Archivio del Tag ‘destabilizzazione’
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Granville: l’euro crollerà, ma il potere non lo ammette
Sono convinta che la zona euro finirà. Non conosco né l’ora né il momento, ma il rischio è che tale dissoluzione avvenga nel caos più totale, per colpa dell’accanimento ideologico della classe politica e del suo rifiuto di contemplare il fallimento politico costituito dal progetto euro. Con le elezioni europee del 25 maggio scorso, le popolazioni hanno inviato un messaggio chiaro a Bruxelles: gli europei non sono più disposti a rinunciare ulteriormente a quote della loro sovranità e vogliono rinegoziare le concessioni fatte in passato. La nuova Commissione e il nuovo Parlamento Europeo, però, non ascolteranno questa volontà di cambiamento. Il loro comportamento sarà tale da rendere inutile il voto dato agli anti-euro, che costruiranno una minoranza che sarà ignorata completamente. In funzione del mandato democratico, l’élite politica considera che nulla è cambiato e che, proprio per questo, ha tutto il diritto di continuare ad agire come se nulla fosse accaduto.Credo che il principale problema con i partiti politici europei sia il fatto che non corrispondono più alla realtà della nostra epoca. La maggior parte non ascolta la voce del popolo e il loro comportamento è più rappresentativo dell’epoca feudale che della modernità. Il modo in cui quell’élite politica viene formata e poi “eletta” non ha nulla di democratico se non il nome, poiché la scelta è circoscritta ad un’élite che conosce tutti gli ingranaggi della politica ma ignora le necessità economiche attuali. In Francia, ad esempio, molta della classe politica si è formata all’Ena, il cui scopo iniziale era di selezionare alti funzionari di Stato, ossia persone in grado di eseguire e di mettere in atto le azioni decise da politici eletti e rappresentativi dell’opinione pubblica. Oggi questi alti funzionari si sono impadroniti del potere.Questa burocrazia dominante, composta da tecnocrati e centralizzata all’estremo, soffoca le popolazioni. Questa burocrazia di Stato degna di Courteline, Kafka e Orwell è una macchina infernale nella quale funzionari di Stato, non eletti, come ad esempio all’interno della Commissione Europea o del Fmi, prendono decisioni senza che nessun abbia mai conferito loro un mandato. Non potendo essere sentito, il popolo si sente escluso e questa frustrazione lo spinge a votare per i partiti estremisti. Di fronte a questa situazione, l’élite politica ripete che bisogna “educare” i popoli, considerando essenzialmente le persone come degli imbecilli e ignorando sistematicamente il loro voto, come è avvenuto in occasione del “No” olandese e francese alla Costituzione europea nel 2005. La conseguenza dell’arroganza di questa élite politica europea è, da una parte, l’ascesa dei partiti nazionalisti come il Front National e, dall’altra, il desiderio d’indipendenza di città o di regioni come nel caso della Catalogna, del Veneto e quant’altro.La gente è stanca che siano partiti di centro a prendere tutte le decisioni, con delle politiche che non solo non hanno alcuna comprensione della vita quotidiana del cittadino medio, ma che volutamente ignorano la loro voce. Questa élite politica è convinta di essere l’unica detentrice di ogni soluzione e ci conduce ciecamente verso una nuova crisi, che sarà non solo economica ma anche politica. La politica di svalutazione interna – la riduzione dei salari come unico mezzo per i paesi del sud per mantenere la competitività all’interno dell’Eurozona – non fa altro che rafforzare e aggravare tale situazione. In questo contesto si arriverà a un’inevitabile ristrutturazione dei debiti all’interno della zona euro, vale a dire a una modificazione unilaterale dei contratti, e questo equivale a un default. La crisi dell’Eurozona non si risolverà attraverso la cooperazione franco-tedesca e presto Berlino scoprirà il bluff di Parigi.La Germania e la Francia hanno due priorità fondamentalmente opposte: da un lato, la Germania, non potendo svalutare l’euro, favorisce il rigore fiscale e la svalutazione interna, una riduzione degli stipendi e dei prezzi. Ed è su questa logica che basa la sua competitività e crescita. In altre parole, i costi della manodopera unitari relativamente più bassi rispetto agli altri paesi dell’Eurozona spiegano il successo tedesco. Questo successo è stato possibile grazie alle “riforme Hartz” del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, ed è questo modello che si vuole esportare agli altri paesi tra cui la Francia. Il problema di questa politica è che richiede un lungo periodo di tempo prima di vedere i suoi frutti e presuppone una situazione in cui la traiettoria debito-Pil non aumenti.Dall’altro lato, in Francia, il peso del debito è elevato e aumenterà ulteriormente a causa della bassa inflazione e della crescita zero, dovuta all’aumento delle tasse e all’incertezza creata dal governo di François Hollande per ridurre il deficit. Il tasso di disoccupazione è arrivato a circa l’11 %. Al governo serve una crescita economica per rilanciare la propria immagine, ma le tensioni sociali stanno crescendo e rischiano di aggravare la crisi economica: l’ascesa del Front National esprime alla perfezione lo sbandamento dei francesi e il loro sentimento sempre più diffuso di non essere ascoltati dal governo al potere. L’intransigenza della Germania e l’impossibilità della Francia di attuare le riforme richieste, dovuta ai vincoli politici e temporali, determinano una situazione tale per cui quelli che costituivano i due pilastri della costruzione europea non procedono più nella stessa direzione.In questo contesto, la Francia può solo effettuare riforme che sa di non potere ultimare. Come ogni altro paese dell’Eurozona, la Francia deve conformarsi alle esigenze del Fiscal Compact e rispettarle. Qui non c’è spazio per la scelta, la Francia ha preso impegni. Purtroppo, le misure da prendere per rispettare gli impegni sono dolorose e dunque costose a livello politico. François Hollande è già il presidente più impopolare della Quinta Repubblica, dunque in un certo senso non ha più niente da perdere; ma politicamente, vista la sua mancanza di credibilità, se le riforme saranno imposte ai francesi, il suo governo rischia di destabilizzare le istituzioni della V Repubblica.L’euro è stata creato per una volontà politica, essenzialmente di François Mitterrand, e non c’era alcuna logica economica. Nello stesso modo l’euro sarà dissolto da una volontà politica. Se si presenterà questa volontà politica, potrà anche venire da paesi come la Francia o l’Italia e sarà il riflesso dell’impazienza di popoli che considerano che il costo delle riforme e delle misure economiche richieste sia troppo alto, rispetto a risultati mediocri. Una grande fetta della popolazione colpita da queste riforme è giovane, il tasso di disoccupazione che tocca i meno di 25 anni è elevato; questi giovani non hanno lo stesso senso storico di “preservare l’euro ad ogni costo” dei loro padri. A livello economico, il cataclisma potrebbe ad un tratto arrivare dal peso del debito per paesi come l’Italia o la Francia, soprattutto se la politica monetaria degli Stati Uniti divenisse ancora più restrittiva e i tassi d’interesse aumentassero. I mercati potrebbero essere in allerta. Ma finché i mercati troveranno una sicurezza nelle azioni della Banca Centrale europea, non accadrà nulla.(Brigitte Granville, dichiarazioni rilasciate ad Alessandro Bianchi per l’intervista “L’élite che ci governa si rifiuta di ammettere il fallimento e ci condurrà al caos”, pubblicata da “L’antidiplomatico” su “Voci dall’estero” nel giugno 2014 e ripresa da “Vox Populi”. La Granville è un’economista internazionale dell’università Queen Mary di Londra ed è tra i firmatari del Manifesto per la solidarietà europea).Sono convinta che la zona euro finirà. Non conosco né l’ora né il momento, ma il rischio è che tale dissoluzione avvenga nel caos più totale, per colpa dell’accanimento ideologico della classe politica e del suo rifiuto di contemplare il fallimento politico costituito dal progetto euro. Con le elezioni europee del 25 maggio scorso, le popolazioni hanno inviato un messaggio chiaro a Bruxelles: gli europei non sono più disposti a rinunciare ulteriormente a quote della loro sovranità e vogliono rinegoziare le concessioni fatte in passato. La nuova Commissione e il nuovo Parlamento Europeo, però, non ascolteranno questa volontà di cambiamento. Il loro comportamento sarà tale da rendere inutile il voto dato agli anti-euro, che costruiranno una minoranza che sarà ignorata completamente. In funzione del mandato democratico, l’élite politica considera che nulla è cambiato e che, proprio per questo, ha tutto il diritto di continuare ad agire come se nulla fosse accaduto.
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Il business avverte Obama: basta sanzioni contro Putin
«Nessuno al mondo ha una vera ragione per amare gli Stati Uniti, meno che mai gli stessi americani dissanguati per le pretese di dominio di Washington sul mondo». Mentre 3 russi su 4 vorrebbero che Putin restasse al Cremlino anche dopo il 2018, il tasso di popolarità di Obama scivola al 41%. E l’economia americana traballa: la strombazzata crescita del primo trimestre 2014, di almeno il 2,6% secondo gli economisti mainstream, viene sbriciolata dalla dura realtà, che rivela uno scivolone pari al -2,9%. Non se ne stupisce Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan: «Qualsiasi economista libero e non a libro paga di Wall Street, del governo e dei poteri forti sapeva che il 2,6% era una buffonata». La verità è che «l’economia americana non può crescere perché le multinazionali spinte da Wall Street hanno portato l’economia reale fuori dai confini Usa: tutta la produzione americana è stata trasferita all’estero». E ora – questa la notizia – i poteri forti chiedono a Obama di cessare l’offensiva contro la Russia di Putin, prima che l’America ci rimetta l’osso del collo.«Le povere previsioni per l’economia americana – segnala Craig Roberts in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – hanno indotto due tra le più grandi lobby d’affari, la Camera di Commercio degli Stati Uniti e l’associazione nazionale dei produttori (o quello che rimane di essa) a prendere posizione contro l’amministrazione Obama per la paura di ulteriori sanzioni contro la Russia». E’ stata “Bloomberg News” ad annunciare la campagna promossa dai gruppi d’affari con pagine su “New York Times”, “Wall Street Journal” e “Washington Post” contro ulteriori sanzioni nei confronti del Cremlino. «Queste organizzazioni dicono che le sanzioni diminuiranno i loro profitti avendo come risultato la perdita di posti di lavoro americani». Si tratta delle due maggiori corporazioni commerciali Usa, «fonti importantissime di finanziamento delle campagne elettorali dei vari partiti politici», e ora «hanno finalmente aggiunto la loro voce a quella del mondo degli affari tedesco, francese e italiano».«Tutti, tranne l’opinione pubblica americana – dice Craig Roberts – sanno che la crisi in Ucraina è totalmente un “business” creato da Washington. Gli imprenditori europei e americani si stanno chiedendo “perché i nostri profitti e i nostri lavoratori debbano soffrire a causa della propaganda di Washington contro la Russia”». Secondo l’ex viceministro di Reagan, «Obama non sa cosa dire». Magari qualche risposta verrà dalla «feccia neocon» imbarcata alla Casa Bianca: Victoria Nuland, Samantha Powers, Susan Rice. «Obama può affidarsi al “New York Times”, al “Washington Post”, al “Wall Street Journal” e al “Weekly Standard” per spiegare perché milioni di americani ed europei debbano soffrire affinché il “ratto” dell’Ucraina vada a buon fine». In realtà, «le bugie di Washington si stanno ritorcendo contro Obama». Se la cancelliera Merkel «è completamente assoggettata ai voleri Usa», in compenso «l’industria tedesca sta dicendo all’amica americana che il valore dei propri affari in Russia è maggiore del valore sofferto a causa delle pretese imperialistiche del governo Usa».Idem il mondo imprenditoriale francese: «Sta chiedendo a Hollande cosa voglia fare con la mancanza di posti di lavoro e se lui stesso porta avanti gli interessi americani». Le sanzioni contro la Russia, inoltre, «costituiscono un colpo mortale al settore italiano più famoso e universalmente riconosciuto al mondo, quello del lusso e della moda». Così, in Europa «si sta spandendo a macchia d’olio il dissenso nei confronti di Washington». Secondo recenti sondaggi, 3 tedeschi su 4 «sono contrari alla permanenza delle basi Nato in Polonia e negli Stati baltici». L’ex Cecoslovacchia, attualmente divisa in Slovacchia e Repubblica Ceca, benché membro Nato si è opposta alla presenza americana sul suo territorio. «Recentemente, un ministrro tedesco ha detto che fare un piacere a Washington è come fare sesso orale senza ricevere nulla in cambio». Di fatto, «la pressione che i pazzi a Washington stanno mettendo sulla Nato potrebbe mandare in frantumi l’organizzazione: preghiamo perché sia così», dichiara Craig Roberts. «La scusa all’esistenza della Nato è scomparsa 23 anni anni fa con il collasso dell’Unione Sovietica. Washington ha fatto espandere la Nato molto oltre i limiti segnati dal Trattato del Nord-Atlantico».La Nato ora interviene su un territorio che va dal Baltico all’Asia Centrale: «Quindi, per giustificare la continua espansione delle operazioni, Washington ha dovuto fare della Russia un nemico». Il problema? «La Russia non vuole assolutamente essere un nemico della Nato o di Washington». A premere per lo scontro è il complesso apparato militare di sicurezza statunitense, che assorbe più di un trilione di dollari dalle tasche degli americani: la lobby della guerra «ha bisogno di una scusa per continuare a far lievitare i profitti». Avverte Craig Roberts: «Sfortunatamente, gli imbecilli di Washington hanno scelto un nemico pericoloso: la Russia è una potenza nucleare, un paese di vaste dimensioni che vanta un’alleanza strategica con la Cina. Solo un governo imbevuto di arroganza e hybris, o gestito da psicopatici e sociopatici, sceglierebbe un nemico del genere».Per fortuna, al Cremlino c’è Putin, forte del consenso del 76% dei russi «nonostante le forti opposizioni delle Ong russe finanziate da Washington». Putin ha più volte fatto notare all’Europa come le politiche americane in Medio Oriente e in Libia non siano state solo un completo fallimento, ma anche devastanti e pericolose per l’Europa e la Russia. «I pazzi a Washington hanno rimosso dei governi che tenevano a bada gli jihadisti, e ora questi violenti sono sguinzagliati e senza alcun tipo di controllo». In Medio Oriente, gli jihadisti «sono al lavoro per ridefinire i confini stabiliti dagli inglesi e dai francesi dopo la Prima Guerra Mondiale». Attenzione: «Europa, Russia e Cina hanno tutte una percentuale di popolazione musulmana e ora si preoccupano che la violenza che Washington ha scatenato in Medio Oriente possa destabilizzare anche loro stesse».Per di più, il dollaro americano è nei guai: il biglietto verde «è tenuto a galla attraverso la manipolazione del mercato finanziario e Washington sta mettendo sotto pressione i suoi Stati vassalli perché sostengano il valore del dollaro attraverso la stampa delle loro monete e il conseguente acquisto di dollari». Per tenere il dollaro in vita, aggiunge Craig Roberts, larga parte del mondo patirà le conseguenze dell’inflazione: «Quando la gente finalmente lo capirà e correrà a comprare oro, in quel momento ce lo avranno tutto i cinesi». A sentire Sergej Glazyeb, un consigliere del Cremlino, «solo un’alleanza contro il dollaro potrebbe fermare le ambizioni degli Stati Uniti». Anche per Craig Roberts «non ci può essere pace fino a che Washington continua a stampare moneta per finanziare nuove guerre: come ha detto il governo cinese, è tempo di “de-americanizzare il mondo”». Secondo Roberts, la leadership degli Stati Uniti ha completamente fallito, producendo null’altro che bugie, violenze e morte, devastando 7 paesi nel XXI secolo. «A meno che la leadership degli Stati Uniti non venga sostituita con una più a misura d’uomo, la vita sulla Terra non ha futuro».«Nessuno al mondo ha una vera ragione per amare gli Stati Uniti, meno che mai gli stessi americani dissanguati per le pretese di dominio di Washington sul mondo». Mentre 3 russi su 4 vorrebbero che Putin restasse al Cremlino anche dopo il 2018, il tasso di popolarità di Obama scivola al 41%. E l’economia americana traballa: la strombazzata crescita del primo trimestre 2014, di almeno il 2,6% secondo gli economisti mainstream, viene sbriciolata dalla dura realtà, che rivela uno scivolone pari al -2,9%. Non se ne stupisce Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan: «Qualsiasi economista libero e non a libro paga di Wall Street, del governo e dei poteri forti sapeva che il 2,6% era una buffonata». La verità è che «l’economia americana non può crescere perché le multinazionali spinte da Wall Street hanno portato l’economia reale fuori dai confini Usa: tutta la produzione americana è stata trasferita all’estero». E ora – questa la notizia – i poteri forti chiedono a Obama di cessare l’offensiva contro la Russia di Putin, prima che l’America ci rimetta l’osso del collo.
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Gladio, spie e oligarchi: chi è Juncker, il nuovo capo Ue
Leali e obbedienti, soprattutto perché ricattabili: è la regola d’oro in base alla quale il super-potere sceglie i suoi ineffabili candidati. Jean-Claude Juncker, l’anonimo politico democristiano per 18 anni alla guida del Lussemburgo, non è stato solo alla guida della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, prima di presiedere l’Eurogruppo dal 2005 al 2013. E’ stato anche l’uomo che, per anni, ha messo illegalmente sotto sorveglianza i tre quinti dei suoi concittadini, spiati segretamente dallo Srel, l’intelligence lussemburghese. Per questo, accusato nel 2013 da una commissione d’inchiesta, è stato costretto alle dimissioni. Ombre lunghe, dunque, sulla nomina di Juncker al vertice della Commissione Europea: Angela Merkel, che l’ha imposto alla Gran Bretagna con la collaborazione di Renzi e Hollande, sa di poter sempre contare sulla fedeltà di un uomo molto chiacchierato, storica pedina dei poteri forti e accusato, nel suo paese, di aver fatto schedare migliaia di persone a loro insaputa, dopo aver coperto la strategia della tensione di marca Gladio, cioè Usa.Juncker, «inamovibile primo ministro lussemburghese per 18 anni», ha presentato le sue dimissioni al Granduca dopo sette ore di dibattito alla Camera, scriveva “Rete Voltaire” il 19 luglio 2013. Il Parlamento lussemburghese ha esaminato il ruolo del primo ministro nella gestione dell’intelligence, in seguito alla pubblicazione della relazione della commissione d’inchiesta sullo Srel. In sostanza, per anni «i parlamentari hanno fatto finta di credere che Gladio fosse stata effettivamente sciolta nel 1990 e le successive azioni di Srel fossero spiegabili come derivanti dal mancato controllo del primo ministro, che nel frattempo – non potendo riconoscere la perpetuazione del sistema segreto dell’Alleanza atlantica – è stato costretto a cercare di minimizzare la questione delle sue responsabilità in seno all’Eurogruppo». Una versione «smentita dal fatto che Juncker aveva infiltrato il suo autista nello Srel, affinché l’informasse sul suo lavoro». In realtà, secondo l’accusa, Juncker avrebbe «illegalmente proceduto nella schedatura di tre quinti della popolazione del Granducato e in diverse operazioni di spionaggio e di ricatto».La Gladio in Lussemburgo era stata sciolta ufficialmente nel 1990, come in altri paesi europei. «Tuttavia – aggiunge “Rete Voltaire” – i funzionari dei servizi segreti avrebbero poi continuato a spiare illegalmente singoli individui per motivi privati senza che il premier intervenisse. Così, il direttore operativo ha creato una società d’intelligence economica, Sandstone, utilizzando risorse statali». Citando il giornale lussemburghese “Wort”, Corrado Belli su “Informare per resistere” ricorda che proprio l’intelligence del Granducato fu pesantemente coinvolta in operazioni di destabilizzazione e strategia della tensione, con attentati “false flag” progettati con la collaborazione dei servizi segreti tedeschi: «Negli anni tra il 1984 e il 1986, il Lussemburgo fu preso di mira con diversi attentati dinamitardi che colpivano per lo più l’industria dell’energia CeCedel, caserme e commissariati di polizia, tribunali, fabbriche di bombole di gas, la piscina olimpica, la redazione del giornale “Luxemburger Wort” e l’aeroporto Findel».Sempre citando la stampa lussemburghese, Belli rivela che l’establishment politico tentò di fermare la magistratura che stava cercando di far luce su quegli strani episodi di terrorismo. Per zittire il giudice Robert Biever, che era giunto ad accusare direttamente il ministro della giustizia Luc Frieden di sabotare le indagini, fu scatenata una campagna di disinformazione e discredito, arrivando a incolpare il magistrato di turismo pedofilo in Thailandia. Gli oscuri attentati degli anni ‘80 contro l’innocuo Lussemburgo, dice Belli, in realtà «servivano a creare una tensione allarmante nella popolazione, al fine di far accettare leggi restrittive e un controllo totale su ogni singola persona», come afferma lo storico svizzero Daniel Ganser, che denuncia i contatti “coperti” tra l’intelligence lussemburghese e il Bnd, il servizio segreto della Germania. La storia processuale della Gladio del Lussemburgo ricorda quella delle tante stragi italiane: processi rinviati, amnesie, testimoni scomparsi, sparizione delle prove.Nel compassato Lussemburgo, «l’affare Gladio diventava una guerra interna tra il governo, la magistratura e le diverse famiglie di alto rango implicate». Chiamato a deporre insieme al ministro Frieden, lo stesso Juncker «come al solito disse di non sapere nulla e che non era suo dovere sapere cosa facessero i servizi segreti». A smentirlo provvide Marco Mille, direttore dell’intelligence, che attirò Juncker in una trappola: doveva essere un colloquio privato, ma fu registrato con una microspia nascosta nell’orologio del generale – cosa che scatenò le proteste di Juncker, indispettito per la registrazione “illegale” e la diffusione di informazioni “protette da segreto di Stato”. Non fece mistero delle ombre lunghe di Glaido, invece, un altro politico lussemburghese, Jacques Santer, precedessore di Juncker sia come premier che come presidente della Commissione Ue. Juncker però è noto per lo stile tutto suo. Sempre Belli racconta che alla rivista “Focus” dichiarò: «Nulla deve essere portato in pubblico, noi del gruppo Europa Unita discutiamo tutto in segreto, e quando la cosa diventa seria dobbiamo dire esclusivamente le bugie».Lo “stile” Juncker, secondo i molti detrattori, si richiama direttamente a quello dei “padri” dell’Unione Europea: prendiamo una decisione e aspettiamo di vedere cosa succede, ha detto di recente allo “Spiegel”; se nessuno protesta – magari perché la gente non capisce bene cosa significa quello che abbiamo deciso – allora procediamo, spingendoci al punto da non poter più tornare indietro. Questo è il personaggio a cui oggi è affidata la guida della Commissione Europea, all’indomani di elezioni in cui tutti i partiti in lizza avevano invocato meno rigore, più democrazia e più trasparenza. Inoltre, le sue provvidenziali “amnesie” sul ruolo ambiguo dei servizi segreti Nato rappresentano un’ottima credenziale sul piano geopolitico, proprio ora che gli Usa premono su Bruxelles per coinvolgerla nelle ostilità contro la Russia. L’Europa senza una politica estera? Niente paura, ora c’è l’uomo giusto al posto giusto: grazie ad Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi.Leali e obbedienti, soprattutto perché ricattabili: è la regola d’oro in base alla quale il super-potere sceglie i suoi ineffabili candidati. Jean-Claude Juncker, l’anonimo politico democristiano per 18 anni alla guida del Lussemburgo, non è stato solo al vertice della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, prima di presiedere l’Eurogruppo dal 2005 al 2013. E’ stato anche l’uomo che, per anni, ha messo illegalmente sotto sorveglianza i tre quinti dei suoi concittadini, spiati segretamente dallo Srel, l’intelligence lussemburghese. Per questo, accusato nel 2013 da una commissione d’inchiesta, è stato costretto alle dimissioni. Ombre lunghe, dunque, sulla nomina di Juncker al vertice della Commissione Europea: Angela Merkel, che l’ha imposto alla Gran Bretagna con la collaborazione di Renzi e Hollande, sa di poter sempre contare sulla fedeltà di un uomo molto chiacchierato, storica pedina dei poteri forti e accusato, nel suo paese, di aver fatto schedare migliaia di persone a loro insaputa, dopo aver coperto la strategia della tensione di marca Gladio.
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Argentina, Washington difende gli sciacalli del debito
Fondi-avvoltoio: avevano speculato sull’agonia dell’Argentina nel 2001, acquistando a prezzi stracciati i titoli di Stato di Buenos Aires. Poi il governo democratico di Nestor Kirchner ha “ristrutturato” il debito tra il 2005 e il 2010, ma ora la Corte Suprema statunitense ha respinto il ricorso del governo argentino contro una sentenza che imponeva il pagamento di 1,3 miliardi di dollari, più interessi, agli obbligazionisti non avevano accettato i termini della ristrutturazione. Non si tratta di piccoli risparmiatori, ma di fondi speculativi che hanno messo in atto un’operazione già andata in porto in altre occasioni, rileva Alessia Lai. Il fondo Nml Capital del miliardario statunitense Paul Singer cerca di ottenere un risultato simile a quelli raggiunti anni addietro in Perù e in Congo. Nel primo caso, per alcuni buoni in default acquisiti per 11,4 milioni, il fondo ottenne 58 milioni. E nel paese africano, grazie a forti pressioni, riuscì a convertire in un pagamento di 90 milioni un debito comprato ad appena 20 milioni di dollari.«L’Argentina non intende fare lo stesso», scrive Alessia Lai su “Sponda Sud”: «Lo ha detto e ribadito in una lotta che va avanti da 12 anni». Dopo la sentenza di Washington, il caso tornerà in tribunale e, soprattutto, tornerà nelle mani di Thomas Griesa, giudice che ha già condannato due volte l’Argentina a pagare quanto richiesto dai fondi speculativi statunitensi. La “presidenta” argentina, Cristina Fernandez de Kirchner, ha definito «un’estorsione» l’annuncio della Corte Suprema americana e, a caldo, ha ribadito che il governo porterà avanti «tutte le strategie necessarie affinché chi ha avuto fiducia nel paese riceva i propri soldi», riferendosi a quel 92,4% dei creditori post-default che hanno accettato la rinegoziazione dei tango-bond. Il quadro è tuttavia intricato: la Corte statunitense ha revocato la misura precauzionale che aveva permesso al governo argentino di non compiere i pagamenti in sospeso ai “fondi avvoltoio”, ostili alle ristrutturazioni del debito.Gli Usa non accettano le due istanze fondamentali presentate da Buenos Aires. La prima sosteneva che non si può considerare un paese colpevole di non ottemperare alla clausola che richiede la parità di trattamento dei creditori, se questo effettua periodici pagamenti degli interessi a coloro che hanno accettato la ristrutturazione. La seconda contestava la possibilità per un tribunale distrettuale come la corte di New York, di ordinare la disponibilità di beni di un paese quando questi sono coperti dalla legge di immunità sovrana. Thomas Griesa, infatti, aveva ordinato che il denaro usato da Buenos Aires per pagare gli obbligazionisti che avevano accettato la ristrutturazione venissero sequestrati e girati ai fondi creditori. Ora, col rifiuto della Corte di accogliere il ricorso argentino, è stata di fatto accolta la sentenza che ha favorito i “fondi avvoltoio”: entra quindi in vigore l’ordine di pagamento ai fondi speculativi disposta da Griesa.Secondo un alto funzionario del ministero argentino dell’economia, Jorge Capitanich, la revoca della sospensione dei pagamenti ai fondi-avvoltoio «impedisce all’Argentina di eseguire il pagamento della prossima trance di debito», a meno che non vengano pagati contemporaneamente anche i fondi speculativi, “premiati” con profitti astronomici (fino al 600.000%). L’imposizione del trattamento paritario potrebbe costare all’Argentina qualcosa come 30 miliardi di dollari, se il 93% dei creditori – quelli che hanno accettato la conversione del debito – rivendicassero a loro volta il pieno pagamento sulle obbligazioni sottoscritte. Da anni, aggiunge Alessia Lai, il governo argentino continua a esplorare tutte le istanze giudiziali possibili, mentre continua a proporre la rinegoziazione cercando di ottenere il rientro dei bond oggi in mano agli speculatori: «Così come stabilito dal nostro ordinamento, dai trattati internazionali e dal diritto comparato, il giudice nazionale può controllare che la decisione straniera non metta a repentaglio l’ordine pubblico», sostiene Alejandra Gils Carbò, procuratrice nazionale argentina.Per la procuratrice, «la prerogativa del governo argentino di ristrutturare il suo debito di fronte a una situazione di emergenza estrema attiene all’ordine pubblico locale e alla sovranità dello Stato: sono gli organi rappresentativi del governo designato per la Costituzione nazionale – e non un creditore individuale, o un tribunale straniero – a stabilire le politiche pubbliche». Un concetto ribadito da Jorge Capitanich, che nota come «il provvedimento del giudice Griesa, tecnicamente, incorre nei limiti dello Stato argentino». Capitanich aggiunge che l’Argentina è disposta a cancellare il debito mantenendo gli impegni assunti con la Banca Interamericana di Sviluppo, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e altre agenzie economiche. Tuttavia, in un’economia globale come quella attuale, «gli attori in campo sono le grandi entità finanziarie, i fondi speculativi capaci di mettere in ginocchio intere nazioni con le loro manovre». Entità per la grande maggioranza statunitensi, continua Alessia Lai, che godono di legami stretti con i governi nordamericani.L’Argentina, un paese risollevatosi da un default causato dalle politiche iperliberiste dei governi filo-Usa, negli anni recenti aveva registrato una importante crescita economica. Negli ultimi anni è stata vittima di attacchi speculativi sulla sua moneta, il peso, che hanno indebolito la valuta nazionale e fatto impennare il valore del dollaro al mercato nero. Il ministro dell’economia, Axel Kicillof, denuncia alcuni settori finanziari che, indebolendo la moneta nazionale, cercano di «destabilizzare il governo». Per il finanziere Paul Singer, quello dei fondi-avvoltoio “miracolati” dalla Corte Suprema Usa, la tempesta finanziaria che minaccia di abbattersi su Buenos Aires è frutto delle politiche «orrende» del governo. Oggi, la sentenza statunitense espone ancora una volta Buenos Aires agli attacchi del mondo finanziario: il Fmi – liquidato e cacciato dall’Argentina dal presidente Nestor Kirchner – si è detto «preoccupato» per le potenziali ripercussioni della sentenza sul sistema finanziario. E puntuale, l’agenzia “Standard & Poor’s” ha tagliato il rating dell’Argentina a CCC- da CCC+ evidenziando, con il downgrade, i maggiori rischi di default sul debito argentino in valuta estera. Cristina Kirchner resiste, convinta che a insidiare l’Argentina «non è un problema finanziario o giuridico», ma qualcosa che «riguarda un modello di business a scala globale» che potrebbe portare a «tragedie inimmaginabili». Così, la lotta di Buenos Aires contro la finanza speculativa va avanti.Fondi-avvoltoio: avevano speculato sull’agonia dell’Argentina nel 2001, acquistando a prezzi stracciati i titoli di Stato di Buenos Aires. Poi il governo democratico di Nestor Kirchner ha “ristrutturato” il debito tra il 2005 e il 2010, ma ora la Corte Suprema statunitense ha respinto il ricorso del governo argentino contro una sentenza che imponeva il pagamento di 1,3 miliardi di dollari, più interessi, agli obbligazionisti non avevano accettato i termini della ristrutturazione. Non si tratta di piccoli risparmiatori, ma di fondi speculativi che hanno messo in atto un’operazione già andata in porto in altre occasioni, rileva Alessia Lai. Il fondo Nml Capital del miliardario statunitense Paul Singer cerca di ottenere un risultato simile a quelli raggiunti anni addietro in Perù e in Congo. Nel primo caso, per alcuni buoni in default acquisiti per 11,4 milioni, il fondo ottenne 58 milioni. E nel paese africano, grazie a forti pressioni, riuscì a convertire in un pagamento di 90 milioni un debito comprato ad appena 20 milioni di dollari.
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No-Tav, non terroristi. Ma chi protesta resta nel mirino
La Cassazione ha fatto cadere l’accusa di “condotta con finalità di terrorismo” per il lancio di bottiglie molotov contro il cantiere Tav di Chiomonte? Non cantiamo vittoria, avverte Aldo Giannuli: certo viene alleggerita la posizione dei quattro imputati, arrestati con una accusa «tanto spropositata», ma – al processo – il crollo della costruzione accusatoria della Procura di Torino potrebbe essere interpretato come già “premiante” di per sé, scaricando sui quattro giovani il massimo della pena per reati più “realistici”, come “devastazione e saccheggio”. Inoltre, la vicenda dei No-Tav dimostra «quale sia la funzione cardine della magistratura nei processi di globalizzazione: sul versante civilistico attraverso l’assunzione dei principi della “lex mercatoria” e su quello penale attraverso l’emergenzialismo contro i conflitti sociali». Nel mirino, dunque, si ritrova (virtualmente) chiunque protesti. «Prima di tutto, bisogna sbarazzarsi delle mitologie giustizialiste di questi anni, di chi ha visto nella magistratura il baluardo della Costituzione, dove c’era semplicemente uno scontro fra diverse fazioni del potere».«Ovviamente», aggiunge Giannuli nel suo blog, «siamo soddisfatti di questo risultato per i quattro accusati che, speriamo, vengano trattati con equità e clemenza, sia in considerazione della loro giovane età, sia delle particolari condizioni in cui viene a trovarsi la lotta in val di Susa, di fronte all’assoluta sordità delle istituzioni e delle forze politiche verso le istanze della popolazione locale». Ma resta il fatto che i quattro «sono stati sottoposti ad un regime detentivo di massima sicurezza, con misure afflittive del tutto sproporzionate al fatto». Secondo alcuni media, i No-Tav denunciati sono ormai un migliaio, e il processo attualmente in corso non si svolge in tribunale, ma nell’aula-bunker del carcere torinese delle Vallette, secondo modalità proprie dei maxi-processi contro il terrorismo e la mafia. Oggi, la Cassazione dà ragione ai tanti giuristi che avevano protestato per la formulazione del reato di terrorismo contro i quattro giovani No-Tav, mentre resta tuttora senza colpevoli il terrorismo (vero) che colpì la valle di Susa negli anni ‘90, con una inquietante sequenza di attentati dinamitardi progettati per incolpare fantomatici “eco-terroristi”, mai individuati e probabilmente mai esistiti.Secondo Giannuli, i quattro ragazzi – fino a ieri sotto processo per terrorismo dopo una notte di “assedio” al cantiere di Chiomonte con lanci di molotov – ora dovranno affrontare il giudizio penale «in condizioni di svantaggio psicologico», perché «già la derubricazione del reato parrà una misura di clemenza», per cui «sarà più difficile ottenere quelle attenuanti di quanto sarebbe stato in diverse condizioni di partenza». Per Giannuli, storico dell’università di Milano e consulente di giustizia in tanti processi sulle “stragi impunite”, i problemi sono due: la norma giudiziaria italiana e i suoi utilizzatori. L’anomalia normativa risale all’articolo “270 sexies” del codice penale introdotto nel 2005, «nel clima certamente non sereno seguito al terribile attentato dell’11 settembre 2001», quello contro le Torri Gemelle. L’articolo considera “con finalità di terrorismo” le “condotte” che, “per la loro natura o contesto”, possono “arrecare grave danno ad un paese o ad un’organizzazione internazionale”, e sono compiute “allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici” a “compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto” o “destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un paese”.Giannuli fa notare «il carattere eccessivamente vago e imprecisato della fattispecie penale: neppure si esplicita che sia necessario l’uso della violenza (che resta sottintesa)». Molto più genericamente, si parla solo di una “condotta” che possa condizionare i poteri pubblici in relazione a “qualsiasi atto”. «Cosa vuol, dire “qualsiasi atto”? Se un gruppo di cittadini cerca di impedire lo sgombero di case occupate, magari alzando barricate, certamente commette un reato, ma si può parlare di terrorismo per questo? E se il tentativo di indurre i pubblici poteri a recedere da una decisione fosse fatto con frode, potremmo parlare di terrorismo? La norma è così dilatabile che non si comprende bene dove debba arrestarsi». E’ comprensibile – fino a un certo punto – che, di fronte alla minaccia del terrorismo internazionale, il legislatore possa essersi «fatto prendere la mano». Ma oggi, «ad un decennio da quei fatti e con una minaccia tanto ridimensionata», dobbiamo proprio «continuare a tenerci una norma così pericolosamente fluida?». Questi, sottolinea Giannuli, «sono i danni delle “norme di eccezione” che entrano nell’ordinamento per una emergenza e poi ci restano anche quando l’emergenza è passata».Tutto questo, accusa Giannuli, «contribuisce a plasmare la mentalità dei magistrati indirizzandoli verso un uso non garantista del diritto penale: come si in questo paese ce ne fosse bisogno, con la magistratura che ci ritroviamo!». Negli ultimi dieci anni, continua lo storico, abbiamo assistito «ad una tendenza della magistratura inquirente ad alzare il tiro, beninteso, quando si tratta di conflittualità sociale, mentre l’atteggiamento è ben più esastico per i reati finanziari o degli appartenenti ai corpi di polizia, nel qual caso passano in cavalleria addirittura gli omicidi». Ormai, «si contesta il reato di devastazione e saccheggio anche se qualcuno sfascia una vetrina o un altro tira giù un segnale stradale e le imputazioni per reati gravissimi sono seminate come noccioline. Neppure ci si pone il problema della commisurazione dell’atto rispetto ai possibili effetti». Vale anche per i No-Tav, ovviamente. In quel caso, secondo Giannuli, l’inquirente ha ragionato così: il lancio delle molotov era finalizzato a bloccare i lavori della linea ferroviaria programmata dallo Stato? Dunque, era rivolto a costringere i poteri pubblici a non attuare quel progetto, e pertanto siamo negli estremi previsti dall’articolo “270 sexies”.«In tutto questo ragionamento, non si prende neppure in considerazione se il gesto in questione fosse idoneo ad ottenere l’effetto in questione», continua Giannuli. «Insomma, se cerco di fare una rapina in banca armato di temperino, magari le mie intenzioni sono quelle, ma appare scarsamente realistico che la cosa possa sortire l’effetto voluto ed è probabile che qualcuno mi prenda per matto più che per rapinatore». L’intenzione soggettiva? «Non è criterio di per sé sufficiente a caratterizzare il reato». Specie in un caso come quello della valle di Susa, dove gli stessi imputati – che ammettono la loro volontà di boicottare i lavori – al tempo stesso negano decisamente di aver mai voluto arrecare danno alle persone. E’ bene ricordare che in valle di Susa si sono svolte centinaia di manifestazioni nel corso degli ultimi anni, largamente pacifiche. Solo dal 2011 si è avuto qualche scontro ai margini, coinvolgendo singole fazioni, a volte anche con dei feriti. Ma non è mai stata riscontrata la detenzione di armi da fuoco o, peggio, di arsenali (armi da guerra, bombe) tipici del terrorismo.La magistratura inquirente torinese – interpretando quella legge del 2005, nel modo oggi “bocciato” dalla Cassazione – ha alzato il tiro contro una parte dei manifestanti, armati di molotov, petardi, fionde e tubi per lanciare razzi pirotecnici. Mano pesante, insomma, contestando il rischio che quelle attrezzature potessero comunque mettere in pericolo l’incolumità delle persone, operai del cantiere e agenti di sorveglianza. «Questo atteggiamento della magistratura non è una tendenza solo italiana», dice ancora Giannuli, citando «il comportamento della magistratura inglese nel 2011 nei confronti della rivolta giovanile di quella estate». In valle di Susa, però, «mi pare che stiamo facendo gli straordinari». Per Giannuli, la verità è che «il tempo della crisi spinge a comportamenti repressivi anche al di là della legalità: la spropositata accusa di terrorismo ai giovani No-Tav è figlia di questa cultura giuridica e di questa funzione repressiva spinta al parossismo». Sicché, «al di là dei singoli casi, si rende necessaria e urgente una presa di coscienza dei termini reali del problema della giustizia penale».La Cassazione ha fatto cadere l’accusa di “condotta con finalità di terrorismo” per il lancio di bottiglie molotov contro il cantiere Tav di Chiomonte? Non cantiamo vittoria, avverte Aldo Giannuli: certo viene alleggerita la posizione dei quattro imputati, arrestati con una accusa «tanto spropositata», ma – al processo – il ridimensionamento dell’imputazione potrebbe essere interpretato come già “premiante” di per sé, scaricando sui quattro giovani il massimo della pena per reati di teppismo. La vicenda dei No-Tav dimostra «quale sia la funzione cardine della magistratura nei processi di globalizzazione: sul versante civilistico attraverso l’assunzione dei principi della “lex mercatoria” e su quello penale attraverso l’emergenzialismo contro i conflitti sociali». Se nel mirino finisce (virtualmente) chiunque protesti, bisogna «sbarazzarsi delle mitologie giustizialiste di questi anni, di chi ha visto nella magistratura il baluardo della Costituzione, dove c’era semplicemente uno scontro fra diverse fazioni del potere».
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Parigi, Londra, Roma: un voto per scardinare il regime Ue
L’incognita del voto in Francia è sicuramente «il punto più vulnerabile della costruzione europea», in questa fase.Segue a ruota l’Inghilterra, dove si prevede un’affermazione non irrilevante dell’Ukip che, però, difficilmente supererà di molto il 25% e quasi certamente non raggiungerà il 30%. Discorso diverso: da sempre, l’europeismo inglese è piuttosto tiepido. Non a caso, infatti, «l’Inghilterra non è nell’Eurozona e, spesso, in politica estera, ha seguito più gli Usa che i partner europei». Secondo Giannuli, un forte successo dell’Ukip darebbe una spinta forse decisiva all’Inghilterra a sciogliere gli ormeggi europei. Inoltre lo United Kingdom Independence Party è particolarmente forte nel Galles, paese che potrebbe essere contagiato dal secessionismo della Scozia, che sta andando al referendum sulla separazione da Londra. «Se si profilasse un’uscita contemporanea di Scozia e Galles, entrerebbe seriamente in crisi il Regno Unito, riducendolo di fatto alla sola Inghilterra o poco più, con effetti che si riverserebbero anche sulla Ue, che si troverebbe a dover ripensare tutti i trattati istitutivi».Infine, il caso italiano: le soglie critiche sono quelle legate al derby Renzi-Grillo. Il leader del Movimento 5 Stelle «deve superare il 25% per mantenere un certo peso politico», mentre il neo-premier «è nei guai se va sotto il 30% anche di un solo voto». Soprattutto, «la distanza fra i due deve essere superiore ai tre punti dal punto di vista di Renzi e inferiore da quello di Grillo». Infatti, una differenza sotto i tre punti «renderebbe il M5S competitivo con il Pd in caso di elezioni politiche». In soldoni, conclude Giannuli, «il problema è quello della stabilità del quadro politico del massimo debitore di Europa: se il governo entra in fibrillazione e si trascina con sé le leggendarie riforme renziane, i mercati finanziari europei non possono non risentirne». Ai “mercati”, infatti, piace tanto il regime di Bruxelles: prepariamoci a vederli di nuovo all’opera, a suon di spread, se il vento di rivolta – come tutto lascia pensare – comincerà a soffiare su tutta l’Europa, con la sola ovvia eccezione della Germania, dove il consenso pro-euro è quotato attorno al 90%.Il voto francese, inglese e italiano può mettere in crisi l’Ue. Attenti a leggere bene il risultato europeo del 25 maggio: se una delle tante liste anti-austerità (o meglio, anti-Germania) dovesse ottenere un clamoroso successo in un paese, le forze di governo di quel paese si troverebbero strette fra la tenaglia del vincolo europeo e la pressione interna anti-Ue. Alcuni governi, per non essere travolti, potrebbero essere costretti ad adottare politiche meno arrendevoli verso Bruxelles. Altri, invece, potrebbero scegliere la strada opposta, col rischio di una conflittualità sociale ben più aspra del passato. In ogni caso, la crisi elettorale potrebbe spingere diversi sistemi politici al limite della rottura. Lo sostiene Aldo Giannuli, guardando al verdetto delle europee: se in Germania vincerà la linea Merkel-Spd mentre nel resto d’Europa cresceranno molto le liste euroscettiche, una “grande coalizione” a Strasburgo tra popolari e socialdemocratici rafforzerebbe ulteriormente la percezione di una “Europa tedesca”, facendo esplodere gli atteggiamenti anti-tedeschi e anti-Ue, determinando una spirale incontrollabile.
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Geithner e il golpe 2011, Sapelli: nel mirino era Tremonti
Prima Alan Friedman, col suo libro nel quale Prodi, De Benedetti e lo stesso Monti ammettono che nel 2011 c’erano state “consultazioni”, anche da parte di Napolitano, per far fuori Berlusconi, il premier in carica. Ora la conferma arriva da Timothy Geithner, uomo di Wall Street dirottato a Washington come ministro del Tesoro di Obama: la Casa Bianca, scrive oggi Geithner, nel 2011 ricevette pressioni da parte di alcuni paesi europei per far cadere Berlusconi. Il “golpe”, insomma, c’è stato. «Non sono sorpreso», commenta l’uomo di Arcore. «È la conferma di ciò che ho sempre sostenuto, che c’è stata una precisa volontà di togliere di mezzo un premier democraticamente eletto che difendeva gli interessi del suo paese e contrastava quelli della Germania». Ma secondo Giulio Sapelli, docente di storia economica nell’università di Milano, la tecnocrazia europea targata Angela Merkel aveva qualcun altro nel mirino: Giulio Tremonti. Era lui l’uomo nero della Troika, il vero bersaglio dell’Ue, perché resisteva – in ogni modo possibile – ai diktat dell’austerity.Quella che oggi sgancia Geithner è una bomba: «Funzionari dell’Ue chiesero a Obama di far dimettere Berlusconi». Per prima cosa bisogna contestualizzare gli eventi, raccomanda Sapelli, intervistato da Fabio Franchini per “Il Sussidiario”. Geithner, ex ministro di Obama, nel 2014 scrive un libro dove racconta come a far cadere il governo Berlusconi non siano stati gli Usa, bensì la tecnocrazia europea dominata dai tedeschi. Motivo? «Perché l’Italia si era detta non favorevole a salvare la Grecia portando quote ulteriori di capitali rispetto a quelli che già versava al fondo della Comunità Economica Europea». Se Geithner dice questo, aggiunge Sapelli, «vuol dire che ora come ora i rapporti tra Germania e Usa sono lacerati, pessimi. Uno come lui che ha avuto responsabilità internazionali di altissimo livello (mentre oggi le ha nel mondo finanziario) e che scrive un libro con dentro cose di questo tipo…».Il vero obiettivo di Bruxelles era Tremonti, insiste Sapelli: era lui l’uomo da far cadere. «Consiglio di andare a sfogliare le appendici di “Uscita di sicurezza”, scritto dall’ex ministro dell’economia: contengono delle verità terribili. Tremonti ha continuato ad avvisare la Comunità Europea sull’arrivo imminente della crisi, invitando a perseguire politiche antideflazionistiche, che andavano però a contrastare le mire tedesche. Andava allontanato». L’Italia, o meglio Tremonti, vittima dunque di una vera e propria ritorsione? «Sì, ma anche della sua stessa debolezza politica». Secondo Sapelli, uno come Tremonti «avrebbe dovuto trovare il modo di dirle anche da ministro le cose che dice nel libro». Il fatto resta senza precedenti: nella “democratica” Europa «non era mai accaduto che un governo eletto fosse destituito così. Quell’esecutivo era sì traballante, ma non ancora sfiduciato dal Parlamento. Costituzionalmente parlando è una cosa gravissima».E la calamità dello spread? «Non ha alcun senso. Lo spread, come dimostrano i fatti di oggi, era un’invenzione: era tenuto volontariamente alto per creare una psicosi. Lo spread adesso è caduto mica per merito del governo Renzi, bensì perché i mercati dei paesi emergenti, che prima tiravano, stanno manifestando i primi sentori di una crisi». Alla vigilia del voto del 25 maggio, che conseguenze può avere una rivelazione di questa portata che svela queste trame? Geopolitica: gli americani oggi impegnati in Ucraina nel braccio di ferro contro Putin sanno benissimo che il libro di Geithner avrà un’enorme eco mediatica, quindi «hanno tutto l’interesse a destabilizzare la Merkel e i governi che la sostengono». Alla luce del retroscena di Geithner, il ruolo di Napolitano in quei convulsi mesi estivi e autunnali cambia o rimane invariato? Sapelli non ha dubbi: «Dico solo una cosa: riflettiamo sul viaggio della regina Elisabetta in Italia: chi è venuta a trovare la regina? il Papa e Napolitano. Ecco».Prima Alan Friedman, col suo libro nel quale Prodi, De Benedetti e lo stesso Monti ammettono che nel 2011 c’erano state “consultazioni”, anche da parte di Napolitano, per far fuori Berlusconi, il premier in carica. Ora la conferma arriva da Timothy Geithner, uomo di Wall Street dirottato a Washington come ministro del Tesoro di Obama: la Casa Bianca, scrive oggi Geithner, nel 2011 ricevette pressioni da parte di alcuni paesi europei per far cadere Berlusconi. Il “golpe”, insomma, c’è stato. «Non sono sorpreso», commenta l’uomo di Arcore. «È la conferma di ciò che ho sempre sostenuto, che c’è stata una precisa volontà di togliere di mezzo un premier democraticamente eletto che difendeva gli interessi del suo paese e contrastava quelli della Germania». Ma secondo Giulio Sapelli, docente di storia economica nell’università di Milano, la tecnocrazia europea targata Angela Merkel aveva qualcun altro nel mirino: Giulio Tremonti. Era lui l’uomo nero della Troika, il vero bersaglio dell’Ue, perché resisteva – in ogni modo possibile – ai diktat dell’austerity.