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Cottarelli e Macron, il vero partito che rema contro l’Italia
Attenti a Carlo Cottarelli: non lavora per l’Italia, ma per il “partito” trasversale (italiano) che vuole mantenere il nostro paese in crisi perenne. Un avvertimento che, sul “Sussiadiario”, Federico Ferraù rilancia, intervistando il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’Università Cattolica di Milano. Pur senza essere esplicitamente nominato, l’ex commissario alla spending review del governo Letta – ormai ospite fisso dei maggiori talkshow, incluso il salotto televisivo di Fabio Fazio – è definito “Manciurian candidate”, cioè cavallo di Troia e quinta colonna di poteri esterni al nostro paese. Letteralmente: «Un economista che rilascia interviste da premier in pectore, facendo della riduzione del deficit e del debito il comandamento di una religione secolare». Tutto questo, «in attesa che il patto M5S-Lega si rompa, magari con l’aiuto del Colle», cioè di quel Mattarella che la candidatura Cottarelli l’aveva agitata come minaccia, in alternativa a quella di Conte, subito dopo aver bocciato la proposta di Paolo Savona come ministro dell’economia. Neoliberista, a lungo dirigente del Fmi, Cottarelli è considerato – insieme a Mario Draghi, allora dirigente di Goldman Sachs – uno dei maggiori responsabili della catastrofe abbattuasi sulla Grecia. Da tempo ci prova anche con l’Italia. La sua ricetta? Quella di Monti: deprimere l’economia tagliando il deficit. Agisce da solo, Cottarelli? Niente affatto: si muove in tandem con Emmanuel Macron.Lo stesso Ferraù definisce l’inquilino dell’Eliseo «un antipopulista a vocazione continentale che fa il populista alla bisogna, approfittando del fatto che il suo paese è ancora troppo importante per fallire». Macron e Cottarelli, sottolinea il professor Mangia, fanno parte dello stesso disegno anti-italiano: non ordito “dalla Francia” o “dalla Germania”, bensì da un cartello di poteri economici, che agiscono – inseguendo esclusivamente i propri interessi privatistici – all’insaputa degli stessi francesi e tedeschi. «In realtà – afferma Alessandro Mangia – ad essere vincitore, oggi, in Europa, è soltanto un blocco industriale e finanziario che dall’unificazione europea ha tratto solo vantaggi e ha distribuito gli svantaggi in modo più o meno equo tra i vari paesi d’Europa». Oggi Macron annuncia un’espansione del deficit francese, mentre Cottarelli tuona contro la ventilata (minima) crescita del disavanzo italiano? Niente di strano: quei poteri hanno bisogno che la Francia non crolli, per questo le consentono di sostenere la propria economia con una dose maggiore di debito pubblico. L’Italia, invece, “deve” crollare: a questo servono le prediche a reti unificate di Cottarelli, contro l’aumento della spesa invocato da Di Maio e Salvini per finanziare Flat Tax, pensioni e reddito di cittadinanza. La filosofia di Cottarelli? Quella, fallimentare, del Fmi: se infatti si taglia la spesa produttiva, decresce automaticamente il Pil e l’economia peggiora, aggravando il peso del debito pubblico.Dopo che Macron ha comunicato di voler aumentare il deficit fino al 2,8% per tagliare 25 miliardi di tasse, Di Maio ha detto: «Facciamo anche noi il 2,8% come loro». Domanda: perché l’Italia non può imitare i francesi? «Perché la Francia, nell’assetto attuale d’Europa – spiega Mangia – è un elemento essenziale per la tenuta del sistema di potere che si è instaurato dopo la crisi del 2010-2011». E quindi, chiarisce il professore, le va lasciato margine di manovra. Anche perché, senza la foglia di fico (francese) del famoso “asse franco-tedesco”, sarebbe evidente a tutti chi domina e chi è dominato, in Europa: «E l’Europa si ridurrebbe alla sola Germania e ai suoi sottoposti». In altre parole: in cambio di una parte in commedia, alla Francia viene lasciata maggiore libertà di bilancio. Solo che, «stanti le caratteristiche strutturali della moneta unica», questa maggiore libertà «si traduce in maggior debito e maggior deficit sull’estero». La spesa aggiuntiva francese, argomenta Mangia, viene fatta acquistando beni esteri — cioè tedeschi e italiani — perché costano meno di quelli francesi. Sicché, Macron potrà anche «tirare a campare, politicamente, come ha cercato di fare Hollande con l’esito che sappiamo», ma non farà altro che «aggravare la situazione e accumulare passivi sull’estero».E questo, sottolinea il professore, è esattamente ciò che succede da anni alla Francia, che «dopo sforamenti superiori al 5% (che noi ci sogneremmo) è su una china assai peggiore di quella dell’Italia: solo che non si può dire, se no viene giù tutta la messinscena dell’asse franco-tedesco e non si può più fare la voce grossa con Italia e Spagna». In più, se Bruxelles è di manica larga con Parigi, è anche per sostenere il suo uomo – Macron – ormai inviso al 70% dei francesi. La Francia, ricorda Alessandro Mangia, da oltre 10 anni sfora il tetto del 3% sul rapporto debito-Pil. Il paese è stabilmente in disavanzo commerciale sull’estero. Inoltre «ha un debito pubblico prossimo al 100% con un trend di stabile crescita e un volume superiore a quello italiano». La disoccupazione è stabile al 9% (in Italia è attorno all’11) con una manifattura «ormai secondaria, nel continente». Ancora: la Francia «è in stato d’emergenza dai tempi del Bataclan, e cioè dal novembre 2015, e ne è uscita (a parole) con il trucchetto di trasformare la legislazione d’emergenza in legislazione ordinaria, con quel che ne viene in termini di poteri della polizia su libertà personale e di riunione». Non solo: la Francia «riesce ad avere un governo solo grazie agli artifici di una legge elettorale a doppio turno, fatta apposta per drogare il consenso del vincitore».Come se non bastasse, l’Eliseo «sta cercando di approvare una riforma costituzionale osteggiata persino in quell’Assemblea nazionale dove la maggioranza drogata di “En Marche” dovrebbe essere netta e sicura». A fronte di tutto questo, aggiunge il professor Mancia, come stupirsi del fatto che Macron abbia problemi di popolarità? Tutto sommato, aggiunge, a Macron «sta andando ancora bene», se consideriamo che quel presidente, eletto in quel modo e con quell’esiguo consenso, «si è messo in testa di fare ai lavoratori francesi quello che è stato fatto ai lavoratori italiani dai governi Monti e Renzi in nome di “debito” e “competitività”, senza tener conto del fatto che sciopero generale e resistenza popolare fanno parte del mito repubblicano su cui si regge la Francia». Gli scandaletti come quello che ha coinvolto Macron e la sua guardia del corpo Alexandre Benalla? Un pretesto fisiologico per esprimere la protesta contro le scelte (politiche, non private) del presidente, «in un sistema istituzionale bloccato dalla mancanza di un voto di sfiducia, come è quello presidenziale della V Repubblica», dove «l’unico modo di liberarsi di un presidente è quello di costringerlo alle dimissioni». Mancando la possibilità del voto parlamentare di sfiducia, «poi si finisce con il parlare di stagiste e guardie del corpo come se fossero affari di Stato».Ma la Francia ha comunque due potenti frecce al suo arco: i 500 miliardi di euro che sottrae ogni anno a 14 ex colonie africane, più il fatto di essere rimasta – dopo la Brexit – l’unica potenza nucleare europea. «Nonostante le figuracce rimediate in Siria», afferma Mangia, la Francia è l’unica nazione in Europa a disporre di un deterrente nucleare, Per questo «è essenziale per calciare il barattolo europeo in avanti, parlando di Unione di Difesa, sessant’anni dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa». Tant’è vero che da qualche settimana, in Germania, «si parla di munire la Bundeswehr di armi nucleari tattiche, per non lasciare il monopolio del nucleare alla Francia». Il che, aggiunge Mangia, «dà la misura di quanto le attuali classi politiche europee siano stralunate, fino a diventare visionarie, ipotizzando un futuro indipendente dall’ombrello Usa», come se la Nato non esistesse più. E comunque, «la Francia è l’unico Stato dell’Unione ad avere una proiezione extracontinentale, vuoi per i territori d’oltremare, vuoi per l’aggancio valutario dei paesi subshariani attraverso il sistema del franco Cfa, perfettamente convertibile in euro a condizione che le ex-colonie depositino metà delle loro riserve valutarie in un conto in Francia».E guarda caso, puntualizza il professor Mangia, «stiamo parlando di quegli stessi paesi che da qualche anno ci inondano di profughi che naturalmente scappano da fame e guerra». Che la Francia abbia qualcosa a che fare con quello che viene presentato come un inarrestabile evento naturale che si produce – combinazione – proprio nelle sue ex colonie? «Non possiamo stupirci che, nell’insieme, la Francia abbia ancora un margine di manovra di fronte alla Commissione in tema di bilancio», ribadisce il professore. «A reggere la Francia è la sua proiezione di potenza, non la sua economia, che è messa male almeno quanto la nostra, anche se per ragioni diverse». E che posto ha l’Italia in questo gioco di poteri? «La Francia serve alla Germania, anche se l’unico paese dove può espandersi è ormai soltanto l’Italia, naturalmente con l’attiva collaborazione di buona parte delle nostre élites politiche». Fateci caso, osserva Alessandro Mangia: «Avete mai visto quanti e quali esponenti politici italiani sono stati insigniti della Legion d’onore? E’ impressionante». Tra i nomi più in vista svettano quelli di Massimo D’Alema e Franco Bassanini, Emma Bonino, Piero Fassino e Walter Veltroni, Dario Franceschini, Enrico Letta. E poi il renziano Sandro Gozi, Giovanna Melandri, Roberta Pinotti, Romano Prodi, i sindaci milanesi Giuliano Pisapia e Beppe Sala.«Qualcuno si è mai chiesto – si domanda Mangia – per quali ragioni la Francia dovrebbe conferire quella che, dai tempi di Napoleone, è la massima onorificenza della nazione a una schiera di politici italiani? Solo per spirito europeo?». L’amara verità, aggiunge il professore, è che in questa Europa ci sono paesi «più sovrani degli altri». Il risultato? E’ sotto i nostri occhi: ormai, a votare in massa per i cosiddetti sovranisti, o populisti – in Italia ma anche in Francia, Germania, Austria, Svezia – è quello che fino a dieci anni fa era ancora “ceto medio”, e oggi, «oltre ad essere impoverito, è insultato quotidianamente sui giornali». Viene bollato come “ignorante, incolto e xenofobo”, da quegli stessi media che accolgono come rivelazioni sensazionali le palesi falsità spacciate da Cottarelli, che “vende” come virtù il “risparmio” nei conti pubblici, paragonando il bilancio statale a quello di una famiglia o di un’azienda. «Semplici slogan che non hanno nessun fondamento economico», protesta Alessandro Mangia: «Gli Stati, se sono Stati, non possono essere equiparati a una famiglia per il semplice fatto che, in genere, le famiglie non possono stamparsi il denaro che gli serve per vivere, mantenersi e investire. Gli Stati, se sono davvero Stati, la moneta se la stampano. E il limite è dato da congiuntura economica e andamento generale dell’economia, come è sempre stato in Italia fino al divorzio Tesoro-Bankitalia».Il punto, aggiunge il professore, è che «la moneta unica ha ridotto gli Stati a dover dipendere dai fornitori di moneta, esattamente come le famiglie, e ha trasformato il debito virtuale di uno Stato nel debito reale di una collettività». E’ stato questo il vero passaggio dalla valuta nazionale all’euro: si è ottenuta «la creazione di un debito reale in capo alle collettività nazionali, in cambio di un ribasso temporaneo dei tassi di interesse». Dovremmo “ringraziare” a lungo chi ci ha portati in questa situazione, «che ha ucciso ogni libertà politica». E cioè: ha ucciso «la libertà di scegliere le politiche da praticare con l’esercizio del diritto di voto». Svuotamento della democrazia: «Certo, oggi si può ancora votare – aggiunge Mangia – ma alla fine le scelte possibili sono solo quelle dettate dalle regole europee sul bilancio. E mi sembra che i discorsi di questi giorni sullo “zero virgola” e sulla dialettica Tria-Di Maio ne siano la più perfetta dimostrazione». Ribellarsi a questo falso paradigma, basato sulla mistificazione ideologica del neoliberismo? Facile a dirsi, ma prima bisogna sbarazzarsi del cartello-ombra costituito da potenti connazionali che “remano contro” il nostro paese.«Esiste un partito, che diviene sempre più incalzante – scrive Ferraù, sul “Sussidiario” – per il quale il taglio del debito è divenuta una ricetta trans-economica, un credo, un obbligo morale, un modo di salvare l’Europa e l’Italia attenendosi, senza se e senza ma, alle direttive di Bruxelles e di Berlino». Come potrebbe spuntarla, il governo gialloverde, se il ministro Giovanni Tria appare sempre più nella veste del “pilota automatico”, sulle orme di Mario Draghi? Come ogni ministro del bilancio da Maastricht in poi, cioè dal 1992 – dice il professor Mangia – anche Tria «si trova a dover mediare tra quelle scelte politiche che i cittadini credono ancora di fare, quando vanno a votare, e i vincoli che la Commissione impone al bilancio, interpretando, modulando, calibrando i vincoli formali, dal Patto di Stabilità al Fiscal Compact». Gli interlocutori di Tria? «Non sono solo Di Maio e Salvini, ma la Commissione e gli altri ministri dell’Eurogruppo, che sono lì solo per fare gli interessi dei paesi di provenienza». L’unica domanda è: «Quand’è che noi smetteremo di fare gli interessi degli altri e di produrre – malamente, e con quello che passa il convento, che non è proprio granché – i nostri piccoli “Manchurian candidates”, cui affidare la continuazione di queste politiche? All’orizzonte ne vedo almeno uno», chiosa il professore. Non ne fa il nome, non ce n’è bisogno: per scoprire chi è basta accendere il televisore.Attenti a Carlo Cottarelli: non lavora per l’Italia, ma per il “partito” trasversale (italiano) che vuole mantenere il nostro paese in crisi perenne. Un avvertimento che, sul “Sussiadiario”, Federico Ferraù rilancia, intervistando il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’Università Cattolica di Milano. Pur senza essere esplicitamente nominato, l’ex commissario alla spending review del governo Letta – ormai ospite fisso dei maggiori talkshow, incluso il salotto televisivo di Fabio Fazio – è definito “Manciurian candidate”, cioè cavallo di Troia e quinta colonna di poteri esterni al nostro paese. Letteralmente: «Un economista che rilascia interviste da premier in pectore, facendo della riduzione del deficit e del debito il comandamento di una religione secolare». Tutto questo, «in attesa che il patto M5S-Lega si rompa, magari con l’aiuto del Colle», cioè di quel Mattarella che la candidatura Cottarelli l’aveva agitata come minaccia, in alternativa a quella di Conte, subito dopo aver bocciato la proposta di Paolo Savona come ministro dell’economia. Neoliberista, a lungo dirigente del Fmi, Cottarelli è considerato – insieme a Mario Draghi, allora dirigente di Goldman Sachs – uno dei maggiori responsabili della catastrofe abbattutasi sulla Grecia. Da tempo ci prova anche con l’Italia. La sua ricetta? Quella di Monti: deprimere l’economia tagliando il deficit. Agisce da solo, Cottarelli? Niente affatto: si muove in tandem con Emmanuel Macron.
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Macron può sforare il deficit, noi no. E nessuno dice niente
A fine agosto il ministro delle finanze francese, Bruno Le Maire, ci avvisava che, dato che la crescita del Pil sarebbe stata inferiore alle previsioni iniziali, il deficit francese nel 2018 sarebbe stato il 2,5% e non il 2,3% del prodotto interno lordo, come inizialmente previsto. A quei numeri si doveva aggiungere un altro 0,1% per il consolidamento del debito delle ferrovie francesi. Nemmeno un mese dopo, anche il deficit previsto per il 2019 è stato “ritoccato”: dal 2,4% sale al 2,8% per permettere un piano di stimolo fiscale. «Apriamo le scommesse sulle possibili ulteriori revisioni che questo numero, il deficit per il 2019, avrà nei prossimi mesi», scrive Paolo Annoni sul “Sussidiario”: «Come nota di colore aggiungiamo che il ministro delle finanze francese è lo stesso che in data 8 settembre dichiarava con tono minaccioso: “Penso che tutti i leader politici italiani siano consci dei loro impegni”. C’è da sbellicarsi». Qualcuno, aggiunge Annoni, si è già precipitato a dire che la Francia può (e noi no) perché il nostro debito è più alto. «Siamo al ridicolo, e chi lo dice è in malafede totale». Il debito italiano ha fatto peggio di quello francese, negli ultimi anni «solo perché l’Italia ha fatto l’austerity nel 2012». Grazie a Monti e Letta, con la cortese collaborazione di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni.
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Magaldi: democrazia, non “sovranismo”. O rivince l’élite
Sovranista a chi? Se accettate di lasciarvi chiamare in quel modo, fate un favore proprio a quei poteri oligarchici che vorreste combattere. Parola di Gioele Magaldi, che avverte: c’è un equivoco, “sovranismo” non è affatto sinonimo di “sovranità”. Che senso avrebbe, ad esempio, tornare alla lira, se la moneta nazionale fosse gestita nel modo sciagurato che fu introdotto nel 1981 dai massoni Ciampi e Andreatta ben prima dell’avvento dell’euro? Un avviso a Giorgia Meloni: va bene restituire dignità all’Italia, ma senza «nostalgie “conservatrici” per chissà quale buon tempo andato». L’ex guru di Trump, Steve Bannon? «Un personaggio folkloristico e anche simpatico», il promotore di “The Movement”, network che si propone di coordinare la carica “sovranista” alle prossime europee. Ma siamo sicuri che, dietro certe manovre, non ci sia lo zampino dei soliti noti? In fondo è comodo, il recinto del sovranismo. Molto più scomodo – e più utile per tutti – sarebbe invece costringere un oligarca come Mario Draghi a usare finalmente l’euro a beneficio del popolo, non delle banche. Se c’è una cosa di cui quell’establishment marcio ha davvero paura, sottolinea Magaldi, non è l’ambiguo sovranismo, ma la cara, vecchia sovranità democratica: che pure avevamo, e che ci è stata confiscata dall’élite neoliberista, dominata dai massoni neo-aristocratici che negli ultimi trent’anni hanno cancellato l’idea stessa di Europa unita.Autore del bestseller “Massoni”, che rivela il grande potere di 36 superlogge sovranazionali nella cabina di regia della globalizzazione imposta “a mano armata”, senza diritti, Magaldi – massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt – fornisce la sua personale lettura dell’attualità ai microfoni di “Colors Radio”: lo stesso Isis, sostiene, è un progetto criminale coltivato dalla parte peggiore di quei cenacoli occulti, pronti a ricorrere persino all’orrore del terrorismo stragista per alimentare la guerra globale cui stiamo assistendo, gestita da interessi economici che si riparano dietro il paravento delle nazioni. Supermassoni reazionari, che sono riusciti a far rimangiare, all’Occidente, le conquiste inaugurate proprio da Roosevelt – l’economia espansiva fondata sul deficit positivo, secondo la ricetta del massone progressista Keynes – e la “Great Society” dello stesso Lyndon Johnson, alimentata dalle idee e dal coraggio di Bob Kennedy e Martin Luther King. L’Unione Europea? Capolavoro dell’élite neo-aristocratica, il più subdolo dei poteri: finto-progressista e finto-democratico. Pronto, oggi, anche a liquidare la nascente opposizione con la più comoda delle etichette, il “sovranismo”, che di fatto «è una falsa moneta», liberamente circolante – anche nell’Italia gialloverde – grazie a quegli stessi democratici che accettano di farsi chiamare “sovranisti”.«E a proposito di false monete», Magaldi ricorda di esser stato il primo, in tempi non sospetti, ad anticipare la “profezia” oggi rilanciata da Steve Bannon: l’Italia come unico punto di partenza possibile, in Europa, per una grande riscossa popolare. «Ma la riscossa che ha in mente Bannon – precisa Magaldi – non è quella di cui parlo io e di cui parlano i massoni limpidamente democratici: quella che abbiamo in mente noi è una rivoluzione democratica che vada a risvegliare la democrazia sostanziale, non soltanto in un paese ma in istituzioni sovranazionali che devono essere funzionanti per contrastare poteri privati altrettanto sovranazionali». Attenti alle “monete fasulle”, insiste Magaldi: in fondo, fanno comodo «a quelle élite apolidi e post-democratiche, anzi antidemocratiche, che poi sono le élite di natura massonica contro-iniziatica che si dicono europeiste ma invece hanno distrutto il sogno degli Stati Uniti d’Europa». Equivoci a reti unificate, sui media mainstream: «Adesso sembra che la contrapposizione sia, da una parte, tra tutti coloro che amano i valori democratici e progressisti, liberali, “politically correct”, e dall’altra i “sovranisti”, che sarebbero dei nazionalisti un po’ beceri e un po’ xenofobi, ripiegati su se stessi e incapaci di cogliere l’importanza delle costruzioni sovranazionali».«Quando in tanti accettano di farsi definire “sovranisti” sembra che le cose stiano così, ma non è vero», sostiene Magaldi: «Ciò che conta è la sovranità del popolo, che significa democrazia. E si può declinare tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale o sovranazionale. Anzi: per contrastare questo tipo di globalizzazione, di segno post-democratico e neo-aristocratico, servono strutture pubbliche, politiche, legittimate dal popolo». Strutture di caratura anche sovranazionale, ribadisce Magaldi, «perché a chi possiede le armi atomiche non si fa la guerra con archi e frecce, da un avamposto locale o nazionale», per di più «in un contesto nel quale si muovono forze che penetrano le nazioni e riescono addirittura, dentro le nazioni, a creare dei cavalli di Troia o delle quinte colonne che poi ti levano la sedia da sotto il sedere». La parola da usare, oggi, è un’altra – sovranità popolare – declinata in Italia e nel resto del mondo, senza frontiere. «E a tutti coloro che tacciano i loro nemici di “sovranismo”, chiederei: ma perché, voi non siete per la sovranità popolare? Siete per la sovranità di gruppi oligarchici apolidi e sovranazionali?».Meglio essere chiari, dice sempre Magaldi: «Chi si schiera tra i conservatori e contro la sovranità popolare evidentemente ha in mente una idea di governance (locale, globale, nazionale) di tipo neo-aristocratico: ed è proprio nel passato conservatore, tradizionalista, che le pulsioni democratiche si sono dovute affermare con fatica». D’ora in avanti, annuncia l’autore di “Massoni”, il Movimento Roosevelt «farà una campagna politico-pedagogica proprio su questi temi, e anche sul termine “sovranista”». E insiste: «È un equivoco, il sovranismo: il rispetto per la sovranità popolare dovrebbe essere patrimonio condiviso di tutti». La prima a calpestarla, la nostra sovranità, è proprio l’antidemocratica Unione Europea, «gestita da personaggi impresentabili come frontman delle istituzioni: personaggi screditati e davvero indegni di rappresentare il grande sogno europeo». Punto primo: bocciare un’Europa «dove la Bce è l’organo più potente di comando», e dove il Parlamento Europeo non conta quasi niente eppure «si esprime in modo vergognoso, come ha appena fatto nel caso della legge sul copyright, la censura sul web». Il punto di svolta? «Una Costituzione politica europea, che imponga di usare l’euro per favorire il benessere collettivo». Sarebbe la fine della speculazione contro gli Stati, la fine del ricatto dello spread. Ora più che mai, servirebbe «una coesione europea in grado di avere anche una politica estera comune», e invece «oggi non c’è nessuna Europa».Il recupero della democrazia, riconosce Magadi, passa certamente per il ritorno alla sovranità monetaria: «La moneta – europea o nazionale, non importa – deve essere amministrata dai rappresentanti del popolo». Le banche centrali? Già prima dell’Eurozona erano «degenerate in un potere autonomo, un potere che poi è diventato sovraordinato addirittura a quello delle istituzioni politiche democratiche». Così le banche centrali hanno tradito il loro mandato: «Dovevano invece, in ultima istanza, rispondere alle esigenze dei popoli sovrani». Rivendicare un ritorno alla lira? Inutile, se poi la moneta nazionale non viene gestita in termini democratici. Magaldi ricorda «il famigerato divorzio tra Bankitalia e ministero del Tesoro del 1981, favorito dai massoni Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, che agivano per conto di circuiti massonici non progressisti bensì neo-aristocratici». Quello strappo determinò già negli anni ‘80 «un aggravio enorme per le casse dello Stato, in termini di interessi sul debito pubblico», visto che la banca centrale «smetteva, in fondo, di garantire l’acquisto dei titoli di Stato italiani». Già quello, osserva Magaldi, era un modo per mettere la lira in difficoltà.Quindi, più che tornare alla valuta nazionale, «bisognerebbe preoccuparsi di rendere l’euro una moneta che dipenda da un potere politico democraticamente legittimato». E cioè: bisogna smettere di avere un euro «che viene gestito a discrezione della Bce, senza che nessun potere politico democraticamente legittimato possa intervenire». La Banca Cebntrale Europea? Lo sappiamo: «Pur essendo un istituto di diritto pubblico è proprietà anche di privati e risponde a logiche del tutto apolidi, sovranazionali, sganciate da qualunque livello politico democratico: questo è il problema. Finora, l’euro è stato governato da «quel funesto personaggio di Mario Draghi, che ha utilizzato la moneta europea per favorire sostanzialmente banche e interessi finanziari». Ha grandi colpe, il “venerabile” Draghi, spesso spacciato come paladino dell’Italia. Niente di più falso. Non c’era affatto il benessere del Balpaese, nella “mission” del super-tecnocrate di Francoforte, “regista” delle privatizzazioni italiane dall’epoca del Britannia, poi passato dal Tesoro a Bankitalia, alla Goldman Sachs, alla Bce. «Draghi non ha mai pensato di fare in modo che da questa moneta potesse venire un rilancio economico sociale del continente stesso. E allora, poi, si capisce perché la gente abbia vagheggiato il ritorno alla lira».La moneta, però, resta un mezzo. Il problema vero? E’ il timone politico: «Una Costituzione europea democratica, e un Parlamento Europeo che emani democraticamente un Consiglio dei ministri, mettendo fine a queste farlocche Commissioni Europee, che sono degli ibridi che non dicono nulla». Il vero obiettivo, chiarisce Magaldi, è un governo europeo finalmente legittimato dal voto popolare. Un euro-governo democratico, «che abbia il potere di indirizzare le strategie della Bce e di utilizzare la moneta euro a favore dei popoli, e non contro i popoli». Come arrivarci? Magaldi, nonostante tutto, si mostra fiducioso nelle piccole crepe che il governo gialloverde sta aprendo, nel Muro di Bruxelles. E saluta con favore il possibile avvento di Marcello Foa alla presidenza della Rai: «Non condivido alcune sue idee, ma mi risulta che sia un uomo libero: come presidente Rai sarebbe di gran lunga migliore dei suoi predecessori». Da giornalista indipendente, Foa è stato tra i primi a dare il benvenuto alla speranza gialloverde, intesa come possibile recupero di sovranità democratica. Tutto giusto, secondo Magaldi, a patto che si abbia ben chiaro il fatto che l’establishment italiano ha adottato gli stessi metodi dell’aborrita oligarchia europea: «Il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, si permette il lusso di dire che non bisogna sforare i parametri di spesa, del tutto irrazionali e vessatori, stabiliti dagli euro-burocrati. La Banca d’Italia che detta le regole al governo? Deve accadere esattamente il contrario».Sovranista a chi? Se accettate di lasciarvi chiamare in quel modo, fate un favore proprio a quei poteri oligarchici che vorreste combattere. Parola di Gioele Magaldi, che avverte: c’è un equivoco, “sovranismo” non è affatto sinonimo di “sovranità”. Che senso avrebbe, ad esempio, tornare alla lira, se la moneta nazionale fosse gestita nel modo sciagurato che fu introdotto nel 1981 dai massoni Ciampi e Andreatta ben prima dell’avvento dell’euro? Un avviso a Giorgia Meloni: va bene restituire dignità all’Italia, ma senza «nostalgie “conservatrici” per chissà quale buon tempo andato». L’ex guru di Trump, Steve Bannon? «Un personaggio folkloristico e anche simpatico», il promotore di “The Movement”, network che si propone di coordinare la carica “sovranista” alle prossime europee. Ma siamo sicuri che, dietro certe manovre, non ci sia lo zampino dei soliti noti? In fondo è comodo, il recinto del sovranismo. Molto più scomodo – e più utile per tutti – sarebbe invece costringere un oligarca come Mario Draghi a usare finalmente l’euro a beneficio del popolo, non delle banche. Se c’è una cosa di cui quell’establishment marcio ha davvero paura, sottolinea Magaldi, non è l’ambiguo sovranismo, ma la cara, vecchia sovranità democratica: che pure avevamo, e che ci è stata confiscata dall’élite neoliberista, dominata dai massoni neo-aristocratici che negli ultimi trent’anni hanno cancellato l’idea stessa di Europa unita.
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La rivoluzione gialloverde si ferma alla rissa interna sul 2%
«Non ci impiccheremo agli zero virgola», dice Matteo Salvini. Eppure, sottolinea Stefano Cingolani, editorialista del “Foglio”, si litigherà fino all’ultimo proprio sulle virgole e sui decimali. Il disavanzo pubblico, ad esempio: sarà l’1,6% del Pil, come vuole Giovanni Tria, o attorno al 2% come preferisce Salvini? O addirittura del 2,6%, come spera Luigi Di Maio? «Stando a Giancarlo Giorgetti, plenipotenziario della Lega, saranno rispettati i vincoli europei, quindi non verrà sfondata la barriera del 2%». Il ministro dell’economia sa che dovrà mediare, osserva Cingolani sul “Sussidiario”, ma gioca al ribasso dando retta a Mario Draghi. E cominciano le scommesse: se anche si fermasse sotto il 2%, la spesa 2019 sarebbe «più del doppio rispetto a quello che aveva scritto Pier Carlo Padoan nel Documento di economia e finanza presentato a primavera, prima delle elezioni». La situazione non è allegra: Istat e Ocse dicono che il tasso di crescita frena, 1,2% per il 2018 e poco più dell’1% l’anno prossimo. Peggiora anche il rappoto deficit-Pil: «Il deficit tendenziale previsto nel Def di Padoan per quest’anno è pari allo 0,8% nel 2019, ma il ministro Tria ha indicato che per il 2019 è già all’1,2%, mentre il debito quest’anno migliorerà solo dello 0,1%. E l’aggiornamento del Def non potrà che accettare il ribasso della crescita». Da qui le tensioni nell’alleanza gialloverde, che potrebbero spingere Salvini a rompere con Di Maio?
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Savona all’Ue: più deficit salva-Stati e una Bce anti-spread
O l’Eurozona diventa una vera unione monetaria, con la Bce che garantisce sempre e comunque i debiti degli Stati membri, o la valuta comune rischia il collasso. Accusato di voler uscire dall’euro per l’aver sottolineato la necessità di una “exit strategy” qualora si materializzi lo scenario peggiore, il ministro agli affari europei ci tiene a chiarire una volta per tutte che la sua nomea di euroscettico è una distorsione e che, anzi, per lui «la moneta unica è indispensabile per il buon funzionamento di un mercato unico». Ma perché l’euro sopravviva, l’Europa deve cambiarne il funzionamento, traendo le opportune lezioni dal disastro greco. È questo il famoso “piano A” di Paolo Savona, che ha inviato a Bruxelles un documento dal titolo “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”. Politeia, termine che in greco antico indica la comunità di cittadini e il suo legame con lo Stato, non le pure e semplici istituzioni o le norme che esse applicano. Una parola scelta non a caso, per sottolineare la necessità di rinsaldare quel legame tra politica comunitaria e società che in questi anni si è lacerato fino a innescare un risorgere dei nazionalismi. Ma cosa significa in concreto?Savona, spiega “Milano Finanza”, chiede di «istituire un gruppo di lavoro ad alto livello, composto dai rappresentanti degli Stati membri, del Parlamento e della Commissione, che esamini la rispondenza dell’architettura istituzionale europea vigente e della politica economica con gli obiettivi di crescita nella stabilità e di piena occupazione esplicitamente previsti nei trattati», con lo scopo di «sottoporre al Consiglio Europeo, prima delle prossime elezioni, suggerimenti utili a perseguire il bene comune». Savona ha già le idee chiare sui mutamenti necessari. Bce prestatore di ultima istanza: «I divieti posti alla Bce di muoversi in aiuto degli Stati hanno creato condizioni favorevoli alla speculazione, che ha imperversato anche quando questi Stati si comportavano secondo gli impegni. Hanno fatto gravare sulle loro economie costi aggiuntivi in termini di interessi sul debito pubblico e sul credito. Se i poteri di intervento della Bce contro la speculazione fossero veramente pieni, gli spread tra rendimenti dei titoli sovrani si dovrebbero azzerare». Savona vuole in sostanza una banca centrale che, come ogni altra omologa a partire dalla Fed americana, abbia il potere illimitato di garantire il debito delle nazioni, evitando differenziali del costo del debito tra paesi che condividono la stessa valuta.Tetto del deficit non più fisso: «Le regole dei disavanzi pubblici non hanno previsto alcuna correzione strutturale delle bilance dei pagamenti correnti, privando il sistema europeo di una rilevante componente di domanda e aggravando la tendenza alla deflazione. Servono investimenti pubblici consistenti, a livello di Unione e di singoli Stati, rispettando una sola regola aurea: la percentuale di disavanzo del bilancio non deve essere superiore al saggio di crescita nominale del Pil che ne risulta». In sostanza, il tetto del massimo rapporto stabilito tra deficit e Pil non dovrà essere fissato al 3% ma oscillerà a seconda della crescita dell’economia. Ma se i paesi più virtuosi temessero così di dover pagare per chi sfora? «Esistono le soluzioni tecniche per garantire che ciò non avvenga. Si tratta di attivarle in pratica effettuando scelte politiche, come quella di concordare un piano di rimborsi a lunghissima scadenza e ai tassi ufficiali praticati, fornendo una garanzia alla Bce fino al rientro nel parametro del 60% rispetto al Pil, in contropartita di una ipoteca sul gettito fiscale futuro o di proprietà pubbliche in caso di mancato rimborso di una o più rate. Ovviamente tra le clausole di un siffatto accordo vi sarebbe anche quella che il disavanzo di bilancio pubblico si collochi in modo dinamico entro la regola indicata di coerenza rispetto al saggio di crescita nominale del Pil e quindi non comporti un nuovo superamento del rapporto debito pubblico/Pil».(“Savona ha presentato all’Europa il suo Piano-A”, dal sito dell’agenzia di stampa Agi; post editato il 13 settembre 2018).O l’Eurozona diventa una vera unione monetaria, con la Bce che garantisce sempre e comunque i debiti degli Stati membri, o la valuta comune rischia il collasso. Accusato di voler uscire dall’euro per l’aver sottolineato la necessità di una “exit strategy” qualora si materializzi lo scenario peggiore, il ministro agli affari europei ci tiene a chiarire una volta per tutte che la sua nomea di euroscettico è una distorsione e che, anzi, per lui «la moneta unica è indispensabile per il buon funzionamento di un mercato unico». Ma perché l’euro sopravviva, l’Europa deve cambiarne il funzionamento, traendo le opportune lezioni dal disastro greco. È questo il famoso “piano A” di Paolo Savona, che ha inviato a Bruxelles un documento dal titolo “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”. Politeia, termine che in greco antico indica la comunità di cittadini e il suo legame con lo Stato, non le pure e semplici istituzioni o le norme che esse applicano. Una parola scelta non a caso, per sottolineare la necessità di rinsaldare quel legame tra politica comunitaria e società che in questi anni si è lacerato fino a innescare un risorgere dei nazionalismi. Ma cosa significa in concreto?
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Magaldi: i gialloverdi scelgano, Tria (e Draghi) o gli italiani
«Il massone Giovanni Tria scelga chi servire: il popolo italiano o l’élite neoliberista incarnata dal pessimo Mario Draghi, il demolitore dell’Italia, che ora si complimenta con lui». Non usa mezzi termini, Gioele Magaldi, nel sollecitare il governo gialloverde a diffidare dall’atteggiamento “frenante” del ministro dell’economia: «I gialloverdi avevano promesso agli elettori reddito di cittadinanza, meno tasse e pensioni dignitose. Se non manterranno la parola data saranno loro a pagare, non certo Tria e le altre figure tecniche dell’esecutivo». Dove trovare le coperture? Semplice: occorre sfondare il famoso tetto di spesa del 3%, stabilito da Maastricht in modo ideologico, senza alcun fondamento economico-scientifico: più deficit significa far volare il Pil e creare lavoro. «Si tratta di smascherare Bruxelles e ingaggiare una dura battaglia, in Europa: solo l’Italia può farlo. E se Tria “frena”, preferendo ascoltare Draghi, Visco e Mattarella, allora è meglio che Salvini e Di Maio lo licenzino, perché a pagare il conto alla fine saranno loro, per la gioia del redivivo Renzi, che infatti già accusa il governo gialloverde di parlare molto e combinare poco». La ricetta di Magaldi? «Non temere il ricatto dello spread e sfoderare con l’Unione Europea, per il bilancio 2019, la stessa fierezza mostrata da Salvini nel denunciare l’ipocrisia dell’Ue che lascia ricadere solo sull’Italia il problema degli sbarchi di migranti».
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Magaldi al “fratello” Tria: con Draghi, finirete come Renzi
Non crediate di prendere in giro gli italiani: avete visto quanto ci ha messo, il prode Renzi, a passare dal 40% allo zero assoluto? Messaggio che Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt nonché massone progressista (Grande Oriente Democratico) rivolge proprio a quelle figure di garanzia, inserite nel governo gialloverde con una missione precisa: rompere, dopo tanti anni, la penosa consuetudine della sottomissione a Bruxelles. Qualcuno sta venendo meno agli impegni? Il primo indiziato è il professor Giovanni Tria, titolare del ministero dell’economia in virtù di «quell’incredibile attentato alla Costituzione che fu il “niet” proposto da Mattarella rispetto all’incarico a Paolo Savona». Ebbene, da oggi Magaldi lo chiama “il fratello Tria”, rivelando pubblicamente la sua identità massonica, per di più dichiaratamente “progressista”. Il problema? Molte chiacchiere, sin qui, ma pochi fatti. Peggio: insieme al ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi, «già massone neo-aristocratico “di rito montiano”, poi apertosi all’impegno progressista», proprio Tria – alle prese con il delicatissimo bilancio 2019 – ha appena ricevuto il più scomodo degli endorsement, quello di Mario Draghi: essere “promossi” da Draghi, scandisce Magaldi, è un “premio” che nessun governante sinceramente democratico può permettersi, in quest’Europa impoverita dall’élite neoliberista e messa alla frusta proprio dalla Bce.Se c’è uno che davvero non può permettersi di dare “pagelle” a nessuno, questi è proprio il “fratello” Mario Draghi, dichiara Magaldi in web-streaming su YouTube con Marco Moiso, già coordinatore del Movimento Roosevelt: la Bce ha finora fatto esattamente il contrario di quello che sarebbe servito, per risollevare l’economia europea. Le è stato complice il Fondo Monetario guidato dalla “sorella” Christine Lagarde, «libera muratrice anch’essa contro-iniziata e neo-aristocratica». Non stupisce che oggi si parli di un clamoroso scambio di poltrone, da scongiurare in ogni modo: la Lagarde alla Bce, e Draghi “promosso” al Fmi. E perché mai? «Quale premio andrebbe dato a una banca centrale che ha lasciato che tutti i buoi uscissero dalla stalla, durante la crisi del 2011, consentendo allo spread di innalzarsi per poter poi commissariare i governi?». La banca centrale europea, aggiunge Magaldi, si è limitata a intervenire a cose fatte, «facendo il minimo indispensabile». E cioè: «Ha elargito denari al sistema bancario per propiziare l’acquisto dei titoli di Stato in modo da tener basso lo spread, ma al sistema produttivo reale non è arrivato nemmeno un euro: una situazione davvero verminosa». Ecco perché c’è da preoccuparsi – e molto – se il presidente della Bce oggi si spertica in elogi per il nostro ministro dell’economia, proprio mentre Tria sta approntando la legge di bilancio, intenzionato a mantenere la spesa pubblica (ancora una volta) ben al di sotto del minimo vitale, in ossequio ai signori di Bruxelles, Berlino e Francoforte.Magaldi, con Tria, non va per il sottile: caro ministro, il tempo della pazienza è scaduto. Ora dimostri di mantenere gli impegni presi, o il consenso al governo “gialloverde”, oggi ancora robusto, potrebbe scemare alla velocità della luce. «Abbiamo sostenuto l’esecutivo e lo sosterremo ancora – premette Magaldi – anche difendendo Salvini dalla demonizzazione di cui è vittima. Ma, a parte il legittimo scatto di dignità sul problema immigrazione (che poi richiederà anche una “pars construens”, per aiutare comunque quell’umanità che è migrante perché è sofferente), dal loro governo gli italiani si aspettano ben di più». Ovvero: fatti concreti per rianimare l’economia, come promesso, allentando la tassazione e introducendo misure espansive – che non potranno che dispiacere, ai signori della Disunione Europea. Dunque, stando così se cose, se invece Draghi fa i complimenti al governo italiano significa che c’è qualcosa che non va. Lo osserva il “rooseveltiano” Egidio Rangone, neo-responsabile del dipartimento economia (settore supervisionato da Nino Galloni, vicepresidente del movimento). Le perplessità di Rangone sono le stesse di Luciano Barra Caracciolo, sottosegretario agli affari europei: come si permette, il signor Draghi, di dare i voti all’Italia, quando nessun governo democraticamente legittimato può osare aprir bocca sull’operato della Bce?Giustamente, dice Magaldi, ci si domanda come mai la Bce possa continuare a essere «una specie di santuario su cui la politica non deve mai mettere le mani, secondo il paradigma neoliberista che governa questa Europa (speriamo ancora per poco)». La banca centrale europea, infatti, «non è controllata da nessuno: nessuno ne deve parlare, bisogna solo “ammaestrarsi” ai suoi giudizi». Non sorprende – e invece dovrebbe – il fatto che Draghi dia i voti ai ministri. Tanto peggio, se i voti sono buoni. E peggio ancora se a essere “promosso” è Giovanni Tria. Avverte Magaldi: «E’ giunto il momento di sciogliere alcune questioni riguardanti l’ambiguità, l’ambivalenza dell’operato del ministro Tria, che finora ho voluto interpretare in modo benevolo». Il punto è questo: «Inquieta non poco la lode che Mario Draghi fa al “fratello” massone Tria, visto che Tria era entrato in questo governo per rassicurare sul cambiamento annuncuiato». Doveva garantire, Tria, che la linea del governo sarebbe stata critica, rispetto all’attuale gestione Ue, nonostante il più che irrituale siluramento di Savona, da parte di Mattarella.Se il delicatissimo dicastero economico, anziché all’ex ministro di Ciampi, alla fine è stato dato «al massone sedicente progressista Tria», è proprio perché il professore, «nell’interpretazione benevola che ne abbiamo voluto dare sin qui», avrebbe dovuto magari «giocare di rassicurazione in rassicurazione», per poi però effettivamente «essere parte integrante di un lavoro di rinnovamento, nei rapporti tra la gestione dell’economia italiana e gli stralunati, strumentali e pidocchiosi atteggiamenti delle sedicenti istituzioni europee rispetto alla gestione del bilancio». Il “fratello” Tria, aggiunge Magadi, si era solennemente impegnato a guidare l’economia italiana con lungimiranza, «e quindi in modo opposto rispetto a quella che è stata la bussola nei governi almeno da Mario Monti in poi – ma potremmo parlare di un venticinquennio intero di paradigma dell’austerity, naturalmente con vicende diverse, che fino al 2011 avevano reso meno percepibile quello che si andava comunque costruendo, anche in termini di crisi italiana – già ben presente, sia pure in modo strisciante». C’è di che preoccuparsi, dunque, se oggi Draghi dice “bravo” a Moavero Milanesi, «massone accredidatosi come “convertito” a una visione massonica progressista e a una visione politica di rinnovamento democratico, e proprio per questo inserito nell’attuale governo».A maggior ragione, preoccupa il fatto che Draghi “promuova” Tria, cervello economico di un governo che ha promesso Flat Tax, reddito di cittadinanza e riforma della legge Fornero sulle pensioni, ma finora si è limitato alle chiacchiere, confidando – in modo imprudente – su sondaggi che danno la Lega sopra il 30% dei suffragi. Attenzione, sottolinea Magaldi: «Questo consenso è basato su un investimento per il futuro, proprio come il consenso di cui aveva goduto a suo tempo Matteo Renzi: dunque non ci si inebri, del consenso. E’ una sorta di cambiale, che richiede risultati precisi: ma di fatti, per ora, se ne sono visti pochi». Un avvertimento esplicito: «Il popolo potrebbe bocciare rapidamente il governo gialloverde, così come ha bocciato severamente centrodestra e centrosinistra, che per anni hanno giocato a prendere per i fondelli gli interessi degli italiani, simulando un’alternanza che non esisteva – perché c’era un consociativismo permanente, per cui la rotta economica in tutti i temi politici nevralgici era decisa altrove e solo eseguita, in modo pedissequo e bovino, da coloro che hanno occupato le istituzioni soprattutto per fare i propri affari». Ebbene: se Lega e M5S continuano soltanto a chiacchierare, l’esecutivo Conte non può illudersi di andare lontano.Magaldi avvisa: il Movimento Roosevelt (in pieno rilancio) non starà alla finestra: produrrà idee e critiche, anche attraverso iniziative editoriali ormai in cantiere, senza rinunciare all’idea di contribuire a creare un “partito che serve all’Italia”, «o per aiutare il governo attuale, che sembra zoppicare, balbettare e cincischiare molto ma produrre poco, o per sostituirsi ad esso nel portare avanti un testimone politico importante». Per Magaldi – non da oggi – il ruolo del nostro paese è decisivo: «Ormai lo si è capito, e l’avevamo detto tanti anni fa: dall’Italia può venire il cambiamento. Se non viene dall’Italia non verrà da nessun’altra parte. Quindi c’è una ragione storica. E francamente c’è ancora troppa moderazione e troppa subalternità, narrativa e ideologica, rispetto a ciò che dicono da Bruxelles e da Francoforte». Quanto a Draghi, già allievo post-keynesiano del grande Federico Caffè ma poi convertitosi al peggiore neoliberismo (privatizzazioni selvagge e svendita dell’Italia), Magaldi ha fornito un inquietante profilo nel volume “Massoni”, uscito per Chiarelettere nel 2014. Il presidente della Bce milita in ben 5 superlogge sovranazionali del massimo potere neo-aristocratico: si tratta delle Ur-Lodge reazionarie “Three Eyes”, “Edmund Burke”, “Pan-Europa”, “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”e “Der Ring”.Queste strutture-ombra, rivela Magaldi, sono a capo dell’architettura che ha ridisegnato il mondo in modo autoritario, a partire dall’Ue, attraverso una globalizzazione a senso unico, che ha spolpato le classi medie piegando gli Stati alla “teologia” del rigore, demonizzando il deficit – cioè la leva strategica su cui si erano fondati i decenni del benessere diffuso. A Giovanni Tria dovrebbe guardare con estrema diffidenza un super-tecnocrate e supermassone reazionario come Draghi, direttore del Tesoro all’epoca del Britannia, poi promosso a Bankitalia, quindi stratega della Goldman Sachs nell’operazione-Grecia e infine “imperatore” della Bce. Che c’azzecca, Draghi, col governo gialloverde? «Questo personaggio – dice Magaldi – è davvero meritevole di rispetto e stima per la qualità della sua contro-iniziazione», espressione che nel linguaggio massonico significa: tradimento dell’impegno a lavorare per il bene della società. «Mario Draghi è davvero un brillante esempio di contro-iniziazione, sul piano massonico, e di declinazione perfetta della post-democrazia sul piano politico “profano”. E ora, con queste sue pagelle, lui che non vuole essere giudicato da nessuno, si permette di spiegare quello che deve o non deve fare il governo sovrano dell’Italia».Non staremo certo con le mani in mano, ribadisce Magaldi: «Quindi si prepari, Tria, perché sarà messo sotto esame, com’è giusto che sia, dall’opinione pubblica, inclusi i movimenti come il nostro». Non solo: «Tria sarà messo sotto osservazione dai “confratelli” progressisti cui aveva giurato di voler offrire un contributo importante per un rinnovamento democratico dell’Italia. E saranno valutati severamente, come sempre, anche personaggi come Draghi che – davvero – non perdono né il pelo né il vizio». Aggiunge Magaldi: «Tanto per non essere ambigui: come presidente del Movimento Roosevelt sto dando un avvertimento chiaro, al governo gialloverde. Abbiamo sostenuto l’alleanza e siamo vicini ad alcuni di loro – non a quelli che si gingillano in ipocrite massonofobie: il Consiglio dei ministri è pieno zeppo di massoni, tutti sedicenti progressisti. Ma qualcuno, a questo punto – ipotizza Magaldi – potrebbe rivelarsi “l’amico del Giaguaro”», una quinta colonna del potere neoliberista che ha colonizzato le istituzioni europee. Beninteso: «Nel governo non ci sono solo persone che stanno operando in senso ambivalente o sterile, ci sono anche presenze che si confermano positive. Ma il problema – conclude Magaldi – è che il dicastero dell’economia è affidato al “fratello” Tria, al quale è richiesto di gettare via ogni ambivalenza e di procedere in modo tale da non ricevere la lode di Mario Draghi: e la lode di Draghi è un sigillo che nessun serio governante che abbia a cuore il benessere dell’Italia può permettersi di ricevere».Non crediate di prendere in giro gli italiani: avete visto quanto ci ha messo, il prode Renzi, a passare dal 40% allo zero assoluto? Messaggio che Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt nonché massone progressista (Grande Oriente Democratico) rivolge proprio a quelle figure di garanzia che sono state inserite nel governo gialloverde con una missione precisa: rompere, dopo tanti anni, la penosa consuetudine della sottomissione a Bruxelles. Qualcuno sta venendo meno agli impegni? Il primo indiziato è il professor Giovanni Tria, titolare del ministero dell’economia in virtù di «quell’incredibile attentato alla Costituzione che fu il “niet” proposto da Mattarella rispetto all’incarico a Paolo Savona». Ebbene, da oggi Magaldi lo chiama “il fratello Tria”, rivelando pubblicamente la sua identità massonica, per di più dichiaratamente “progressista”. Il problema? Molte chiacchiere, sin qui, ma pochi fatti. Peggio: insieme al ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi, «già massone neo-aristocratico “di rito montiano”, poi apertosi all’impegno progressista», proprio Tria – alle prese con il delicatissimo bilancio 2019 – ha appena ricevuto il più scomodo degli endorsement, quello di Mario Draghi: essere “promossi” da Draghi, scandisce Magaldi, è un “premio” che nessun governante sinceramente democratico può permettersi, in quest’Europa impoverita dall’élite neoliberista e messa alla frusta proprio dalla Bce.
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Il volto della nuova élite che pilota il populismo gialloverde
Ha tardato a fare il suo ingresso nel dibattito politico, ma ce la siamo trovata tra i denti senza accorgercene. È la parola “élite”, un termine impolverato, annacquato, dal sapore un po’ retro. Eppure ad oggi sono sempre di più gli operatori e i cronisti del mondo della politica che ne fanno uso. Si sente infatti parlare di una crisi delle élites. Ma prima di parlare della loro crisi, è bene parlare di questo concetto ambiguo, soggetto a molteplici interpretazioni e in cui si intersecano diversi piani di significato. Noi ci limiteremo a darne una definizione elementare: una ristretta cerchia di persone che detiene la maggior quantità di risorse intellettuali, economiche, politiche e simboliche esistenti. Ci basti dire, parafrasando Gaetano Mosca, che un’élite è quella minoranza organizzata che esercita il suo potere sulla maggioranza disorganizzata. Sono coloro che occupano le posizioni rilevanti di una struttura sociale e politica, meritatamente o immeritatamente. Secondo Pareto, le élites, in ogni epoca, possono formarsi, estinguersi, rinnovarsi o circolare, e tutto il decorso storico è un succedersi di conflitti tra diverse élites per la conquista del potere. Anche noi abbiamo assistito, in questi ultimi anni, a partire dalla crisi del 2008, a una serie di scontri ai vertici politici del paese tra diverse élites.Pensiamo a quel novembre del 2011, in cui la destituzione di Berlusconi e l’insediamento di Monti alla presidenza del Consiglio segnarono la vittoria dell’élite tecnocratica, loden, austerity, Bruxelles e rigorismo, sull’élite berlusconiana – élite imprenditoriale, delle telecomunicazioni, del porno-divertentismo. Questa élite antipolitica («meno tasse per tutti») a sua volta aveva guerreggiato con l’élite post-comunista che dal Pci era approdata fino al Pd (passando per Psd e Ds), un’élite politica (con le sue scuole di formazione, la sua gavetta interna). Poi avvenne un altro scontro. Il Commissario Monti, e il suo successore Letta, fronteggiarono una nuova élite, diversa dalle precedenti. Si tratta di una banda di ruba galline proveniente da Firenze e dintorni: è il giglio magico (Carrai, Lotti, Boschi&family), è il dream team renziano. Dopo il loden, il risvoltino. La parola magica per spaccare la vecchia egemonia socialdemocratica (D’Alema, Prodi, Bersani) è quella di “rottamazione”.Ecco che questa élite di estrazione provinciale (spregiudicata, trasformista, ignorante, legata a banche di credito e a cooperative) ha sfruttato la debolezza della vecchia politica dei partitocrati, degli imprenditori e dei tecnocrati, a suon di un populismo che Revelli ha giustamente definito “ibrido”, dall’alto, né identitario né indignato, e crollato su se stesso perché incapace di sanare le sue contraddizioni interne: obbligato a giostrarsi tra le richieste di Draghi, la vecchia guardia del Pd, l’elettorato e il patto del Nazareno, tra le promesse fatte in sede europea e il calo dei consensi in casa propria. Le élites, come abbiamo visto, sono diverse fra loro, adottano formule, discorsi, narrazioni diverse. Ma perché oggi tutta quella élite che possiamo riconoscere nell’establishment politico è in crisi? Ce lo spiegava con anticipo qualche anno fa un sociologo americano, Christopher Lasch, nel suo saggio, “La ribellione dell’élite”. Lasch, sulla falsariga di Pareto, aveva intuito che un’élite, nel momento in cui si allontana oltremodo dalla collettività e dal territorio di cui dovrebbe difendere gli interessi, soffre una crisi di legittimità.Questa élite, spesso infiacchita dai privilegi e dagli onori, finisce per perdere le virtù civiche, per avere inclinazioni cosmopolite, atteggiamenti snobistici, e al buonsenso sostituisce un discorso sofisticato, subendo così l’«invasione di sentimenti umanitari e di morbosa sensibilità» (Pareto) di cui il popolo non sente il bisogno concreto. Perde quindi quella facoltà di dominare le formule vincenti e quella di individuare un nemico, entrambi fattori che determinano il suo consenso tra la popolazione. Ecco che, inversamente a questa crisi, abbiamo vissuto l’ascesa del fenomeno populista – utilizziamo il termine in un’accezione neutra – coronato dal suo successo elettorale, e quindi conclusosi con la sua istituzionalizzazione. Quindi al momento in Italia la situazione è paradossale. C’è un élite senza popolo (e perciò in declino) che adotta pose populiste per recuperare i consensi perduti – si veda l’atteggiamento di tutti i partiti tradizionali nei confronti del nuovo governo, e insieme tutta la parabola renziana (inaugurata da un monito che se si fosse realizzato sarebbe risultato imprudente: «La mia scorta sarà la gente») contraltare dell’antipolitica berlusconiana e ultimo canto del cigno di una sinistra incapace di sintetizzare il malessere del paese.Poi abbiamo, dall’altro lato, un populismo che ha fondato la sua vittoria ideologica nella lotta contro l’élite politica e finanziaria e adesso si vede costretto a cercare le sue élite di governo proprio tra quella élite politica e finanziaria – si pensi alla scelta di Conte a premier, di Savona e poi di Tria all’economia, dell’ex montiano e atlantista Moavero Milanesi alla Farnesina. Come è possibile che da due entità populiste, le più populiste che l’Italia abbia conosciuto, sia venuto fuori il più tecnico dei governi politici? Questo elemento deve portarci a riflettere sulle contraddizioni del populismo. Può, un populismo che ha fatto protesta contro le élites, farsi istituzione senza diventare élite a sua volta? Senza élites la politica è impraticabile, perché la politica è gestione del potere, e il potere non è equamente divisibile, quindi, dobbiamo ammettere che anche il populismo gialloverde, nonostante abbia fondato la sua mitopoiesi sulla lotta contro le élites – la casta per i grillini, l’oligarchia europea per la Lega – rientra nel discorso di Pareto e di Michels: «Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia».Perciò, ci sembra chiaro, noi non stiamo assistendo a nessuna rivoluzione, a nessun cambiamento nello schema classico della circolazione delle élite. Tuttavia, dobbiamo notare le novità apportate dalle modalità populiste di conquista del potere, ossia negando, o occultando, la propria impostazione, fatalmente elitaria. Si legga quanto veniva scritto sul Blog di Beppe Grillo nel 2013: «Il MoVimento 5 stelle è un movimento senza. Senza contributi pubblici, senza sedi; senza strutture; senza giornali; senza televisioni; senza candidati pregiudicati; […] senza compromessi; senza inciuci; senza leader; senza politici di professione; […] senza ideologie; […] senza banche». Il M5S ha fatto di una pletora di giovani disoccupati la sua classe dirigente dall’oggi al domani. Privi di qualsiasi formazione politica, imbevuti di un corso accelerato di democrazia diretta, gli eletti dei Cinque Stelle ragionano con quelle 4 o 5 linee guida ricavate dal mito dell’onestà, dalla lotta alla casta e altre menate urlate da un capo carismatico Grillo, teorizzate da un capo occulto, Casaleggio, con una sana ma ridotta spruzzata di massimofinismo.Il M5S tuttavia nasce tra diversi chiaroscuri, ed effettivamente il suo non è solo populismo, non è solo adesione incondizionata alle istanze provenienti dalla sempre tirata in ballo “base”, non c’è solo l’interpretazione e la politicizzazione degli umori diffusi tra la popolazione, nel M5S c’è un sostrato ideologico architettato da un’élite che Pareto avrebbe annoverato tra le “élite non di governo”, quella della Casaleggio Associati, che ai temi cari al populismo tenta di conciliare in una versione New Age e un po’ strampalata – pensiamo al video Gaia – alcuni temi del neoliberismo (la smartnation, l’universalismo, la governance globale). Non sappiamo quanta influenza abbia sugli eletti del movimento, e non vogliamo scadere in dietrologie, ma ci sembra chiaro che, di fronte alle ambiguità elettorali della piattaforma di voto interna al movimento, di fronte allo scandalo delle esplusioni, anche il M5S non sia immune a una tendenza élitaria.La Lega ci offre invece un esempio di populismo per certi versi immacolato, intriso della retorica piccolo-borghese poujadista, dei toni provocatori del qualunquismo di Giannini, e nonostante le diverse esperienze di governo, è un partito ancora poco a suo agio all’interno delle istituzioni. La Lega infatti nasce come outsider della politica, è un partito arrembante, cresciuto anno dopo anno a Pontida, grazie alle abilità oratorie di un leader, Bossi, di una classe politica fuoriuscita dai margini dei partiti tradizionali, e di una classe amministrativa emanazione per lo più dalla piccola imprenditoria padana, un po’ parrocchiale, abituata a gestire la cosa pubblica come si fa con un’azienda agricola. Tuttavia anche la Lega pur rimanendo sempre affezionata ad una narrazione vernacolare, localistica, popolare, anti-élitista – ricordiamo Bossi che si reca nella villa di Berlusconi in canottiera, come per sottolineare la differenza tra lui, l’uomo qualunque, e l’arricchito prestato alla politica – rispetta, in quanto partito, la «legge ferra dell’oligarchia» di cui parlava Michels.Perciò, siamo tentati dal dire che il populismo come ideologia – la contrapposizione popolo/élites – è una truffa, o più semplicemente una strategia di conquista del potere che un’élite mette a frutto per ribaltare l’élite precedente e da forza di protesta diventare istituzione. La sua tattica è quella di dimostrarsi più sensibile nei confronti di un popolo di cui si impegna a sintetizzare meglio i discorsi, intuirne i problemi e le paure, origliarne i disagi, fino ad accaparrarsi il monopolio delle “formule” vincenti. Ma adesso che da movimento è diventato regime, vediamo la trasformazione (non priva di incognite) del populismo. Di fatto chi si scandalizza per l’inversione di rotta da parte dei grillini sulla questione dell’alleanza con Salvini, o sulla nomina di un premier non eletto dal popolo «è sempre banale: ma, aggiungo, è anche sempre male informato». Così come chi crede a quanto dice Steve Bannon, l’ex stratega di Donald Trump, ossia che «i Davos Man (le élite, NdR) hanno paura del populismo perché hanno paura che il potere arrivi al popolo. E che succeda quello che è successo in Italia» è un po’ ingenuo.Le élite possono aver paura di essere sostituite da altre élite, il che nella storia è avvenuto soltanto all’indomani di violente rivoluzioni, ma non dal popolo. Nella maggior parte dei casi, i meccanismi sono più complessi, e le nuove élites tendono ad essere assimilate. Il populismo, perciò, è stato gestito da un’élite che non era a-élitaria, ma solo nemica (e neanche troppo) delle élites precedenti, un’élite in via di formazione politica e ideologica che non sappiamo se stia facendo scouting tra altre élite da cooptare al suo interno per mantenere gli equilibri di potere con delle élite più forti (quelle sovranazionali, finanziarie, atlantiche) che ne possono determinare la caduta, oppure se stia venendo cooptata da queste ultime. Tutto il problema tempistico della scelta del governo è dipeso da questa contraddizione, dal difficile equilibrio tra i programmi della nuova élite populista nata dalle piazze e imbottita di protesta, ancora vicina al territorio, alle istanze e ai malumori del popolo, e i giochi di Palazzo in cui deve giostrarsi.La nostra fortuna, che è insieme la nostra disgrazia, è l’inadeguatezza di questa nuova élite, ancora inconsapevole di esserlo. Livellando il discorso verso il basso – privi di un laboratorio culturale, dotati solo di una leadership carismatica – questi populismi non hanno fatto altro che appaltare molta della propria elaborazione ideologica al popolo del web, a tante piccole realtà intellettuali – testate, blog, singoli influencer – che hanno animato il dibattito politico, hanno sabotato l’informazione mainstream, hanno diffuso notizie diverse tra la popolazione, hanno creato una narrazione alternativa dei fatti, e hanno anche inquinato molti temi, hanno diffuso rabbia, malcontento, frustrazione, confusione, hanno dato via libera a troll e fanatici, complottismi e dietrologie, analisti improvvisati, studenti impreparati, incompetenti di buona volontà, animatori nerd di pagine facebook che hanno agitato il basso ventre del web a suon di Meme, ma anche a tanti think thank preparati, professori universitari non allineati, giornalisti e reporter seri, associazioni che hanno fatto un buon lavoro culturale sul proprio territorio occupando quegli spazi disimpegnati dalle sedi di partito.Questa élite è ancora legata alla base da cui proviene, ed è perciò in una fase di assestamento. Non è un’élite da salotto, da club del golf, da circolo della caccia, non è un’élite ripiegata su sé stessa, chiusa, ma può dimostrarsi permeabile e sensibile a talune istanze popolari di cui si è fatta latrice. Eppure, se questa sostanziale inadeguatezza è il risultato di una politica nata dalla piazza, dalla protesta, e perciò davvero vicina agli appelli della cittadinanza, è sempre questa inadeguatezza – l’idea grillina di fare politica in base al criterio dell’onestà (criterio etico, ma non politico), le antinomie di una Lega identitaria ma liberista – che ha obbligato l’élite populista ad aggregare dei tecnici e dei membri dell’élite precedente nel proprio governo, e a fare una serie di compromessi che ne sconfessano, da subito, i motivi della propria elezione. Asseconda di come si risolverà questa contraddizione potremo giudicare l’operato di questa élite.Contraddizione che trabocca da ovunque, dalle dichiarazioni di Tria, per esempio, del prima e dopo G7, laddove inizialmente parlava di «un vasto programma di investimenti pubblici infrastrutturali attuato e finanziato in deficit senza creare un problema di sostenibilità dei debiti pubblici», oggi afferma che «non puntiamo al rilancio della crescita tramite deficit spending». A chi guarda l’attuale governo – a questo ibrido concentrato di socio-securitarismo, liberista in economia e conservatore nel costume, euroscettico senza essere sovranista, russofilo ma atlantista – con ottimismo, con la convinzione che abbia vinto il popolo, chi pensa a un governo del cambiamento, a tutti costoro consigliamo di rileggere Pareto, ma anche Tomasi di Lampedusa. A Freccero e Magris che fanno l’elogio del populismo, e che Pareto lo hanno letto bene e che di un’élite intellettuale fanno parte, chiediamo se abbiano già cominciato a circolare.(Lorenzo Vitelli, “Il volto elitario del populismo”, da “L’Intellettuale Dissidente” dell’11 giugno 2018).Ha tardato a fare il suo ingresso nel dibattito politico, ma ce la siamo trovata tra i denti senza accorgercene. È la parola “élite”, un termine impolverato, annacquato, dal sapore un po’ retro. Eppure ad oggi sono sempre di più gli operatori e i cronisti del mondo della politica che ne fanno uso. Si sente infatti parlare di una crisi delle élites. Ma prima di parlare della loro crisi, è bene parlare di questo concetto ambiguo, soggetto a molteplici interpretazioni e in cui si intersecano diversi piani di significato. Noi ci limiteremo a darne una definizione elementare: una ristretta cerchia di persone che detiene la maggior quantità di risorse intellettuali, economiche, politiche e simboliche esistenti. Ci basti dire, parafrasando Gaetano Mosca, che un’élite è quella minoranza organizzata che esercita il suo potere sulla maggioranza disorganizzata. Sono coloro che occupano le posizioni rilevanti di una struttura sociale e politica, meritatamente o immeritatamente. Secondo Pareto, le élites, in ogni epoca, possono formarsi, estinguersi, rinnovarsi o circolare, e tutto il decorso storico è un succedersi di conflitti tra diverse élites per la conquista del potere. Anche noi abbiamo assistito, in questi ultimi anni, a partire dalla crisi del 2008, a una serie di scontri ai vertici politici del paese tra diverse élites.
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Ma gli italiani stanno con Salvini: pensano di essere capiti
A chi vive da decenni tra i sindaci leghisti, nel mitico Nordest, fa sempre una certa impressione vedere gente commossa e che si spella le mani in quel di Viterbo per applaudire il leader della Lega Matteo Salvini. La scena del ministro degli interni che fatica a farsi largo tra uomini e donne che vogliono stringergli la mano è diventata virale sul “tubo”. Sia bene inteso: io vado matto per il vino “est est est” e ora come ora vorrei sguazzare tra le calde acque delle terme viterbesi piuttosto che trovarmi tra le zanzare del Prosecco, e dunque so bene che Viterbo non è il profondo sud. Ma fidatevi: le scene di giubilo in Lazio per un politico nell’Italia 2018 fanno sgranare gli occhi e alzare le orecchie. Neanche Churchill dopo aver vinto la seconda guerra mondiale era stato accolto così. Sul web le cose stanno diversamente. Tra le fila degli euroscettici e simpatizzanti del governo gialloverde ora c’è molta rabbia sui social, o almeno sarcasmo: il Def, cioè il documento che programma gli investimenti e le spese per il prossimo anno manterrà un deficit attorno al 2 per cento. Più o meno quel che faceva l’ex ministro delle finanze Padoan quando sedeva sullo scranno più alto di Via XX Settembre.Sotto il profilo degli investimenti e della redistribuzione della ricchezza, Padoan è come Tria. Conte è come Renzi. Lasciamo per carità da parte gli zero virgola: la felpa con la scritta “basta euro” di Salvini ce la ricordiamo tutti, e molti avevano trattenuto il fiato alla nascita del governo pur consapevoli che non si sarebbe fatta cadere la Ue (mancava un piano B), ma che con lo sforamento del deficit… forse, forse, qualche vantaggio per noi e una bella botta a Juncker sarebbero arrivati. E invece niente. Come mai allora Salvini viene accolto trionfante, ovunque vada? E, soprattutto, come mai il consenso ai gialloverdi non calerà affatto nei prosssimi mesi, nonostante una politica d’intervento economico piuttosto piatta? Qualche aficionado dice “perchè la strategia è di lungo respiro”, qualcun altro pensa con il cuore palpitante alla nomina tattica dell’antieuro Alberto Bagnai. Invece, i motivi del consenso sono ben altri. E che siano da lezione a tutti quelli che aspirano a prendere decisioni in questo paese, siano essi i postcomunisti alla Rizzo, Giulietto Chiesa con i filorussi, i piddini con le tette rifatte, quelli di CasaPound o i sovranisti dell’Fsi.Un paese si conquista solo se ne viene conquistato prima il cuore, il senso di appartenenza e di identità. Se la mettano in tasca gli avventisti del marxismo 3.0: Fidel Castro ha vinto la sua battaglia perchè urlava “o patria o muerte”, e non perchè aveva previsto la caduta tendenziale del saggio di profitto. Ma non lo sto dicendo in senso tattico, dispregiativo, o proccupato. Anzi: il senso di appartenenza e di indentità – i simboli – sono tra le cose più importanti della vita di un uomo. Non riesco a pensare ad una evoluzione dell’umanità senza i simboli (posta la sussistenza materiale alla base, ovviamente). Salvini sta fornendo i simboli che gli italiani cercavano. Ogni pensiero che formuliamo dentro di noi ha un aspetto cognitivo, ma anche e regolarmente un aspetto affettivo ed emotivo. Ogni idea è anche una rappresentazione. Le idee di una persona possono essere giuste o sbagliate, vere o false, confortevoli per noi oppure no, ma sono le idee di quella persona, e gli “servono” per sopravvivere. Sono i chiodi ai quali egli è attaccato, come l’alpinista in montagna quando percorre l’alta via con le corde ed i ramponi. Senza quei chiodi, cade.Certe volte, quelle idee ci danneggiano, e allora è giusto che proviamo a sradicarle con tutte le nostre forze. Come nel mito della caverna di Platone, le cose che contemplavano gli uomini erano immagini false, e giustamente il filosofo tentava di mostrare la verità contro la menzogna e le false illusioni. Però c’è anche il caso che le idee, i chiodi degli uomini, non ci danneggino affatto, che siano un dono per noi e costituiscano quella che viene chiamata tradizione. Le tradizioni non vanno sempre cancellate, ad esse vanno semmai aggiunte altre “cose” e altre “idee”, ma non vanno sempre e comunque buttate via. Le tradizioni sono, in fondo, il dono che ci hanno lasciato quelli che sono venuti prima di noi. Dunque, prima di buttare via le tradizioni (cosa senz’altro necesssaria, talvolta) occorre riflettere bene se è il caso di farlo: magari sono un’eredità ben più ricca di quanto noi stessi abbiamo saputo accumulare.Nel caso italiano, una parte interessante della tradizione che abbiamo ereditato consiste nella lingua, nella varietà impressionante di manufatti ed espressioni artistiche, cibi e architetture. Inoltre, c’è lo spirito inventivo, dato dalla fantasia. Una fantasia ed un’inventiva che gli stranieri ci hanno sempre riconosciuto e che ci invidiano. La lista sarebbe lunga. Anche la religione cattolica compare nella lista delle cose a cui gli italiani tengono, anche se atei, ed anche se non è in cima alla lista. Si può camminare per una strada di una città come Roma, o Palermo, o Venezia, o persino Gallarate, senza capire nulla di cristianità occidentale? Si che si può, ma allora non sei un italiano. Essere italiani è una condizione che esiste e che capiamo cosa significa quando usciamo al di fuori dei confini nazionali. C’è poco da fare. E’ così anche se non sappiamo spiegare che cos’è. Ma alla fin fine si tratta di simboli. Appartenenza e identità sono gli assi portanti della psiche umana.Le idee che abbiamo, noi le facciamo nostre, cioè le interiorizziamo, anche e soprattutto per appartenenza. E appartenenza significa affetto e sicurezza. Appartenenza significa famiglia; comunità. Siccome aveva ragione Aristotele, nel senso che gli uomini sono esseri per natura socievoli, appartenere a qualcosa significa restare vivi e dotati di senso. Non appartenere a nulla significa invece essere esclusi, cioè morti. Il fallimento del progetto Ue è dovuto proprio alla mancanza di questa creazione di simboli e l’assenza di tradizioni da ereditare. Che piaccia o no, Salvini (molto più di Gigetto Di Maio) questa cosa l’ha capita bene. Possono gli italiani cambiare idea per l’economia? Ma certo che si! L’ho detto prima: nell’uomo la materia non può che accompagnare lo spirito. Dobbiamo infatti sopravvivere per avere idee. Ma in economia oggi noi italiani non stiamo subendo evidenti scossoni. Qualche anno cresciamo, altri no: siamo un paese dallo zero virgola e faremo – economicamente – la fine della rana bollita. E’ troppo poco per un repentino cambio di consenso contro chi sa usare molto bene identità e appartenenza, come Matteo Salvini.(Massimo Bordin, “Salvini nella Tuscia: ecco perchè il suo consenso non calerà nonostante l’economia sia la stessa di Renzi”, dal blog “Micidial” del 6 settembre 2018).A chi vive da decenni tra i sindaci leghisti, nel mitico Nordest, fa sempre una certa impressione vedere gente commossa e che si spella le mani in quel di Viterbo per applaudire il leader della Lega Matteo Salvini. La scena del ministro degli interni che fatica a farsi largo tra uomini e donne che vogliono stringergli la mano è diventata virale sul “tubo”. Sia bene inteso: io vado matto per il vino “est est est” e ora come ora vorrei sguazzare tra le calde acque delle terme viterbesi piuttosto che trovarmi tra le zanzare del Prosecco, e dunque so bene che Viterbo non è il profondo sud. Ma fidatevi: le scene di giubilo in Lazio per un politico nell’Italia 2018 fanno sgranare gli occhi e alzare le orecchie. Neanche Churchill dopo aver vinto la seconda guerra mondiale era stato accolto così. Sul web le cose stanno diversamente. Tra le fila degli euroscettici e simpatizzanti del governo gialloverde ora c’è molta rabbia sui social, o almeno sarcasmo: il Def, cioè il documento che programma gli investimenti e le spese per il prossimo anno manterrà un deficit attorno al 2 per cento. Più o meno quel che faceva l’ex ministro delle finanze Padoan quando sedeva sullo scranno più alto di Via XX Settembre.
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Juncker, Barroso, Draghi, Selmayr: l’opaca superlobby Ue
Scarsa trasparenza dei processi decisionali, attività lobbistiche senza un vero controllo, porte girevoli, organi di garanzia e codici etici debolissimi e permeati da influenze politiche e del settore privato. Questi sono solo alcuni dei problemi di questa Europa denunciati dal Mediatore Europeo, quella figura che si occupa di monitorare che le istituzioni europee non inciampino nella cosiddetta “cattiva amministrazione”. E infatti, puntuale come un orologio, il report annuale dell’attività del Mediatore Europeo elenca le numerose gravi criticità che segnano il lavoro delle istituzioni europee e fotografa un’Europa che sembra allontanarsi sempre di più da ciò che doveva essere, la casa comune di tutti i cittadini europei. La Commissione Petizioni è l’unica commissione del Parlamento Europeo che ha il compito di analizzare il report del Mediatore e commentarlo. Quest’anno il compito è stato affidato al gruppo Efdd – Movimento 5 Stelle e, in quanto relatrice, ho cercato di dare ampio supporto all’importante e apprezzabile lavoro di indagine svolto nel 2017 dal Mediatore. Ecco il link al report. Abbiamo sottolineato alcune tra le problematiche più gravi che continuano a gravare sulle istituzioni europee: la scarsa trasparenza dei processi decisionali, le gravissime problematiche etiche che hanno coinvolto anche commissari europei in carica, l’ex presidente della Commissione Europea e l’attuale presidente della Bce.Poi, il quadro giuridico fortemente lacunoso nel prevenire e sanzionare la violazione del dovere di integrità, discrezione e piena indipendenza dall’influenza lobbistica posto in capo ai rappresentanti delle istituzioni Ue. Infine, il diniego di accesso ai documenti delle istituzioni Ue opposto ai cittadini, impedendo loro di esercitare appieno i propri diritti democratici. Su questi temi il Mediatore, al termine delle sue indagini, ha spesso avanzato rilievi critici e raccomandazioni costruttive alle istituzioni europee coinvolte, ma, purtroppo, le risposte sono state troppo spesso insoddisfacenti quando non deprecabili. Tutto questo proprio in un momento in cui l’Ue continua a precipitare in un abisso di discredito e sfiducia agli occhi dei propri cittadini, incapace di cambiare registro sul piano etico, economico e nel complesso politico. Il caso Selmayr è emblematico di come funziona male questa Europa. Questo super-burocrate tedesco è stato voluto da Jean-Claude Juncker col metodo che ormai conosciamo, tanto caro alla Commissione Europea: l’imposizione. Nessuna regola è stata rispettata e il Mediatore Europeo lo ammette, sconfessando di fatto la linea morbida del Parlamento Europeo.Noi eravamo stati gli unici con un emendamento a chiedere il tedesco Selmayr mettesse nero su bianco le sue dimissioni con effetto immediato. Questo per garantire alla successiva Commissione Europea la possibilità di sostituire il segretario generale secondo una procedura legale e più trasparente. Eloquente è il “caso Barroso”: al termine del suo mandato decennale di presidente della Commissione Europea, viene nominato presidente non-esecutivo e “advisor” della banca d’affari Goldman Sachs, tra le più implicate nello scoppio della crisi economica del 2008. La Mediatrice riscontrava all’epoca “cattiva amministrazione” da parte della Commissione Europea sulla gestione del caso. Il Comitato Etico, interno alla Commissione – evidentemente gravato da un deficit di indipendenza dal livello politico – concluse che non vi fossero elementi sufficienti per individuare una violazione di obblighi giuridici da parte di Barroso, tenendo semplicemente conto di una dichiarazione scritta di Barroso stesso nella quale affermava che non era stato ingaggiato da Goldman Sachs per svolgere attività di lobbying.Il 25 settembre 2017 si scopre, invece, che si è svolto un incontro tra Barroso e l’attuale vice-presidente della Commissione Europea, Katainen, registrato come incontro ufficiale con Goldman Sachs, la cui esatta natura, come indicato dalla stessa Mediatrice nella sua indagine, non è apparsa per nulla chiara, sottolineando le comprensibili preoccupazioni circa il fatto che l’ex presidente Barroso utilizzi il suo precedente status e i suoi contatti per esercitare la propria influenza ed ottenere informazioni, ovvero per svolgere attività di lobbying a vantaggio di Goldman Sachs. Altro caso emblematico del 2017 è quello del presidente della Banca Centrale Europea (Bce) e la sua adesione al cosiddetto “Gruppo dei 30”, un’organizzazione privata che annovera tra i membri i rappresentanti di banche sottoposte alla vigilanza diretta o indiretta della Bce. La Mediatrice in merito ha raccomandato al presidente della Bce di sospendere la propria adesione al Gruppo dei Trenta ma a tale richiesta le viene ancora oggi opposto un netto rifiuto a pregiudizio ulteriore dell’immagine di un’istituzione, quale la Bce, che dovrebbe non solo essere ma anche apparire integralmente indipendente da interessi finanziari privati.Sul fronte del processo decisionale a livello Ue, permane il grave deficit di trasparenza riscontrabile nei “triloghi”, ancora completamente inaccessibili al pubblico, nonché nelle procedure seguite in Consiglio, presso il quale continuano a non registrarsi le posizioni assunte dagli Stati membri sui file legislativi e si oppongono ripetuti rifiuti ai cittadini nell’accesso ai documenti. La Mediatrice nel 2017 non ha mancato di qualificare esplicitamente tali condotte da parte del Consiglio come espressione di “cattiva amministrazione”, cui ha fatto seguito nel 2018 la sua relazione speciale focalizzata sui complessivi problemi di trasparenza del processo legislativo del Consiglio. Lo status quo contrasta, peraltro, con l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Giustizia Ue giunta a ribadire, in ultimo nella sentenza De Capitani, che i principi di pubblicità e trasparenza sono inerenti alle procedure legislative dell’Unione. La Corte ha asserito, inoltre, che la mancanza di informazioni e di dibattito in merito al processo legislativo, oltre a rappresentare una chiara violazione dei diritti democratici dei cittadini, ne accresce la loro sfiducia.E’ inaccettabile che ancora oggi non venga adottato un Registro di Trasparenza obbligatorio e giuridicamente vincolante per il settore privato e per tutte le istituzioni ed agenzie dell’Ue per garantire piena trasparenza delle attività di lobbying effettuate. E’ inammissibile che non sussista ancora piena trasparenza sulle informazioni relative ai casi di “porte girevoli”, impedendo di conoscere tempestivamente i nomi di funzionari Ue che all’improvviso lasciano le istituzioni e vengono assunti in ruoli apicali in realtà influenti del settore privato. E’ censurabile che non sussista piena trasparenza e piena indipendenza dal settore privato nella raccolta e valutazione delle prove scientifiche che tanto sdegno hanno suscitato tra i cittadini europei quando si è giunti in sede Ue ad autorizzare e rinnovare l’uso di glifosato, Ogm e pesticidi. Su quest’ultimo aspetto, ho richiesto espressamente che la Mediatrice proceda all’avvio di una specifica indagine strategica.(Elonora Evi, “Raccomandazioni, favori ad amici e conflitti di interessi: ecco le prove di come Juncker amministra (male) l’Ue”, dal “Blog delle Stelle” del 7 settembre 2018. La Evi è un’europarlamentare del gruppo Efdd – Movimento 5 Stelle Europa. L’avvocato tedesco Martin Selmayr, capo di gabinetto della Commissione Europea di Juncker, è considerato il tecnocrate burocrate più potente di Bruxelles, addirittura il vero “presidente ombra”. Emilio De Capitani è invece il docente universitario che pretese dal Parlamento Europeo l’accesso ai documenti contenenti informazioni riguardo alle posizioni delle istituzioni sulle procedure co-legislative in corso, nello specifico sui “triloghi”, i negoziati tra Parlamento e Consiglio Ue con la mediazione della Commissione Europea. La richiesta del professor De Capitani è stata approvata dalla Corte di Giustizia Ue, secondo cui serve più trasparenza da parte delle istituzioni europee sui documenti riguardanti le procedure legislative, che devono essere accessibili a chi ne fa domanda).Scarsa trasparenza dei processi decisionali, attività lobbistiche senza un vero controllo, porte girevoli, organi di garanzia e codici etici debolissimi e permeati da influenze politiche e del settore privato. Questi sono solo alcuni dei problemi di questa Europa denunciati dal Mediatore Europeo, quella figura che si occupa di monitorare che le istituzioni europee non inciampino nella cosiddetta “cattiva amministrazione”. E infatti, puntuale come un orologio, il report annuale dell’attività del Mediatore Europeo elenca le numerose gravi criticità che segnano il lavoro delle istituzioni europee e fotografa un’Europa che sembra allontanarsi sempre di più da ciò che doveva essere, la casa comune di tutti i cittadini europei. La Commissione Petizioni è l’unica commissione del Parlamento Europeo che ha il compito di analizzare il report del Mediatore e commentarlo. Quest’anno il compito è stato affidato al gruppo Efdd – Movimento 5 Stelle e, in quanto relatrice, ho cercato di dare ampio supporto all’importante e apprezzabile lavoro di indagine svolto nel 2017 dal Mediatore. Ecco il link al report. Abbiamo sottolineato alcune tra le problematiche più gravi che continuano a gravare sulle istituzioni europee: la scarsa trasparenza dei processi decisionali, le gravissime problematiche etiche che hanno coinvolto anche commissari europei in carica, l’ex presidente della Commissione Europea e l’attuale presidente della Bce.
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Bavaglio al web in Europa: ce l’hanno fatta, ora sarà legge
Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.«Con la scusa della riforma del copyright, il Parlamento Europeo ha di fatto legalizzato la censura preventiva. Una pagina nera per la democrazia e la libertà dei cittadini», protesta Isabella Adinolfi, europarlamentare 5 Stelle. «Il testo approvato oggi dall’aula di Strasburgo contiene l’odiosa “link tax” e filtri ai contenuti pubblicati dagli utenti. È vergognoso, ha vinto il partito del bavaglio». Purtroppo, aggiunge la Adinolfi, sono stati respinti tutti gli emendamenti che il Movimento 5 Stelle aveva presentato, «in particolare l’articolo 11, che prevede l’introduzione della cosiddetta “link tax”, e il 13, che mira a introdurre una responsabilità assoluta per le piattaforme, nonché un meccanismo di filtraggio dei contenuti caricati dagli utenti», conclude. Che tirasse brutta aria, a Strasburgo, lo si capiva dalle premesse, anticipate di prima mattina dal “Blog delle Stelle”: «L’Europa dei banchieri e dei lobbisti ha scelto la sua preda: il web libero. Anziché scardinare i paradisi fiscali e salvare in modo serio il diritto d’autore, il Parlamento Europeo rischia di usare il copyright come una mannaia dei diritti dei cittadini».Non sono in pochi a ritenere che la riforma – avanzata nel 2016 dall’allora commissario Ue alla Digital Economy Günther Oettinger – potrebbe «distruggere Internet per come lo conosciamo». Per gli europarlamentari rappresentati da Julia Reda, relatrice per il Parlamento Europeo del dossier sulla riforma del copyright e membro del Partito Pirata tedesco, «il progetto limita la libertà di espressione online e mette in difficoltà i piccoli editori e le startup innovative». Di fatto, il divieto di citare liberamente le fonti (con l’introduzione della “link tax”) equivale alla censura preventiva sul web: fine della libera circolazione di contenuti, come finora è stato nella Rete. Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, punta il dito contro lo stesso Oettinger, il tedesco secondo cui sarebbero stati “i mercati” a “insegnare agli italiani come votare”. Proprio quell’Oettinger, dice Magaldi, milita nei circuiti supermassonici reazionari che hanno trasformato l’Ue in un mostro giuridico, gestito da tecnocrati al soldo di interessi privatistici che mirano a svuotare le democrazie e privatizzare Stati non più sovrani, a cui viene impedito di investire (sotto forma di deficit) per creare occupazione.Comunque lo si legga, l’attacco al web finisce per colpire uno strumento di comunicazione potentissimo, cercando di riportarlo sotto il completo controllo dei media mainstream, spesso protagonisti di un uso pressoché criminale di autentiche “fake news”. Il voto del Parlamento Europeo è stato salutato con soddisfazione da Antonio Tajani, coinvolto – secondo il saggista Gianfranco Carpeoro – nell’operazione che ha portato (premendo su Berlusconi) a bloccare la nomina, alla presidenza della Rai, di Marcello Foa, autorevole giornalista, autore del volume “Gli stregoni della notizia”, che smaschera le tante imposture del mainstream. Secondo Carpeoro, la manovra anti-Foa è nata dalle parti dell’Eliseo: Jacques Attali (mentore di Macron ed esponente della superloggia reazionaria “Three Eyes”) si sarebbe rivolto al massone Tajani e poi allo stesso Berlusconi, dopo essersi consultato con Giorgio Napolitano, che nel libro “Massoni” lo stesso Magaldi presenta come esponente della “Three Eyes”, la medesima superloggia nella quale milita Attali, contigua al mondo supermassonico di cui fa fa parte, da molti anni, il tedesco Oettinger, vero e proprio “architetto” del bavaglio europeo imposto al web.E’ noto a tutti che le oligarchie al potere, in Europa e non solo, hanno sviluppato un’enorme diffidenza nei confronti della Rete: un network che si ritiene abbia avuto un ruolo assai rilevante in tutti i “dispiaceri” che gli elettori hanno rifilato, negli ultimi anni, all’establishment – la Brexit e il referendum di Renzi, quindi l’elezione di Trump e infine il boom dei “gialloverdi” in Italia. «Se Grillo vuole fare politica fondi un partito, se ne è capace», disse Piero Fassino, non immaginando che l’ex comico non solo ce l’avrebbe fatta, ma sarebbe finito praticamente al governo, scalzando il Pd. Il Movimento 5 Stelle è stato creato proprio via web, a partire dalle candidature. Colpire il web in Europa, proprio oggi, significa predisporre contromisure in vista delle elezioni europee 2019, in cui i grandi poteri economici e oligarchici che si nascondono dietro la tecnocrazia Ue temono l’exploit dei partiti “sovranisti” e “populisti”, o meglio democratici. Mentre le televisioni sono letteralmente “militarizzate” dall’establishment, le vendite dei giornali sono in caduta libera. Ecco dunque la necessità, per gli oligarchi, di silenziare in ogni modo il web.Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.
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Selmayr, l’ennesimo tedesco a capo dell’Ue (con un golpe)
Un altro tedesco a capo dell’Europa: l’ennesimo. E in più, salito al trono truccando le carte. Il verdetto è duro e meriterebbe di trarne conseguenze politiche: nella procedura di nomina di Martin Selmayr a segretario generale, la Commissione Europea non ha seguito le regole «in modo corretto né nella lettera né nello spirito», ha detto l’Ombudsman dell’Unione Europea, Emily O’Reilly, al termine di un’inchiesta sulla promozione lampo dell’ex capo-gabinetto del presidente Jean-Claude Juncker il 21 febbraio scorso. Il Mediatore Europeo, scrive David Carretta sul “Foglio”, ha identificato quattro casi di “cattiva amministrazione”. Nella sostanza accusa l’esecutivo Juncker e lo stesso Selmayr di aver orchestrato una procedura “fake”. «La Commissione ha creato un senso d’urgenza artificiale per riempire il posto di segretario generale al fine di giustificare la non-pubblicazione del posto vacante. La Commissione ha anche organizzato una procedura di selezione del vice-segretario generale non per riempire quel ruolo ma per permettere la nomina rapida in due fasi di Selmayr a segretario generale», ha spiegato O’Reilly, senza dimenticare di criticare la strategia comunicativa «difensiva, evasiva e a volte combattiva». Il risultato è che «tutto questo ha rischiato di mettere repentaglio il bilancio ottenuto con fatica di alti standard amministrativi dell’Ue e di conseguenza la fiducia pubblica».