Archivio del Tag ‘Def’
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Il Def 2018: aumentare l’Iva o svendere Trenitalia e Poste
Aumentare l’Iva, o cedere altre quote di Trenitalia e Poste Italiane, attraverso privatizzazioni-svendita per placare Bruxelles e arginare il debito pubblico. «Dimenticate per un attimo la scaramuccia fra Roma e Bruxelles sulla correzione dei conti da tre miliardi attesa entro fine aprile. Le probabilità che l’Italia vada al voto prima del 2018 sono ormai prossime allo zero. Ciò permette a Gentiloni di allungare lo sguardo oltre quello che nella Prima Repubblica chiamavano l’orizzonte balneare», scrive Alessandro Barbera sulla “Stampa”, alludendo alle riunioni in corso a Palazzo Chigi sulla manovra per il 2018, che si annuncia una super-stangata. Bruxelles attende entro il 10 aprile il testo del Def, il Documento di economia e finanza, di fatto la bozza della legge di bilancio per l’autunno. «Oggi le procedure europee rafforzate impongono che quei numeri siano scritti con coerenza e realismo». Insieme a Gentiloni, se occupano i ministri Pier Carlo Padoan e Carlo Calenda, «il trio che ha preso le redini del governo dopo l’uscita di scena di Renzi». Punto di partenza: una clausola di salvaguardia da quasi 20 miliardi di euro, pari ad un aumento dell’ultima aliquota Iva al 25% per cento dal 1° gennaio.«A Bruxelles sono perfettamente consapevoli delle conseguenze potenzialmente devastanti di un simile aumento delle tasse sulla crescita italiana, così come lo sarebbe un taglio alle spese della stessa entità», scrive Barbera sulla “Stampa”, in un articolo ripreso da “Dagospia”. «Nelle trattative già avviate fra Roma e Bruxelles si ragiona già su un compromesso per dimezzare quel pesante fardello». Nei piani europei, l’Italia avrebbe dovuto far scendere il deficit di quest’anno all’1,8%, e poi all’1,2 nel 2018. Quest’anno si è fermato al 2,3%, ma la correzione chiesta entro aprile da Bruxelles dovrebbe far ridiscendere l’asticella al 2,1. «Se la trattativa andrà in porto, il Def per il 2018 potrebbe indicare un deficit fra l’1,9 e il 2%, sette-otto decimali sopra gli attuali obiettivi ma in ogni caso in una traiettoria ancora discendente». Per l’Italia, significherebbe uno “sconto” di circa 10-11 miliardi di euro. «Ciò non significa che la manovra per il 2018 non sarà impegnativa», avverte Barbera. «La finestra di opportunità spalancata due anni fa da Mario Draghi con il piano di acquisto titoli della Bce si sta lentamente chiudendo: l’inflazione sta salendo, e con essa la pressione tedesca perché viri la rotta della politica monetaria».Il Def ne prenderà atto, prevedendo per il 2018 l’inizio del “tapering” da parte di Francoforte; la conseguenza sarà un aumento dei rendimenti sui titoli pubblici e della spesa per onorare il debito. «Se l’azionista di maggioranza del governo – ovvero Renzi – insisterà nel dire no ad un aumento anche solo lieve dell’Iva (al Tesoro da tempo accarezzano l’ipotesi di ritoccarla di un punto), dovrà accettare una forte riduzione della spesa pubblica nell’ordine di qualche miliardo di euro». La questione che più preoccupa Bruxelles, conclude “La Stampa”, resta la sostenibilità del debito italiano: «Per questo, il Def prometterà anche quest’anno una lieve riduzione dello stock da finanziare con i proventi da privatizzazioni: su tutte Trenitalia e una nuova tranche di Poste. Quelle privatizzazioni che ormai trovano l’aperto dissenso di esponenti e ministri Pd», anche rappresentano un altro duro colpo al futuro del paese, costretto a tagliare su tutto a causa del rigore imposto dal regime monetario dell’euro.Aumentare l’Iva, o cedere altre quote di Trenitalia e Poste Italiane, attraverso privatizzazioni-svendita per placare Bruxelles e arginare il debito pubblico. «Dimenticate per un attimo la scaramuccia fra Roma e Bruxelles sulla correzione dei conti da tre miliardi attesa entro fine aprile. Le probabilità che l’Italia vada al voto prima del 2018 sono ormai prossime allo zero. Ciò permette a Gentiloni di allungare lo sguardo oltre quello che nella Prima Repubblica chiamavano l’orizzonte balneare», scrive Alessandro Barbera sulla “Stampa”, alludendo alle riunioni in corso a Palazzo Chigi sulla manovra per il 2018, che si annuncia una super-stangata. Bruxelles attende entro il 10 aprile il testo del Def, il Documento di economia e finanza, di fatto la bozza della legge di bilancio per l’autunno. «Oggi le procedure europee rafforzate impongono che quei numeri siano scritti con coerenza e realismo». Insieme a Gentiloni, se occupano i ministri Pier Carlo Padoan e Carlo Calenda, «il trio che ha preso le redini del governo dopo l’uscita di scena di Renzi». Punto di partenza: una clausola di salvaguardia da quasi 20 miliardi di euro, pari ad un aumento dell’ultima aliquota Iva al 25% per cento dal 1° gennaio.
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Giannini: e se adesso le riforme salva-Italia le fa Gentiloni?
«Ha ragione, Paolo Gentiloni: i governi non fanno miracoli. Ma se non ci prova lui, cosa ci sta a fare a Palazzo Chigi fino al 2018? Cos’ha da perdere questo governo nato sulle macerie del renzismo, tra Gigli Magici appassiti e schizzi fetidi di fango, insanabili scissioni tafazziane e improbabili lezioni californiane?». Ora vogliamo tagliare le tasse sul lavoro, annuncia il premier. È un buon inizio, per Massimo Giannini: «La stagione dei bonus, inutili e costosi, è finita». Ed è anche “un buon indizio”: il governo non vuole limitarsi a galleggiare. «Ma per curare le “cicatrici della crisi” serve una vera e propria terapia d’urto, potente e sorprendente». Può sembrare un paradosso, scrive l’editorialista di “Repubblica”, ma Gentiloni «ha un’occasione irripetibile per osare l’inosabile», nonostante siamo tutti distratti perché «troppo immersi nella torbida “Saga dei Romeo’s” (le polizze vita di Salvatore e le mazzette Consip di Alfredo)». La prima ragione nasce dalla politica monetaria. «Se in questi tre anni l’Italia non ha rivissuto il novembre nero berlusconiano del 2011, questo si deve solo a Mario Draghi», sostiene Giannini. «Dal 2013 al 2016 gli acquisti di titoli di Stato effettuati da Bankitalia e Bce sono passati da 95 a 266 miliardi. Quelli compiuti dalle banche sono cresciuti da 275 a 415 miliardi. I tassi di interesse a quota zero e il Quantitative easing ci hanno salvato. Ora tutto questo sta per finire».Spinto dalle pressioni tedesche e da un’inflazione appena risalita al 2% nell’Eurozona, Draghi a breve aumenterà i tassi. E da ottobre avvierà il cosiddetto “tapering”: cioè ridurrà gradualmente gli acquisti di bond sovrani sui mercati secondari, fino a interromperli del tutto a marzo 2018. «A quel punto l’Italia sarà senza rete: qualunque shock politico-finanziario ci esporrà alla sindrome greca». Dunque, secondo Giannini, questa “finestra” temporale Gentiloni deve usarla subito, prima che si richiuda per sempre. La seconda ragione per un clamorso cambio di passo nascerebbe dalla politica economica: «Il paese ha davanti a sé una micidiale corsa in tre tappe: manovra aggiuntiva, Documento di Economia e Finanza, Legge di stabilità. Se ci illudiamo di poterla affrontare in “surplace”, ci condanniamo a una caduta rovinosa». Per Giannini, «al punto in cui siamo serve uno scatto, che deve passare da un’ammissione e da un’ambizione. L’ammissione riguarda la manovrina da 3,4 miliardi: ammettiamo di aver sbagliato (Renzi ha scommesso “contro” Bruxelles e ha perso) e facciamola subito. L’ambizione riguarda il Def e la manovra d’autunno». Gentiloni sembra aver chiari i problemi da aggredire: tasse sul lavoro e investimenti. «Ora si tratta di intendersi sulla qualità e sulla quantità degli interventi».Secondo il giornalista, «abbattere il cuneo fiscale, a vantaggio delle imprese e dei lavoratori, è la via maestra sulla quale concentrare tutti gli sforzi». Ma attenzione: «Se il taglio sarà solo di 3-5 punti si rischia un nuovo flop (in stile 80 euro)». Un taglio magari utile sul piano statistico, «perché riavvicinerà il nostro costo del lavoro (esploso dal 36,8 al 49% tra il 2000 e il 2016) a quello della Germania», ma nei portafogli delle imprese e nelle tasche dei lavoratori il beneficio sarà modesto, quasi nullo. «Lo dimostrano gli esperimenti degli ultimi 16 anni, dal governo D’Alema nel 2000 al governo Prodi nel 2007 (che fu proprio di 5 punti, pari a 7 miliardi)». No, serve uno sforzo molto maggiore. E la stessa cosa vale per gli investimenti. «La vera sfida, adesso, non riguarda più solo gli investimenti privati (cresciuti del 2,9% nel 2016), ma quelli pubblici (crollati del 5,4%)». Questa, scrive Giannini, è la prova più dolorosa del fallimento delle politiche economiche di questi anni: «Abbiamo “estorto” all’Europa 19 miliardi di flessibilità, e siamo riusciti a sprecarli senza aumentare di un euro la domanda pubblica, e riducendola addirittura di altri 2 miliardi».Non solo: «Il Jobs Act era stato “venduto” come volano per l’arrivo di enormi flussi di capitali dall’estero (Renzi disse in tv che aveva già la lista delle multinazionali pronte ad entrare) ma purtroppo nel primo semestre 2015 è successo il contrario: gli investimenti diretti esteri sono scesi a 7,8 miliardi, con un crollo del 40,6%». Se questo è il quadro generale, osserva l’analista di “Repubblica”, Gentiloni avrebbe «una chance formidabile». Addirittura «un’operazione storica e, finalmente, davvero strutturale». Ovvero: «Un grande piano di riduzione del cuneo fiscale di almeno 10 punti, e un grande programma di rilancio degli investimenti pubblici (dalle infrastrutture di rete alla banda larga)». Per Giannini, «su un progetto del genere può valere la pena di giocarsi l’osso del collo. In Parlamento a Roma, e in Commissione a Bruxelles». Del resto, «qual è l’alternativa? Continuare a ballare sotto il Vulcano?». Per come siamo messi, conclude Giannini, «la vecchia morale andreottiana può funzionare solo al contrario: piuttosto che tirare a campare, meglio tirare le cuoia».«Ha ragione, Paolo Gentiloni: i governi non fanno miracoli. Ma se non ci prova lui, cosa ci sta a fare a Palazzo Chigi fino al 2018? Cos’ha da perdere questo governo nato sulle macerie del renzismo, tra Gigli Magici appassiti e schizzi fetidi di fango, insanabili scissioni tafazziane e improbabili lezioni californiane?». Ora vogliamo tagliare le tasse sul lavoro, annuncia il premier. È un buon inizio, per Massimo Giannini: «La stagione dei bonus, inutili e costosi, è finita». Ed è anche “un buon indizio”: il governo non vuole limitarsi a galleggiare. «Ma per curare le “cicatrici della crisi” serve una vera e propria terapia d’urto, potente e sorprendente». Può sembrare un paradosso, scrive l’editorialista di “Repubblica”, ma Gentiloni «ha un’occasione irripetibile per osare l’inosabile», nonostante siamo tutti distratti perché «troppo immersi nella torbida “Saga dei Romeo’s” (le polizze vita di Salvatore e le mazzette Consip di Alfredo)». La prima ragione nasce dalla politica monetaria. «Se in questi tre anni l’Italia non ha rivissuto il novembre nero berlusconiano del 2011, questo si deve solo a Mario Draghi», sostiene Giannini. «Dal 2013 al 2016 gli acquisti di titoli di Stato effettuati da Bankitalia e Bce sono passati da 95 a 266 miliardi. Quelli compiuti dalle banche sono cresciuti da 275 a 415 miliardi. I tassi di interesse a quota zero e il Quantitative easing ci hanno salvato. Ora tutto questo sta per finire».
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Renzi e il Ponte, per distrarci dai conti che fanno piangere
«Il tentativo è quello di tirare il pallone in tribuna. O, meglio ancora, di alzare un polverone per sviare l’attenzione». Da cosa? «Da quello che è l’atto più importante all’esame del governo: l’aggiornamento del Def 2016, preludio della stagione di bilancio». Secondo “Sbilanciamoci”, non si spiega altrimenti come Renzi, proprio nel giorno del varo di un provvedimento così centrale, decida di «spararla grossa che più grossa non si può», dichiarandosi pronto alla ripresa dei lavori per il Ponte sullo Stretto, annunciando che creerebbe centomila posti di lavoro. Risultato: i media si sono “dimenticati” di analizzare il Def, il cui aggiornamento «segna il punto forse più basso finora raggiunto da questo governo». Il deficit “strutturale”, quello corretto per l’andamento economico? «Non peggiora così tanto rispetto alle previsioni, ma solo perché la crescita è risultata talmente bassa che la correzione ciclica assorbe il peggioramento dei conti pubblici». La crescita, prevista all’1,2% nel 2016 e all’1,4% l’anno prossimo, è oggi allo 0,8% e calerà allo 0,6%. E il “risanamento” della finanza pubblica si è arrestato.Il deficit previsto nel 2017 è sostanzialmente quello del 2016, scrive “Sbilanciamoci”, con la Commissione Europea che «non sa più cosa inventarsi per accordare ulteriori margini ad un governo italiano che, in un momento così cruciale per l’Europa e in vista del referendum costituzionale, non può essere stigmatizzato». Attenzione: l’arresto del processo di “risanamento” non è una buona notizia, non indica una contro-tendenza rispetto all’austerity. «La realtà è ben più tragica», secondo il blog economico. La tanto sbandierata “flessibilità” nell’interpretazione del Patto di Stabilità «servirà esclusivamente, insieme a tutto l’aumento del deficit 2017 rispetto all’obiettivo, per neutralizzare le clausole di salvaguardia da 15 miliardi inserite nella Legge di Stabilità dell’anno scorso, che prevedevano in automatico un aumento di Iva e accise nel 2017 se non si fossero realizzati equivalenti risparmi di spesa». Morale: «Poco o nulla è stato fatto, e l’Italia si ritrova adesso a utilizzare tutti i margini di flessibilità cui può aspirare non per rilanciare sviluppo, economia, redditi e occupazione, bensì solo per evitare la drammatica recessione che verrebbe innescata dall’aumento dell’Iva».Tolti questi 15 miliardi, continua il blog, la prossima manovra di bilancio sembra ridursi a poca cosa: 7-8 miliardi di maggiori spese, compensati da altrettanti miliardi di minori spese o maggiori entrate. «Un’inezia, rispetto a quanto il nostro paese avrebbe disperatamente bisogno». Si arriverà forse a stanziare 2 miliardi per le pensioni e il sostegno – in prospettiva elettorale – dei loro redditi, ma compensate da un corrispondente calo della spesa sanitaria. Qualche centinaio di milioni in più verranno destinati al rinnovo dei contratti nel pubblico impiego, finanziati con tagli lineari, o semi-lineari alla spesa dei ministeri. Si arriverà forse a definire una riduzione dell’Irpef, ma solo a partire dal 2018, anno nel quale, comunque, opereranno altre clausole di salvaguardia da neutralizzare. Qualche soldo verrà destinato alla lotta alla povertà estrema, ma niente allo sviluppo dei servizi sociali e degli altri istituti del welfare. «Gli unici interventi di una qualche rilevanza economica sembrano quelli destinati alle imprese, i superammortamenti, la riduzione delle imposte per lei imprese piccole, le garanzie pubbliche sugli investimenti, il programma del ministro Calenda “Industria 4.0”».Nulla di sostanziale, continua “Sbilanciamoci”, anche se le imprese godranno nel 2017 di due dei più costosi interventi realizzati dal governo: la decontribuzione sugli assunti nel 2015 e 2016, pari a 7 miliardi l’anno e almeno 20 miliardi nel quadriennio 2015-2018. E poi la riduzione dell’Ires, dal 27,5% al 24% che costerà 3,5 miliardi l’anno. Ma sono misure non selettive, che non premiamo le aziende che investono, creando occupazione e reddito. Per il blog «servirebbe altro: investimenti diretti, piccole e medie opere in grado di assicurare in breve tempo e a costi contenuti un effettivo miglioramento delle condizioni produttive e di vita», garantendo «trasporti, servizi sociali inclusivi e flessibili, reti». Le tasse? Servirebbe «una redistribuzione del carico dai poveri ai ricchi, dal lavoro alla rendita, da chi paga a chi non paga». Invece, niente. Solo «politiche economiche liberiste senza futuro, riduzione fiscale e incentivi alle imprese», magari «addolcite da mancette elettoralistiche». Un quadro a tinte fosche «che ben giustifica il desiderio, pur infantile, di rifugiarsi nell’immagine di un bel Ponte sullo Stretto».«Il tentativo è quello di tirare il pallone in tribuna. O, meglio ancora, di alzare un polverone per sviare l’attenzione». Da cosa? «Da quello che è l’atto più importante all’esame del governo: l’aggiornamento del Def 2016, preludio della stagione di bilancio». Secondo “Sbilanciamoci”, non si spiega altrimenti come Renzi, proprio nel giorno del varo di un provvedimento così centrale, decida di «spararla grossa che più grossa non si può», dichiarandosi pronto alla ripresa dei lavori per il Ponte sullo Stretto, annunciando che creerebbe centomila posti di lavoro. Risultato: i media si sono “dimenticati” di analizzare il Def, il cui aggiornamento «segna il punto forse più basso finora raggiunto da questo governo». Il deficit “strutturale”, quello corretto per l’andamento economico? «Non peggiora così tanto rispetto alle previsioni, ma solo perché la crescita è risultata talmente bassa che la correzione ciclica assorbe il peggioramento dei conti pubblici». La crescita, prevista all’1,2% nel 2016 e all’1,4% l’anno prossimo, è oggi allo 0,8% e calerà allo 0,6%. E il “risanamento” della finanza pubblica si è arrestato.
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E adesso Equitalia vuole entrare nel nostro conto in banca
I risparmi degli italiani sono in pericolo: conti correnti, depositi, azioni, obbligazioni potrebbero diventare facile preda dei gabellieri di Stato. L’amministratore delegato della società di esazione, Enrico Maria Ruffini, l’ha detto senza troppi giri di parole davanti alla Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria: per combattere l’evasione servono maggiori poteri. Uno in particolare: la possibilità di accedere alle informazioni finanziarie dei debitori attingendo all’Anagrafe dei rapporti finanziari, la banca dati già attiva ma sin qui a disposizione esclusivamente dell’Agenzia delle Entrate. Il tutto, ha aggiunto mistico Ruffini, «nel superiore interesse della riscossione». Il ragionamento, articolato secondo gli schemi della burocrazia tassatoria, non fa una grinza. «Allo scopo di consentire che siano intraprese azioni di recupero puntuali ed efficaci», ha spiegato l’Ad di Equitalia davanti ai parlamentari, «sarebbe importante accordare alle società del gruppo la fruibilità, in forma massiva e a cadenze ravvicinate, di informazioni attuali in ordine alla consistenza effettiva dei rapporti che i debitori intrattengono con gli operatori finanziari».Diventasse legge, dopo essere stato ridotto in mutande il contribuente si ritroverebbe nudo di fronte agli esattori stile Grande Fratello. Che con un clic avrebbero di fatto la possibilità di passare subito all’incasso, scansando i fastidi dell’eventuale verifica in contraddittorio – anche giudiziario – con il cittadino pagatore. Un aspetto di non poco conto se si considera, stando alle parole dello stesso Ruffini, che tra il 2000 ed il 2015 su 250 milioni di cartelle emesse, alla fine ben 30 (2 milioni l’anno) sono state annullate per vizi il più delle volte censurati soltanto dopo il ricorso ai giudici. Morale della favola: nel campo dei balzelli il cittadino rischia d’essere sacrificato sull’altare della Suprema Riscossione. Perché evadere sarà pure immorale e a volte penalmente rilevante e comunque sempre odioso, ma lo Stato non si comporta certo da buon padre di famiglia. E più pretende e sempre meno dà. I Comuni, ad esempio: secondo la Corte dei Conti, per ripianare 8 miliardi di tagli di trasferimenti statali, tra il 2010 e il 2014 hanno alzato del 22% la pressione tributaria media. Così, se nel 2011 ogni italiano scuciva 505 euro, tre anni più tardi la cifra era lievitata a 618 euro.E un semplice pannicello caldo rischia di rivelarsi il blocco degli aumenti dei tributi locali, introdotto per il 2016 con la legge di Stabilità e presentato dal governo come una rivoluzione epocale: per il centro studi di Unimpresa, che a grandi linee ricalca quanto scritto nella nota di accompagnamento al Documento di finanza pubblica (di matrice governativa), «le misure contenute nella legge di Stabilità non produrranno effetti significativi per la riduzione della pressione fiscale, che dopo aver toccato il 43,4% nel 2014, resterà stabilmente sopra la soglia del 43% fino al 2018». Pagheranno i soliti noti. Quelli spremuti da tempi antichi. Vittime impotenti di un sistema malato, prossimo al collasso. Nell’ultimo quindicennio (Ruffini dixit) su 1.058 miliardi di crediti da riscuotere Equitalia ne ha incamerati appena 51, il 5%. Circa 7,7 miliardi l’anno. Ma invece di cambiar strada si tira dritto. Asfaltando il contribuente, con piena consapevolezza politica.Lo scorso agosto a lasciar balenare l’ipotesi di consegnare a Equitalia le chiavi di accesso ai risparmi degli italiani era stato il Pd, che in Commissione Finanze del Senato, attraverso la relatrice Lucrezia Ricchiuti, aveva presentato un parere poi approvato a maggioranza per sollecitare il governo «a restituire al concessionario pubblico efficienza di recupero», oltre a garantirgli «libero accesso a tutte le informazioni finanziarie che riguardano i contribuenti, come i conti bancari italiani e quelli all’estero, la compravendita di auto o di imbarcazioni, i conti titoli». Otto mesi dopo, Equitalia null’altro chiede che il rispetto degli impegni assunti.(Gianpaolo Iacobini, “Equitalia vuole entrare nei nostri conti in banca – La folle idea Equitalia-Pd: le mani nei conti correnti”, da “Il Giornale” del 27 gennaio 2016).I risparmi degli italiani sono in pericolo: conti correnti, depositi, azioni, obbligazioni potrebbero diventare facile preda dei gabellieri di Stato. L’amministratore delegato della società di esazione, Ernesto Maria Ruffini, l’ha detto senza troppi giri di parole davanti alla Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria: per combattere l’evasione servono maggiori poteri. Uno in particolare: la possibilità di accedere alle informazioni finanziarie dei debitori attingendo all’Anagrafe dei rapporti finanziari, la banca dati già attiva ma sin qui a disposizione esclusivamente dell’Agenzia delle Entrate. Il tutto, ha aggiunto mistico Ruffini, «nel superiore interesse della riscossione». Il ragionamento, articolato secondo gli schemi della burocrazia tassatoria, non fa una grinza. «Allo scopo di consentire che siano intraprese azioni di recupero puntuali ed efficaci», ha spiegato l’Ad di Equitalia davanti ai parlamentari, «sarebbe importante accordare alle società del gruppo la fruibilità, in forma massiva e a cadenze ravvicinate, di informazioni attuali in ordine alla consistenza effettiva dei rapporti che i debitori intrattengono con gli operatori finanziari».
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Tutto già scritto: disoccupazione all’11% fino al 2019
In milioni chiedono lavoro, ma non sanno che la loro sorte è già segnata: disoccupazione stabile all’11%. «Tutti i disoccupati nel 2019 saranno ancora disoccupati: questo perché lo sviluppo voluto dai tecnocrati europei, liberisti e neomercantilisti, per l’economia italiana, ha bisogno di un tasso strutturale di disoccupazione». Lo spiega Stefano Sanna, citando documenti ufficiali del Tesoro nonché l’ultimo Def del governo Renzi: 11%. Tutto il resto sono chiacchiere, comprese le 154 crisi aziendali tuttora aperte che rappresentano solo «la punta di un iceberg chiamato disoccupazione, che galleggia nel mare del mercato del lavoro». Il resto della montagna di ghiaccio «è fatto di milioni di disoccupati di piccole aziende, che non hanno alcuna possibilità di far valere le loro ragioni davanti al governo come possono fare, invece, le 154 aziende seguite direttamente dal ministero dello sviluppo economico». Tutti quanti però sono accomunati da un fatto: aspettano una risposta. «Ma il governo delle “luci e paillettes” porterà all’infinito la commedia dei tavoli di crisi, o posticiperà la data in cui rispondere ai disoccupati, anche se la risposta è stata già scritta».Lo conferma il documento del Tesoro dell’aprile 2013 sul Nawru, acronimo di “non accelerating wage rate of unemployment”: tasso di disoccupazione d’equilibrio, tarato per non generare pressioni inflazionistiche comprimendo il potere di spesa mediante, appunto, il taglio deliberato dei posti di lavoro. Proprio il Nawru ha un ruolo centrale nella determinazione dei “diktat” che la Commissione Europea rivolge ai singoli paesi membri dell’Ue. Il presidente del Centro Europa Ricerche, l’economista Vladimiro Giacché, sul “Sole 24 Ore” osserva: «Dal punto di vista culturale, è interessante notare come il tasso di disoccupazione di equilibrio sia la leva che viene adoperata per garantire l’iper-contenimento dell’inflazione. In molti, in passato, hanno considerato l’Unione Europea un moloch impregnato di keynesismo. In realtà, anche in questo caso prevale l’egemonia del monetarismo francofortese, che mette davanti a tutto e a tutti l’imbrigliamento dell’inflazione», fino all’asfissia programmata dell’economia reale.Per quanto riguarda il Nawru, conferma il Def del governo Renzi, i parametri sono stati più volte rivisti dalla Commissione, alla luce degli effetti sul mercato del lavoro della prolungata recessione. «Il Nawru è stato pertanto rideterminato verso l’alto, determinando una riduzione nel tasso di crescita del Pil potenziale». Il che significa che il tasso di “disoccupazione di equilibrio”, tale cioè da non generare pressioni inflazionistiche sui salari, «è stato stimato in crescita negli anni della crisi, con una dinamica che, di fatto, ha fatto sì che al crescere della disoccupazione crescesse anche il Nawru». Stefano Sanna esibisce la drammatica proiezione governativa, riassunta in una tabella: la “disoccupazione programmata”, al 12,3% nel 2015, si ridurrà in modo praticamente irrilevante: 11,8% nel 2016, poi 11,4% l’anno seguente, ancora 11,1% nel 2018 e poi 10,9% nel 2019. Non c’è scampo: Bruxelles vuole che i disoccupati, in Italia, restino l’11%. Si tratta di «un piano di distruzione sociale», conclude Sanna: l’obiettivo scritto da questo governo? E’ tecnicamente impossibile da raggiungere, visto che si parla di «contenimento dell’inflazione e crescita del Pil con un tasso di disoccupazione all’11%». Una farsa sfrontata: «E’ la risposta cinica, ma mai comunicata, ai milioni di disoccupati che per anni sono stati (e saranno) presi in giro da ciarlatani di professione».In milioni chiedono lavoro, ma non sanno che la loro sorte è già segnata: disoccupazione stabile all’11%. «Tutti i disoccupati nel 2019 saranno ancora disoccupati: questo perché lo sviluppo voluto dai tecnocrati europei, liberisti e neomercantilisti, per l’economia italiana, ha bisogno di un tasso strutturale di disoccupazione». Lo spiega Stefano Sanna, citando documenti ufficiali del Tesoro nonché l’ultimo Def del governo Renzi: 11%. Tutto il resto sono chiacchiere, comprese le 154 crisi aziendali tuttora aperte che rappresentano solo «la punta di un iceberg chiamato disoccupazione, che galleggia nel mare del mercato del lavoro». Il resto della montagna di ghiaccio «è fatto di milioni di disoccupati di piccole aziende, che non hanno alcuna possibilità di far valere le loro ragioni davanti al governo come possono fare, invece, le 154 aziende seguite direttamente dal ministero dello sviluppo economico». Tutti quanti però sono accomunati da un fatto: aspettano una risposta. «Ma il governo delle “luci e paillettes” porterà all’infinito la commedia dei tavoli di crisi, o posticiperà la data in cui rispondere ai disoccupati, anche se la risposta è stata già scritta».
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Orsi: è ufficiale, l’Italia in rottamazione non è più salvabile
Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard, Roger Bootle (entrambi del “Telegraph”) e Wolfgang Münchau (“Financial Times”) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell’Italia e l’instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei “policy maker” nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l’Eurozona – e non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt’altro che favorevole sulle possibilità di “guarigione” del nostro paese. Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l’economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16? Bootle osserva che «l’Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano ‘trappola del debito’, quando cioè l’indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale».«Per sfuggire a questa trappola ci sono due possibilità: svalutare la moneta o fare default. Non disponendo di una valuta nazionale, l’Italia non può controllare la prima opzione: quindi, se non ci saranno cambiamenti realmente significativi in tempi brevi, il default sovrano diverrà lo scenario più probabile». Sul piano tecnico è obiettivamente difficile stabilire, per qualsiasi paese, una soglia massima oltre la quale il default diventa “matematicamente inevitabile”. Basti pensare al Giappone che, nonostante un rapporto debito/Pil al 230%, è ancora considerato un creditore solvibile. Nel caso dell’Italia, la mancanza di una moneta nazionale complica però le cose. Evans ritiene comunque che «il debito pubblico italiano raggiungerà un livello pericoloso il prossimo anno». Pericoloso al punto che «potrebbe essere superato il punto di non ritorno». L’articolo di Münchau è il più esplicito e allarmistico: «La posizione economica dell’Italia è insostenibile e sfocerà in un default a meno che non vi sia un’immediata e duratura inversione di tendenza sul piano economico». E un default, naturalmente, «comprometterebbe il futuro del paese nell’Eurozona e l’esistenza stessa della moneta unica».I tre pezzi, scrive in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” il professor Roberto Orsi (London School of Economics e Università di Tokyo) potrebbero essere considerati come l’inizio di un’offensiva mediatica indirizzata alla Bce per forzarla ad adottare politiche monetarie espansive simili a quelle della Fed, della Bank of Japan e della Bank of England: un intervento che tutti e tre gli autori auspicano, insieme alla realizzazione di ampie riforme politico-economiche. Queste osservazioni vanno inoltre lette tenendo a mente che le previsioni di crescita dell’economia italiana dal 2011 a oggi sono state sistematicamente smentite. Quanto al 2015, il rallentamento dell’Eurozona e le correzioni attese sui mercati finanziari internazionali rendono ben poco verosimili le stime di aumento del Pil formulate dal nostro governo. I tre analisi invocano le famose riforme strutturali? La natura e la portata delle riforme finora proposte (Senato, pubblica amministrazione, giustizia, scuola, legge elettorale) dimostrano che l’Italia «manca delle fondamenta», scrive Orsi, secondo cui «tutto questo discutere di riforme è una pura e semplice illusione».La tempistica italiana è eterna: nei sei anni successivi al crollo di Lehman Brothers, osserva Orsi, è stata portata a termine una sola riforma strutturale, la drammatica riforma Fornero (pensioni) firmata dal governo Monti, anche perché «l’ordine costituzionale vigente (e la cultura politica sottesa) combina un potere esecutivo debole a un potere legislativo frammentato, con una pletora di autorità e poteri di veto incrociati che finiscono per paralizzare il sistema». E se anche le riforme annunciate fossero realizzate nei tempi previsti, il loro impatto sarebbe sufficiente a evitare il collasso del sistema-paese? Il mondo è cambiato: prima la super-globalizzazione del 2007 e poi il crack di Wall Street del 2008. «In Italia questo contesto sfugge, e si discute a vuoto su questioni quali l’abolizione dell’articolo 18 senza considerarne l’ormai sostanziale irrilevanza in un mondo lavorativo dominato dai contratti “flessibili” e dalla disoccupazione». Quanto alle “riforme” evocate da Renzi e dei poteri forti – Bce, Troika Ue, finanza – restano sfocate. Quando Münchau scrive che «l’Italia ha bisogno di modificare il proprio sistema legale, ridurre le tasse e migliorare la qualità e l’efficienza del settore pubblico», secondo Orsi offre certamente «consigli ragionevoli e condivisibili, ma troppo generici. Quali regole potrebbero funzionare? Come dovrebbero essere attuate? Ci sono i presupposti perché ciò accada? Quali ostacoli andrebbero superati?».Riguardo poi al suggerimento di «cambiare l’intero sistema politico», ciò appare impossibile a meno che non si sostenga la rottura della continuità costituzionale e l’ascesa di un “dispotismo illuminato” come quello che contraddistinse le riforme Stein-Hardenberg nella Prussia del primo Ottocento, rileva Orsi. «Il “consenso di Washington” è ormai in declino, e oggi non ci sono chiare indicazioni sulle politiche che potrebbero garantire condizioni economiche migliori a un determinato paese. Questo ci conduce al più generale problema dell’inadeguatezza dei modelli socio-economici oggi dominanti, il “neo-keynesiano” e quello fondato sull’austerità. E, andando ancora più a fondo, ci porta a constatare quanto poco utile sia pensare ancora nei termini “positivistici” propri di paradigmi e modelli economici – come se il governo dell’economia potesse essere completamente de-politicizzato». L’ansiosa ricerca di una soluzione definitiva e “scientificamente corretta” ai problemi economici «tradisce un implicito anti-intellettualismo e una drammatica carenza di leadership da parte delle élite politiche». Al riguardo, aggiunge Orsi, è sintomatico il paradosso implicito nell’aver trasferito il problema della “guida” sulle spalle dei banchieri centrali, figure tecniche originariamente de-politicizzate.A oggi, le proposte di riforma avanzate dai governi italiani sono «prive di una chiara logica e idonee a produrre effetti in tempi troppo dilatati». Per lo più derivano da «dottrine neo-liberal ormai superate». Visione del futuro? Non pervenuta. Dell’Italia non resta altro che l’astrazione contabile del Def, puro e semplice documento di bilancio finanziario e fiscale. «Lavorare e accettare pesantissimi sacrifici per migliorare uno Stato così concepito non ha molto senso». Vere riforme, serie ed eque, ben diverse da quelle finora proposte? «Arriverebbero comunque troppo tardi: il paese è esausto e si trova sull’orlo di un’irreversibile implosione demografica, economica e sociale». Per Orsi, «le riforme dovevano essere fatte vent’anni fa, quando il contesto nazionale e globale era molto più favorevole e si dovevano introdurre i cambiamenti necessari per accedere all’Eurozona ancora in gestazione. Al punto in cui siamo oggi, le riforme potrebbero addirittura essere tanto pericolose quanto l’immobilismo, spingendo il paese verso un’ulteriore destabilizzazione: la Francia del 1789 e l’Unione Sovietica degli anni Ottanta sono solo due esempi storici di come il tentativo di introdurre riforme fuori tempo massimo possa innescare il crollo del sistema che si vorrebbe salvare».L’articolo di Münchau menziona esplicitamente la parola “default”. Anticipare ciò che è probabile (o inevitabile) che avvenga in futuro, scrive Orsi, è un vecchio espediente: la verità fa meno male quando diventa manifesta e ineludibile. «Dovrebbe essere chiaro che l’Italia, a questo punto, non può più essere salvata. La perdita di capacità industriale è irreversibile, e il debito pubblico continuerà a crescere fino a quando non si renderà necessaria una qualche forma di ristrutturazione». Il blogger Stefano Bassi ipotizza un progressivo “smantellamento” del paese, mirato a trasferire l’ancora ingente patrimonio privato degli italiani verso il debito pubblico secondo la logica dei vasi comunicanti. I “mercati” potrebbero cambiare la propria percezione di rischio nei confronti dell’Italia e agire di conseguenza, innescando la speculazione al ribasso e il panico. Lo scenario di un’implosione controllata e a lungo termine dell’Italia (e, in prospettiva, di molti altri paesi europei, Germania inclusa) è realistico solo se accompagnato da una parallela strategia di “manipolazione monetaria” della Bce, da cui dipende la sopravvivenza dell’euro. La Germania però resta inflessibile – niente espansione monetaria – e per contro «non ci sono garanzie sul fatto che ciò che ha “funzionato” negli Usa e nel Regno Unito produrrebbe gli stessi effetti nell’Eurozona».Un nuovo accordo politico che sostituisca Maastricht potrebbe certamente essere raggiunto a livello europeo, dice Orsi, ma richiederebbe anni di lavoro e appare tutto sommato improbabile. Senza contare che è illusorio pensare che gli organi di governo dell’Ue e la dirigenza tedesca «abbiano in serbo idee migliori di quelle attuali». Sicché, «l’Italia potrà essere “tenuta a galla” artificialmente per un periodo di tempo piuttosto lungo, ma non indefinitamente, perché nel frattempo l’economia reale continuerà a deteriorarsi e il rapporto debito/Pil continuerà ad aumentare». Nessuna speranza, all’interno dell’attuale struttura Ue. L’euro? «Non può certamente crollare dalla sera alla mattina, e la probabilità che l’attuale leadership politica e finanziaria annunci la fine della moneta comune è paragonabile a quella che un pilota informi i propri passeggeri di aver perso il controllo dell’aereo: semplicemente, non accadrà mai». Forse si può sperare nella graduale transizione verso un distema duale, a doppia moneta, che permetta di ridenominare i debiti nazionali. «In realtà, si tratterebbe del primo passo verso l’abbandono del sistema. Una strada accidentata, se vogliamo, ma preferibile all’esplodere di forze centrifughe difficilmente controllabili». Quanto all’Italia, per dirla con Bassi, «non ci sono soluzioni, e solo ammetterlo porterà a una soluzione».Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard, Roger Bootle (entrambi del “Telegraph”) e Wolfgang Münchau (“Financial Times”) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell’Italia e l’instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei “policy maker” nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l’Eurozona – e non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt’altro che favorevole sulle possibilità di “guarigione” del nostro paese. Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l’economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16? Bootle osserva che «l’Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano ‘trappola del debito’, quando cioè l’indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale».
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Realfonzo: un referendum contro il pareggio di bilancio
Noi riteniamo che le politiche di austerità, con i tagli indiscriminati alla spesa pubblica e gli aumenti della pressione fiscale, siano una sciagura per l’Italia e più in generale per l’Europa. Già nel 2010 io ed altri promuovemmo una lettera contro l’austerità che fu sottoscritta da circa 300 economisti italiani e stranieri, tra cui autorevolissimi studiosi, ma i governi italiani non hanno mutato di una virgola la loro azione. Ci siamo quindi convinti che di fronte a questa sciagura ed emergenza nazionale ed europea, sia necessario mettere in campo il più ampio schieramento possibile di forze politiche e sociali, con un referendum. Da qui abbiamo definito un comitato promotore largo e eterogeneo, con personalità molto diverse per formazione culturale e sensibilità politica. I quattro quesiti propongono di abrogare alcune disposizioni della legge 243 del 2012, la legge ordinaria che applica la riforma costituzionale del pareggio di bilancio spingendo sulla linea di austerità addirittura più del Fiscal Compact e dei trattati europei.
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Pareggio di bilancio, tasse e crisi: Renzi si piega all’Ue
Più tasse, più crisi, meno lavoro: l’Italia dovrà affrontare nuovi “sacrifici umani” per piegarsi alla legge del pareggio di bilancio entro il 2015. Gli elettori che hanno votato il Pd di Renzi alle europee sono serviti: lo schermo della propaganda è crollato col verdetto dell’Ecofin, dopo l’inutile presenza del premier italiano all’ultimo vertice di Bruxelles. Almeno altri 2 miliardi di euro da trovare, a partire dalla finanziaria di ottobre. «Mentre il presidente del Consiglio era a Bruxelles per negoziare, a parole, maggiori margini di flessibilità all’interno del rispetto dei trattati esistenti – scrive “Libero” – contemporaneamente lo stesso vertice sanciva nero su bianco la bocciatura alla prima e unica richiesta formale fatta dal governo di deroga ai patti europei». Di fatto, sono state vanificate le richieste del ministro Padoan, che voleva far slittare dal 2015 al 2016 il pareggio di bilancio strutturale. Ora, con la bocciatura dell’Ue, l’Italia avrà un anno in meno per comprimere ulteriormente la spesa pubblica e mettere in croce famiglie e aziende.Per rispettare il trattato-capestro, continua il quotidiano milanese, servono coperture per il bonus Irpef, i famosi 80 euro. Soprattutto, al governo occorrono le risorse per rendere strutturale il bonus, ma all’appello mancano 20 miliardi. Il guaio è che il pareggio di bilancio, aberrazione tecnocratica che deprime l’economia devastando il tessuto produttivo del paese, è stato inserito nella Costituzione italiana già nel 2012 col voto unanime di Pd, Pdl e terzo polo: da quel momento, solo «eventi eccezionali» possono giustificare il «ricorso all’indebitamento», ricorda “Pagina 99”. La catastrofe discende dal Trattato di Maastricht, di impronta “feudale” e neoliberista, che mira ad azzerare la sovranità pubblica per sabotare la missione socio-economica dello Stato, storico garante del benessere diffuso, lasciando mano libera al super-potere dell’élite finanziaria e delle sue multinazionali. Determinante l’adozione della moneta unica, che sottrae allo Stato la capacità di far fronte alla spesa sociale e sostenere gli investimenti strategici – welfare, istruzione, sanità, infrastrutture – che hanno guidato lo sviluppo del dopoguerra in tutto l’Occidente grazie al ricorso al deficit positivo, la leva strategica e democratica del debito pubblico.A partire da Maastricht, l’oligarchia che condiziona i politici insediati a Bruxelles ha disposto la storica limitazione del 3% nel rapporto tra deficit e Pil. Cinque anni dopo, nel 1997, il tetto del 3% – che non corrisponde ad alcun criterio economico ma è solo un’indicazione politica per indebolire gli Stati, esponendoli allo strapotere delle corporation – è stato recepito nel Patto di Stabilità e Crescita. «Le cose sono cambiate con il grande crack del 2008», aggiunge “Pagina 99”. «Che la crisi dei debiti sovrani europea sia stata figlia di finanze pubbliche fuori controllo è una tesi più controversa di quanto possa sembrare ad un primo sguardo: può forse attagliarsi al caso della Grecia, ma assai meno – ad esempio – a quello dell’Irlanda, dove il debito pubblico è stato gonfiato proprio dagli interventi a soccorso del settore finanziario privato». In ogni caso, continua il giornale, i piani di salvataggio varati dall’Unione Europea per gli Stati maggiormente in difficoltà hanno determinato la richiesta di una contropartita da parte del paese che più ha contribuito, in termini finanziari, alla loro realizzazione: la Germania.Da qui, l’imposizione di regole sempre più stringenti sulla finanza pubblica: dal 13 dicembre 2011 è in vigore il cosiddetto Six-pack, un pacchetto di regolamenti ripresi successivamente anche dal Fiscal Compact, che punta ad azzerare il deficit. «Il disavanzo strutturale è differente dal semplice rapporto deficit-Pil», precisa “Pagina 99”, perché corretto dall’impatto del ciclo economico e delle misure una tantum e temporanee: «Ad esempio, nel caso dell’Italia, il Def appena approvato dal Parlamento riferisce che l’indebitamento netto strutturale sarà del -0,6% nel 2014, a fronte di un rapporto deficit-Pil del -2,6%». È la prima di queste due variabili che doveva essere azzerata entro il 2015, secondo quanto programmato dal governo Letta. Ed è a questo medesimo dato che ha fatto riferimento Padoan nella sua missiva indirizzata alla Commissione Europea, sonoramente bocciata. «Il Fiscal Compact ha ulteriormente irrigidito questo percorso, imponendo ai paesi sottoscrittori di inserire il pareggio di bilancio nei rispettivi ordinamenti nazionali, ad un livello costituzionale».Comunque, osserva Daniele Basciu sul blog “Economia Mmt”, era tutto già scritto nel Def varato da Renzi ad aprile 2014: nel documento, messo a punto da un ministro come Padoan (tecnocrate iper-liberista proveniente dall’Ocse, con alle spalle “ricette” per indebolire gli Stati a vantaggio dei colossi finanziari) il governo aveva già previsto, da qui al 2018, di aumentare le tasse e l’avanzo primario, «cioè preleverà più tasse di quanto spenderà». In presenza di risparmio sulla spesa pubblica, ricorda Basciu, è necessario che ci siano dei deficit a controbilanciare il risparmio stesso, perchè ci sia la piena occupazione. Viceversa, senza più deficit, la strada della disoccupazione è segnata. «Il governo Renzi aveva quindi già deciso di non fare deficit, cioè aveva deciso di impegnarsi ad aumentare i disoccupati e i fallimenti delle aziende, che chiuderanno per diminuzione di clienti in grado di spendere e fare acquisti». Con buona pace degli ingenui elettori di Renzi, che «sono completamente all’oscuro del funzionamento di un’economia moderna».Per Basciu, seguace della Modern Money Theory di Warren Mosler introdotta in Italia da Paolo Barnard, quella degli elettori Pd è «una specie di tribù convinta che, recitando certe litanie e formule su “Sky” e sul “Corriere della Sera”, l’economia magicamente si rimetta in moto: sono i flagellanti delle processioni sacre, che mentre il celebrante recita i riti si battono sulla schiena con dei giunchi per propiziarsi la divinità». Ma questa non è più economia, protesta il blogger: è antropologia. «Il Def è il testo sacro, subordinato a Trattato di Maastricht e al Fiscal Compact, testi sacri di ordine superiore in cui sono scritte le regole. Il ruolo dell’officiante è trovare le formule per rivolgersi alle masse». Così Renzi dichiara: «O l’Europa cambia direzione di marcia o non esiste possibilità di sviluppo e crescita», ma si contraddice nello stesso discorso, aggiungendo: «Noi non chiediamo di violare la regola del 3%». Ergo, «Renzi farà l’austerity, come i testi sacri prescrivono», e di fatto «promette meno deficit, quindi più disoccupati».Ma l’elettore di Renzi che ha in casa un figlio disoccupato o un parente artigiano che chiude perchè non ha più clienti? Niente paura, «assiste alla celebrazione del rito ed è felice, sta bene: “C’è qualcuno”, pensa, “che si prende cura di me”». Qualcuno della “scuola” di Padoan, beninteso, che tratta lo Stato come se fosse una famiglia o un’azienda, cioè un soggetto economico per il quale il risparmio è virtù, mentre il debito è un problema. Fingendo di non sapere che tra famiglie e aziende il denaro può solo passare di mano in mano, mentre lo Stato sovrano il denaro lo crea in quantità teoricamente illimitata, per far fronte ai bisogni della società, tenendo conto della salute del sistema produttivo. In teoria, la missione dello Stato democratico è la piena occupazione: quella che i neoliberisti vogliono cancellare dalla storia, inserendo anche nelle nostre Costituzioni il cancro del pareggio di bilancio, cui ora l’Unione Europea obbliga l’Italia di Renzi, senza sconti.Più tasse, più crisi, meno lavoro: l’Italia dovrà affrontare nuovi “sacrifici umani” per piegarsi alla legge del pareggio di bilancio entro il 2015. Gli elettori che hanno votato il Pd di Renzi alle europee sono serviti: lo schermo della propaganda è crollato col verdetto dell’Ecofin, dopo l’inutile presenza del premier italiano all’ultimo vertice di Bruxelles. Almeno altri 2 miliardi di euro da trovare, a partire dalla finanziaria di ottobre. «Mentre il presidente del Consiglio era a Bruxelles per negoziare, a parole, maggiori margini di flessibilità all’interno del rispetto dei trattati esistenti – scrive “Libero” – contemporaneamente lo stesso vertice sanciva nero su bianco la bocciatura alla prima e unica richiesta formale fatta dal governo di deroga ai patti europei». Di fatto, sono state vanificate le richieste del ministro Padoan, che voleva far slittare dal 2015 al 2016 il pareggio di bilancio strutturale. Ora, con la bocciatura dell’Ue, l’Italia avrà un anno in meno per comprimere ulteriormente la spesa pubblica e mettere in croce famiglie e aziende.