediante clonazione, ibridando il loro Dna con quello dei primitivi ominidi. La materia è controversa, come la stessa teoria della paleostranutica. Per contro, saggi come “Scoperte archeologiche non autorizzate”, di Marco Pizzuti, testimoniano l’imbarazzo dell’archeologia ufficiale di fronte a rinvenimenti non spiegabili sulla base delle conoscenze accettate. Da parte sua, Biglino si limita a segnalare che l’interpretazione teologica della Bibbia è basata su traduzioni erronee, e il più delle volte deliberatamente inesatte, con termini letteralmente “inventati” per accreditare la tesi secondo cui l’Antico Testamento comproverebbe l’esistenza di un’entità trascendente, di cui nel testo però non esiste la minima traccia.Nel caso in cui la Bibbia («che non parla di Dio», assicura Biglino) fosse consonante con altri analoghi racconti coevi, come quelli sumeri, che descrivono la calata dal cielo di esseri superiori, potenti e tecnologicamente avanzati, vale la pena soffermarsi su un enigma come quello di Teotihuacan: da dove venivano le consoscenze evolutissime che, duemila anni fa, permisero la costruzione di un simile capolavoro? A colpire, innanzitutto, è il suo nome, di origine azteca. Diversi i possibili significati, secondo gli archeologi: “luogo dove vengono creati gli dei”, oppure “luogo dove nascono gli dei”, o anche “luogo di coloro che hanno la via degli dei”. All’apice del suo prestigio, tra i 150 e il 450 dopo Cristo, Teotihuacan arrivò ad essere uno dei più grandi centri urbani delle Americhe precolombiane. Purtroppo non si hanno notizie certe: né sulla sua fondazione, né sui suoi originari costruttori. «Nonostante le maestose evidenze archeologiche, sappiamo ben poco molto: Teotihuacan è ancora avvolta nel mistero», scrive Biglino. «Quel che è certo, però, è che questo popolo doveva possedere approfondite conoscenze di astronomia, architettura e urbanistica».Lo dimostra l’imponenza degli edifici che corredano il sito archeologico: «La Piramide del Sole è il secondo edificio a struttura piramidale più grande delle Americhe, inferiore solo alla Piramide di Cholula». La piramide fu costruita in due fasi. La prima parte fu edificata verso il 100 dopo Cristo; la seconda fase, risalente all’inizio del III secolo, portò il sito alle dimensioni finali che conosciamo oggi (225 metri di lato e 75 di altezza), facendone la terza piramide più grande del mondo, anche se ben più bassa della Grande Piramide di Cheope a Giza (146 metri). «Terminata la struttura, i costruttori dipinsero murales dai brillanti colori, rappresentanti giaguari, stelle, serpenti a sonagli e altri simboli della cosmologia mesoamericana». Teotihuacan, aggiunge Biglino, fu un importante centro religioso: il culto praticato era molto simile a quelli di altre civiltà centroamericane (Aztechi, Zapotechi e Maya). Si adoravano il Serpente Piumato e Chaac, il dio della pioggia. E come in altre culture contigue, si praticavano sacrifici umani.A impressionare gli studiosi è la progettazione di Teotihuacan: «Induce a pensare che i costruttori fossero a conoscenza non solo delle necessarie tecniche architettoniche, ma anche di scienze matematiche e astronomiche». I ricercatori, inoltre, hanno trovato numerose e notevoli somiglianze con le grandi piramidi d’Egitto: «In entrambi i casi la disposizione delle piramidi pare riprodurre l’allineamento delle stelle che compongono la “cintura” della costellazione di Orione». La stessa disposizione geografica è un ottimo esempio di pianificazione urbana, sottolinea Biglino: «L’orientamento degli edifici segue un criterio simbolico. Il reticolato urbano è allineato con precisione a 15,5° nord-est, mentre il Viale dei Morti sembra puntare verso il Cerro Gordo, che a sua volta si trova a nord della Piramide della Luna. Gli elementi strutturali fondamentali sono il grande viale centrale (il Viale dei Morti, appunto) sui cui lati sorgono la grande Piramide del Sole, la Piramide della Luna, diverse piattaforme e la cosiddetta Cittadella, che comprende il Tempio del Serpente Piumato».E non è tutto, perché l’aspetto più sorprendente di Teotihuacan – scrive ancora Biglino – è dato dalla straordinaria somiglianza tra la disposizione dell’intero complesso e i moderni chip dei processori dei computer: «Un vero e proprio circuito, che può essere identificato come tale solo vedendolo dall’alto». Domanda inevitabile: «Il posizionamento rispondeva forse a precise esigenze funzionali?». In altre parole: più che di religione, è il caso di parlare di tecnologia? O di una “religione tecnologica” antichissima, di cui sono perse le tracce nella notte dei tempi? «Siamo naturalmente nel mondo delle ipotesi», precisa Biglino, a scanso di equivoci. Certo, le domande tuttora senza risposta sono davvero moltissime. Una di queste, ad esempio, sorge di fronte alla scoperta del largo uso della mica, minerale che è incorporato in numerose strutture e che si trova in giacimenti brasiliani, a migliaia di chilometri di distanza. Attenzione: nel sito di Teotihuacan, la mica è presente in tutti gli edifici, nei complessi residenziali, nei templi e lungo le strade. «Il suo utilizzo, però – spiega Biglino – non aveva motivi estetici». Quindi, conclude lo studioso, «è probabile che questo minerale avesse altre funzioni ben precise». Torna in mente, per forza, la pianta di Teotihuacan vista dall’alto: è davvero la copia perfetta di un circuito elettronico.Visto dall’alto, sembra la copia perfetta di un moderno circuito elettronico, come quelli che fanno funzionare i computer. Solo che, al posto dei chip, sorgono piramidi. E l’asse principale attorno a cui si snoda il “circuito” non è in silicio, ma in pietra: è il Viale dei Morti. Stiamo parlando di Teotihuacan, uno dei maggiori misteri su cui l’archeologia contemporanea si interroga, senza trovare risposte precise. Il centro – enorme – sorge a 35 miglia da Città del Messico. Apparteneva a una antica civiltà, particolarmente evoluta, di cui conosciamo ancora poco. Lo ricorda Mauro Biglino, in un appunto pubblicato sul sito di UnoEditori. «Con i suoi grandiosi templi a piramide, Teotihuacan era una delle più grandi città del mondo antico: al suo apice, si calcola che ospitasse oltre 130.000 abitanti». Vivevano in edifici a più piani, capaci di accogliere diversi nuclei familiari. Tanto per cambiare, gli edifici hanno un orientamento stellare: sembrano riprodurre gli astri che compongono la Cintura di Orione. Chi fondò quel monumentale centro urbano? E poi: come si spiega la presenza di un minerale come la mica, che all’epoca poteva essere estratto – secondo gli studiosi – solo da miniere presenti in Brasile, a tremila miglia di distanza?