Archivio del Tag ‘democratura’
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Sorvegliati via smartphone: Singapore, governa Big Data
«Il nostro smartphone ci rende trasparenti e molto vulnerabili: certamente sarebbe meno pericoloso girare completamente nudi in un parco», anche perché il microfono «funziona anche quando la nostra conversazione è terminata (penso a Siri per l’iPhone)». Sicché, «ogni nostra parola, i suoni intorno a noi, i nostri movimenti, sono registrati». Un sistema di controllo perfetto. Perché allora non farne anche un sistema di governo? E’ esattamente la scelta di Singapore, che «sta progettando un nuovo modello d’ingegneria sociale che potrebbe presto essere applicato altrove, in particolare nelle grandi metropoli come Parigi», scrive il sociologo belga-canadese Derrick de Kerckhove, direttore scientifico della rivista italiana “Media2000” e dell’Osservatorio TuttiMedia all’Internet Forum di Pechino, dopo aver guidato il McLuhan Program di Toronto fino al 2008. Ora siamo alla “datacrazia” definitiva, il “potere dei dati”: i leader li crea direttamente un algoritmo, i cittadini si adeguano ai comportamenti sociali imposti dalla tecnologia, di cui il governo si serve per mantenere il controllo. Una “tirannia morbida”, verso il “governo delle macchine”.L’analisi di Derrick de Kerckhove, presentata su “Avvenire”, parte dall’esempio di una città-Stato, Singapore, dove il modello di gestione è fondato sulla tecno-etica. «Ho definito quest’organizzazione “datacracy”, perché è una civiltà che si fonda sui dati e apparentemente permette di vivere in un luogo ideale senza rapine né furti». Tutto è regolato secondo un nuovo ordine che parte dalla raccolta e dall’analisi dei dati. «Il protagonista di questo nuovo modello è lo smartphone, perché ci identifica molto più del nostro passaporto, della nostra carta di credito o del nostro certificato di nascita». Il telefono palmare, infatti, «contiene tutto ciò che riguarda ciascuno di noi ed è sempre pronto a condividere contenuti con chiunque abbia le giuste capacità tecniche, anche se non possiede requisiti giuridici o diritti legali». Di noi, lo smarthone registra tutto, cosa che «ormai è di dominio pubblico». Follia? No, è solo l’ultimo gradino della scala che stiamo scendendo, da anni: «Dall’arrivo di Internet – scrive il sociologo – abbiamo iniziato a perdere privacy e anche il controllo delle nostre idee, scritte o discusse. E presto, forse, perderemo anche l’esclusiva sui nostri pensieri».Le tracce che ciascuno di noi lascia, continua de Kerckhove, sono raccolte da banche dati e poi riutilizzati per tanti scopi. Scandaloso? Ma anche ineluttabile: «Quello che sta accadendo dopo l’adozione globale di Internet è una graduale diminuzione delle libertà civili e delle garanzie che associamo con l’idea di democrazia occidentale», ammette lo studioso. «La privacy svanisce più velocemente nelle società dove le garanzie per l’individuo sono meno sacre o addirittura inesistenti; ne è prova l’evoluzione di Singapore, dove Lee Hsien Loong, figlio di Lee Kuan Yew, continuando l’opera del genitore ha abilmente usato la tecnologia per mettere sotto sorveglianza permanente i suoi cittadini». E guarda caso, «Singapore è la città-Stato con il più alto tasso di penetrazione al mondo di smartphone». Fino a che punto il fine può giustificare i mezzi? «Singapore si pone come Stato precursore del controllo urbano attraverso la sorveglianza fondata su Big Data e smartphone». Un modello di vita basato sulla tecno-etica: «I cittadini di Singapore, come la maggior parte di noi, trascorrono molta della loro vita attiva di fronte a uno schermo, lasciano tracce: sono geolocalizzati, si sa cosa scrivono e dicono. Le istituzioni di Singapore hanno deciso senza pudore di fare pieno uso di tali informazioni al fine di garantire ordine sociale e comportamenti corretti. Nessuno sporca la città, nessuno trasgredisce la legge».Nella metropoli asiatica, rilva il sociologo, la tendenza alla sorveglianza occhiuta si manifesta tra il 1965 e il 1990, quando Lee Kuan Yew (premier e padre dell’attuale capo di governo), istituisce regole draconiane per ripulire la città e per gestire le tensioni tra i quattro gruppi etnici che popolano Singapore. Tante le imposizioni: vietato masticare chewingum fuori casa, sputare per terra; non azionare lo scarico nei bagni pubblici. Bacchettate sulle mani per gli autori di graffiti, fustigazione per gli atti vandalici. Idem per l’ambito privato: zero pornografia, illegale il sesso gay (due anni di carcere). E’ illegale persino camminare nudi, in casa, fuori del bagno. Questo regime ha un nome, si chiama “democratura”. E oggi sta diventando anche “datacracy” o “governo di algoritmi”. «L’imposizione di una trasparenza completa permette di sapere il più possibile su tutto e tutti». Salito al potere nel 2004, Lee Hsien Loong ha imposto nuovi divieti e onnipresenti telecamere di sorveglianza: «Siamo alla ricreazione di Argus, il gigante della mitologia greca che tutto vede con i suoi 100 occhi. L’attuale capo del governo ha sostituito la democratura del padre con la datacrazia: siamo al “governo dell’ algoritmo”. E questo significa che dai dati raccolti e analizzati viene automaticamente il responso e, nel caso, la pena».Nuovi sensori e telecamere poste su tutto il territorio di Singapore raccolgono dati e informazioni per consentire al governo di monitorare ogni azione o evento, controllare pulizia degli spazi pubblici, tassi d’inquinamento, densità di folla e movimento di tutti i veicoli. «La sorveglianza è completa grazie ai dati raccolti da smartphone, social media, sensori e telecamere pubbliche». Il sistema «assicura l’immediato giudizio, il verdetto e l’esecuzione della pena (multe o peggio)». E le persone? «Sembrano soddisfatte della situazione, che assicura pace e ordine, pulizia, e attrae investitori», senza contare «salute e tutto il benessere possibile». A Singapore, scrive Derrick de Kerckhove, «si respira un senso di armonia sociale di cui i cittadini sembrano essere orgogliosi». Tutti d’accordo? No, ovviamente: esiste «una frangia di dissenso», peraltro «già sotto stretta sorveglianza». I critici sostengono che l’uso di Internet non è sicuro e quindi le persone tendono all’auto-censura, preferiscono tenere la bocca chiusa. Anche perché i blogger dissidenti sono perseguitati: Amos Yee, 16 anni, è in carcere dal maggio 2015 per commenti offensivi. Ong e informazione libera sono scoraggiati, la tv è monopolio statale, la stampa è fortemente controllata.«La narrazione politica sulla supposta armonia interculturale impera», sottoinea de Kerckhove, «ma il razzismo continua, soprattutto nelle assunzioni». Intanto, «i simboli del passato vengono soffocati da opere moderne, senza rispetto per la storia della città», che viene «riscritta, nei testi scolastici, per soddisfare la propaganda di Stato». A maggior ragione, «l’accesso agli archivi governativi pubblici è limitata». Secondo il sociologo, «ci avviamo al punto di non ritorno di un cambiamento radicale, paragonabile solo al Rinascimento europeo. Questa volta, però, mondiale». De Kerckhove cita Marshall McLuhan, secondo cui l’elettricità è l’infrastruttura della rivoluzione: «Dispositivi d’informazione elettrici sono gli strumenti per la tirannia e la sorveglianza universale, dal grembo materno alla tomba. Nasce così un grave dilemma tra il nostro diritto alla privacy e la necessità della comunità di sapere. Le idee tradizionali legate ai pensieri e alle azioni private sono minacciate dai modelli di tecnologia meccanica che grazie all’elettricità permette il recupero istantaneo delle informazioni». Fascicoli zeppi di notizie e pettegolezzi che non perdonano: «Non c’è redenzione, nessuna cancellazione di “errori” di gioventù». Alla fine, conclude Derrick de Kerckhove, dovremo «trovare un equilibrio tra le esigenze di vita privata e quelle sociali». Cos’è peggio, la vecchia “democratura” o la nuova, inquietante “datacrazia”, ovvero il «potenziale tirannico di un governo dei Big Data»? E soprattutto: «Abbiamo ancora una scelta, in materia», o si tratta di un destino inesorabile?«Il nostro smartphone ci rende trasparenti e molto vulnerabili: certamente sarebbe meno pericoloso girare completamente nudi in un parco», anche perché il microfono «funziona anche quando la nostra conversazione è terminata (penso a Siri per l’iPhone)». Sicché, «ogni nostra parola, i suoni intorno a noi, i nostri movimenti, sono registrati». Un sistema di controllo perfetto. Perché allora non farne anche un sistema di governo? E’ esattamente la scelta di Singapore, che «sta progettando un nuovo modello d’ingegneria sociale che potrebbe presto essere applicato altrove, in particolare nelle grandi metropoli come Parigi», scrive il sociologo belga-canadese Derrick de Kerckhove, direttore scientifico della rivista italiana “Media2000” e dell’Osservatorio TuttiMedia all’Internet Forum di Pechino, dopo aver guidato il McLuhan Program di Toronto fino al 2008. Ora siamo alla “datacrazia” definitiva, il “potere dei dati”: i leader li crea direttamente un algoritmo, i cittadini si adeguano ai comportamenti sociali imposti dalla tecnologia, di cui il governo si serve per mantenere il controllo. Una “tirannia morbida”, verso il “governo delle macchine”.
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Rodotà: 5 Stelle, unico voto utile contro il regime di Renzi
Renzi scherza col fuoco: intere categorie delegittimate giorno dopo giorno potrebbero ribellarsi, e metterlo con le spalle al muro. Giocherà il tutto per tutto al referendum sulla riforma costituzionale? Rischia: la maggioranza potrebbe non seguirlo più. Lui dirà: o me, o il populismo? Idem: l’Italia non è la Francia, e il Movimento 5 Stelle non è il Front National. Al contrario, potrebbe rivelarsi «l’unico voto utile, oggi», per sbarrare la strada al regime post-democratico di cui Renzi è alfiere: democrazia ancora formalmente in piedi, ma completamente svuotata, in modo che i cittadini non contino più niente. Lo sostiene Stefano Rodotà, intervistato da Andrea Fabozzi per il “Manifesto”, partendo dall’analisi del recente voto in Francia e in Spagna, dal quale il bipolarismo è uscito distrutto. «Il populismo è una spiegazione troppo semplice. I partiti tradizionali non riescono più da tempo a leggere la società. Non è populismo, è crisi della rappresentanza».Il Front National «coltivava da tempo il disegno di sostituirsi ai due grandi partiti in crisi, ed è stato facilitato dalla rincorsa a destra di Sarkozy e Hollande, che hanno finito per legittimare Le Pen», osserva Rodotà. «In Spagna, Podemos ha interpretato un movimento reale, quello degli Indignados, e ha predisposto uno strumento di tipo partitico per raccogliere il fenomeno». Da noi, Renzi benedice la nuova legge elettorale italiana e sostiene che in Italia non ci sarà lo smottamento francese e spagnolo? «Non coglie il senso di quello che sta succedendo e, con la sua risposta, non fa che aumentare la distanza tra il partito e la società». Sostanzialmente, Renzi dice: “A me della rappresentanza non importa nulla, a me interessa la stabilità”. «Ma con un governo che rappresenta appena un terzo degli elettori ci sono enormi problemi di legittimazione, di coesione sociale e al limite anche di tenuta democratica», sottolinea Rodotà.L’ingegneria elettorale, continua il giurista, è solo «un modo per sfuggire alle questioni importanti». In questi anni è stato invocato il modello spagnolo, insieme a quello neozelandese e quello israeliano: «Sembrava di stare al supermarket delle leggi elettorali. Tutto andava bene per mortificare la rappresentanza, sulla base dell’idea che ciò che sfugge agli schemi è populismo. Invece è una legittima richiesta dei cittadini di partecipare ed essere rappresentati». Il nuovo sistema italiano? «Presenta il rischio di distorsioni spaventose: può aprire la strada a soluzioni pericolose, ma anche ad alternative interessanti. Penso per esempio alla stagione referendaria che abbiamo davanti: dal referendum costituzionale, a quelli possibili su Jobs Act, scuola e Italicum». Renzi è meno tranquillo di quanto dice? «È possibile, del resto le previsioni sul referendum costituzionale sono difficili, ancora non sappiamo esattamente come si schiereranno le forze politiche».Di certo la partita non è chiusa. Rodotà ricorda che nel 1974 una situazione elettorale che sembrava chiusa fu sbloccata proprio da un referendum, quello sul divorzio. «I cittadini furono messi in condizione di votare senza vincoli di appartenenza politica e l’anno dopo si produsse il grande risultato alle amministrative del partito comunista». Il fatto che Renzi abbia deciso di giocarsi tutto sul referendum costituzionale apre una serie di problemi: il primo è la questione dell’informazione. «C’è già un forte allineamento di giornali e tv con il governo, la riforma della Rai non potrà che peggiorare le cose. Renzi ha già impropriamente politicizzato tutto il percorso della riforma, il dibattito parlamentare è stato gestito in modo autoritario. In teoria quando si scrivono le regole del gioco il cittadini dovrebbero poter votare slegati da considerazioni sul governo, in pratica non sarà così».Per Rodotà, è assolutamente possibile superare il “bicameralismo perfetto” in maniera avanzata, favorendo la rappresentanza e la partecipazione, senza escludere la stabilità. Proposte avanzate e subito scartate, nemmeno discusse. «Alcuni di noi avevano denunciato il rischio autoritario della riforma costituzionale: siamo stati criticati. Poi abbiamo cominciato a leggere di rischi plebiscitari, “democratura” e via dicendo. Troppo tardi, ormai lo stile di governo di Renzi è già un’anticipazione di quello che sarà il sistema con le nuove regole costituzionali e la nuova legge elettorale. Il Parlamento è già stato messo da parte, addomesticato o ignorato, com’è accaduto sul Jobs Act per le proposte della commissione della Camera sul controllo a distanza dei lavoratori. Lo stesso sta avvenendo sulle intercettazioni». Secondo il giurista, «stiamo scivolando verso una democrazia scarnificata, rinunciamo pezzo a pezzo agli elementi sostanziali – la rappresentatività, i diritti sociali e individuali – in cambio del mantenimento di quelli formali – il voto, la produzione legislativa. La situazione è grave. Se questo orientamento proseguirà, non credo che il presidente della Repubblica distoglierà il suo sguardo».Renzi, invece, tira dritto. Il suo gioco è chiaro: se il referendum dovesse andargli male, «punterà alle elezioni anticipate con un messaggio del tipo: o partito democratico o morte, o me o i populisti». Per Rodotà, può essere un calcolo sbagliato: «L’Italia non è la Francia per almeno due ragioni. Il Movimento 5 Stelle non fa paura come il neofascismo del Front National. E la mossa dei candidati socialisti in favore di quelli di Sarkozy è stata seguita perché lì la dialettica politica restava aperta. Da noi al contrario si rischierebbe l’investitura solitaria, rinunciare significherebbe consegnarsi pienamente a Renzi. L’appello al voto utile non credo funzionerà anche perché l’Italia non solo non è la Francia, ma non è più neanche l’Italia di qualche anno fa. Renzi non può chiedere il voto a chi quotidianamente delegittima, negando il diritto di cittadinanza alle posizioni critiche. Infatti si comincia a sentire che il vero voto utile, quello che può servire a mantenere aperta la situazione italiana, può essere quello al Movimento 5 Stelle. Sono ragionamenti non assenti dall’attuale dibattito a sinistra, mi pare un fatto notevole».Renzi scherza col fuoco: intere categorie delegittimate giorno dopo giorno potrebbero ribellarsi, e metterlo con le spalle al muro. Giocherà il tutto per tutto al referendum sulla riforma costituzionale? Rischia: la maggioranza potrebbe non seguirlo più. Lui dirà: o me, o il populismo? Idem: l’Italia non è la Francia, e il Movimento 5 Stelle non è il Front National. Al contrario, potrebbe rivelarsi «l’unico voto utile, oggi», per sbarrare la strada al regime post-democratico di cui Renzi è alfiere: democrazia ancora formalmente in piedi, ma completamente svuotata, in modo che i cittadini non contino più niente. Lo sostiene Stefano Rodotà, intervistato da Andrea Fabozzi per il “Manifesto”, partendo dall’analisi del recente voto in Francia e in Spagna, dal quale il bipolarismo è uscito distrutto. «Il populismo è una spiegazione troppo semplice. I partiti tradizionali non riescono più da tempo a leggere la società. Non è populismo, è crisi della rappresentanza».
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Caracciolo: perché i russi sono ben lieti di tenersi Putin
La Russia non può essere una democrazia perché se lo fosse non esisterebbe. Un impero multietnico grande quasi sessanta volte l’Italia con una popolazione pari appena alla somma di italiani e tedeschi, concentrata per i tre quarti nelle province europee, con l’immensa Siberia quasi disabitata a ridosso dell’iperpopolato colosso cinese, può esistere solo se retto dal centro con mano di ferro. Applicarvi un sistema liberaldemocratico di matrice occidentale significherebbe scatenarvi dispute geopolitiche e secessioni armate a catena, all’ombra di diecimila bombe atomiche. Questo è almeno il verdetto della storia russa. Soprattutto, è la legge bronzea che le élite russe, dalla monarchia al bolscevismo al putinismo, succhiano con il latte materno. Oltre che la prevalente inclinazione di un popolo che tende a seguire il suo Cesare o semplicemente diffida della politica e dei politici d’ogni colore. Per chi dubitasse, valga un recente sondaggio dell’Istituto Levada, per cui solo il 13% dei russi considera che una democrazia in stile occidentale servirebbe i loro interessi, mentre il 16% preferisce una “democrazia” sovietica e il 55% pensa che l’unico governo democratico accettabile è quello che corrisponde alle “specifiche tradizioni nazionali russe”. In parole povere, il regime vigente.Certo, alcuni coraggiosi sfidano la storia e Putin, confidando nell’avvento finale della democrazia in Russia. Tre anni fa costoro riuscirono per qualche settimana a suscitare manifestazioni di massa anti-regime a Mosca e in altre città. Oggi si sono riaffacciati sulla scena pubblica, in occasione dei funerali di Boris Nemtsov, l’oppositore misteriosamente freddato alle porte del Cremlino. Ma nuotano controcorrente. Nel clima di mobilitazione patriottica eccitato dalla guerra in Ucraina, quattro russi su cinque dichiarano di apprezzare il presidente. Lo scambio proposto da Putin al suo popolo – io vi garantisco sicurezza, stabilità e relativo benessere, voi lasciate la politica a me – sembra ancora reggere. Malgrado le sanzioni, o grazie ad esse. E nonostante il crollo del rublo. Per quanto tempo, nessuno può stabilire. Nel profondo dello spirito imperiale russo, la democrazia è percepita come il cavallo di Troia dell’Occidente per spaccare la patria e rigettarla in una nuova età dei torbidi. Con i cinesi a Khabarovsk, la Nato a Kaliningrad, gli islamisti padroni del Caucaso e dilaganti nel Tatarstan, gli skinheads a scorrazzare per San Pietroburgo, come nel fosco video di propaganda diffuso dai sostenitori di Putin alla vigilia delle elezioni del 2012.Che cos’è allora questo putinismo che da quindici anni regge la Federazione Russa? I politologi potrebbero ricorrere forse al termine democratura, crasi di democrazia e dittatura, con cui l’ingegnoso saggista Predrag Matvejevic descriveva i regimi formalmente costituzionali ma di fatto oligarchici. Eppure il caso russo fa storia a sé. Sotto il profilo geopolitico l’impero di Mosca ama offrirsi, oggi più che mai, come un polo autonomo e sovrano del “mondo cristiano”. Agli esordi, la Russia di Putin anelava ad essere riconosciuta come soggetto indipendente dell’insieme occidentale – leggi: anti-cinese e anti-islamico. Dal 2007 però, offeso dal rifiuto americano a considerarlo un partner paritario, il leader ha portato la Russia a contrapporsi all’Occidente. La guerra in Ucraina, nella quale i russi si percepiscono aggrediti da americani ed europei, lo ha spinto infine verso un’intesa tattica con la Cina e con due potenze islamiche come Turchia e Iran: i nemici storici di ieri sono gli (infidi) alleati di oggi. Quanto al regime politico: in Russia si vota, certo, ma le elezioni sono “gestite”, ossia più o meno moderatamente manipolate.Al centro del sistema partitico sta “Russia Unita”, braccio politico del presidente. Il quale incarna il cuore del meccanismo decisionale, secondo il principio della “verticale del potere”. I comandi partono dal Cremlino e si diramano giù fino all’ultimo dei poteri locali. Governo e Parlamento hanno ruoli non paragonabili al rango formale. Putin preferisce infatti decidere radunando piccoli comitati informali. Appena giunto al potere ha stabilito che il lunedì avrebbe radunato al Cremlino alcuni ministri, mentre le questioni serie le avrebbe discusse il sabato in dacia, con i consiglieri fidati e gli esponenti dei “dicasteri della forza” – militari e capi dell’intelligence. L’ukaz che determinava l’annessione della Crimea, ad esempio, il presidente l’ha varato dopo aver consultato solo il segretario del Consiglio di sicurezza, Nikolaj Patrushev, già direttore dell’intelligence, e il ministro della difesa, Sergej Shojgu. Putin era e resta uomo dei servizi segreti, nei quali entrò nel lontano 1976. «Un agente del Kgb non è mai ex», ripete. La sua visione del mondo è quella visceralmente securitaria che segna ogni uomo di intelligence. I suoi pochi confidenti vengono quasi tutti dal medesimo ambiente. Ma il presidente non è un dittatore assoluto. È l’amministratore delegato scelto dalle élite russe – in specie dagli apparati della forza ma anche da una pattuglia di oligarchi fidati – per proteggere il sistema. Ad esse risponde.Putin è un capo certo potentissimo, ma revocabile, se al sistema servisse un uomo nuovo. Con la guerra alle porte e la recessione che incupisce le prospettive dell’economia nazionale, non ci stupiremmo se un giorno non troppo lontano qualcuno dei mandatari – magari un generale – lo invitasse a dichiararsi malato per il supremo bene della patria. Uno degli uomini che lo aiutarono a insediarsi come amministratore delegato della Federazione Russa per salvarla dalla disintegrazione, Gleb Pavlovsky, ha osservato: «È impossibile dire quando questo sistema cadrà, ma quando cadrà, cadrà in un giorno. E quello che gli succederà sarà la copia di questo». E i russi di buona volontà, altrettanto patriottici di Putin, ma che aspirano alla libertà e allo Stato di diritto? Visti dal Cremlino, per loro vale sempre il motto del vecchio ministro zarista delle Finanze, Sergej Witte: «I nostri intellettuali lamentano che non abbiamo un governo come in Inghilterra. Farebbero meglio a ringraziare Iddio che non abbiamo un governo come quello della Cina».(Lucio Caracciolo, “Democratura: democrazia e populismo, la terza via di Putin”, da “La Repubblica” del 7 marzo 2013, ripreso da “Come Don Chisciotte”).La Russia non può essere una democrazia perché se lo fosse non esisterebbe. Un impero multietnico grande quasi sessanta volte l’Italia con una popolazione pari appena alla somma di italiani e tedeschi, concentrata per i tre quarti nelle province europee, con l’immensa Siberia quasi disabitata a ridosso dell’iperpopolato colosso cinese, può esistere solo se retto dal centro con mano di ferro. Applicarvi un sistema liberaldemocratico di matrice occidentale significherebbe scatenarvi dispute geopolitiche e secessioni armate a catena, all’ombra di diecimila bombe atomiche. Questo è almeno il verdetto della storia russa. Soprattutto, è la legge bronzea che le élite russe, dalla monarchia al bolscevismo al putinismo, succhiano con il latte materno. Oltre che la prevalente inclinazione di un popolo che tende a seguire il suo Cesare o semplicemente diffida della politica e dei politici d’ogni colore. Per chi dubitasse, valga un recente sondaggio dell’Istituto Levada, per cui solo il 13% dei russi considera che una democrazia in stile occidentale servirebbe i loro interessi, mentre il 16% preferisce una “democrazia” sovietica e il 55% pensa che l’unico governo democratico accettabile è quello che corrisponde alle “specifiche tradizioni nazionali russe”. In parole povere, il regime vigente.
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Addio democrazia, Renzi e Silvio i manovali del piano
Le chiamano “riforme”, come fossero sinonimo di “migliorie”, secondo la vulgata mainstream accettata dai media come verità di fede. Ma sono soltanto le “indicazioni” – leggasi: diktat – che l’oligarchia euroatlantica da anni reitera all’Italia, a colpi di spread (Mario Monti) oppure confidando nell’appeal demiurgico di Renzi, che attraverso il ministro Padoan (Ocse) e con la collaborazione dell’immancabile “uomo di sinistra”, il ministro Poletti, propone la stessa cura-Monti spacciandola per innovazione entusiasmante. Tutto molto semplice: smantellare i punti cardine della Costituzione antifascista, quella che Jamie Dimon (Jp Morgan) ritiene obsoleta, perché tutela l’interesse pubblico di cittadini e lavoratori contro la legge del business. Quella che – con l’applicazione del Ttip, il Trattato Transatlantico voluto dai padroni di Obama e imposto a Renzi – farà sparire in tutta Europa le ultime garanzie di tutela su ambiente, salute, lavoro e sicurezza alimentare, liquidando la qualità del made in Italy. Logica traduzione: sbaraccare lo Stato di diritto e il “rischio” che possa essere governato dai cittadini tramite politici onesti e responsabili.Marco Travaglio lo chiama “il patto Renzi-Berlusconi”, individuandone la declinazione italiana di oggi, i suoi manovali. Ma è un “patto” che viene da lontano, a metà strada tra Wall Street, Bruxelles e Berlino. «Unendo i puntini delle varie riforme vaganti tra governo e Parlamento, costituzionali e ordinarie, ma anche di certe prassi quotidiane passate sotto silenzio per trasformarsi subito in precedenti pericolosi, come le continue interferenze del Quirinale nell’autonomia del Parlamento, della magistratura e della stampa, viene fuori un disegno che inquieta», scrive Travaglio sul “Fatto Quotidiano”. «Una democrazia verticale, cioè ben poco democratica: sconosciuta, anzi opposta ai principi ispiratori della Costituzione, fondata invece su un assetto orizzontale in ossequio alla separazione e all’equilibrio dei poteri». Svolta autoritaria: «All’insaputa del popolo italiano, mai consultato sulla riscrittura della Costituzione, e fors’anche di molti parlamentari ignoranti o distratti, il combinato disposto di leggi, decreti e prassi – di per sé all’apparenza innocue – rischia di costruire un sistema illiberale e piduista fondato sullo strapotere del più forte e sul depotenziamento degli organi di controllo e garanzia».Il pericolo, sintetizza Travaglio, è una «dittatura della maggioranza». Una “democratura”, come direbbe Giovanni Sartori, «a disposizione del primo “uomo solo al comando” che se ne impossessa, diventando intoccabile, incontrollabile, non contendibile, dunque invincibile». Unendo l’ultimo dei “puntini” – il più importante, anche se Travaglio lo sfuma, forse dandolo per scontato – si scopre che il cervello della manovra per liquidare la residua democrazia italiana non risiede a Roma, ad Arcore o a Firenze, ma nei centri di potere economico-finanziari e tecnocratici che negli ultimi trent’anni hanno logorato senza sosta i gangli vitali della fragile e sgangherata democrazia italiana, per assoggettarla a regole scritte altrove, nei santuari del neoliberismo: fine della sovranità nazionale, debito pubblico ostaggio della speculazione finanziaria, demonizzazione del deficit, taglio della spesa pubblica e del welfare, attacco ai salari, flessibilità e precarizzazione del lavoro (Jobs Act), massacro delle pensioni (riforma Fornero). Tutto questo è avvenuto grazie all’alibi del debito, in realtà esploso dopo il divorzio tra Bankitalia e Tesoro nel 1981, che privò di colpo il paese della possibilità di finanziare il deficit – cioè l’investimento pubblico – a costo zero.Da allora, tutti i “tecnici” al potere (in prima linea e nelle retrovie: Draghi, Ciampi, Amato, Andreatta, Prodi, Dini, Padoa Schioppa, Visco, Treu, Bassanini, Monti) hanno proseguito la missione: dire agli italiani che “bisogna” suicidare lo Stato, cioè spillare più soldi – in tasse – di quanti lo Stato non sia disposto a spendere per i cittadini. “Lo vuole l’Europa”, naturalmente, ovvero la Germania, interessata a sbarazzarsi della concorrenza industriale italiana, e lo vuole – da sempre – l’élite economica euroatlantica, insofferente alla relativa autonomia di paesi come l’Italia, capaci di sviluppare benessere diffuso (nonostante la casta corrotta dei politici) proprio grazie alla spesa pubblica strategica dello Stato, che finisce per fare concorrenza al “mercato”, ovvero ai signori delle multinazionali. Sono loro, i “padroni dell’universo”, gli unici a comandare oggi – a fare le leggi che contano – grazie alle lobby insediate a Bruxelles e a organismi sovranazionali pressoché onnipotenti, dal Wto alla Banca Mondiale, dal Fmi alla Bce, dal Bilderberg alla Banca dei Regolamenti Internazionali. Tutto il potere che conta è verticalizzato, nel sistema neo-feudale dell’euro, in mano a poche “menti raffinatissime” che vogliono la morte per fame dello Stato democratico e la impongono mediante rigore e austerity, Fiscal Compact, unione bancaria europea, pareggio di bilancio.Nella sua lunga analisi, Travaglio osserva la traduzione italiana del piano, affidato a Renzi e Berlusconi con la regia di Napolitano sin dai tempi di Monti (Goldman Sachs, Commissione Trilaterale) e Letta (Aspen, Bilderberg). Il fondatore del “Fatto” individua i punti-chiave della definitiva archiviazione della macchina democratica così come l’abbiamo conosciuta finora. La spaventosa legge elettorale, battezzata “Italicum”, che impedirebbe ai cittadini di eleggere i loro candidati. Il Senato, ridotto a comparsa della democrazia. La fine dell’opposizione, con l’emarginazione dei parlamentari scomodi nelle commissioni (il caso Mineo) e una riforma costituzionale che «disarma le minoranze, istituzionalizzando la “ghigliottina” calata dalla presidente Laura Boldrini contro il M5S che tentava di impedire la conversione in legge del decreto-regalo alle banche». E mentre vengono falciati i poteri di controllo, il capo dello Stato abdica al suo storico ruolo di garanzia per ripiegare su una «funzione gregaria del governo», se per eleggerlo basteranno 33 senatori, dopo che il premier – con la legge-truffa per le elezioni – disporrà «del 55% dei deputati da lui nominati».Chi andrà al governo con l’Italicum, continua Travaglio, controllerà anche la Corte Costituzionale, il Csm, i procuratori della Repubblica: un’ingerenza mai vista prima del potere esecutivo, che – con le nuove regole – metterà al guinzaglio il potere giudiziario, proprio come sognava di fare Licio Gelli. Su tutto, resta ovviamente in piedi l’immunità parlamentare anche per i neo-senatori “nominati”, cioè sindaci e consiglieri regionali: «Basterà che un consiglio regionale li nomini senatori, e nel tragitto dalla loro città a Roma verranno coperti dallo scudo impunitario, che impedirà ai magistrati di arrestarli, intercettarli e perquisirli senza l’ok di Palazzo Madama». Tutto questo proviene dal giovane Renzi: interessato a “rottamare” la democrazia, si guarda bene dal toccare le due leggi-vergogna sull’informazione, la Gasparri sulla televisione e la Frattini sul conflitto d’interessi, mentre i grandi giornali italiani restano in mano a editori impuri come «imprenditori, finanzieri, banchieri, palazzinari (per non parlare di veri o finti partiti, con milioni di fondi pubblici), perlopiù titolari di aziende assistite e/o in crisi e dunque ricattabili dal governo, anche per la continua necessità di sostegni pubblici». Non è strano, quindi, che non raccontino ciò che sta davvero accadendo.Addio, cittadini italiani: «Espropriati del diritto di scegliersi i parlamentari, scippati della sovranità nazionale (delegata a misteriose e imperscrutabili autorità europee), i cittadini non ancora rassegnati a godersi lo spettacolo di una destra e di una sinistra sempre più simili e complici, che fingono di combattersi solo in campagna elettorale, possono rifugiarsi in movimenti anti-sistema ancora troppo acerbi per proporsi come alternativa di governo (come il M5S); o inabissarsi nel non-voto (che sfiora ormai il 50%)». In teoria, la Costituzione prevede alcuni strumenti di democrazia diretta, come i referendum abrogativi: «Che però, prevedibilmente, saranno sempre più spesso bocciati dalla Consulta normalizzata». Restano le leggi d’iniziativa popolare, peraltro quasi mai discusse dal Parlamento, ma i “padri ricostituenti” hanno pensato anche a queste, «quintuplicando la soglia delle firme necessarie, da 50 a 250 mila. Casomai qualcuno s’illudesse ancora di vivere in una democrazia».Nella peggiore delle ipotesi, l’allarme di Travaglio sarà costretto a impallidire se il Trattato Transatlantico che avanza a porte chiuse fosse davvero approvato, come vogliono Obama e Renzi, entro la fine del 2015: i giudici italiani non avrebbero più nessun potere contro le pretese delle multinazionali, pronte a chiedere maxi-risarcimenti a Stati e governi che oseranno opporre leggi a tutela del territorio, dei lavoratori, delle persone. E se a qualcuno il “nuovo ordine” non starà bene, l’Unione Europea – ora guidata dall’impresentabile oligarca Juncker – sta già addestrando in gran segreto l’Eurogendfor, polizia militare antisommossa e multinazionale, incaricata di reprimere le proteste: a caricare i cortei italiani potranno essere agenti francesi e olandesi, poliziotti spagnoli e portoghesi. Entro due o tre anni, secondo i critici più pessimisti, la Costituzione italiana sarà ricordata soltanto sui libri di storia.Le chiamano “riforme”, come fossero sinonimo di “migliorie”, secondo la vulgata mainstream accettata dai media come verità di fede. Ma sono soltanto le “indicazioni” – leggasi: diktat – che l’oligarchia euroatlantica da anni reitera all’Italia, a colpi di spread (Mario Monti) oppure confidando nell’appeal demiurgico di Renzi, che attraverso il ministro Padoan (Ocse) e con la collaborazione dell’immancabile “uomo di sinistra”, il ministro Poletti (Lega Coop), propone la stessa cura-Monti spacciandola per innovazione entusiasmante. Tutto molto semplice: smantellare i punti cardine della Costituzione antifascista, quella che Jamie Dimon (Jp Morgan) ritiene obsoleta, perché tutela l’interesse pubblico di cittadini e lavoratori contro la legge del business. Quella che – con l’applicazione del Ttip, il Trattato Transatlantico voluto dai padroni di Obama e imposto a Renzi – farà sparire in tutta Europa le ultime garanzie di tutela su ambiente, salute, lavoro e sicurezza alimentare, liquidando la qualità del made in Italy. Logica traduzione: sbaraccare lo Stato di diritto e il “rischio” che possa essere governato dai cittadini tramite politici onesti che abbiano a cuore l’Italia.
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Scalfari: Renzi vi ha mentito, ma dovete votare Pd
«Non capisco, ma mi adeguo», avrebbe sentenziato Giorgio Ferrini, nei panni dello stolido militante comunista dell’indimenticato zoo televisivo di Renzo Arbore. Oggi, Eugenio Scalfari offre a Matteo Renzi il più strano degli endorsement: Renzi è praticamente una frana e dice «il contrario della verità», però bisogna votarlo lo stesso. In pratica si tapperà il naso, scrive il fondatore di “Repubblica” a una settimana dal voto europeo, fornendo spiegazioni che lo stesso Ferrini avrebbe probabilmente faticato a decifrare. Niente deve cambiare, dunque, perché lo vuole l’Europa: l’Europa federale, colta e democratica, l’Europa prospera e felice. Su che pianeta vive, attualmente, Eugenio Scalfari? Gli ultimi gossip, risalenti a un anno fa, lo danno per certo ancora a Roma, dove organizzò una cenetta esclusiva – nientemeno che a casa sua – con Giorgio Napolitano, Mario Draghi ed Enrico Letta, allora premier. Ed era lo stesso Scalfari che, nel 1968, rischiò l’arresto per aver rivelato, su “L’Espresso”, il Piano Solo, tentativo di golpe orchestrato dal generale Giovanni De Lorenzo e dalla sua intelligence, il Sifar.«Da molte settimane», scrive Scalfari su “Repubblica” il 18 maggio 2014, «ho criticato il governo Renzi e soprattutto lui medesimo, che accentra nelle sue mani tutto il potere, con una minoranza di sinistra che di fatto si è messa il silenziatore per disturbarlo il meno possibile». Le accuse: «La legge sul lavoro, la rottura con le organizzazioni sindacali, la legge elettorale, la riforma (di fatto l’abolizione) del Senato e la rivalutazione di Berlusconi», che trasforma «un pregiudicato» in un padre della patria. Il giovane Renzi, «lungi dal risolvere uno per ogni mese, a cominciare da subito, i problemi che affliggono il paese da trent’anni», in realtà «non avrebbe potuto fare altro che proseguire il programma già impostato da Monti e poi aggiornato e avviato da Letta», peraltro «già contenuto nella “legge di stabilità” scritta da Letta con la preziosa collaborazione dell’allora ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni e approvata in via definitiva dal Parlamento». In altre parole: il seppellimento definitivo dell’economia italiana, mediante euro-austerity.«In effetti le cose sono andate ed andranno così», aggiunge Scalfari, secondo cui «lo sapevano tutti», compreso Renzi, il quale ora finge di “vendere” agli italiani una magica, impossibile “ripresa”. L’ex sindaco di Firenze? «Ha detto il contrario della verità e il suo partito gli ha creduto. Poi, adesso, la verità è chiara a tutti». Ergo, il 25 maggio è l’occasione giusta per bocciare il bugiardo? Macché. Al contrario: Scalfari si augura che «gli elettori che rappresentano la parte responsabile del paese» votino compatti proprio «per il Pd e quindi per Matteo Renzi», il super-mentitore. Il motivo di questo cortocircuito logico? Il solito, cui si ricorre in questi casi: la Paura del Nemico alle Porte. I barbari euroscettici, Grillo, i no-euro, le forze che non vogliono «veder progredire l’Unione Europea verso uno Stato federale», quello che sognò Altiero Spinelli settant’anni fa, e che fu abortito dalla “democratura” oligarchica di Maastricht, che fa dell’Eurozona di oggi una delle aree meno civili, meno libere e meno democratiche del pianeta. Perché la Germania «allenti le briglie dell’austerity», niente di meglio che un tedesco – Martin Schulz – alla guida della Commissione Europea. Questa l’analisi politica di Eugenio Scalfari, alla vigilia del voto che, per la prima volta, permetterà ai popoli europei – drammaticamente “svegliati” dalla crisi – di ribellarsi a un regime che oggi percepiscono come abusivo, autoritario e sincero quanto Matteo Renzi.«Non capisco, ma mi adeguo», avrebbe sentenziato Giorgio Ferrini, nei panni dello stolido militante comunista dell’indimenticato zoo televisivo di Renzo Arbore. Oggi, Eugenio Scalfari offre a Matteo Renzi il più strano degli endorsement: Renzi è praticamente una frana e dice «il contrario della verità», però bisogna votarlo lo stesso. In pratica si tapperà il naso, scrive il fondatore di “Repubblica” a una settimana dal voto europeo, fornendo spiegazioni che lo stesso Ferrini avrebbe probabilmente faticato a decifrare. Niente deve cambiare, dunque, perché lo vuole l’Europa: l’Europa federale, colta e democratica, l’Europa prospera e felice. Su che pianeta vive, attualmente, Eugenio Scalfari? Gli ultimi gossip, risalenti a un anno fa, lo danno per certo ancora a Roma, dove organizzò una cenetta esclusiva – nientemeno che a casa sua – con Giorgio Napolitano, Mario Draghi ed Enrico Letta, allora premier. Ed era lo stesso Scalfari che, nel 1968, rischiò l’arresto per aver rivelato, su “L’Espresso”, il Piano Solo, tentativo di golpe orchestrato dal generale Giovanni De Lorenzo e dalla sua intelligence, il Sifar.
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Pd, le tessere stracciate e l’attacco al cuore dello Stato
Vent’anni di guerriglia verbale con Berlusconi, per poi andarci a nozze definitivamente, all’ombra del Quirinale, contro la volontà della stragrande maggioranza del paese e persino dei propri iscritti, esasperati dalla protervia marmorea di una nomenklatura grottesca. Nella inquietante “notte della Repubblica” che si spalanca sull’incerto 2013, brilla il bagliore – non scontato – dei roghi delle tessere del Pd, il “popolo delle primarie” che sembra aver finalmente capito di esser stato ferocemente preso in giro: a personaggi come Bersani, Letta, Bindi, Violante, D’Alema e Finocchiaro non è mai passata nemmeno per l’anticamera del cervello l’ipotesi di un vero cambiamento. Se l’antiberlusconismo tanto sbandierato era solo un collante di comodo, fragile e insincero, ora è scaduto anche quello. Così si comprende meglio l’irruzione sulla scena di Beppe Grillo, come sostiene Giovanni Minoli: «Grillo ha fatto un miracolo democratico, ha evitato una guerra civile».
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Corona No-Tav: combatterò per la val Susa, nuovo Vajont
Noi non viviamo in democrazia, viviamo in democratura: è un misto tra democrazia e dittatura. Per questo io sto con gli abitanti della val di Susa: non perché mi schiero con un colore politico o con l’altro, ma perché la ragione ce l’hanno loro che vivono quei luoghi, che sono da secoli in quella terra, che la amano, hanno sofferto, l’hanno costruita con il sangue e il sudore. Lì ci abita il cuore, non ci abita gente normale, non ci abitano corpi. E’ inaccettabile che qualcuno si arroghi il diritto di andare lì, come hanno fatto con il Vajont, e spazzare via la gente, spazzare via i boschi, secoli di cultura, tradizioni, storie. Motivazioni tecniche? Ogni omicidio ha bisogno di un movente. E chi va in val di Susa e vuole stuprarla non si rende conto di fare un danno al cuore di quella gente, non al portafogli. Per questo non riusciranno a comprare gli abitanti della valle.
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Grillo: non fermerete la rivoluzione della verità
Kamikaze della perestrojka: così lo staff di Gorbaciov etichettò, all’epoca, l’oscuro e ambiguo Boris Eltsin, che strattonava l’uomo del Cremlino per affrettare le riforme e poi, una volta al potere, instaurò la “democratura” di Mosca, in seguito corretta – a modo suo – da Vladimir Putin. Non corre quei rischi il kamikaze dell’antipolitica italiana, Beppe Grillo, il pirata della Rete, principe delle incursioni mediatiche più esplosive degli ultimi anni, da quando cioè il crollo del Muro di Berlino ha trascinato con sé anche i rottami della Prima Repubblica italiana, traslocati precariamente nella Seconda, ereditati da Silvio Berlusconi e “smascherati”, prima che da chiunque altro, dal comico genovese.
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Dragosei: l’Occidente deve temere la nuova Russia?
Dal comunismo al consumismo (degli oligarchi), passando attraverso l’ex Kgb e i suoi “silòviki”, gli uomini forti che hanno sorretto Vladimir Putin nella campagna intrapresa per riprendere il controllo del paese dopo l’ambigua e caotica stagione inaugurata da Boris Eltsin sulle ceneri dell’Urss, impero ereditato dalla generosa perestrojka di Mikhail Gorbaciov e poi minacciato dall’intraprendenza della Nato alle sue frontiere. Ora tutto è cambiato, ancora una volta: l’Occidente deve quindi temere la nuova Russia? E’ la domanda a cui tenta di rispondere Fabrizio Dragosei, corrispondente del “Corriere della Sera” da Mosca, autore del volume “Le stelle del Cremlino”.