Archivio del Tag ‘derby’
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Di Maio e Gentiloni, Salvini con Silvio: Italia, non pervenuta
Non una parola sui vaccini, silenzio assoluto sull’euro, eppure (o meglio: e quindi) Luigi Di Maio si candida a premier, rispolverando l’antico refrain gandhiano (“prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci”), come se i 5 Stelle avessero davvero combattuto qualche epica battaglia contro il potere responsabile della grande crisi, anche italiana. «Era il segreto di Pulcinella», annota Antonio Fanna sul “Sussidiario” commentando la “discesa in campo” del vicepresidente della Camera, che «ha avviato da tempo il giro delle sette chiese per accreditarsi negli ambienti che contano, perché con gli elettori bisogna mostrare la faccia antisistema ma con i potenti si deve apparire affidabili». Il newsmagazine accusa i grillini: «Il copione ipocrita non cambia: antisistema davanti agli elettori, e codice etico interno addio, modificato a uso e consumo di chi decidono i capi», decisi a proteggersi, come nel caso della Raggi, del sindaco livornese Nogarin e dello stesso Di Maio, denunciato dall’ex candidata genovese dei 5 Stelle. «Sulle proteste contro la magistratura e chi dà seguito alle “querele sul nulla”», per il “Sussidiario” Di Maio «si allinea con Matteo Salvini e la Lega dalle tasche svuotate».
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Barnard: ma i padroni di Hillary temono la guerra atomica
Può sembrare assurdo, ma il rischio-guerra è minore, oggi, se la Casa Bianca finisce nelle mani del super-falco Hillary Clinton. Motivo: la Terza Guerra Mondiale non conviene ai suoi “padroni”, i signori di Wall Street. Lo sostiene Paolo Barnard, sconcertato per «l’isteria» diffusa secondo cui la Clinton – a differenza di Trump – scatenerebbe un conflitto atomico con la Russia. Errore: «Non va visto il candidato, va visto il paese», cioè gli Stati Uniti d’America, che «sono un impero», ma anche «un impero che sta crollando». Basta dare un’occhiata allo scenario geopolitico: il presidente cinese Xi Jinping che annuncia di riesumare la Via della Seta, «cioè di ricostruire l’Impero cinese dallo Stretto di Malacca fino alle porte della Turchia», e «il girone infernale del Medio Oriente, quel manicomio criminale alla deriva in cui gli Usa letteralmente si sono persi, e che li ha già succhiati dentro a una catastrofe che dissanguerà una Washington anemica fino alla morte di tutta la sua politica estera», e forse «fino a una guerra nucleare». Morale: «Qualsiasi presidente americano, in tutto l’arco che va da Bernie Sanders a Ted Cruz, dovrà affrontare il crollo dell’impero, e questo significa letteralmente che ogni giorno nei prossimi cento anni è il giorno del possibile scoppio della Terza Guerra Mondiale, convenzionale o meno, indipendentemente dal candidato alla Casa Bianca».Il punto non è assolutamente se la Clinton sia più guerrafondaia di Trump, insiste Barnard nel suo blog: «La questione è quale candidato americano assillato dal crollo dell’impero resisterà più tempo prima di una dichiarazione di guerra mondiale». E la risposta fra Trump e Clinton «è senza dubbio la Clinton, perché Hillary almeno pensa», e in più «deve rispondere ai suoi padroni», mentre Trump «non pensa e risponde solo agli sbalzi di serotonina del suo cervello da mucca pazza». Sulla Clinton, ovviamente, nessuna illusione: «Sappiamo con certezza, fin dai tempi della giovane coppia Clinton in Arkansas, chi governa e possiede quella coppia di criminali internazionali. Ne conosciamo nomi cognomi e soprattutto gli interessi, che oggi si sono spostati da quelli delle lobby agricole e immobiliari degli anni ’90, a quelli di Wall Street». E qui, per Barnard, viene il punto cruciale, se si teme la Terza Guerra Mondiale: «L’ultima cosa al mondo che la finanza vuole è una guerra nucleare, semplicemente perché non esiste modello algoritmico, statistico, o tendenza di Borsa che racconti all’uomo con le scarpe da 5.000 dollari a Manhattan o a Francoforte cosa accadrebbe alla finanza in caso di guerra nucleare. Non esiste, non ce l’hanno. E gente che oggi ha in mano assets per oltre 30 volte il Pil mondiale, non rischia il culo su un modello che non conosce».Al contrario, continua Barnard, i super-potenti dell’élite finanziaria «sanno benissimo che bottoni premere, dove investire, che profitti si fanno in caso di guerra convenzionale», ma appunto, «non in caso di guerra atomica». Sicché, «la Clinton dovrà guardarli tutti in faccia prima di schiacciare il bottone rosso e non lo farà mai per prima». Al contrario, continua Barnard, Trump sarebbe completamente solo di fronte a quattro fattori ad altissimo rischio: l’espansionismo Nato alle soglie di Mosca, le nuove mini-atomiche americane, l’esplosivo derby Israele-Iran e il dilagare delle basi militari Usa. Il pericolo è motivato da ragioni drasticamente concrete: «Qualsiasi candidato alla Casa Bianca potrebbe scatenare una Terza Guerra da un giorno all’altro, perché dovrà preservare l’Impero per la sopravvivenza di 350 milioni di americani nel loro stile di vita, che non verrà mai messo in discussione, mai». Lo dimostra il fatto che persino Bernie Sanders appoggia le guerre “utili”, infatti «ha speso parole mielose per “i nostri migliori e valorosi americani”, cioè le truppe Usa in guerra, e mai ha pronunciato una singola parola per lo smantellamento totale della finanza speculativa».L’espansionismo Nato, ricorda Barnard, nasce ben prima di Trump e Clinton: fu Ronald Reagan che, «con la faccia come il culo», tradì le promesse fatte a Gorbaciov negli anni ’80 di non espandere la Nato di un metro a Est. «Oggi la Nato è letteralmente arrivata al confine con la Russia, e “deve” farlo, sempre per il solito motivo, cioè il controllo delle risorse materiali e finanziarie» del maggior numero possibile di nazioni, «e dei flussi di energia nell’interesse dell’Impero al crollo». Attenzione: Trump «non si oppone all’espansionismo, dice solo che lo devono pagare gli altri». In effetti, «non ha mai messo in programma il ritiro Nato a ovest della Polonia». Così, «la scintilla finale con Mosca rimarrà tale e quale, pronta a scoppiare, con Donald o con Hillary o con chiunque altro». E la donna «non è affatto peggio», sostiene Barnard. Sviluppi di crisi potrebbero avere tempi brevissimi, con l’impiego di armi micidiali come le mini-atomiche B-61 Model 12 per le quali Obama ha speso 1.000 miliardi di dollari. «Escluso che la Clinton possa prendere per prima una decisione atomica per i motivi detti sopra», cioè la necessità di consultare prima i suoi “padroni” di Wall Street, «la facilità dell’uso di una testata “mini” capace ad esempio di distruggere selettivamente un’area grande come 4 quartieri di Milano, si addice molto di più a un rantolo cerebrale di Trump se, poniamo, vi fosse un attentato Isis a Filadelfia con 100 morti».In assoluto, però, secondo Barnard il maggior pericolo di guerra atomica, il più realistico, «non risiede in una consolle di un bunker di Washington, ma a Tel Aviv». Norman Finkelstein definì Israele «uno Stato psicotico». Per Barnard, «i sionisti sono non solo dei criminali internazionali di comprovata devastante letalità, ma sono anche letteralmente dei pazzi». Finora, «l’unico fattore che ha impedito a Israele di usare l’atomica sull’Iran è stata la mano del “padrone” a Washington». Ora, Trump «vuole il disingaggio degli Stati Uniti soprattutto dal rapporto Iran-Usa-Israele, e l’ha detto: per prima cosa ripudierà l’accordo Obama-Rouhani sul nucleare». Questo, per Barnard, significa solo una cosa: che «verrà tolta la “sicura” dalla pistola dei pazzi genocidi sionisti», lasciando mano libera a Tel Aviv per «far partire le testate contro l’Iran», scatenando la guerra atomica. «Qui – insiste Barnard – dobbiamo scongiurare Dio di far vincere la Clinton, che invece la mano sugli psicopatici eredi di Theodor Herzl la terrà eccome».Quanto all’espansionsimo imperiale post-Urss inaugurato con Colin Powell, la “Lillypad expansion”, cioè l’espansione a foglia di ninfea delle basi Nato, se ieri era un’opzione oggi è un “obbligo assoluto” per puntellare l’impero declinante, «pena appunto la sua morte», cominciando con l’accerchiare la Via della Seta cinese in piena costruzione. «E stanno succedendo entrambe le cose contemporaneamente», con Pechino che «ha già piazzato 46 miliardi di dollari in Pakistan protetti da oltre 10.000 soldati con la mira al Golfo Persico», e intanto «sta costruendo piste di decollo per bombardieri in tutti i distretti del Sud-Est Asiatico che controlla», mentre gli Usa «stanno circondando i cinesi» com la “Lillypad expansion” «mirando proprio agli Stretti di Malacca da cui passa la gran parte dell’energia di cui necessita Pechino». Washington «semina basi e flotte, con l’aiuto dell’Australia, come ha recentemente rivelato il grande John Pilger». Dunque: «Avete voi sentito Trump parlare di un piano sensato per la distensione con la Cina?». Soprattutto: sarebbe capace, Trump, «di pensare a una cosa immensa come un piano di distensione fra potenze?». La Clinton, almeno, «non reagirà a una crisi dei missili nel Pacifico con lo sguardo demente sotto alla parrucca di un Trump».Può sembrare assurdo, ma il rischio-guerra è minore, oggi, se la Casa Bianca finisce nelle mani del super-falco Hillary Clinton. Motivo: la Terza Guerra Mondiale non conviene ai suoi “padroni”, i signori di Wall Street. Lo sostiene Paolo Barnard, sconcertato per «l’isteria» diffusa secondo cui la Clinton – a differenza di Trump – scatenerebbe un conflitto atomico con la Russia. Errore: «Non va visto il candidato, va visto il paese», cioè gli Stati Uniti d’America, che «sono un impero», ma anche «un impero che sta crollando». Basta dare un’occhiata allo scenario geopolitico: il presidente cinese Xi Jinping che annuncia di riesumare la Via della Seta, «cioè di ricostruire l’Impero cinese dallo Stretto di Malacca fino alle porte della Turchia», e «il girone infernale del Medio Oriente, quel manicomio criminale alla deriva in cui gli Usa letteralmente si sono persi, e che li ha già succhiati dentro a una catastrofe che dissanguerà una Washington anemica fino alla morte di tutta la sua politica estera», e forse «fino a una guerra nucleare». Morale: «Qualsiasi presidente americano, in tutto l’arco che va da Bernie Sanders a Ted Cruz, dovrà affrontare il crollo dell’impero, e questo significa letteralmente che ogni giorno nei prossimi cento anni è il giorno del possibile scoppio della Terza Guerra Mondiale, convenzionale o meno, indipendentemente dal candidato alla Casa Bianca».
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Pd a rischio: gli astensionisti colpiranno, magari a Torino
Elezioni amministrative solo di nome: è stato un voto altamente politico, secondo Aldo Giannuli. «La politica non è solo matematica, ma anche chimica: gli effetti dipendono da come si combinano gli elementi, e se chiami la gente a votare per le comunali avendo già in prospettiva la riforma costituzionale del paese, non puoi pensare che il voto prescinda da questo». Le comunali «sono state l’aperitivo del referendum che, a sua volta, sarà la premessa delle elezioni politiche». A quanto pare, questo è «l’inizio di una fase molto delicata di cambiamento». Fine del bipolarismo, siamo ormai in un sistema quadripolare: centrosinistra, centrodestra, 5 Stelle e poi l’oceano dell’astensionismo, «che non è affatto un’area silente», perché «gli astenuti non sono cittadini morti, ma cittadini che non trovano una risposta soddisfacente». Si ritirano, per ora, nell’“area muta” del non-voto, ma «da un momento all’atro possono rientrare, provocando effetti devastanti e imprevisti, non appena trovino un punto di aggregazione». Ovvio: «Otto anni di crisi non potevano non avere un riflesso anche sul piano politico, e il “polo muto” è il sedimento di rancori, rabbia, senso di rivolta che sta covando in fasce sempre più numerose di elettorato».Prima o poi, scrive Giannuli sul suo blog, questo “sentimento” si manifesterà nel più violento dei temporali: «E non è detto che debba necessariamente essere un temporale elettorale, potremmo trovarci di fronte a una rivolta di piazza, impossibile ora da qualificare se di destra o di sinistra». Tutto questo, all’indomani della «prima seria sconfitta politica del Pd renziano e del suo incipiente “partito della nazione”». Se le regionali 2015 «ridimensionarono il leggendario 41% delle europee, ma confermando un valore superiore al 33%», oggi il Pd è al 17% a Napoli (dove è escluso anche dal ballottaggio) e sotto il 30% a Roma e Torino, «dove rischia molto seriamente per il secondo turno». A Bologna il Pd è rimasto 11 punti al di sotto delle previsioni che lo volevano vincente al primo turno. E in tutti i Comuni minori perde voti. «Una sconfitta secca e senza appello, che si intuisce destinata a ingigantirsi nel secondo turno». A Roma, «la battaglia è persa senza appello». A Milano, il distacco fra Sala (che a gennaio era dato oltre il 50%) e Parisi è praticamente nullo: è possibile che molti grillini voteranno Parisi.Rimonta non impossibile anche a Torino: Chaiara Appendino potrebbe beffare Fassino incassando voti di Lega, Forza Italia e Airaudo. L’unica piazzaforte al sicuro resta Bologna, «dove però non basterà un magro 53-54% a riscattare la figuraccia iniziale». Dunque, il Pd rischia seriamente di perdere in tutte tre le città italiane con più di un milione di abitanti (Roma, Milano, Napoli) e ha qualche probabilità di perdere a Torino. «E se anche qui Renzi dovesse essere sconfitto, potrebbe fare una cosa: salire sulla Mole, sul punto più alto possibile, e buttarsi di sotto senza nemmeno aspettare ottobre», scrive Giannuli. Al che, le acque potrebbero iniziare ad agitarsi: forse, la minoranza Pd troverà il coraggio di dire che al referendum si vota No. «Il Partito della Nazione muore prima ancora di nascere (bell’apporto, quello di Verdini a Napoli) mentre il Pd entra chiaramente in crisi».Il secondo polo destabilizzato è la destra che, pur sconfitta dove si è presentata divisa (Roma e Torino), resiste a Napoli e Bologna e ha una forte affermazione a Milano. Forza Italia scompare a Roma e Torino, ma ha un buon successo a Napoli e Milano. «Sulla carta, i derby dove la destra si presentava divisa sono stati vinti da Salvini, ma che te ne fai di battere Marchini e Napoli se poi resti escluso dal ballottaggio?». Queste elezioni dicono due cose, insiste Giannuli. La prima è che la destra non è scomparsa: a Roma, se si fossero presentati uniti, sarebbero andati al ballottaggio al posto di Giachetti; a Milano, Napoli e Bologna gli sfidanti sono tutti del centrodestra. «Ma ha speranza di affermarsi solo se ha il volto moderato dei Parisi, dei Lettieri e delle Bergonzoni, non dove ha candidati in camicia nera o esagitati come Salvini che, per di più, non beccano un voto a sud dell’Emilia. Quindi il giovanotto leghista può dare l’addio ai suoi sogni di essere il candidato presidente del Consiglio della destra». Anche Berlusconi «è finito», ma può ancora esercitare un ruolo come king-maker del futuro centrodestra: « Anche qui si apre una transizione tempestosa, che non sappiamo a cosa approderà». Unico vero vincitore, il M5S, per la prima volta senza Casaleggio e con Grillo in disparte: «Per la prima volta i grillini sono chiamati a governare», e non piccole città di provincia come Parma o Livorno, ma la capitale e, forse, anche Torino. «Se non ce la fanno, questa può essere la tomba del movimento».Elezioni amministrative solo di nome: è stato un voto altamente politico, secondo Aldo Giannuli. «La politica non è solo matematica, ma anche chimica: gli effetti dipendono da come si combinano gli elementi, e se chiami la gente a votare per le comunali avendo già in prospettiva la riforma costituzionale del paese, non puoi pensare che il voto prescinda da questo». Le comunali «sono state l’aperitivo del referendum che, a sua volta, sarà la premessa delle elezioni politiche». A quanto pare, questo è «l’inizio di una fase molto delicata di cambiamento». Fine del bipolarismo, siamo ormai in un sistema quadripolare: centrosinistra, centrodestra, 5 Stelle e poi l’oceano dell’astensionismo, «che non è affatto un’area silente», perché «gli astenuti non sono cittadini morti, ma cittadini che non trovano una risposta soddisfacente». Si ritirano, per ora, nell’“area muta” del non-voto, ma «da un momento all’altro possono rientrare, provocando effetti devastanti e imprevisti, non appena trovino un punto di aggregazione». Ovvio: «Otto anni di crisi non potevano non avere un riflesso anche sul piano politico, e il “polo muto” è il sedimento di rancori, rabbia, senso di rivolta che sta covando in fasce sempre più numerose di elettorato».
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Salvini è perfetto per far sembrare Renzi il meno peggio
Tra i migliori trucchi per vincere, in qualsiasi campo, c’è quello di scegliersi il nemico. Non è un trucco difficile: basta che siano tutti distratti o ipnotizzati ed è un giochetto da ragazzi. Come se il Barcellona potesse decidere da solo che una finalissima la giocherà, che so, contro la Battipagliese. E’ un’operazione semplice: basta dire chi è l’avversario e assicurarsi una platea plaudente che si dica d’accordo, che magari si finga preoccupata dicendo cose come: “Ah, però, non sottovalutiamo la Battipagliese”. Così Matteo Renzi and his friends indicano in Matteo Salvini il nemico, l’unica opposizione esistente, l’unico avversario. Gli altri, o nominati con sufficienza o nemmeno citati: concentrarsi su Salvini sembra essere l’ordine di scuderia, forse nella speranza che al momento della scelta suprema e definitiva l’italiano di imprinting anche vagamente democratico preferisca il neocraxismo del Pd renzista alle ruspe dell’altro ragazzotto, quello con la felpa.E’ una buona mossa, soltanto un po’ rischiosa. Intanto perché vista la rapidità con cui Renzi perde pezzi di elettorato le cose possono cambiare velocemente (si veda l’ingresso al Nazzareno dalla porta posteriore, essendo quella principale presidiata da ex elettori infuriati, insegnanti nella fattispecie). E poi perché per indicare un avversario bisogna in qualche modo mettersi sul suo piano, accettarne almeno il gioco, sfidarlo sullo stesso campo. Si ricorda per esempio en passant che mentre il Salvini gigioneggia in giro parlando di ruspe e pogrom, le ruspe sono state usate a Roma, alla favela di Ponte Mammolo, per cacciare senza preavviso gente che ci abitava da anni, senza soluzioni alternative accettabili. Risultato: in una città dove si discute fittamente se gli affari sulla pelle dei migranti si possano o no chiamare “mafia” (una mafia decisamente bipartisan, tra fascisti conclamati, coop rosse e esponenti Pd), c’è ancora gente che dorme per strada davanti alla sua baracca spianata dalle ruspe.Eroiche associazioni di volontari e persone civili chiedono aiuto sui social: servono medicine, cibo, acqua, carta igienica. Qualche tenda l’ha fornita una nota (e a questo punto: meritoria) catena di articoli sportivi, mentre le istituzioni si accapigliano sui giornali a proposito di inchieste e mandati di cattura. Il salvinismo teorico di Salvini, insomma, si contrappone a un salvinismo reale, che le ruspe le usa davvero, ma si circonda di una narrazione umanitaria, confortevole pietosa. C’è chi dice che l’onnipresenza di Salvini in tivù (è quello, non il brillante eloquio da seconda media, che gli procura consensi) sia incoraggiata e agevolata proprio a questo scopo: trasformare una dialettica politica complessa in un derby tra buoni e cattivi, o almeno tra peggio e meno peggio.E’ una dietrologia complottista e quindi non le daremo peso. Ma è certo che anche i media tifano per quella soluzione da pensiero binario: o il Matteo buono (?) o il Matteo cattivo (!), e non ci sarà altra scelta. Sanno tutti che non è così, ma per il momento la cosa sembra funzionare: è una semplificazione, una caricatura, uno schema facile, e dunque – in tempi di distrazione di massa – conveniente. Il giochetto non durerà a lungo: tra uno che straparla di ruspe e uno che dice “Ok, discutiamo” puntando la pistola, sarà inevitabile una qualche terza via. Perché il trucchetto di scegliersi il nemico ha questa controindicazione: qualcuno potrebbe pensare che sono nemici entrambi, e finiscono per somigliarsi.(Alessandro Robecchi, “Ti piace vincere facile? Basta scegliere l’avversario”, da “Micromega” del 13 giugno 2015).Tra i migliori trucchi per vincere, in qualsiasi campo, c’è quello di scegliersi il nemico. Non è un trucco difficile: basta che siano tutti distratti o ipnotizzati ed è un giochetto da ragazzi. Come se il Barcellona potesse decidere da solo che una finalissima la giocherà, che so, contro la Battipagliese. E’ un’operazione semplice: basta dire chi è l’avversario e assicurarsi una platea plaudente che si dica d’accordo, che magari si finga preoccupata dicendo cose come: “Ah, però, non sottovalutiamo la Battipagliese”. Così Matteo Renzi and his friends indicano in Matteo Salvini il nemico, l’unica opposizione esistente, l’unico avversario. Gli altri, o nominati con sufficienza o nemmeno citati: concentrarsi su Salvini sembra essere l’ordine di scuderia, forse nella speranza che al momento della scelta suprema e definitiva l’italiano di imprinting anche vagamente democratico preferisca il neocraxismo del Pd renzista alle ruspe dell’altro ragazzotto, quello con la felpa.
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Salvare la democrazia: la questione morale della Le Pen
L’inaudito plebiscito pro Renzi, largamente inatteso dallo stesso Pd, relega l’Italia in posizione ancora una volta subalterna e defilata rispetto alla grande partita europea che si è ufficialmente aperta con le storiche elezioni del 25 maggio 2014, con gli euroscettici al comando in due paesi leader come la Gran Bretagna e soprattutto la Francia, dove più è evidente la bancarotta storica (politica, etica e culturale) della socialdemocrazia, la forza che più di ogni altra ha tacitamente supportato l’euro-disastro neoliberista, tradendo il proprio elettorato di sinistra. Se oggi il Pd può raccontare che – insieme a Martin Schulz – tenterà di mitigare l’austerity di Bruxelles imposta dalla Deutsche Bank per tramite della Mekel, potrà farlo solo grazie alla radicale protesta elettorale dei paesi più avanzati, la Francia in primis, che ora costringerà la Troika a fare i conti con la pressante richiesta di sovranità democratica di molti popoli europei, dalla Grecia all’Austria.Nelle ultime settimane, la campagna elettorale italiana ha riesumato – facendone oggetto di contesa polemica – la “questione morale” impugnata da Enrico Berlinguer, indimenticato leader di un partito “eretico” e anomalo, popolare e democratico, impegnato a contrastare energicamente la corruzione della classe politica italiana dell’epoca, cioè la partitocrazia anticomunista cui si perdonavano le tangenti purché facesse argine contro il “pericolo rosso”, in piena guerra fredda contro l’Unione Sovietica. Subito dopo la caduta del Muro, quella storica tolleranza verso la malapolitica italiana cessò di colpo, sotto la scure di Mani Pulite che decapitò la vecchia classe dirigente partitocratica proprio mentre quella nuova, elitaria e tecnocratica, stava già brigando per consegnare il paese all’europeismo delle banche, della grande industria e della finanza. Esattamente il tipo di europeismo al quale, il 25 maggio 2014, milioni di europei (e pochissimi italiani) hanno detto di no.Della questione morale di oggi – quella vera – si è sentito parlare moltissimo nel Regno Unito e soprattutto in Francia, dove «il popolo ha parlato», come ha detto Marine Le Pen, e ha messo al teppeto il socialista Hollande, prono ai diktat del regime affaristico euro-atlantico che ha un solo grande obiettivo: radere al suolo la democrazia, lo Stato di diritto dei cittadini, mediante la privatizzazione definitiva della finanza pubblica, delle banche centrali e della moneta, riducendo a zero la capacità di spesa pubblica. In Italia il nome di Berlinguer è stato speso chiacchierando di auto blu e stipendi d’oro, mentre – come ha ricordato Giorgio Cremaschi alla vigilia delle elezioni – proprio Berlinguer si era opposto al monetarismo dello Sme, il bisnonno dell’euro, intuendo che il controllo delle élite sulla moneta avrebbe messo in ginocchio lo Stato e quindi la democrazia popolare. Questa battaglia, vittoriosa e centrale per il nostro futuro, è stata adottata da Marine Le Pen, contestando il sistema di potere della Francia, cioè dello Stato che fu più decisivo per la nascita di questa insostenibile, oligarchica Unione Europea. Gli italiani? Non pervenuti: il derby era tra Renzi e Grillo, gli 80 euro e le auto blu.L’inaudito plebiscito pro Renzi, largamente inatteso dallo stesso Pd, relega l’Italia in posizione ancora una volta subalterna e defilata rispetto alla grande partita europea che si è ufficialmente aperta con le storiche elezioni del 25 maggio 2014, con gli euroscettici al comando in due paesi leader come la Gran Bretagna e soprattutto la Francia, dove più è evidente la bancarotta storica (politica, etica e culturale) della socialdemocrazia, la forza che più di ogni altra ha tacitamente supportato l’euro-disastro neoliberista, tradendo il proprio elettorato di sinistra. Se oggi il Pd può raccontare che – insieme a Martin Schulz – tenterà di mitigare l’austerity di Bruxelles imposta dalla Deutsche Bank per tramite della Merkel, potrà farlo solo grazie alla radicale protesta elettorale dei paesi più avanzati, la Francia in primis, che ora costringerà la Troika a fare i conti con la pressante richiesta di sovranità democratica di molti popoli europei, dalla Grecia all’Austria.
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Chiamateli ultras o black bloc, sono manovalanza impunita
Un ricordo lontano: Genova 2001. Un giovane di borgata, che mi raccontava un strana storia. Una storia di ultras, della Roma e della Lazio, di quelli pieni di diffide, precedenti per rissa e svastiche sulle braccia, convocati in commissariato per una interessante proposta. «Vi va di andare a menare un po’ le mani? Di divertirvi a pestare zecche? Ci sarebbe da andare a Genova». Non ho mai avuto altre conferme, ma quella storia mi è rimasta in testa. Ed è una storia che spiega molti misteri di questa ennesima notte di follia calcistica in finale di Coppa: perché un soggetto come lo sparatore, che aveva persino fatto sospendere un derby, fosse a piede libero dopo una prescrizione rapidissima e in possesso di una pistola; perché un altro soggetto vicino alla camorra, come Genny ‘a carogna, potesse mettersi a trattare con le forze dell’ordine a nome di un’intera curva ostentando una maglietta che inneggia all’assassino di un poliziotto. Immaginatevi un NoTav, con una maglietta del genere, e poi mi dite.Di quali protezioni godono allora i capi ultrá, e soprattutto perché? Si tratta solo di “questioni di sicurezza”, o costoro vengono trattati in guanti bianchi perché sono “a disposizione” per un altro genere di lavori sporchi? Chi sono quei famosi “infiltrati” con i cappucci neri che durante certe manifestazioni da mandare in malora tirano sassi e bruciano cassonetti, costosi poliziotti travestiti o ultras in servizio gratuito, che avranno in cambio dei loro servigi l’impunitá e il rispetto nello stadio? D’altronde, è normale che lo Stato si serva di bassa manovalanza per certi lavoretti, e serve un vivaio che prepari e mantenga il “personale specializzato”. Lo stadio istruisce, lo stadio protegge.Certo, il prezzo da pagare è vedere questori e prefetti che trattano in diretta Tv con Genny ‘a carogna, lo Stato che si umilia davanti alle belve che di nascosto poi userá, ma i gesti di rispetto sono indispensabili. Così come le impunitá, mafia insegna. Ci consola pensare che a tanto schifo non si piega soltanto lo Stato italiano, ma pare essere una prassi di tanti paesi. A Odessa, il 2 maggio, tra coloro che hanno bruciato il palazzo dei sindacati con la gente dentro c’erano tantissimi ultras. Pure loro, mandati a divertirsi e pestare zecche da ordini superiori.(Debora Billi, “Ultras, la bassa manovalanza dello Stato impunita e rispettata”, dal blog “L’Estremista” del 4 maggio 2014).Un ricordo lontano: Genova 2001. Un giovane di borgata, che mi raccontava un strana storia. Una storia di ultras, della Roma e della Lazio, di quelli pieni di diffide, precedenti per rissa e svastiche sulle braccia, convocati in commissariato per una interessante proposta. «Vi va di andare a menare un po’ le mani? Di divertirvi a pestare zecche? Ci sarebbe da andare a Genova». Non ho mai avuto altre conferme, ma quella storia mi è rimasta in testa. Ed è una storia che spiega molti misteri di questa ennesima notte di follia calcistica in finale di Coppa: perché un soggetto come lo sparatore, che aveva persino fatto sospendere un derby, fosse a piede libero dopo una prescrizione rapidissima e in possesso di una pistola; perché un altro soggetto vicino alla camorra, come Genny ‘a carogna, potesse mettersi a trattare con le forze dell’ordine a nome di un’intera curva ostentando una maglietta che inneggia all’assassino di un poliziotto. Immaginatevi un NoTav, con una maglietta del genere, e poi mi dite.