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Archivio del Tag ‘deregulation’

  • Tisa, accordo segreto: privatizzare anche scuola e sanità

    Scritto il 25/6/14 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Si chiama “Tisa”, acronimo di “Trade in services agreement”, ovvero “accordo di scambio sui servizi”. E’ un trattato che non riguarda le merci, ma i servizi, ovvero il cuore dell’economia dei paesi sviluppati, come l’Italia, che è uno dei paesi europei che lo sta negoziando attraverso la Commissione Europea. Obiettivo: privatizzare tutti i servizi fondamentali, oggi ancora pubblici – sanità, istruzione, trasporti – su pressione di grandi lobby e multinazionali. «Un accordo che viene negoziato nel segreto assoluto e che, secondo le disposizioni, non può essere rivelato per cinque anni anche dopo la sua approvazione», spiega Stefania Maurizi su “L’Espresso”, che pubblica – in esclusiva un team di media internazionali – l’ultimo scoop di Wikileaks, l’organizzazione di Julian Assange. Gli interessi in gioco sono enormi: il settore servizi è il più grande per posti di lavoro nel mondo e produce il 70% del Pil globale. Solo negli Usa rappresenta il 75% dell’economia e genera 8 posti di lavoro su 10 nel settore privato.
    Dopo il Gats del 1995 e il Ttip, il Trattato Transatlantico tuttora in discussione (anche quello a porte chiuse) per vincolare l’Europa alle regole commerciali americane sulle merci, mettendo fine alle tutele europee sul lavoro, l’ambiente, l’energia, la salute, l’agricoltura e la sicurezza alimentare, il Tisa punta dritto alla deregulation privatizzata dei servizi, coinvolgendo i mercati più importanti del mondo: gli angolassoni Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda e Canada, i 28 paesi dell’Unione Europea, e poi Svizzera, Islanda, Norvegia, Liechtenstein, Israele, Turchia, Taiwan, Hong Kong, Corea del Sud, Giappone, Pakistan, Panama, Perù, Paraguay, Cile, Colombia, Messico e Costa Rica. «Con interessi in ballo giganteschi: gli appetiti di grandi multinazionali e lobby sono enormi», scrive “L’Espresso”, che indica la “Coalition of Services Industries”, lobby americana che porta avanti un’agenda di privatizzazione dei servizi, come «la più aggressiva». Per la “Coalition”, «Stati e governi sono semplicemente visti come un intralcio al business». Infatti ammette: «Dobbiamo supportare la capacità delle aziende di competere in modo giusto e secondo fattori basati sul mercato, non sui governi».
    Bozze del trattato e informazioni precise sulle trattative non ce ne sono, scrive Stefania Maurizi. Per questo è cruciale il documento Wikileaks che “L’Espresso” rivela: «Per la prima volta dall’inizio delle trattative Tisa, viene reso pubblico il testo delle negoziazioni in corso sulla finanza: servizi bancari, prodotti finanziari, assicurazioni». Il primo testo risale al 14 aprile, mentre altre comunicazioni dimostrano divergenze tra i vari paesi, separati da ambizioni differenti. A colpire subito è il carattere di segretezza: «Questo documento deve essere protetto dalla rivelazione non autorizzata», si prescrive. Il documento potrà essere desecretato solo «dopo cinque anni dall’entrata in vigore del Tisa e, se non entrerà in vigore, cinque anni dopo la chiusura delle trattative». Osserva Maurizi: «Pare difficile credere che, nonostante la crisi senza precedenti che ha travolto l’intera economia mondiale, distruggendo imprese, cancellando milioni di posti di lavoro e, purtroppo, anche tante vite umane, le nuove regole finanziarie mondiali vengano decise in totale segretezza».
    Il carattere top secret si spiega forse con la paura che si scatenò dopo il fallimento del “Doha Round”, cioè i negoziati avviati nel 2001 a Doha, nel Qatar, che scatenarono un’ondata di proteste contro la globalizzazione selvaggia, culminata con il bagno di sague al G8 di Genova. Il forcing per la mondializzazione forzata – da una parte Usa, Ue e Giappone, dall’altra Cina, India e America Latina – è fallito nel 2011, dopo dieci anni di trattative. «Con il fallimento del Doha Round – continua “L’Espresso” – gli Stati Uniti e i paesi che spingono per globalizzazione e liberalizzazioni hanno spostato le trattative in un angolo buio (impossibile definirlo semplicemente discreto, vista la segretezza che avvolge le negoziazioni e il testo dell’accordo), lontano dall’Organizzazione mondiale del Commercio, per sfuggire alle piazze che esplodevano in massicce, e a volte minacciose e violente, proteste “no global”». Il risultato è il Tisa, «di cui nessuno parla e di cui pochissimi sanno», anche se questo accordo «condizionerà le vite di miliardi di persone».
    «Il più grande pericolo del Tisa è che fermerà i tentativi dei governi di rafforzare le regole nel settore finanziario», spiega Jane Kelsey, professoressa di legge dell’Università di Auckland, Nuova Zelanda, nota per il suo approccio critico alla globalizzazione. «Il Tisa è promosso dagli stessi governi che hanno creato nel Wto il modello finanziario di deregulation che ha fallito e che è stato accusato di avere aiutato ad alimentare la crisi economica globale», sottolinea Kelsey. «Un esempio di quello che emerge da questa bozza filtrata all’esterno dimostra che i governi che aderiranno al Tisa rimarranno vincolati ed amplieranno i loro attuali livelli di deregolamentazione della finanza e delle liberalizzazioni, perderanno il diritto di conservare i dati finanziari sul loro territorio, si troveranno sotto pressione affinché approvino prodotti finanziari potenzialmente tossici e si troveranno ad affrontare azioni legali se prenderanno misure precauzionali per prevenire un’altra crisi».
    L’articolo 11 del testo fatto filtrare da Wikileaks non lascia dubbi su come i dati delle transazioni finanziarie siano al centro delle mire dei paesi che trattano. L’Europa richiede che nessun paese «adotti misure che impediscano il trasferimento o l’esame delle informazioni finanziarie», ma propone che il diritto dello Stato di proteggere i dati personali e la privacy rimanga intatto, a condizione che «non venga usato per aggirare quanto prevede questo accordo». Un paradiso fiscale come Panama, invece, chiede di specificare che «un paese parte dell’accordo non sia tenuto a fornire o a permettere l’accesso a informazioni correlate agli affari finanziari e ai conti di un cliente individuale di un’istituzione finanziaria o di un fornitore cross-border di servizi finanziari». Gli Stati Uniti invece sono netti: i paesi che aderiscono all’accordo permetteranno al fornitore del servizio finanziario di trasferire i dati dentro e fuori dal loro territorio, in forma elettronica o in altri modi, senza alcun rispetto della privacy.
    «Quello che colpisce di questo articolo del Tisa sui dati – scrive Stefania Maurizi – è che risulta in discussione proprio mentre nel mondo infuria il dibattito sui programmi di sorveglianza di massa della Nsa innescato da Edward Snowden, programmi che permettono agli Stati Uniti di accedere a qualsiasi dato: da quelli delle comunicazioni a quelli finanziari. Ma mentre la Nsa li acquisisce illegalmente, nel corso di operazioni segrete d’intelligence e quindi la loro utilizzabilità in sede ufficiale e di contenziosi è limitata, con il Tisa tutto sarà perfettamente autorizzato e alla luce del sole». In altre parole, il Tisa rende manifesto che la stessa Europa, che ufficialmente ha aperto un’indagine sullo scandalo Nsa in sede di Parlamento Europeo, «sta contemporaneamente e disinvoltamente trattando con gli Stati Uniti la cessione della sovranità sui nostri dati finanziari per ragioni di business». E sui dati, i lobbisti americani della “Coalition of Services Industries” che spingono per il Tisa non hanno dubbi: «Con il progresso nella tecnologia dell’informazione e delle comunicazioni, sempre più servizi potranno essere forniti all’utente per via elettronica e quindi le restrizioni sul libero flusso di dati rappresentano una barriera al commercio dei servizi in generale».
    Fino a che punto può arrivare il Tisa? Davvero arriverà a investire servizi fondamentali come l’istruzione e la sanità? “L’Espresso” ha contattato “Public Services International”, (Psi), una federazione globale di sindacati che rappresentano 20 milioni di lavoratori nei servizi pubblici di 150 paesi del mondo. L’italiana Rosa Pavanelli, prima donna alla guida del Psi dopo una vita alla Cgil, è sicura che il Tisa vorrà allungare le grinfie anche su sanità e istruzione. L’Italia? E’ nelle mani della Commissione Europea, delegata a trattare. Daniel Bertossa, che per “Public Services International” sta cercando di informarsi sulle trattative segrete, racconta che, anche se nessuno lo ha reso noto, «per ragioni tecniche che hanno a che fare con il Wto, noi sappiamo che il Tisa punta a investire tutti i servizi», come ammettono gli stessi paesi negoziatori. Bertossa sottolinea quanto sia problematica la riservatezza intorno ai lavori del trattato e il fatto che sia condotto al di fuori del Wto, che, «pur con tutti i suoi problemi, perlomeno permette a tutti i paesi di partecipare alle negoziazioni e rende pubblico il testo delle trattative». Invece, per sapere qualcosa del Tisa c’è voluta Wikileaks. «Ai signori del mercato, stavolta, è andata male».

    Si chiama “Tisa”, acronimo di “Trade in services agreement”, ovvero “accordo di scambio sui servizi”. E’ un trattato che non riguarda le merci, ma i servizi, ovvero il cuore dell’economia dei paesi sviluppati, come l’Italia, che è uno dei paesi europei che lo sta negoziando attraverso la Commissione Europea. Obiettivo: privatizzare tutti i servizi fondamentali, oggi ancora pubblici – sanità, istruzione, trasporti – su pressione di grandi lobby e multinazionali. «Un accordo che viene negoziato nel segreto assoluto e che, secondo le disposizioni, non può essere rivelato per cinque anni anche dopo la sua approvazione», spiega Stefania Maurizi su “L’Espresso”, che pubblica – in esclusiva un team di media internazionali – l’ultimo scoop di Wikileaks, l’organizzazione di Julian Assange. Gli interessi in gioco sono enormi: il settore servizi è il più grande per posti di lavoro nel mondo e produce il 70% del Pil globale. Solo negli Usa rappresenta il 75% dell’economia e genera 8 posti di lavoro su 10 nel settore privato.

  • I leader Ue sono marci: tangenti da 120 miliardi l’anno

    Scritto il 10/6/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati.  Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.
    Le forme di tale corruzione devono ancora trovare una tassonomia sistematica. C’è la corruzione pre-elettorale: il finanziamento di persone e partiti da fonti illegali – o legali – contro la promessa, esplicita o tacita, di futuri favori. C’è la corruzione post-elettorale: l’uso delle cariche per ottenere fondi mediante malversazioni sulle entrate o mazzette sui contratti. C’è l’acquisto di voci o voti nei parlamenti. C’è il furto puro e semplice dalle casse pubbliche. C’è la falsificazione di credenziali per vantaggi politici. C’è l’arricchimento dalla carica pubblica dopo l’evento, così come durante o prima di esso. Il panorama di questa malavita è impressionante. Un affresco di esso potrebbe cominciare con Helmut Kohl, governante della Germania per sedici anni, che accumulò due milioni di marchi di fondi neri da donatori illegali i cui nomi, quando fu denunciato, rifiutò di rivelare per timore che venissero alla luce i favori che aveva fatto loro. Oltre il Reno, Jacques Chirac, presidente della Repubblica Francese per dodici anni, fu condannato per appropriazione di fondi pubblici, abuso di ufficio e conflitti d’interesse, una volta caduta l’immunità. Nessuno dei due ha subito pene. Questi erano due dei più potenti politici dell’epoca in Europa.
    In Germania il governo di Gerhard Schroeder garantì un prestito da un miliardo di euro alla Gazprom per la costruzione di un gasdotto sul baltico poche settimane prima che egli si dimettesse da cancelliere e andasse a libro paga della Gazprom con uno stipendio maggiore di quello che aveva ricevuto governando il paese. Dopo la sua partenza, Angela Merkel ha visto due presidenti della repubblica, uno dietro l’altro, costretti a dimettersi da screditati: Horst Koehler, ex capo del Fmi, per aver spiegato che il contingente della Bundeswehr in Afghanistan stava proteggendo interessi commerciali tedeschi; e Christian Wulff, ex capo cristiano-democratico della Bassa Sassonia, per un prestito discutibile ricevuto da un affarista amico per la sua casa. Due ministri eminenti, uno della difesa e l’altro dell’istruzione, hanno dovuto andarsene quando sono stati privati dei loro dottorati – una credenziale importante per una carriera politica nella Repubblica Federale – per violazione dei diritti di proprietà intellettuale. Quando il secondo, Annette Schavan, un’intima amica della Merkel (che aveva manifestato piena fiducia in lei) era ancora in carica, il “Bild Zeitung” ha osservato che avere un ministro dell’istruzione che aveva falsificato le sue ricerche era come avere un ministro delle finanze con un conto segreto in Svizzera.
    In Francia il ministro socialista del bilancio, il chirurgo plastico Jérôme Cahuzac, la cui direttiva era di difendere la probità e l’equità fiscale, è stato scoperto detenere qualcosa tra i 600.000 e i 15 milioni di euro in depositi segreti in Svizzera e a Singapore. Nicolas Sarkozy, nel frattempo, è accusato da testimoni concordi di aver ricevuto circa 20 milioni di dollari da Gheddafi per la campagna elettorale che lo portò alla presidenza. Christine Lagarde, il suo ministro delle finanze, che oggi dirige il Fmi, è sotto inchiesta per il suo ruolo nella concessione di 420 milioni di dollari di ‘risarcimento’ a Bernard Tapie, un ben noto truffatore con un passato in carcere, negli ultimi tempi amico di Sarkozy. Contiguità disinvolta con la criminalità è bipartisan. François Hollande, attuale presidente della repubblica, usava come pied-à-terre  per gli incontri con la sua amante un appartamento della donna di un gangster corso, ucciso l’anno scorso in una sparatoria sull’isola.
    In Gran Bretagna, circa nello stesso periodo, l’ex premier Blair consigliava a Rebekah Brooks, che rischiava il carcere per cinque accuse di cospirazione criminale («Sii forte e prendi pastiglie per dormire. Passerà») e la sollecitava a «pubblicare un rapporto in stile Hutton», come aveva fatto lui per sterilizzare qualsiasi parte il suo governo potesse aver avuto nella morte di una fonte interna che aveva fatto rivelazioni sulla sua guerra in Iraq: un’invasione dalla quale ha poi proseguito a raccogliere – naturalmente per la sua Fondazione Faith – mance e contratti assortiti in giro per il mondo, considerevoli fondi in contanti da una compagnia petrolifera della Corea del Sud gestita da un delinquente condannato con interessi in Iraq e presso la dinastia feudale del Kuwait. Quali ricompense possa essersi guadagnato più a est resta da vedere («I progressi del Kazakistan sono splendidi. Comunque, signor Presidente, lei ha toccato nuovi vertici nel suo messaggio alla nazione». Alla lettera.).
    In patria, in uno scambio di favori a proposito dei quali ha mentito compuntamente al Parlamento, le sue mani sono state unte da un milione di sterline versate alle casse del partito dal magnate delle corse automobilistiche Bernie Ecclestone, attualmente sotto giudizio in Baviera per tangenti al ritmo di 33 milioni di euro. Nella cultura del New Labour, figure di spicco della cerchia di Blair, ministri di gabinetto un tempo – Byers, Hoon, Hewitt – non sono stati in grado di offrirsi in vendita al successore. Negli stessi anni, indipendentemente dal partito, la Camera dei Comuni è stata denunciata come un pozzo nero di meschine malversazioni di denaro dei contribuenti. In Irlanda, contemporaneamente, il leader del Fianna Fàil, Bertie Ahern, avendo canalizzato più di 400.000 euro di pagamenti non spiegati prima di diventare “taioseach”, si è votato lo stipendio più elevato di qualsiasi premier in Europa – 310.000 euro, più persino del presidente degli Stati Uniti – un anno prima di doversene andare con disonore per assoluta disonestà.
    In Spagna l’attuale primo ministro, Mariano Rajoy, alla guida di un governo di destra, è stato colto con le mani nel sacco mentre riceveva mazzette per contratti di costruzione e di altro genere per un totale di un quarto di milione di euro nel giro di un decennio, passategli da Luis Bàrcenas. Tesoriere del suo partito per vent’anni, Bàrcenas è oggi sotto arresto per aver accumulato un tesoro di 48 milioni di euro in conti svizzeri non dichiarati. I libri mastri, compilati a mano, contenenti i dettagli dei suoi versamenti a Rajoy e ad altri notabili del Partito del Popolo – tra cui Rodrigo Rato, altro ex capo del Fmi – sono apparsi in facsimile in abbondanza sulla stampa spagnola. Una volta scoppiato lo scandalo Rajoy ha inviato a Bàrcenas un messaggio con parole virtualmente identiche a quelle di Blair alla Brooks: «Luis, io capisco. Resta forte. Ti chiamerò domani. Un abbraccio». Pur con uno scandalo in cui l’85% del pubblico spagnolo ritiene che egli menta, resta incollato alla poltrona nel Palazzo della Moncloa.
    In Grecia, Akis Thochatzopoulos, del Pasok – ministro, in successione, dell’interno, della difesa e dello sviluppo – in un’occasione arrivato a un soffio dalla guida della socialdemocrazia greca, è stato meno fortunato: condannato l’autunno scorso a vent’anni di carcere per una formidabile carriera di estorsioni e di riciclaggi di denaro sporco. Oltre il mare Tayyip Erdogan, a lungo celebrato dai media e dall’establishment intellettuale dell’Europa come il più grande statista democratico della Turchia, la cui condotta ha virtualmente dato al paese il titolo di membro onorario della Ue ante diem, ha dimostrato di essere meritevole di essere incluso nei ranghi della dirigenza europea in un altro modo: in una conversazione registrata in cui dava al figlio istruzioni su dove nascondere decine di milioni in contanti, in un’altra in cui alzava il prezzo di una robusta tangente su un contratto di costruzioni. Tre ministri del governo sono caduti dopo scoperte analoghe, prima che Erdogan purgasse le forze della polizia e della magistratura per assicurarsi che non si spingessero oltre.
    Mentre egli faceva questo la Commissione Europea ha pubblicato il suo primo rapporto ufficiale sulla corruzione nell’Unione, la cui dimensione il commissario autore del rapporto l’ha descritta come “mozzafiato”: secondo una stima prudente, costa alla Ue quanto l’intero bilancio dell’Unione, circa 120 miliardi l’anno, ma la cifra reale è «probabilmente molto più alta». Prudentemente il rapporto si è occupato solo degli stati membri. La stessa Ue, la cui intera Commissione fu costretta in tempi non lontani a dimettersi screditata, è stata esclusa (la Commissione Santer fu costretta a dimettersi nel 1999 per accuse di corruzione contro alcuni suoi membri). Diffuso in un’Unione che si presenta come tutore morale del mondo, l’inquinamento del potere ad opera del denaro e della frode deriva dallo svuotamento di sostanza o dalla caduta del coinvolgimento nella democrazia. Le élite, liberate sia da una reale divisione in alto sia da un significativo dovere di rispondere in basso, possono permettersi di arricchirsi alla follia e impunite. La denuncia cessa di contare molto, poiché l’impunità diviene la regola. Come i banchieri, i politici di spicco non finiscono in carcere.
    Ma la corruzione non è solo una funzione del declino dell’ordine politico. E’ anche, ovviamente, un sintomo del regime economico che si è impossessato dell’Europa a partire dagli anni ’80. In un universo neoliberista dove i mercati sono il metro del valore, il denaro diventa, più platealmente che mai, la misura di tutte le cose. Se ospedali, scuole e carceri possono essere privatizzati a fini di profitto delle imprese, perché non anche le cariche politiche? Oltre alla ricaduta culturale del neoliberismo, tuttavia, vi è l’impatto del sistema socio-economico, la terza e, nell’esperienza del popolo, di gran lunga più acuta delle malarie che affliggono l’Europa. Che la crisi economica scatenate in occidente nel 2008 sia stata il risultato di decenni di liberalizzazioni nel settore finanziario e di espansione del credito lo ammettono, più o meno, i loro stessi architetti; si veda Alan Greenspan. Collegate oltre Atlantico, le banche e le attività immobiliari europee erano già coinvolte nel disastro tanto quanto le loro omologhe statunitensi. Nella Ue, tuttavia, questa crisi generale è stata aggravata da un altro fattore peculiare dell’Unione, le distorsioni create dalla moneta unica imposta a economie nazionali molto diverse tra loro, spingendo le più vulnerabili di esse sull’orlo della bancarotta quando sono state colpite dalla crisi generale.
    (Perry Anderson, estratto dall’intervento “Il disastro italiano”, pubblicato da “Sinistra in rete” il 29 maggio 2014).

    L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati.  Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.

  • L’Altra Europa con Vendola, stampella del neoliberista Pd

    Scritto il 28/5/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Allarme rosso: il voto italiano offre carta bianca a Matteo Renzi per le sue cosiddette riforme: in caso di difficoltà il premier potrà appellarsi al consenso popolare e minacciare elezioni anticipate. Il programma è noto: una piccola riduzione delle tasse e altri bonus in busta paga per nuove fasce di cittadini serviranno a far digerire nuovi pesanti tagli alle amministrazioni locali (cioè riduzione dei servizi), e soprattutto privatizzazioni massicce, ulteriore precarizzazione del lavoro, deregulation nell’edilizia eccetera, legge elettorale ultra-maggioritaria per blindare l’assetto di potere. Il tutto, recitando la parte di chi cerca di “correggere” – per quel poco che si può – le politiche europee di austerity, «legate all’ideologia neoliberale dominante in tutte le istituzioni della Ue quindi molto solide e modificabili solo per alcuni dettagli», sottolinea Lorenzo Guadagnucci.
    Tutto questo, «inseguendo la chimera della ripresa e della crescita», ovvero «la speranza che ha probabilmente animato gli elettori italiani, convinti che qualche decimale in più nel Pil, da ottenere con le cosiddette riforme annunciate da Renzi, porterà nuova occupazione e il mantenimento dei servizi pubblici che vengono normalmente dati per scontati, come sanità e scuola». In realtà, puntualizza Guadagnucci su “Micromega”, la “ripresa” e l’aumento del Pil sono «argomenti virtuali, agitati dai tecnocrati e dai capi politici neoliberali in assenza di un’alternativa che sia alla loro portata», dal momento che «l’alternativa porta fuori dal paradigma neoliberale», che lavora per l’azzeramento dello Stato e del welfare, la fine delle tutele pubbliche per i cittadini. «Gli elettori – continua l’analista – prima o poi scopriranno che la chimera della ripresa è appunto tale (è dal 2008 che viene annunciata la ripresa entro pochi mesi) e che in ogni caso l’alta disoccupazione in Europa è un dato strutturale».
    Gli elettori italiani, anche quelli che hanno votato Renzi, «scopriranno prima o poi che il progetto delle élite politiche neoliberali è quello dichiarato da Mario Draghi l’anno scorso – la fine del sistema sociale europeo, che andrà fortemente ridotto e assegnato ai privati – e precisato da Jp Morgan quando ha sostenuto che le Costituzioni antifasciste nate dopo la guerra sono un ostacolo perché concedono troppi diritti ai lavoratori e ai cittadini che contestano il potere». Ed ecco allora la vera missione politica di Renzi nei prossimi mesi: «Rallentare e rimandare lo smascheramento dell’illusione neoliberale», che per Luciano Gallino è «una sorta di religione», visto che «non ammette confutazioni sulla base dei fatti storici». E’ la teologia dell’élite finanziaria: «La recessione in atto da anni, secondo i sacerdoti di quella dottrina, non è dovuta al fallimento delle sue premesse e promesse, bensì a un’imperfetta applicazione delle regole-dogmi della religione stessa».
    La cosiddetta crisi, continua Guadagnucci, è in realtà «un sistema di governo che per resistere – in presenza di alta e crescente disoccupazione, destrutturazione dello stato sociale, immiserimento della vita causa mercificazione di ogni aspetto dell’esistenza – dev’essere verticistico e tendenzialmente autoritario: i cittadini devono stare al loro posto, votare ogni 4-5 anni e nel frattempo affidarsi alle oligarchie finanziarie, tecnocratiche e politiche dominanti». Proprio per questo, «si preme per sistemi poltici fortemente maggioritari e fortemente personalizzati». Scontato: «Renzi si muoverà subito in questa direzione, e potrà contare nel tempo sull’appoggio dei grandi media per le sue politiche neoliberali e anche per mascherarne gli effetti nefasti e gli insuccessi rispetto alle grandi promesse formulate nelle settimane scorse (e molte altre sono in arrivo)».
    La domanda, per Guadagnucci, ora è questa: è ancora possibile immaginare la costruzione di un’area culturale e politica al di fuori dell’ideologia neoliberale? Qualcosa che prefiguri una via d’uscita? In Grecia, Syriza ha ottenuto la maggioranza relativa proponendo una rottura col paradigma neoliberale: oggi quello di Tispras è il primo partito del paese, ma non ha davvero sfondato (è al 26%). In Spagna, la lunga protesta degli “indignados” ha avuto un’eco elettorale in una lista che è arrivata all’8%, “Podemos”, mentre in Italia la lista “L’Altra Europa con Tsipras” ha superato faticosamente la soglia del 4%. Ben diversa la tendenza di Francia e Gran Bretagna, dove Ukip e Front National hanno vinto le elezioni, sfoderando solidi argomenti nazionalisti, sovranisti e contrari all’attuale europeismo. Per un’alternativa democratica italiana, dice Guadagnucci, è necessario innanzitutto rompere col Pd, guidato dall’ex democristiano Renzi che individua in Blair, campione del neoliberismo, l’unica sua parentela con “qualcosa di sinistra”, anche se Blair è l’uomo che ha seppellito le istanze della sinistra in Gran Bretagna per votarsi al culto del mercato. Che sarà della Lista Tispras? Vendola, uno dei suoi maggiori azionisti, già propone una convergenza col Pd. Si accomodi pure, dice Guadagnucci: quello del centrosinistra italiano è un binario morto.

    Allarme rosso: il voto italiano offre carta bianca a Matteo Renzi per le sue cosiddette riforme: in caso di difficoltà il premier potrà appellarsi al consenso popolare e minacciare elezioni anticipate. Il programma è noto: una piccola riduzione delle tasse e altri bonus in busta paga per nuove fasce di cittadini serviranno a far digerire nuovi pesanti tagli alle amministrazioni locali (cioè riduzione dei servizi), e soprattutto privatizzazioni massicce, ulteriore precarizzazione del lavoro, deregulation nell’edilizia eccetera, legge elettorale ultra-maggioritaria per blindare l’assetto di potere. Il tutto, recitando la parte di chi cerca di “correggere” – per quel poco che si può – le politiche europee di austerity, «legate all’ideologia neoliberale dominante in tutte le istituzioni della Ue quindi molto solide e modificabili solo per alcuni dettagli», sottolinea Lorenzo Guadagnucci.

  • Riforme criminali targate Ocse, prepariamoci al peggio

    Scritto il 26/5/14 • nella Categoria: idee • (9)

    Riforme criminali: contro il lavoro, il reddito, il benessere diffuso dei cittadini. Per quelle “riforme” è in corso da vent’anni una campagna martellante, sintetizza Marco Della Luna. E il loro unico, vero obiettivo è «rendere la società market-friendly, “marktkonform”, ossia amica del mercato (finanziario)». A nulla vale il confronto con la realtà: flessione del Pil e dell’export, boom del debito pubblico, disoccupazione dilagante. E’ perché “dobbiamo fare le riforme”, recitano i politici e i media mainstream. Sono le “riforme” in corso da due decenni nell’area Ocse, «quelle riforme che tanto ci chiedono l’Europa, il Fmi, il Colle». Oggi, in Italia, sono le “riforme” di cui parla il nuovo autocrate Renzi, consacrato dal battesimo elettorale delle europee. Riforme già viste altrove, purtroppo: «Sono state socialmente costose e insieme controproducenti rispetto al fine di rilanciare l’economia e l’occupazione». Hanno rilanciato solo i maxi-profitti, non il benessere diffuso. «Il loro scopo è un altro: la concentrazione dei redditi e del potere».

  • Barnard: Ttip, ricatto finale. Ora siamo davvero finiti

    Scritto il 12/5/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Se fino a ieri una multinazionale americana poteva chiedere a Washington di denunciare un singolo governo europeo per i “mancati profitti” provocati da una legge che tutela il lavoro, l’ambiente, la salute o la sicurezza alimentare, con l’entrata in vigore del Ttip siamo alla fase-2 della globalizzazione, quella terminale: saranno le mega-aziende a denunciare direttamente i nostri governi, e lo faranno presso tribunali speciali, off shore, gestiti da avvocati d’affari che ai governi potranno infliggere sanzioni così salate da scoraggiare in partenza qualsiasi forma di resistenza a tutela di cittadini, aziende e lavoratori. “Merito” dell’oligarchia che si è messa in moto, «la solita lobby d’élite finanziaria e grande industriale», cioè «i mastini del Vero Potere», quelli che «non si fermano mai». Proprio lei, la super-lobby, secondo Paolo Barnard «ha fatto quello che doveva fare: vincere». Si chiama S2B, acronimo dell’inglese “Seattle to Bruxelles Network”. «Ci trovate: J.P. Morgan, Chevron, Bnp Paribas, Microsoft, Uniliver, Philip Morris, Glaxo, Ford, Shell, Monsanto, Goldman Sachs… devo continuare?».
    Barnard, il primo in Italia a segnalare in televisione gli abusi della mondializzazione selvaggia con servizi come “I globalizzatori” trasmessi da “Report”, oggi parla di «un orribile risveglio, che suona così: noi non molliamo mai, noi siamo infermabili, non sentiamo fatica, coscienza, rimorso, pietà, e alla fine vinciamo sempre. Firmato: il Vero Potere». La «nuova offensiva» chiamata Transatlantic Trade and Investment Partnership o Trattato Transaltantico «è micidiale, potenzialmente devastante come mai prima per l’esistenza stessa di democrazia e interesse pubblico». Nel 1999, all’epoca delle primissime denunce sui pericoli della globalizzazione, «intesa proprio come sistema di accordi segreti e potentissimi creato da una élite di capitalisti per ricacciare indietro decenni di progressi democratici a favore del pubblico, nelle aree dei commerci, della finanza e dei servizi», il “mostro” si muoveva, mastodontico, nella stanze di Ginevra del Wto.
    In pratica, il Trattato di Marrakech del Wto «stabiliva regole di potere superiore alle leggi degli Stati aderenti che, ad esempio, avrebbero potuto limitare qualsiasi intervento della politica in campo economico e finanziario se esso avesse rappresentato una barriera al Libero Commercio, al Libero Profitto, ai diritti delle Corporations». Ad esempio: «Se una multinazionale americana riteneva che le leggi italiane le impedissero di vendere in Italia un suo prodotto contenente una plastica per noi tossica, poteva chiedere al governo Usa di denunciare Roma al tribunale del Wto, per ottenere l’abolizione della legge italiana», ritenuta “una barriera” al libero sviluppo del loro business. Stessa storia in caso di gare d’appalto per un servizio pubblico: «Qualsiasi mega-corporation mondiale dei servizi poteva reclamare lo stesso diritto a partecipare di un’azienda locale, quando magari il Comune avrebbe preferito dar lavoro e reddito a italiani locali».
    Col Trattato di Marrakech, sovranazionale e quindi sovrastante le leggi dei singoli Stati, «l’ignorante politica del mondo occidentale aveva firmato e ratificato regole micidiali tutte a favore delle mega-corporations e tutte a sfavore di qualsiasi intervento politico nazionale o anche locale per proteggere i lavoratori, le famiglie, le aziende nazionali, le cooperative, i Comuni», ricorda Barnard. «L’Italia ratificò Marrakech con un solo politico – uno solo! – che l’avesse letto, fra Camera e Senato». Segretamente, cioè «sotto il naso disattento di milioni di cittadini», questo sistema «ha fatto danni immensi alle economie nazionali ma soprattutto ai distretti piccolo-medi industriali italiani che ci fecero ricchi dopo la II guerra mondiale, con valanghe di fallimenti e licenziati a cascata», dice Barnard. «Danni anche ai diritti dei cittadini alla tutela della salute, per non parlare dell’orrore inflitto al Terzo Mondo». C’era però ancora una clausola: la multinazione di turno avrebbe dovuto chiedere al governo Usa di fare causa al governo italiano presso il tribunale del Wto, non poteva agire direttamente. Ora, l’ostacolo è stato superato. Le multinazionali avranno pieni poteri: il loro imperio sovrasterà la sovranità democratica degli Stati.
    Obiettivo dichiarato: “armonizzare” le regole del commercio e della finanza fra Usa e Ue, liberalizzando gli scambi ed eliminando le barriere all’interno dell’area di libero scambio Usa-Ue, dove avviene «almeno un terzo degli scambi globali». Dalle stime della stessa Commissione Europea, aggiunge Barnard, si deduce che alle promesse del Ttip non crede neppure Bruxelles: secondo il commissario europeo al commercio, Karel de Gught, l’impatto dell’accordo sul Pil europeo è di appena lo 0,01%. Già il “meno peggio” del Ttip, per Barnard, è «una tragica porcheria», in tre atti. Primo: «In Europa verranno imposte le miserrime regole di protezione dell’ambiente e dei consumatori degli Usa, e in America verrà imposta la miserrima regolamentazione della finanza che abbiamo noi europei. Quindi una gara al ribasso ovunque». Secondo: Il Ttip propone la totale liberalizzazione del settore dei servizi pubblici – sanità, asili e scuole, assistenza anziani, trasporti, acqua potabile. Terzo: fine di quel che resta dei diritti sindacali europei.
    Risultato: «I lavoratori italiani, che già oggi con la bastardata dell’euro devono vedersela con una deflazione dei redditi da incubo, domani saranno anche in gara a tagliarsi i diritti del lavoro per competere con i lavoratori Usa, dove licenziare è più facile che fare un peto. Tutto questo – sottolinea Barnard – per il solito infame motivo che dipendiamo tutti dagli “investitori” per avere economia, e gli “investitori” investono quasi sempre dove i diritti sono minori». Tutto questo ci prepara (si fa per dire) al “peggio” del Ttip, ovvero: le mega-aziende denunciano direttamente gli Stati, e lo fanno presso tribuinali speciali, fuori dalla giurisdizione nazionale. «Significa che abbiamo centinaia di multinazionali che possono aggredire con cause costosissime il nostro paese (gli studi legali per questo tipo di affari prendono parcelle da 3.000 euro al giorno per ciascun avvocato e sono in media una quindicina, per tempi biblici, e moltiplicateli per una pioggia di cause infinita) senza limiti di sorta, imponendoci spese di Stato rovinose, e di fronte alle quali un governo finisce quasi sempre per cedere e cambiare la legislazione d’interesse pubblico».
    Il ricatto è micidiale, insiste Barnard, perché «con il dogma economico neoclassico (vedi Eurozona) non è più lo Stato che può intervenire con la sua spesa a dar lavoro, reddito e protezione a cittadini e aziende: oggi quel “pane” a tutti ce lo danno i “mercati”, cioè quelle corporations di beni e finanza». Per cui, ecco la minaccia: «Se perdono le cause ritireranno gli investimenti (il pane) dalle nostre tavole nazionali e noi siamo fottuti». Per Barnard, «già a questo stadio un governo finisce per cedere, ma c’è di peggio». E cioè: nei futuri tribunali internazionali, per gli Stati europei sarà praticamente impossibile difendersi. «In tutti gli aspetti del vivere – governati, o anche solo lambiti dai commerci di beni e servizi – il Ttip può divenire letale per famiglie, cittadini, piccole medie aziende, democrazia e Stato stesso. Ancora un’altra mazzata catastrofica all’idea di Mondo Migliore che tanti di noi sognavano o sognano per i propri bambini. Noi che sappiamo queste cose, noi che capiamo cosa fa e come si comporta il Vero Potere, noi che Renzi, i tagli Irpef, le europee, Grillo, Confindustria e i sindacati sappiamo essere fuffa, zero, nulla in grado di proteggerci da nulla. Good luck».

    Se fino a ieri una multinazionale americana poteva chiedere a Washington di denunciare un singolo governo europeo per i “mancati profitti” provocati da una legge che tutela il lavoro, l’ambiente, la salute o la sicurezza alimentare, con l’entrata in vigore del Ttip siamo alla fase-2 della globalizzazione, quella terminale: saranno le mega-aziende a denunciare direttamente i nostri governi, e lo faranno presso tribunali speciali, off shore, gestiti da avvocati d’affari che ai governi potranno infliggere sanzioni così salate da scoraggiare in partenza qualsiasi forma di resistenza a tutela di cittadini, aziende e lavoratori. “Merito” dell’oligarchia che si è messa in moto, «la solita lobby d’élite finanziaria e grande industriale», cioè «i mastini del Vero Potere», quelli che «non si fermano mai». Proprio lei, la super-lobby, secondo Paolo Barnard «ha fatto quello che doveva fare: vincere». Si chiama S2B, acronimo dell’inglese “Seattle to Bruxelles Network”. «Ci trovate: J.P. Morgan, Chevron, Bnp Paribas, Microsoft, Uniliver, Philip Morris, Glaxo, Ford, Shell, Monsanto, Goldman Sachs… devo continuare?».

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