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Basta Ue: sovranità nazionale, per salvare la democrazia
Rivendicare la sovranità nazionale e disobbedire al Patto di Stabilità imposto dalla Troika:«Occorre una rottura, un bagno di realismo e uno scatto di coraggio di fronte a questa crisi e a questa Unione Europea che opprime e disunisce i popoli europei». L’ideologia dell’europeismo lubrifica il diktat economico dell’Ue, vera causa della catastrofe, mentre le ultime elezioni rivelano i sentimenti di un’opinione pubblica che «diventerà prevedibilmente sempre più anti-Unione Europea», avverte Enrico Grazzini. Senza una rivolta politica radicale la musica non cambierà, perché «alla base della politica europea e tedesca dell’austerità senza fine, della deflazione e della disoccupazione di massa ci sono i trattati di Maastricht, e poi del Fiscal Compact, del Two Pack e Six Pack», già sottoscritti dai governi di centrodestra e centrosinistra. «Senza modificare o ripudiare questi trattati-capestro è praticamente impossibile rilanciare la spesa pubblica e invertire l’attuale rotta europea», che ci sta portando al disastro.Sono proprio quei trattati-sciagura che la Merkel impugna per imporre la sua politica «suicida e insostenibile», con «regole rigidissime sui limiti ai deficit pubblici», in una situazione già drammatica in cui «gli investimenti privati e i consumi sono in caduta libera». E’ storia: «Grazie all’Ue, l’Europa è diventata da anni il malato grave dell’economia mondiale, e non riesce a vedere la fine del tunnel». L’Unione Europea uscita da Maastricht, scrive Grazzini su “Micromega”, «non è la patria degli europei», ma solo un’istituzione intergovernativa oppressiva. Modificare i trattati è pressoché impossibile, perché servirebbe l’unanimità degli Stati? «L’unica possibilità è allora di ripudiarli, di uscire da queste regole rovinose: disconoscere i trattati significa percorrere una strada difficile e dolorosa, piena di rischi, ma probabilmente non esistono alternative», anche se nemmeno la Lista Tsipras se n’è ancora resa conto: «La sinistra è culturalmente succube di un europeismo federalista che oggi ormai è completamente fuori dalla realtà».Parlano i fatti: il Parlamento Europeo, eletto solo dal 40% della popolazione del continente, è dominato da una coalizione pro-austerità ancora più larga di quella prevista prima delle elezioni: democristiani, socialisti e liberali. La Commissione Europea verrà guidata dal lussemburghese Juncker, che «rappresenta da sempre gli interessi della grande finanza europea». In ogni caso saranno i governi, «quello tedesco su tutti», a decidere le questioni economiche e politiche di sostanza. Tsipras sperava che i socialisti europei cambiassero la loro politica pro-Merkel, svoltando verso la crescita dell’occupazione? Per questo volevano Martin Schulz come presidente, ma «il compagno Schulz», è stato confermato alla guida del Parlamento Europeo «da democristiani e liberali», e quindi non cambierà politica, senza contare che Strasburgo «può poco o nulla in materia economica, monetaria e fiscale».I trattati come il Fiscal Compact riguardano direttamente i governi, e quello tedesco determina le politiche economiche dell’Unione e dell’Eurozona: «La Germania non mollerà sugli eurobond e non prende neppure in considerazione la possibilità di una maggiore solidarietà europea», continua Grazzini. «E ovviamente Germania, Francia e naturalmente la Gran Bretagna, nonostante i bei discorsi di Renzi, si oppongono a ogni lontanissima ipotesi di federazione europea». Anche Syriza dovrà rivedere la sua linea: in Grecia ha vinto, ma non al punto da conquistare il governo. La situazione greca resta disperata: il debito esplode e il paese è virtualmente fallito, a causa «dell’ingordigia delle banche tedesche e francesi che in tempi di vacche grasse hanno prestato enormi somme a governi corrotti». Quest’anno Atene ha raggiunto una bilancia commerciale in attivo e un avanzo di bilancio pubblico, quindi non ha più bisogno di capitale estero: secondo alcuni analisti, alla Grecia comviene dichiarare default, tornare alla moneta nazionale e svalutare per recuperare competitività verso l’estero. Una strada senza alternative, per un paese strangolato: «Se anche vendesse il Partenone, il suo debito pubblico continuerebbe ad aumentare a causa del pagamento degli interessi sul debito estero».Se la destra finanziaria tedesca impone un neoliberismo neo-feudale al resto d’Europa, all’appello manca – disastrosamente – la sinistra, assente o addirittura complice della “dittatura” tecnocratica. In altre parole, dice Grazzini, questa Unione Europea è semplicemente antieuropea. Per cui, «al posto di nutrirsi, come il giovane Renzi, di nobili e vacue illusioni federaliste sugli Stati Uniti d’Europa, la sinistra europea dovrebbe riconoscere una realtà sempre più evidente: l’Unione Europea nata a Mastricht non è e non sarà mai l’Unione dei popoli europei», ma solo un organismo intergovernativo «che intende garantire la sottomissione degli Stati europei agli imperativi della grande finanza tedesca e internazionale». La Ue «è prona ai diktat dei mercati finanziari e non ascolta il grido di dolore dei cittadini: se mai c’è una istituzione che, come anticipava Marx, rappresenta il “comitato d’affari” del grande capitale, questa è proprio la Ue».Per capire la Ue è meglio leggere Machiavelli piuttosto che Mazzini o Spinelli, aggiunge Grazzini. Bruxelles è un mostro giuridico, che ha tradito le aspettative dei leader del dopoguerra, da De Gasperi a Adenauer, mentre «la politica federalista di Spinelli era già fallita a causa del nazionalismo francese». Il quadro europeo è cambiato di colpo con la caduta del Muro di Berlino, la nascita della nuova potenza tedesca e la creazione dell’euro. E attenzione: «Due socialisti hanno cambiato (in peggio) la storia d’Europa: il francese Mitterrand e il tedesco Schroeder. Il primo ha imposto la moneta unica alla Germania, accettando però che l’euro fosse fin dalla nascita un marco mascherato; il secondo ha creato, con la deregolamentazione del mercato del lavoro in Germania, con l’introduzione dei mini-jobs e la sua politica pro-business e pro petrolio russo, le condizioni della supremazia tedesca. Da allora, la storia europea è dominata dall’economia e dagli interessi tedeschi».L’euro di Maastricht «ha reso impossibili le svalutazioni e le rivalutazioni», e con la crisi globale del 2008 stava per saltare: «Lo ha salvato la Merkel, concedendo che la Bce di Mario Draghi intervenisse in sua difesa “con tutti i mezzi possibili”», ma «solo perché conveniva alla Germania che l’euro non finisse nel caos». Questa moneta unica, di cui gli Stati non hanno più il controllo, non elimina solo la sovranità nazionale: «Divide strutturalmente le economie e impedisce uno sviluppo sostenibile. E’ una gabbia rigida e stupida, e mortale per le nazioni meno competitive». Infatti, l’impossibilità di svalutare all’esterno i prezzi dei prodotti nazionali – come invece fanno «senza vergogna e con successo» gli Usa, la Cina e il Giappone – comporta automaticamente la necessità di «svalutare internamente il lavoro e il proprio patrimonio pubblico e privato», e infine di «offrirsi in vendita ai paesi creditori per ripagare i debiti».La crisi ha reso evidenti i limiti della gabbia monetaria disegnata a Maastricht, continua Grazzini. «Dilagano la disoccupazione e la deindustrializzazione a favore del capitale estero, mentre continuano ad aumentare i debiti pubblici degli Stati periferici, come l’Italia». Prevedibilmente, la Ue non cambierà politica, anzi «diventerà sempre più rigida nel chiedere il rispetto del Fiscal Compact», intervenendo «in maniera sempre più autoritaria» nelle economie dei singoli paesi, «dettando le sue ricette anche a livello fiscale e di spesa pubblica». Bruxelles impone il taglio della spesa sociale, più tasse sui consumi, la privatizzazione del welfare e dei beni comuni, la deregolamentazione selvaggia del mercato del lavoro con i mini-job alla tedesca e la messa sul mercato delle industrie strategiche nazionali, amputando anche il risparmio dei cittadini e delle banche. La stessa Unione Bancaria «è funzionale alla politica di centralizzazione dei capitali». Idem «le controriforme di Renzi», anch’esse «funzionali al disegno europeo e agli imperativi dei mercati finanziari».Ma, anche se Renzi riuscisse a fare i “compiti a casa”, «cioè a ottenere un Senato debole e non eletto dai cittadini, una legge elettorale ultra-maggioritaria, l’introduzione dei mini-job a 400 euro al mese», il premier «non avrà nulla dall’Ue: in cambio delle (contro)riforme italiane otterrà dall’Europa ancora più austerità», a parte «qualche briciola di investimento che però non modificherà la drammatica situazione italiana». Vie d’uscita? Una: far saltare il banco e rivendicare la sovranità nazionale, che non si capisce per quale motivo debba essere considerata “di destra”. Stati Uniti d’Europa? Implicherebbero «la sottomissione dei paesi europei ad ulteriori regole sempre più centralizzate e oppressive, per integrare l’Europa su base tedesca». Sicché, «al posto di reclamare una impossibile (e comunque autoritaria) Federazione Europea, la sinistra farebbe invece bene a proporre una politica aggressiva di denuncia per destrutturare questa Unione, ridare voce all’opposizione di massa a questa Ue della finanza e della tecnocrazia».Sovranità nazionale, certo, perché «solo a livello nazionale è possibile che i popoli riescano a incidere democraticamente sull’economia e sull’occupazione», sottolinea Grazzini. «E’ una favola sciocca che il nazionalismo sia solo di destra: anche Garibaldi e i partigiani erano nazionalisti e patrioti. Anche Enrico Mattei era un patriota». Sovranità nazionale oggi significa solidarietà e democrazia, «sviluppo sostenibile orientato alla piena occupazione, alla garanzia di un salario minimo e di un reddito garantito per chi non ha lavoro». Aggiunge Grazzini: «L’autodeterminazione dei popoli contro la globalizzazione selvaggia implica una dura lotta per ristabilire l’autonomia nazionale contro i poteri sovranazionali di stampo neo-coloniale. La brutta novità di questo decennio è che, anche grazie alla Ue, il neocolonialismo monetario ed economico per la prima volta colpisce direttamente le più avanzate nazioni europee e non solo gli Stati del Terzo Mondo».Per questo motivo, è «folle e suicida» lasciare la rivendicazione sovranista alla «destra populista», che non a caso oggi «occupa lo spazio popolare che la sinistra ha colpevolmente abbandonato». L’iniziativa del referendum italiano contro il Fiscal Compact, avviata da Riccardo Realfonzo? Ottima, da sostenere: «La sinistra dovrebbe proporre di cambiare o ripudiare i trattati europei, di ristrutturare i debiti pubblici, di avviare politiche espansive mirate a combattere la disoccupazione e a reprimere la speculazione. E dovrebbe ridiscutere radicalmente la moneta unica che conviene solo alla Germania». Riaprire i giochi: «Proporre di concordare il ritorno alle monete nazionali con cambi fissi aggiustabili, e creare una moneta comune (ma non unica) europea verso il dollaro, lo yuan e lo yen». Forse allora «l’Europa potrebbe rinascere», ma per questo servirebbe un terremoto politico. E servirebbe una sinistra onesta e coraggiosa, di cui in Italia non c’è più traccia da troppi anni.Rivendicare la sovranità nazionale e disobbedire al Patto di Stabilità imposto dalla Troika: «Occorre una rottura, un bagno di realismo e uno scatto di coraggio di fronte a questa crisi e a questa Unione Europea che opprime e disunisce i popoli europei». L’ideologia dell’europeismo lubrifica il diktat economico dell’Ue, vera causa della catastrofe, mentre le ultime elezioni rivelano i sentimenti di un’opinione pubblica che «diventerà prevedibilmente sempre più anti-Unione Europea», avverte Enrico Grazzini. Senza una rivolta politica radicale la musica non cambierà, perché «alla base della politica europea e tedesca dell’austerità senza fine, della deflazione e della disoccupazione di massa ci sono i trattati di Maastricht, e poi del Fiscal Compact, del Two Pack e Six Pack», già sottoscritti dai governi di centrodestra e centrosinistra. «Senza modificare o ripudiare questi trattati-capestro è praticamente impossibile rilanciare la spesa pubblica e invertire l’attuale rotta europea», che ci sta portando al disastro.
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Granville: l’euro crollerà, ma il potere non lo ammette
Sono convinta che la zona euro finirà. Non conosco né l’ora né il momento, ma il rischio è che tale dissoluzione avvenga nel caos più totale, per colpa dell’accanimento ideologico della classe politica e del suo rifiuto di contemplare il fallimento politico costituito dal progetto euro. Con le elezioni europee del 25 maggio scorso, le popolazioni hanno inviato un messaggio chiaro a Bruxelles: gli europei non sono più disposti a rinunciare ulteriormente a quote della loro sovranità e vogliono rinegoziare le concessioni fatte in passato. La nuova Commissione e il nuovo Parlamento Europeo, però, non ascolteranno questa volontà di cambiamento. Il loro comportamento sarà tale da rendere inutile il voto dato agli anti-euro, che costruiranno una minoranza che sarà ignorata completamente. In funzione del mandato democratico, l’élite politica considera che nulla è cambiato e che, proprio per questo, ha tutto il diritto di continuare ad agire come se nulla fosse accaduto.Credo che il principale problema con i partiti politici europei sia il fatto che non corrispondono più alla realtà della nostra epoca. La maggior parte non ascolta la voce del popolo e il loro comportamento è più rappresentativo dell’epoca feudale che della modernità. Il modo in cui quell’élite politica viene formata e poi “eletta” non ha nulla di democratico se non il nome, poiché la scelta è circoscritta ad un’élite che conosce tutti gli ingranaggi della politica ma ignora le necessità economiche attuali. In Francia, ad esempio, molta della classe politica si è formata all’Ena, il cui scopo iniziale era di selezionare alti funzionari di Stato, ossia persone in grado di eseguire e di mettere in atto le azioni decise da politici eletti e rappresentativi dell’opinione pubblica. Oggi questi alti funzionari si sono impadroniti del potere.Questa burocrazia dominante, composta da tecnocrati e centralizzata all’estremo, soffoca le popolazioni. Questa burocrazia di Stato degna di Courteline, Kafka e Orwell è una macchina infernale nella quale funzionari di Stato, non eletti, come ad esempio all’interno della Commissione Europea o del Fmi, prendono decisioni senza che nessun abbia mai conferito loro un mandato. Non potendo essere sentito, il popolo si sente escluso e questa frustrazione lo spinge a votare per i partiti estremisti. Di fronte a questa situazione, l’élite politica ripete che bisogna “educare” i popoli, considerando essenzialmente le persone come degli imbecilli e ignorando sistematicamente il loro voto, come è avvenuto in occasione del “No” olandese e francese alla Costituzione europea nel 2005. La conseguenza dell’arroganza di questa élite politica europea è, da una parte, l’ascesa dei partiti nazionalisti come il Front National e, dall’altra, il desiderio d’indipendenza di città o di regioni come nel caso della Catalogna, del Veneto e quant’altro.La gente è stanca che siano partiti di centro a prendere tutte le decisioni, con delle politiche che non solo non hanno alcuna comprensione della vita quotidiana del cittadino medio, ma che volutamente ignorano la loro voce. Questa élite politica è convinta di essere l’unica detentrice di ogni soluzione e ci conduce ciecamente verso una nuova crisi, che sarà non solo economica ma anche politica. La politica di svalutazione interna – la riduzione dei salari come unico mezzo per i paesi del sud per mantenere la competitività all’interno dell’Eurozona – non fa altro che rafforzare e aggravare tale situazione. In questo contesto si arriverà a un’inevitabile ristrutturazione dei debiti all’interno della zona euro, vale a dire a una modificazione unilaterale dei contratti, e questo equivale a un default. La crisi dell’Eurozona non si risolverà attraverso la cooperazione franco-tedesca e presto Berlino scoprirà il bluff di Parigi.La Germania e la Francia hanno due priorità fondamentalmente opposte: da un lato, la Germania, non potendo svalutare l’euro, favorisce il rigore fiscale e la svalutazione interna, una riduzione degli stipendi e dei prezzi. Ed è su questa logica che basa la sua competitività e crescita. In altre parole, i costi della manodopera unitari relativamente più bassi rispetto agli altri paesi dell’Eurozona spiegano il successo tedesco. Questo successo è stato possibile grazie alle “riforme Hartz” del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, ed è questo modello che si vuole esportare agli altri paesi tra cui la Francia. Il problema di questa politica è che richiede un lungo periodo di tempo prima di vedere i suoi frutti e presuppone una situazione in cui la traiettoria debito-Pil non aumenti.Dall’altro lato, in Francia, il peso del debito è elevato e aumenterà ulteriormente a causa della bassa inflazione e della crescita zero, dovuta all’aumento delle tasse e all’incertezza creata dal governo di François Hollande per ridurre il deficit. Il tasso di disoccupazione è arrivato a circa l’11 %. Al governo serve una crescita economica per rilanciare la propria immagine, ma le tensioni sociali stanno crescendo e rischiano di aggravare la crisi economica: l’ascesa del Front National esprime alla perfezione lo sbandamento dei francesi e il loro sentimento sempre più diffuso di non essere ascoltati dal governo al potere. L’intransigenza della Germania e l’impossibilità della Francia di attuare le riforme richieste, dovuta ai vincoli politici e temporali, determinano una situazione tale per cui quelli che costituivano i due pilastri della costruzione europea non procedono più nella stessa direzione.In questo contesto, la Francia può solo effettuare riforme che sa di non potere ultimare. Come ogni altro paese dell’Eurozona, la Francia deve conformarsi alle esigenze del Fiscal Compact e rispettarle. Qui non c’è spazio per la scelta, la Francia ha preso impegni. Purtroppo, le misure da prendere per rispettare gli impegni sono dolorose e dunque costose a livello politico. François Hollande è già il presidente più impopolare della Quinta Repubblica, dunque in un certo senso non ha più niente da perdere; ma politicamente, vista la sua mancanza di credibilità, se le riforme saranno imposte ai francesi, il suo governo rischia di destabilizzare le istituzioni della V Repubblica.L’euro è stata creato per una volontà politica, essenzialmente di François Mitterrand, e non c’era alcuna logica economica. Nello stesso modo l’euro sarà dissolto da una volontà politica. Se si presenterà questa volontà politica, potrà anche venire da paesi come la Francia o l’Italia e sarà il riflesso dell’impazienza di popoli che considerano che il costo delle riforme e delle misure economiche richieste sia troppo alto, rispetto a risultati mediocri. Una grande fetta della popolazione colpita da queste riforme è giovane, il tasso di disoccupazione che tocca i meno di 25 anni è elevato; questi giovani non hanno lo stesso senso storico di “preservare l’euro ad ogni costo” dei loro padri. A livello economico, il cataclisma potrebbe ad un tratto arrivare dal peso del debito per paesi come l’Italia o la Francia, soprattutto se la politica monetaria degli Stati Uniti divenisse ancora più restrittiva e i tassi d’interesse aumentassero. I mercati potrebbero essere in allerta. Ma finché i mercati troveranno una sicurezza nelle azioni della Banca Centrale europea, non accadrà nulla.(Brigitte Granville, dichiarazioni rilasciate ad Alessandro Bianchi per l’intervista “L’élite che ci governa si rifiuta di ammettere il fallimento e ci condurrà al caos”, pubblicata da “L’antidiplomatico” su “Voci dall’estero” nel giugno 2014 e ripresa da “Vox Populi”. La Granville è un’economista internazionale dell’università Queen Mary di Londra ed è tra i firmatari del Manifesto per la solidarietà europea).Sono convinta che la zona euro finirà. Non conosco né l’ora né il momento, ma il rischio è che tale dissoluzione avvenga nel caos più totale, per colpa dell’accanimento ideologico della classe politica e del suo rifiuto di contemplare il fallimento politico costituito dal progetto euro. Con le elezioni europee del 25 maggio scorso, le popolazioni hanno inviato un messaggio chiaro a Bruxelles: gli europei non sono più disposti a rinunciare ulteriormente a quote della loro sovranità e vogliono rinegoziare le concessioni fatte in passato. La nuova Commissione e il nuovo Parlamento Europeo, però, non ascolteranno questa volontà di cambiamento. Il loro comportamento sarà tale da rendere inutile il voto dato agli anti-euro, che costruiranno una minoranza che sarà ignorata completamente. In funzione del mandato democratico, l’élite politica considera che nulla è cambiato e che, proprio per questo, ha tutto il diritto di continuare ad agire come se nulla fosse accaduto.
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Banche fallite, Ghizzoni e Draghi siedono su Chernobyl
Federico Ghizzoni e Mario Draghi siedono su Chernobyl, il giorno prima del meltdown. E lo sanno. Guardate che ci vuole un sangue freddo indicibile per essere nei loro panni. Ma mentre il primo è uno sfigato, il secondo no. Unicredit, e io l’avevo detto mesi fa, ha un’esposizione da Austria verso est Europa immensa, e questo significa che hanno prestato oceani di euro che non riavranno più. Sono buchi bancari sparsi nei duemila miliardi di euro di buchi bancari di cui soffrono le maggiori banche europee. Oggi arriva la notizia che la terza maggior banca dell’Europa orientale, la Erste Group, austriaca, è di fatto saltata in aria. E indovinate chi sono le altre due? Unicredit e Raiffeisen (svizzera). Non so come stia dormendo Ghizzoni stanotte. Non scherziamo. Le banche europee, e soprattutto quelle maggiori come Bnp, Deutsche e Unicredit, sono fallite: ma non fallite, sono stra-stra-fallite.Draghi, come ho spiegato in precedenza, ha appena annunciato misure camuffate da aiuti all’economia terminale dell’Eurozona che altro non sono se non aiuti alle banche e basta. La ricapitalizzazione di Banca d’Italia altro non è che un trucco per ricapitalizzare le banche italiane anno su anno. Ma credetemi, sono cerotti applicati a uno che ha perso gambe, bacino e intestini su una mina. Il fatto è che ’sti mega-manager neofeudali che siedono a Francoforte, come Draghi, non sanno più come nascondere alla Ue che faranno esplodere le banche DI PROPOSITO di proposito, e con esse i paesi e noi tutti, per poi riportarci alla plebe di 900 anni fa. Progetto neofeudale. Ma lo faranno piano piano, così nessuno se ne accorge. Draghi, poi, siccome deve dimostrare di essere serio e non un criminale (se no come fa quell’ignorante di Travaglio a dire che è “uno serio”?), farà gli esami alle banche a ottobre, i cosiddetti stress-tests.Draghi, come Ghizzoni e tutti gli altri banchieri, sa perfettamente che se questi esami fossero fatti in modo serio rivelerebbero i famosi duemila miliardi di buchi bancari di cui sopra, e soprattutto delle sotto-capitalizzazioni delle banche da far spavento a Godzilla – Deutsche Bank, che è a un effettivo 2,5% invece che essere al 10% come vi sembra?, mentre si è messa in pancia derivati per 20 volte il valore di tutta la ricchezza della Germania?) – e la corsa sempre delle banche a comprare titoli di Stato italiani e spagnoli a prezzi di molto superiori al loro reale valore rapportato alle reali economie? Lo fanno perché Draghi li sta ingannando con promesse di surplus favolosi fra poco (il famoso Qe che non farà mai), ma sono balle! Quando esploderanno quelli? Vi siete chiesti perché con un’economia italiana ormai a livello del Ghana il nostro Renzi vende dei Btp a prezzi stratosferici e interessi microscopici come fossimo il Giappone?
Chiedete sempre a Mario, quel criminale. Credete che una roba del genere possa reggere? I mercati rischiano, ma poi quando la bolla salta, mica ci perdono loro, ci perdi tu sfigato. E allora gli stress-test saranno truccati, patetici teatrini di nessun valore. Così le banche salteranno per aria lentamente una a una e lentamente ci sarà LA SCUSA, DETTATA DAI SOLITI NOTI, PER MASSACRARE LE AZIENDE, I LAVORATORI, I PICCOLI RISPARMIATORI, E LE FAMIGLIE la scusa, dettata dai soliti noti, per massacrare le aziende, i lavoratori, i piccoli risparmiatori e le famiglie bla bla bla bla, velo diciamo da annnnnnniiiiiiiiiiiiiiiii. E sarà giusto così. Perché a quel punto, voi miserabili cazzoni, chiederete aiuto a Renzi, a Grillo e ai suoi puffi in Parlamento, a Celentano, a Benigni, a Balotelli e al SuperEnalotto. Ciao.(Paolo Barnard, “Federico Ghizzoni e Mario Draghi siedono su Chernobyl”, dal blog di Barnard del 5 luglio 2014).http://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=883Federico Ghizzoni e Mario Draghi siedono su Chernobyl, il giorno prima del meltdown. E lo sanno. Guardate che ci vuole un sangue freddo indicibile per essere nei loro panni. Ma mentre il primo è uno sfigato, il secondo no. Unicredit, e io l’avevo detto mesi fa, ha un’esposizione da Austria verso est Europa immensa, e questo significa che hanno prestato oceani di euro che non riavranno più. Sono buchi bancari sparsi nei duemila miliardi di euro di buchi bancari di cui soffrono le maggiori banche europee. Oggi arriva la notizia che la terza maggior banca dell’Europa orientale, la Erste Group, austriaca, è di fatto saltata in aria. E indovinate chi sono le altre due? Unicredit e Raiffeisen (svizzera). Non so come stia dormendo Ghizzoni stanotte. Non scherziamo. Le banche europee, e soprattutto quelle maggiori come Bnp, Deutsche e Unicredit, sono fallite: ma non fallite, sono stra-stra-fallite.
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Sull’Italia un patto tra iene e sciacalli, diretto dall’estero
Dopo tutte le campagne giudiziarie, dopo l’euro, dopo Maastricht, l’Ue, il rigore, il sistema paese Italia rimane ad alta corruzione, bassa legalità, bassa efficienza del settore pubblico, alto clientelismo, tendenza declinante in molti settori, forte emigrazione degli elementi migliori, umani e aziendali. Irrazionale pertanto fare progetti di integrazione europea sul presupposto che il sistema Italia cambi, che si corregga. Ciò non sta avvenendo affatto, e sono decenni che doveva avvenire e non avviene. Anzi, oramai, tra il continuo scoppio di scandali sistemici dell’apparato pubblico e degli stessi organi di controllo, perfino i partiti che lottano contro il sistema e che vogliono mandare tutti a casa e che gridavano “arrendetevi, siete circondati!”, perfino questi finiscono per venire a termini con l’espressione partitica di questo sistema e per riconoscergli una più o meno esistente legittimazione “democratica”.Quindi, prima si accetta che un corpo sociale non cambia la sua mentalità e le sue abitudini consolidate per l’effetto di un decreto o per l’azione esterna di una nuova moneta, prima si accetta il principio che bisogna organizzarlo per ciò che esso è e non per ciò che qualcuno vorrebbe che fosse, prima si accetta che il partito che va al potere ci arriva (anche) grazie alle ruberie del suo apparato di gestione, e che pertanto il paese sarà ancora a lungo amministrato da questo tipo di gente – prima si prende atto di tutto questo, cioè della realtà, e meglio è per tutti. O per quasi tutti. Razionale è quindi chiedersi: date le caratteristiche di questa società reale, in attesa che prima o poi se possibile migliorino, come la si deve organizzare per farla vivere al meglio?Per vivere decentemente, un paese che ha le caratteristiche dell’Italia deve innanzitutto tornare a una spesa pubblica larga, elastica e sostenibile,che crei, come creava in passato, coesione sociale contenendo al contempo il conflitto di interesse Nord-Sud; che dia la precedenza al lavoro (dipendente e autonomo) rispetto alle rendite finanziarie, quindi stimoli gli investimenti privati con piani di investimenti pubblici di lungo termine, sostenga il reddito e la domanda, e assorba la disoccupazione involontaria; che renda possibile un fisiologico aggiustamento del cambio (svalutazione competitiva per mantenere le quote di mercato estero); che alimenti un’inflazione idonea a rendere sopportabile l’indebitamento, agganciando ad essa i salari; che si finanzi senza rischio di default e a bassi tassi di interesse, come prima del 1981 (ossia bisogna ritornare a una banca centrale propria, una moneta propria, un controllo del Tesoro di Stato su entrambe, un vincolo per la banca centrale di comperare i titoli del debito pubblico invenduti, un vincolo di portafoglio per le banche a detenere quote di debito pubblico).Quella sopra delineata non è una stampella per un paese malato, ma una razionale e funzionale organizzazione per la generalità dei paesi, ossia anche per quelli poco corrotti e molto efficienti. Soltanto che questi ultimi possono vivere abbastanza bene anche senza di essa e con la cosiddetta austerità, mentre un paese come l’Italia, con l’impostazione monetaria e finanziaria attuale, semplicemente consuma le sue risorse interne e poi muore. Se non si attuano queste condizioni, la grande intesa tra tutti i partiti intorno al leader oggi o domani trionfante si tradurrà in un’alleanza consociativa per salire tutti sul carro del vincitore e spremere ulteriormente i cittadini e la repubblica, senza più limiti né pudori, dato che non c’è più opposizione, cioè concorrenza e contrasto: un patto fra jene e sciacalli, sotto la direzione dell’avvoltoio d’oltralpe.(Marco Della Luna, “L’Italia: come farla funzionare”, dal blog di Della Luna del 16 giugno 2014).Dopo tutte le campagne giudiziarie, dopo l’euro, dopo Maastricht, l’Ue, il rigore, il sistema paese Italia rimane ad alta corruzione, bassa legalità, bassa efficienza del settore pubblico, alto clientelismo, tendenza declinante in molti settori, forte emigrazione degli elementi migliori, umani e aziendali. Irrazionale pertanto fare progetti di integrazione europea sul presupposto che il sistema Italia cambi, che si corregga. Ciò non sta avvenendo affatto, e sono decenni che doveva avvenire e non avviene. Anzi, oramai, tra il continuo scoppio di scandali sistemici dell’apparato pubblico e degli stessi organi di controllo, perfino i partiti che lottano contro il sistema e che vogliono mandare tutti a casa e che gridavano “arrendetevi, siete circondati!”, perfino questi finiscono per venire a termini con l’espressione partitica di questo sistema e per riconoscergli una più o meno esistente legittimazione “democratica”.
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Argentina, Washington difende gli sciacalli del debito
Fondi-avvoltoio: avevano speculato sull’agonia dell’Argentina nel 2001, acquistando a prezzi stracciati i titoli di Stato di Buenos Aires. Poi il governo democratico di Nestor Kirchner ha “ristrutturato” il debito tra il 2005 e il 2010, ma ora la Corte Suprema statunitense ha respinto il ricorso del governo argentino contro una sentenza che imponeva il pagamento di 1,3 miliardi di dollari, più interessi, agli obbligazionisti non avevano accettato i termini della ristrutturazione. Non si tratta di piccoli risparmiatori, ma di fondi speculativi che hanno messo in atto un’operazione già andata in porto in altre occasioni, rileva Alessia Lai. Il fondo Nml Capital del miliardario statunitense Paul Singer cerca di ottenere un risultato simile a quelli raggiunti anni addietro in Perù e in Congo. Nel primo caso, per alcuni buoni in default acquisiti per 11,4 milioni, il fondo ottenne 58 milioni. E nel paese africano, grazie a forti pressioni, riuscì a convertire in un pagamento di 90 milioni un debito comprato ad appena 20 milioni di dollari.«L’Argentina non intende fare lo stesso», scrive Alessia Lai su “Sponda Sud”: «Lo ha detto e ribadito in una lotta che va avanti da 12 anni». Dopo la sentenza di Washington, il caso tornerà in tribunale e, soprattutto, tornerà nelle mani di Thomas Griesa, giudice che ha già condannato due volte l’Argentina a pagare quanto richiesto dai fondi speculativi statunitensi. La “presidenta” argentina, Cristina Fernandez de Kirchner, ha definito «un’estorsione» l’annuncio della Corte Suprema americana e, a caldo, ha ribadito che il governo porterà avanti «tutte le strategie necessarie affinché chi ha avuto fiducia nel paese riceva i propri soldi», riferendosi a quel 92,4% dei creditori post-default che hanno accettato la rinegoziazione dei tango-bond. Il quadro è tuttavia intricato: la Corte statunitense ha revocato la misura precauzionale che aveva permesso al governo argentino di non compiere i pagamenti in sospeso ai “fondi avvoltoio”, ostili alle ristrutturazioni del debito.Gli Usa non accettano le due istanze fondamentali presentate da Buenos Aires. La prima sosteneva che non si può considerare un paese colpevole di non ottemperare alla clausola che richiede la parità di trattamento dei creditori, se questo effettua periodici pagamenti degli interessi a coloro che hanno accettato la ristrutturazione. La seconda contestava la possibilità per un tribunale distrettuale come la corte di New York, di ordinare la disponibilità di beni di un paese quando questi sono coperti dalla legge di immunità sovrana. Thomas Griesa, infatti, aveva ordinato che il denaro usato da Buenos Aires per pagare gli obbligazionisti che avevano accettato la ristrutturazione venissero sequestrati e girati ai fondi creditori. Ora, col rifiuto della Corte di accogliere il ricorso argentino, è stata di fatto accolta la sentenza che ha favorito i “fondi avvoltoio”: entra quindi in vigore l’ordine di pagamento ai fondi speculativi disposta da Griesa.Secondo un alto funzionario del ministero argentino dell’economia, Jorge Capitanich, la revoca della sospensione dei pagamenti ai fondi-avvoltoio «impedisce all’Argentina di eseguire il pagamento della prossima trance di debito», a meno che non vengano pagati contemporaneamente anche i fondi speculativi, “premiati” con profitti astronomici (fino al 600.000%). L’imposizione del trattamento paritario potrebbe costare all’Argentina qualcosa come 30 miliardi di dollari, se il 93% dei creditori – quelli che hanno accettato la conversione del debito – rivendicassero a loro volta il pieno pagamento sulle obbligazioni sottoscritte. Da anni, aggiunge Alessia Lai, il governo argentino continua a esplorare tutte le istanze giudiziali possibili, mentre continua a proporre la rinegoziazione cercando di ottenere il rientro dei bond oggi in mano agli speculatori: «Così come stabilito dal nostro ordinamento, dai trattati internazionali e dal diritto comparato, il giudice nazionale può controllare che la decisione straniera non metta a repentaglio l’ordine pubblico», sostiene Alejandra Gils Carbò, procuratrice nazionale argentina.Per la procuratrice, «la prerogativa del governo argentino di ristrutturare il suo debito di fronte a una situazione di emergenza estrema attiene all’ordine pubblico locale e alla sovranità dello Stato: sono gli organi rappresentativi del governo designato per la Costituzione nazionale – e non un creditore individuale, o un tribunale straniero – a stabilire le politiche pubbliche». Un concetto ribadito da Jorge Capitanich, che nota come «il provvedimento del giudice Griesa, tecnicamente, incorre nei limiti dello Stato argentino». Capitanich aggiunge che l’Argentina è disposta a cancellare il debito mantenendo gli impegni assunti con la Banca Interamericana di Sviluppo, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e altre agenzie economiche. Tuttavia, in un’economia globale come quella attuale, «gli attori in campo sono le grandi entità finanziarie, i fondi speculativi capaci di mettere in ginocchio intere nazioni con le loro manovre». Entità per la grande maggioranza statunitensi, continua Alessia Lai, che godono di legami stretti con i governi nordamericani.L’Argentina, un paese risollevatosi da un default causato dalle politiche iperliberiste dei governi filo-Usa, negli anni recenti aveva registrato una importante crescita economica. Negli ultimi anni è stata vittima di attacchi speculativi sulla sua moneta, il peso, che hanno indebolito la valuta nazionale e fatto impennare il valore del dollaro al mercato nero. Il ministro dell’economia, Axel Kicillof, denuncia alcuni settori finanziari che, indebolendo la moneta nazionale, cercano di «destabilizzare il governo». Per il finanziere Paul Singer, quello dei fondi-avvoltoio “miracolati” dalla Corte Suprema Usa, la tempesta finanziaria che minaccia di abbattersi su Buenos Aires è frutto delle politiche «orrende» del governo. Oggi, la sentenza statunitense espone ancora una volta Buenos Aires agli attacchi del mondo finanziario: il Fmi – liquidato e cacciato dall’Argentina dal presidente Nestor Kirchner – si è detto «preoccupato» per le potenziali ripercussioni della sentenza sul sistema finanziario. E puntuale, l’agenzia “Standard & Poor’s” ha tagliato il rating dell’Argentina a CCC- da CCC+ evidenziando, con il downgrade, i maggiori rischi di default sul debito argentino in valuta estera. Cristina Kirchner resiste, convinta che a insidiare l’Argentina «non è un problema finanziario o giuridico», ma qualcosa che «riguarda un modello di business a scala globale» che potrebbe portare a «tragedie inimmaginabili». Così, la lotta di Buenos Aires contro la finanza speculativa va avanti.Fondi-avvoltoio: avevano speculato sull’agonia dell’Argentina nel 2001, acquistando a prezzi stracciati i titoli di Stato di Buenos Aires. Poi il governo democratico di Nestor Kirchner ha “ristrutturato” il debito tra il 2005 e il 2010, ma ora la Corte Suprema statunitense ha respinto il ricorso del governo argentino contro una sentenza che imponeva il pagamento di 1,3 miliardi di dollari, più interessi, agli obbligazionisti non avevano accettato i termini della ristrutturazione. Non si tratta di piccoli risparmiatori, ma di fondi speculativi che hanno messo in atto un’operazione già andata in porto in altre occasioni, rileva Alessia Lai. Il fondo Nml Capital del miliardario statunitense Paul Singer cerca di ottenere un risultato simile a quelli raggiunti anni addietro in Perù e in Congo. Nel primo caso, per alcuni buoni in default acquisiti per 11,4 milioni, il fondo ottenne 58 milioni. E nel paese africano, grazie a forti pressioni, riuscì a convertire in un pagamento di 90 milioni un debito comprato ad appena 20 milioni di dollari.
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Macché golpe, da anni i padroni dell’Italia sono stranieri
Per favore, non chiamatelo golpe: ormai tra le macerie dell’Italia una vera Costituzione non c’è più, e da molti anni. Napolitano? Sta solo cercando di «mettere insieme una Costituzione transitoria per gestire questa fase di declino e disgregazione del paese». Tutto più facile, oggi, con un Renzi finalmente legittimato dalle urne: il fiorentino potrà «formalizzare costituzionalmente l’autocrazia, con la collaborazione di un Berlusconi teleguidato mediante le sue disavventure giudiziarie». Renzi il mandato lo ha avuto «da italiani tipici, senza dignità e senza matematica, a cui non importa della svolta autocratica né del fatto che il governo toglie in maggiori tasse e in minori servizi un multiplo della mancia di 80 euro al mese». Sintetizzando, dice Marco Della Luna, da dieci anni è al potere «l’alleanza tra la casta nazionale e la grande finanza apolide (tedesca, francese, statunitense)». Un sodalizio creato «per spartirsi il risparmio, i redditi, i mercati e le aziende di questo paese, e metterlo sotto il governo del capitale bancario».In virtù di questa alleanza, la grande finanza, via Bruxelles e Bce, ha dato alla casta «legittimazione politica e morale nonché sostegno economico», in due momenti: prima – nella fase 1 dell’euro – con credito agevolato e bassi tassi d’interesse, «con cui la casta ha ampliato strutturalmente la spesa pubblica clientelare», e poi – fase 2 dell’euro – usando la Bce per fare incetta di bond italiani allo scopo di «tenere artificiosamente bassi i loro rendimenti, a dispetto dei pessimi indicatori economici», sostenendo così le politiche dei governi Monti, Letta e Renzi, perfette per facilitare l’élite a spese di tutti gli altri. Un collasso finanziario dello Stato (spread) o delle banche (sofferenze) era da evitare, perché avrebbe spinto l’Italia fuori dall’Eurozona e quindi «avrebbe arrestato il processo di spartizione delle risorse dello sfortunato paese». Quello attuato a nostro danno è dunque un piano complesso, che richiede «profonde deroghe, violazioni e alterazioni della prassi e della stessa Carta costituzionale, cioè di una serie di colpi di Stato e di rivoluzioni, giustificati dalle emergenze e dal “ce lo chiede l’Europa”».Le emergenze – fabbricate a tavolino – sono iniziate con la destituzione del governo nel 2011, dopo che Berlusconi (irritando la Germania) aveva chiesto di conteggiare nel rapporto deficit-Pil anche l’economia sommersa e il patrimonio netto dei privati. Come reazione, le grandi banche tedesche – d’intesa con la Bundesbank e col governo – vendettero in massa i bond italiani, facendone esplodere i rendimenti e aprendo la strada, con Napolitano, all’eurocrate Monti, il quale «lanciò un piano di demolizione dell’economia nazionale e di spremitura fiscale degli italiani per assicurare ai banchieri francesi e tedeschi i loro iniqui incassi sui prestiti che in malafede avevano erogato a Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda». Ne seguì un tracollo economico e occupazionale, una costante ascesa del debito pubblico nonché una campagna di svendite al capitale straniero. Tendenze puntualmente continuate con Letta e ora con Renzi, appoggiate dagli acquisti della Bce. «L’artificiosa calma finanziaria creata da questo sostegno consente al governo Renzi di procedere a riforme in senso autoritario e autocratico».Oggi, continua Della Luna, abbiamo un Parlamento di nominati (dai segretari dei partiti), retto da una maggioranza artificiosa e incostituzionale (sistema maggioritario bocciato dalla Consulta), non rappresentativa del popolo. Questo Parlamento dapprima ha rieletto lo stesso capo dello Stato, e ora sta riformando la Costituzione. Tutto arbitrario, dato che il Parlamento è “illegittimo” e le sentenze della Corte Costituzionale sono immediatamente efficaci e persino retroattive, ma ormai la manipolazione è in corso. «Dietro una rassicurante facciata di attivismo, giovanilismo e idealismo, Renzi sta procedendo a una radicale riforma costituzionale ed elettorale, per rendere il Parlamento ancora più maggioritario, ancora meno rappresentativo della volontà popolare». Quelle che Renzi demolisce, con l’aiuto di un Berlusconi sotto ricatto, sono «le garanzie fondamentali della Costituzione». Un uomo solo al comando: il premier potrà nominare un nuovo capo dello Stato ma anche 10 giudici costituzionali su 15, nonché i componenti laici del Csm e le autorità di controllo e garanzia, quelle che dovrebbero essere imparziali per poter controllare il governo. Di fatto, «una dittatura con pretese di costituzionalità, di legalità e di democrazia». Ma è anche «una dittatura da quattro soldi», perché è solo «la dittatura di una buro-partitocrazia ladra su un paese la cui sovranità monetaria, legislativa e fiscale è già stata trasferita ad organismi esterni, non italiani, non democraticamente responsabili, e in ampia parte esenti anche dalla sindacabilità dei tribunali». Il vero potere ormai è altrove: l’autocrate Renzi controllerà solo quel che resta del terminale periferico italiano.Secondo Della Luna, il trasferimento di sovranità è di natura eversiva: l’articolo 1 della Costituzione “fondata sul lavoro” è stato ampianente sostituito dal nuovo fondamento, la finanza. I trattati internazionali cui l’Italia ha aderito? Illegali, perché estorti forzando l’interpretazione dell’articolo 11 della Carta, che consente limitazioni (non cessioni) della sovranità, sul piano di parità (non di subordinazione), in quanto necessarie per la pace e la giustizia tra le nazioni (non, quindi, per scopi finanziari). «Usando lo strumento dei trattati, senza consultare il popolo e senza passare per le procedure di revisione della Costituzione (articolo 138)», la Carta «è stata stravolta nella sua stessa prima parte, nei principi fondamentali, iniziando con quello della sovranità popolare e dell’indipendenza». Un percorso avviato ben prima dell’avvento dell’euro, ovvero nel 1981 con la sostanziale privatizzazione della Banca d’Italia, «tra il plauso generale dei giornalisti, degli economisti e dei politici, equamente divisi tra imbecilli e imbonitori». Risultato: «Adesso l’Italia è uno Stato fondato sul mercato». I “padroni” del paese non siamo più noi, ma neppure i “banditi” della casta: la sovranità italiana appartiene a potenti investitori stranieri.E’ vero, Napolitano ha lanciato Monti e poi Letta prima ancora di far accomodare Renzi, ma perché parlare di golpe? «Sostanzialmente – scrive Della Luna – la Costituzione scritta non era mai stata attuata nelle sue parti determinanti», e inoltre l’Italia «non era mai stata indipendente, bensì occupata militarmente da oltre cento basi militari statunitensi». La nostra repubblica «è nata sottomessa», e ha sempre solo finto di essere indipendente. Inoltre, aggiunge provocatoriamente Della Luna, è sbagliato censurare moralmente la liquidazione dell’Italia e la sua sottomissione a potentati stranieri: «L’Italia era ed è spacciata», vittima di «un processo degenerativo» insanabile, aggravato da partiti «dediti strutturalmente al saccheggio della spesa pubblica». Le inchieste parlano: «Non si tratta di mele marce, ma del sistema, dell’ambiente». Una alternativa non esiste, «perché la maggior parte della popolazione si è adattata e accetta il rapporto clientelare, di complicità, coll’uomo politico. Non è possibile che l’Italia sia amministrata in modo non ladresco: i partiti si reggono sulla spartizione del bottino».Su questo sistema così fragile, una non-moneta come l’euro ha effetti devastanti: i debiti pubblici dei singoli Stati restano separati e attaccabili, anche perché la Bce, a differenza delle banche centrali di Usa, Giappone e Regno Unito, non li garantisce contro il default, né garantisce le banche nazionali. Per questo, il debito pubblico dei paesi dell’Eurozona «paga mediamente tassi di interesse più elevati», anche se ha un miglior rapporto col Pil. «L’Eurosistema, come ogni sistema di blocco dei cambi, è inevitabilmente dannoso e non può essere corretto». Se un paese importa più di quanto esporti, la sua moneta sarà più offerta (per pagare le importazioni) che domandata (per comperare le sue esportazioni), quindi tenderà a svalutarsi; svalutandosi, renderà più convenienti le esportazioni e meno le importazioni. «Questo è il meccanismo naturale, di mercato, di correzione degli squilibri commerciali internazionali». Se invece si blocca il cambio tra le due monete, «la correzione non avviene», e così «il paese che ha costi di produzione superiori continua a importare e a indebitarsi, la sua industria si atrofizza e in parte emigra, i suoi capitali pure, la disoccupazione si impenna e il reddito cade». Al che, lo sfortunato paese non riesce più a sostenere gli oneri del debito e deve svendersi: «Il paese più efficiente, avendo accumulato crediti, compera i pezzi migliori, banche incluse, e assume il dominio anche politico del paese indebitato, detta le regole». Ecco il disegno europeo: «Lo strumento principale è l’euro: una pompa che trasferisce risorse dai paesi euro-deboli e debitori ai paesi euro-forti».Esclusi gli Usa, «che scaricano i costi sul resto del mondo attraverso il dollaro», le unioni monetarie tra aree diverse (dove diverso è il costo per unità di prodotto) non ha mai funzionato, aggiunge Della Luna, perché – per tenere insieme le parti tendenzialmente divergenti – il sistema deve trasferire costantemente reddito dalle aree più produttive a quelle meno produttive. Ma se lo Stato super-tassa le aree forti (taglio degli investimenti, fuga di capitali e aziende) le indebolisce, impedendo loro di continuare sussidiare le aree deboli, che nel frattempo dovrebbero essere corrette nelle loro disfunzionalità (sprechi e mafie, corruzione e parassitismo, clientelismo e immobilismo). In Italia, si è rimediato con l’emigrazione interna attraverso il pubblico impiego quando lo Stato disponeva di risorse finanziarie e monetarie proprie. Viceversa, col blocco dei cambi (prima lo Sme, ora l’euro) il disastro è garantito. Dal 1960 ad oggi, scrive Della Luna, l’Italia ha speso l’equivalente di 300 miliardi di euro per portare il Sud ai livelli del Nord, col risultato di peggiorare le condizioni del Sud e di soffocare (o mettere in fuga) le imprese del Nord, stritolate dalle tasse.«Chi ha voluto l’euro lo ha imposto in perfetta malafede, con dolo». Ci vuole “più Europa”? Magari gli Stati Uniti d’Europa, con un bilancio federale europeo che metta in comune i debiti pubblici, ripiani i deficit e finanzi le aree meno efficienti con investimenti per l’occupazione? Le aree forti questo tipo di soluzione non l’accetteranno mai, conclude Della Luna, né i lombardi per soccorrere i siciliani, né i tedeschi per “salvare” gli italiani. «La soluzione federale tra aree non omogenee produce un livellamento al basso, un degrado civile, un impoverimento globale che porta all’instabilità quando lo Stato centrale non è più in grado di “comprare” il consenso o perlomeno la quiete mediante l’assistenzialismo, e si mette a consumare con le tasse e con le privatizzazioni il risparmio e le risorse». Procede quindi all’esaurimento delle riserve, bruciando con le tasse il risparmio (ricchezza mobiliare e immobiliare), dopo aver prelevato fiscalmente tutto il reddito prelevabile della popolazione governata. «Queste sono le cause strutturali, essenziali, congenite nella sua composizione, che condannano l’Italia alla rovina e che legittimano quindi i suoi commissari liquidatori». La Germania? Si “difende” a modo suo dai paesi del Sud, «li sottomette, li svuota delle loro risorse industriali e finanziarie attraverso i suoi “reichskommissaren”, rinnovando ciò che faceva con i territori occupati durante la Seconda Guerra Mondiale».Per favore, non chiamatelo golpe: ormai tra le macerie dell’Italia una vera Costituzione non c’è più, e da molti anni. Napolitano? Sta solo cercando di «mettere insieme una Costituzione transitoria per gestire questa fase di declino e disgregazione del paese». Tutto più facile, oggi, con un Renzi finalmente legittimato dalle urne: il fiorentino potrà «formalizzare costituzionalmente l’autocrazia, con la collaborazione di un Berlusconi teleguidato mediante le sue disavventure giudiziarie». Renzi il mandato lo ha avuto «da italiani tipici, senza dignità e senza matematica, a cui non importa della svolta autocratica né del fatto che il governo toglie in maggiori tasse e in minori servizi un multiplo della mancia di 80 euro al mese». Sintetizzando, dice Marco Della Luna, da dieci anni è al potere «l’alleanza tra la casta nazionale e la grande finanza apolide (tedesca, francese, statunitense)». Un sodalizio creato «per spartirsi il risparmio, i redditi, i mercati e le aziende di questo paese, e metterlo sotto il governo del capitale bancario».
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Boyd: via dall’euro-finanza, solo investimenti sostenibili
Ogni paese che ha adottato l’euro ha perso immediatamente il controllo della propria politica monetaria: mentre in apparenza venivano rimossi i rischi sui tassi di cambio, scendevano in picchiata i tassi d’interesse in molti paesi prima ritenuti a più alto rischio: Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna, i cosiddetti Piigs. Questo provocava un significativo aumento del flusso di investimenti in questi paesi, che hanno così sperimentato una stagione di rapida crescita economica. Ma, senza la possibilità di svalutare la loro moneta di fronte a paesi più pronti a ridurre il costo del lavoro, come la Germania, il deficit commerciale dei Piigs si è considerevolmente espanso. «L’obiettivo dell’euro – sintetizza Roger Boyd – era rendere la Germania più competitiva, poiché l’euro era valutato meno di quanto lo sarebbe stato il marco tedesco, ma più delle precedenti valute Piigs». La soluzione? Uscire quanto prima dall’Eurozona, e dirottare gli investimenti finanziari sull’economia reale dei territori, accorciando le filiere oggi mondializzate e sottoposte alle oscillazioni speculative.Quando è esplosa la crisi finanziaria del 2007-2009, scrive Boyd in un post su “Come Don Chisciotte”, gli operatori sono diventati sempre più consapevoli dei rischi e hanno cominciato a ritirare i loro investimenti a quesi paesi. «La dimensione di scala di questi spostamenti di denaro ha spinto verso l’alto i tassi di interesse, drenando fondi significativi dall’economia reale», osserva Boyd. Inoltre, «l’impatto di questi cambiamenti è stato esacerbato dal numero delle bolle speculative sulla finanza e le proprietà», prodotte dai precedenti bassi tassi di interesse e larghi afflussi finanziari. E il mondo economico in collasso ha ridotto anche l’export verso gli altri paesi, andando ad intaccare la bilancia commerciale. «Il risultato finale è stato un collasso nelle economie dei Piigs e il bisogno di azioni di ristrutturazione monetaria e finanziaria da parte dell’Unione Europea e dell’Fmi per stabilizzare i default fuori controllo».Tuttavia, le azioni di stabilizzazione non hanno affatto rimediato alla situazione: al contrario, «hanno posticipato una crisi più ampia, a scapito di una larga riduzione della capacità di spesa dei governi e degli standard di vita». Così, «la popolazione di questi paesi viene usata per proteggere le sempre più esposte banche europee e i maggiori investitori». Secondo Boyd, «questi paesi avrebbero fatto molto meglio a lasciare l’Eurozona, riprendere il controllo delle loro politiche monetarie e di cambio e svalutare le loro monete per recuperare competitività». L’uscita dall’euro avrebbe creato «un breve periodo di grande dolore», oltre il quale però «sarebbe iniziato il miglioramento». Molto meglio, in ogni caso, dell’attuale «lento affondamento verso la miseria», ben rappresentato dal ministero della salute della Grecia, secondo cui il trattamento anti-cancro «non è urgente se non nelle fasi finali».Alla morte lenta dell’Eurozona – l’estinzione delle economie dei paesi europei, imposta dalla rigidità della moneta unica, sottratta alla gestione democratica dello Stato – si contrappongono le altre soluzioni, tutte positive. Vale l’esempio dell’Argentina, mille volte citato: per contrastare l’iper-inflazione degli anni ‘80, Buenos Aires decise di vincolare la sua moneta al cambio fisso col dollaro, nel 1990. Per qualche anno funzionò, «con il riversamento di investimenti esteri e l’abbassamento dei tassi di interesse», e l’Argentina «sperimentò la stessa rapida crescita che i cinque paesi europei avrebbero mostrato nel decennio seguente». Ma, a fine anni ‘90, una serie di crisi finanziarie portò gli investitori a togliere i loro soldi dal paese: questo mandò in crisi la capacità della banca centrale argentina di mantenere il tasso di cambio fisso e convertibile. «Un grande aumento del prezzo del dollaro Usa causò uno speculare aumento della valuta argentina, rendendo i prezzi dell’export meno competitivi. Ciò fu esacerbato da una svalutazione della valuta brasiliana, paese destinatario di quasi il 30% dell’export argentino».Il risultato finale fu una svalutazione ancor più grande della valuta, e un default causato dal debito sovranazionale dell’Argentina. «Svalutando la propria moneta e mandando in default il debito estero, il paese fu in grado di preparare il terreno per una vigorosa ripresa economica nel decennio successivo», ricorda Boyd. «Questo esempio fu seguito dall’Islanda durante la crisi finanziaria del 2007-2009, che si rifiutò di pagare i correntisti esteri delle sue banche e svalutò considerevolmente la sua moneta. Ancora, la crescita ripartì dopo un periodo di crisi molto intenso, ma breve». Decisivo il ruolo della politica: «Sia il governo argentino che quello islandese furono costretti ad agire nell’interesse del loro popolo, piuttosto che dei finanziatori, a causa di estese proteste pubbliche e pressioni. In Islanda fu necessario l’intervento del presidente per forzare un referendum abrogativo delle decisioni dei politici. Nei Piigs, invece, gli interessi dei finanziatori e dell’Unione Europea sono stati anteposti a quelli dei cittadini».Altro caso parallelo, quello dei paesi colpiti dalla crisi asiatica del 1998: «L’unico paese che implementò controlli sugli scambi e proibì lo scambio offshore della sua valuta, la Malesia, riuscì ad uscire dalla tempesta, mentre Thailandia, Taiwan e Sud Corea dovettero sottoscrivere significative liberalizzazioni economiche e finanziarie in cambio dei pacchetti di aiuto capitanati dall’Fmi». Lo stesso copione – sregolati afflussi di capitale in un paese, conseguente bolla finanziaria sugli asset e deficit della bilancia commerciale, alla radice di altri problemi finanziari ed economici – è stato ripetuto molte volte. «Quando il “sentiment” cambia ne deriva una crisi, perché il più alto numero possibile di investitori scappa». Secondo Boyd, Malesia, Argentina e Islanda «hanno mostrato che i credi neo-liberali non sono sacrosanti e in molti casi sono solo profezie auto-avveranti». In fatti «possono essere messi in campo controlli sui capitali, i debiti possono essere mandati in default, gli speculatori possono essere puniti per i loro comportamenti rischiosi, e il cielo non cadrà».Tutto questo ha a che fare col cambiamento climatico, l’esaurimento delle risorse naturali e la distruzione ecologica? Assolutamente sì: perché le ferite della grande crisi terrestre «stanno diventando sempre più un impedimento al funzionamento delle moderne economie e dei loro sistemi finanziari: il flusso di denaro investito da un sistema caotico a un altro deve essere arginato, per proteggere le economie e fornire una relativa stabilità, necessaria ad una transizione di successo verso un futuro sostenibile». E i debiti, che richiamano «schemi del futuro che non possono aver luogo», oggi hanno bisogno di essere rinegoziati «per permettere un’equa condivisione delle sofferenze tra i ricchi e il resto del mondo». Inoltre, conclude Boyd, i controlli sugli scambi e le ristrutturazioni del debito diventeranno un punto fermo del nostro futuro: «Gli schemi di movimento senza sforzo di soldi e benessere attorno al mondo saranno cosa del passato: così come si contrarrà il mondo fisico, così farà quello finanziario. Investimenti locali, e investimenti in asset realmente produttivi come aziende agricole, daranno prova di essere molto più resilienti, nelle future crisi, di investimenti in asset finanziari in posti lontani».Ogni paese che ha adottato l’euro ha perso immediatamente il controllo della propria politica monetaria: mentre in apparenza venivano rimossi i rischi sui tassi di cambio, scendevano in picchiata i tassi d’interesse in molti paesi prima ritenuti a più alto rischio: Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna, i cosiddetti Piigs. Questo provocava un significativo aumento del flusso di investimenti in questi paesi, che hanno così sperimentato una stagione di rapida crescita economica. Ma, senza la possibilità di svalutare la loro moneta di fronte a paesi più pronti a ridurre il costo del lavoro, come la Germania, il deficit commerciale dei Piigs si è considerevolmente espanso. «L’obiettivo dell’euro – sintetizza Roger Boyd – era rendere la Germania più competitiva, poiché l’euro era valutato meno di quanto lo sarebbe stato il marco tedesco, ma più delle precedenti valute Piigs». La soluzione? Uscire quanto prima dall’Eurozona, e dirottare gli investimenti finanziari sull’economia reale dei territori, accorciando le filiere oggi mondializzate e sottoposte alle oscillazioni speculative.
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Usciremo dall’euro e da questa Ue, il problema è come
Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.Lo sostiene tra i tanti il professor Alain Parguez, insider all’Eliseo all’epoca in cui il “monarca” Mitterrand si circondava di personaggi come Jacques Delors, futuro primo presidente della Commissione Europea, e di super-consiglieri come Jacques Attali, ben consci che l’euro non fosse certo nato «per la felicità della plebaglia europea». Una moneta senza Stato, per Stati senza più moneta, non funzionerà mai, disse Giorgio La Malfa a Tommaso Padoa Schioppa, il quale rispose: «E credi che non lo sappiamo?». Nino Galloni, per anni alto dirigente del Tesoro, sintetizza: il futuro centrosinistra italiano – ben conscio che l’euro avrebbe rovinato l’Italia – decise ugualmente di lavorare per la cessione della sovranità nazionale senza vere contropartite, pur di liberarsi per sempre della classe dirigente della Prima Repubblica, quella dei tangentocrati indagati da Mani Pulite. Che l’euro non potesse “funzionare” non è mai stato un mistero per nessun potente: e l’apparente fallimento messo in luce dall’attuale spaventosa recessione, in realtà, corrisponde a un successo fino a ieri impensabile per l’oligarchia economico-finanziaria, che ha visto schizzare in cielo il proprio potere e la propria ricchezza a spese della maggioranza della popolazione, su cui si è scaricato interamente il costo della cosiddetta crisi.Dal canto suo, Giannuli si limita a constatare che l’unificazione politica europea «è una leggenda persa nelle brume di un futuro vaghissimo», visto che «da sette anni infuria una crisi senza precedenti dal 1929» e che «le economie nazionali europee divergono più che mai e diversi paesi sono sull’orlo del default». In queste condizioni politiche e finanziarie, conclude Giannuli, «il rischio di un crollo dell’euro è più che una semplice possibilità teorica». Se dovessero cedere una serie di paesi come Grecia, Portogallo e Irlanda, «la sopravvivenza della moneta unica diverrebbe assai problematica». Se poi il default dovesse riguardare Italia o Spagna, «non si vede come la costruzione possa restare in piedi». Ma attenzione: «Anche sviluppi imprevisti della crisi Ucraina potrebbero innescare dinamiche divaricanti nella Ue tali da mettere a rischio la moneta». Senza calcolare che, a un certo punto, «i costi di mantenimento dell’unione monetaria potrebbero rivelarsi tali da rendere inevitabile l’uscita di alcuni partner, con l’effetto di un “rompete le righe” generalizzato».Questa, per Giannuli, è esattamente la prospettiva più probabile: «E non è detto che a iniziare debbano essere i paesi deboli come Grecia o Portogallo, potrebbe iniziare uno scollamento anche di uno dei paesi forti e persino la Germania non è esente da queste tentazioni». E se la cosa non sarà stata preparata e dovesse avvenire con un improvviso crack – poco importa se finanziario o politico – allora finiremmo dentro una tempesta devastante. «E qui si capisce cosa non funziona nel ragionamento degli “euristi ad oltranza”: non prevedere il rischio di un crollo improvviso della moneta e non capire che dalla moneta unica si può uscire in modo scarsamente traumatico, a condizione che questo avvenga nei modi e nei tempi opportuni». Paradossalmente, continua Giannuli, «i fautori di “euro o muerte” ragionano allo stesso modo della Lega e dei populisti che tanto disprezzano». Due facce della stessa medaglia: «I populisti più estremi prospettano un’uscita dalla moneta unica, con ritorno alla moneta nazionale, con una decisione semplice ed immediata: hic et nuc! E gli “euromani” ragionano solo su questo scenario. Ma dall’euro non si può uscire come da una festa fra amici: “Scusate, dobbiamo andare: abbiamo lasciato i bambini soli a casa”».Secondo Giannuli, non è che – una volta liberi «dall’orrenda moneta» – tutto ricomincia a girare per il verso giusto, con l’economia che rifiorisce d’incanto: l’euro è una micidiale camicia di forza, certo, ed è il principale “mandante” della devastante politica di austerità, però – intorno a noi – c’è anche una gigantesca crisi planetaria del modello produttivo globalizzato, che richiede «un ripensamento complessivo dell’ordinamento neoliberista dell’economia mondiale». Meglio allora le soluzioni intermedie: lasciare l’euro come unità di conto (com’era l’Ecu) cui agganciare le monete nazionali, con bande di oscillazione prestabilite, «in modo da dare il tempo di far riprendere la bilancia dei pagamenti dei paesi del sud Europa». Oppure, adottare per un certo periodo «un regime di doppia circolazione, con retribuzioni date in parte con una moneta e in parte con l’altra». Complesso, certo. «Ma neppure il passaggio all’euro è avvenuto in due minuti: da Maastricht all’entrata in funzione della moneta unica sono passati ben 10 anni».Il problema sembra economico, ma è eminentemente politico – lo stesso euro, del resto, è uno strumento politico che verticalizza il potere e fa sparire la democrazia, con le sue imposizioni tassative. «Non è detto che la Ue debba restare questo mostro onnivoro che è oggi», si augura Giannuli. «Di fatto, questa fusione delle tre Europe (del nord, del sud e dell’est) non ha molto funzionato né politicamente (e si pensi al fianco est), né economicamente (e si pensi al fianco Sud). Forse l’ipotesi di una unificazione politica potrebbe essere più facilmente realizzata fra paesi più omogenei, con tre federazioni a sua volta alleate fra loro. Tre federazioni europee (del nord, del sud, dell’est) sembrano una soluzione più praticabile di un’improbabilissima unione politica di tutto il continente. E la questione della moneta potrebbe trovare uno scioglimento in questo ordinamento a tre». Conclude Giannuli: «La Storia non è finita, come pensava quell’imbecille di Francis Fukuyama, e l’esistente è solo il presente. Non l’eternità».Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.
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Col dollaro sovrano, Usa in ripresa ed Eurozona in crisi
La crisi della periferia europea ha sortito un effetto boomerang per l’euro e per Berlino: tra il 2011 e il 2013 la quantità di euro nelle riserve delle banche centrali è scesa dal 25,1 al 24.2%. Nel 2007 la Germania è caduta da terza a quarta economia nel ranking mondiale. Invece, l’egemonia del dollaro è rimasta intatta, conservando il 64% del totale della valuta nelle riserve delle banche centrali. Così, gli Usa mantengono la supremazia economica globale, spiegano Ariel e Ulises Noyola Rodríguez. La crisi del debito sovrano europeo, iniziata nel 2010 dopo la crisi delle ipoteche “subprime” statunitensi del 2007-2008, ha rivelato la fragilità delle fondamenta economiche dell’Unione Europea, partita nel 2002 con l’euro come moneta unica. Lo sviluppo differente delle crisi – negli Usa e in Europa – rende manifesto «il carattere gerarchico dell’economia mondiale» e, con esso, «l’asimmetria di potere tra gli Stati capitalisti dominanti: Germania e Usa».Gli Stati Uniti, spiegano i due economisti in un’analisi ripresa da “Come Don Chisciotte”, godono di un sistema finanziario con una maggiore elasticità dinnanzi alle turbolenze dell’economia mondiale: la banca centrale statunitense «riproduce la sua posizione in cima alla piramide dei sistemi finanziari nazionali concentrando e centralizzando capitali attraverso il binomio “dollaro – Wall Street”, che rappresenta un meccanismo di dominazione finanziaria». La moneta sovrana – il dollaro – stravince il confronto, perché la Federal Reserve emette moneta su richiesta del governo, mentre l’euro – moneta senza Stato, per Stati senza più moneta propria – non può transitare direttamente dalla Bce ai governi dell’Eurozona. Così, la Fed ha espanso la sua base monetaria (denaro depositato in banche e in circolazione nell’economia reale) di un 400%, mentre la Bce soltanto di un 150%.La banca centrale europea, osservano i due analisti, prova a non pregiudicare la posizione dell’euro come moneta di riserva. «I programmi che ha lanciato includono la “sterilizzazione di liquidità” che la Fed non ha previsto, ovvero: il denaro che la Bce usa per comprare titoli finanziari lo recupera ritirandolo dalla propria base monetaria». Immettendo invece nuovo denaro nel circuito, la Fed ha permesso all’economia americana di «riprendersi più rapidamente rispetto al sistema finanziario europeo». Cifre: tra il 2007 e il 2013, il valore delle azioni delle 10 maggiori banche americane è aumentato di 2.000 miliardi, secondo la Federal Deposit Insurance Corporation, mentre le grandi banche europee, a giugno 2013, possedevano in azioni 660 milioni di euro in meno rispetto al 2009, secondo la Bce. Inoltre, il sistema finanziario europeo, essendo di natura bipolare – da un lato banche molto forti (Deutsche Bank, Commerzbank e Bnp Paribas) e dall’altro banche molto deboli nella periferia, «aumenta il rischio locale legato a possibili shock finanziari».Affinché si mantenga la “fiducia” nella valuta, la Troika europea fa rispettare il Patto di Stabilità, che obbliga gli Stati membri a non superare il limite del 3% del deficit e del 60% di debito pubblico in relazione al Pil. «Ad ogni modo – aggiungono Ariel e Ulises Noyola Rodríguez – l’applicazione di politiche di austerità ha portato al fatto che attualmente 11 paesi non rispettino il suddetto patto», ovvero Austria, Belgio, Cipro, Slovenia, Spagna, Francia, Finlandia, Grecia, Irlanda, Italia e Olanda. Viceversa, il debito pubblico di Washington (16.7 bilioni di dollari, oltre il 100% del Pil) «si sostiene attraverso il dollaro, che agisce come rifugio privilegiato degli “short-term capitals” del resto del mondo», cioè i capitali attraverso cui si vuole ottenere un plusvalore in meno di un anno. «De facto, il rischio di default statunitense scompare».Il male oscuro dell’Eurozona si chiama deflazione: denaro insufficiente in circolazione. A partire da ottobre 2013, osservano i due economisti, l’inflazione europea si trova sotto l’1%: meno della metà dell’obiettivo fissato dalla Bce, che è il 2%. A gennaio 2014 l’inflazione è calata ulteriormente fino allo 0.8% per poi scendere ancora (allo 0.7%) a febbraio. «Ciò ha messo in allerta Mario Draghi, presidente della Bce, che ha dichiarato che è possibile che la politica monetaria sia più espansiva e includa misure non convenzionali, possibilmente in stile Fed, anche se applicate in maniera selettiva in base ai paesi». La crisi morde: il credito registra la più grave caduta in vent’anni, la disoccupazione al 12% è un record storico, il cambio euro-dollaro (1,4 dollari per euro) ormai «minaccia il dinamismo delle esportazioni tedesche». E l’Institute for Economic Research, in tedesco “Ifo”, rivela che il livello di fiducia delle imprese tedesche sta cominciando a calare.Di fronte a una situazione così drammatica, rispetto a quale la “cura” del rigore non rappresenta certo una soluzione ma, al contrario, proprio la causa principale della sofferenza, oggi la rigidissima Bce non scarta più «la possibilità di stabilire tassi negativi nei depositi bancari per ribaltare la tendenza depressiva dell’economia», creata proprio dall’euro-deflazione. E persino il banchiere centrale tedesco Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, ora è favorevole a un’espansione monetaria (“quantitative easing”), se si cambia l’articolo 123 dello Statuto della Bce che proibisce di finanziare direttamente gli Stati. Moneta finalmente disponibile? Inversione di tendenza obbligatoria, o l’Eurozona collassa.La crisi della periferia europea ha sortito un effetto boomerang per l’euro e per Berlino: tra il 2011 e il 2013 la quantità di euro nelle riserve delle banche centrali è scesa dal 25,1 al 24.2%. Nel 2007 la Germania è caduta da terza a quarta economia nel ranking mondiale. Invece, l’egemonia del dollaro è rimasta intatta, conservando il 64% del totale della valuta nelle riserve delle banche centrali. Così, gli Usa mantengono la supremazia economica globale, spiegano Ariel e Ulises Noyola Rodríguez. La crisi del debito sovrano europeo, iniziata nel 2010 dopo la crisi delle ipoteche “subprime” statunitensi del 2007-2008, ha rivelato la fragilità delle fondamenta economiche dell’Unione Europea, partita nel 2002 con l’euro come moneta unica. Lo sviluppo differente delle crisi – negli Usa e in Europa – rende manifesto «il carattere gerarchico dell’economia mondiale» e, con esso, «l’asimmetria di potere tra gli Stati capitalisti dominanti: Germania e Usa».