Archivio del Tag ‘Deutsche Bank’
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Fa crollare l’Italia, poi se la compra. Ma chi è BlackRock?
Faccio scoppiare l’Italia con la crisi dello spread, la costringo a svendere i gioielli di famiglia e quindi arrivo io, col portafogli in mano, pronto a rilevare a prezzi stracciati interi settori vitali dell’economia italiana, messa in ginocchio dalla manovra finanziaria. Secondo “Limes”, l’architetto supremo del complotto non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero. La rivista di Lucio Caracciolo, riassume Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa”, ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi e il vero potere del primo fondo d’investimenti mondiale, fattosi sotto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi, dopo che ormai il Pil italiano era stato letteralmente raso al suolo dai tecnocrati nostrani, in accordo con quelli di Bruxelles. Il “Moloch della finanza globale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari: non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.Con la globalizzazione dell’economia, il valore complessivo delle attività finanziarie internazionali primarie è passato dal 50% al 350% del Pil mondiale, raggiungendo i 280.000 miliardi di dollari, di cui solo il 25% legato agli scambi di merci. E il valore dei derivati negoziati fuori dalle Borse (“over the counter”) a fine giugno 2013 aveva toccato i 693.000 miliardi di dollari, in gran parte legati al mercato delle valute: al Forex si scambiano in media 1.900 miliardi di dollari al giorno. Tutto ha avuto inizio col neoliberismo promosso da Margaret Thatcher e Ronald Reagan: deregulation e meno vincoli per le megabanche, autorizzate a “giocare” con sempre nuovi prodotti finanziari come gli “hedge fund”, i fondi a rischio speculativi e le società di investimento spesso collegate alle banche, innanzitutto anglosassoni. Il colpo di grazia porta la firma di Bill Clinton, che negli anni ‘90 rende assoluta la deregolamentazione della finanza, abolendo il Glass-Steagal Act creato da Roosevelt negli anni ‘30 per limitare la speculazione alle sole banche d’affari e tenere il credito commerciale al riparo dalla “ruolette” finanziaria di Wall Street che aveva causato la Grande Crisi del 1929.A estendere al resto del mondo l’immediata cancellazione dei vincoli di sicurezza provvide il Wto, egemonizzato dagli Usa, su impulso delle megabanche, dell’allora segretario al Tesoro Larry Summers e del suo vice Tim Geithner, futuro ministro di Obama. Questo il clima in cui cominciò l’ascesa di BlackRock, autonoma dal 1992 e basata a New York, pronta a inserirsi in banche e aziende acquistando azioni, obbligazioni, titoli pubblici e proprietà, per un totale di oltre 4.500 miliardi, cioè pari al Pil della Francia sommato a quello della Spagna. BlackRock comincia anche a far politica: entra nel capitale delle due maggiori agenzie di rating, “Standard & Poor’s” (5,44%) e “Moody’s” (6,6%), ottenendo la possibilità di influire sulla determinazione di titoli sovrani, azioni e obbligazioni private, incidendo così su prezzo e valore delle attività acquistate o vendute. Quindi opera anche nell’analisi del rischio, vendendo “soluzioni informatiche” per la gestione di dati economici e finanziari, ed elabora dati che «incorporano anche pesanti elementi politici».Naturalmente sfrutta appieno la crisi del 2007: due anni dopo, lo stesso Geithner consulta proprio BlackWater per valutare gli asset tossici di Bear Stearns, Aig e Morgan Stanley. Compiti che BlackRock esegue, «agendo alla stregua di una sorta di Iri privato». Nel 2009 fa anche un colpo grosso, acquistando Barclays Investment Group, col suo carico immenso di partecipazioni azionarie nelle principali multinazionali. Il colosso finanziario americano informa e «manipola i propri clienti, utilizzando tecniche e software non diversi da quelli impiegati da Google (di cui ha il 5,8%) o dalla Nsa per sondare gli umori della gente», scrive “Limes”. Si serve della piattaforma Aladdin, «con almeno 6.000 computer in 12 siti più o meno segreti, 4 dei quali di nuova concezione, ai quali si rapportano 20.000 investitori sparsi per il mondo». Il suo centro studi d’eccellenza, il “BlackRock Investment Institute”, esamina le variabili politico-strategiche: il maxi-fondo è interessato al profitto «ma anche alla stabilità, sicurezza e prosperità degli Stati Uniti». Il fondatore e leader, Larry Fink, è considerato «il più importante personaggio della finanza mondiale», eppure resta «virtualmente uno sconosciuto» a Manhattan, secondo “Vanity Fair”.Proprio BlackRock, aggiunge “Limes” è probabilmente il vero regista della crisi italiana del 2011, o meglio della capitolazione dell’Italia di fronte agli appetiti della grande finanza. Lo spread fra i Bund tedeschi e i nostri Btp iniziò a dilatarsi non appena il “Financial Times” rese noto che nei primi sei mesi di quell’anno Deutsche Bank aveva venduto l’88% dei titoli che possedeva, per 7 miliardi di euro. «Molti videro un attacco al nostro paese ispirato da Berlino e dai poteri forti di Francoforte», ma forse – secondo “Limes” – non era così. La rivista di Caracciolo rivela che il potente istituto di credito tedesco aveva allora un azionariato diffuso, il 48% del capitale sociale era detenuto fuori dalla Repubblica Federale, e il suo azionista più importante era proprio BlackRock con il 5,1%. Peraltro, aggiunge la Bruzzone sulla “Stampa”, oggi la “Roccia Nera” detiene in Deutsche Bank una quota ancor maggiore (il 6,62%) e ne è il maggior azionista, seguito da Paramount Service Holdings, basato alle Isole Vergini Britanniche. «Si può escludere che il fondo non abbia avuto alcuna parte in una decisione tanto strategica come quella di dismettere in pochi mesi quasi tutti i titoli del debito sovrano di un paese dell’Ue?».«Se attacco c’è stato non è detto che sia stato perpetrato dalle autorità politiche ed economiche della Germania: è un fatto che a picchiare più duramente contro i nostri titoli a partire dall’autunno 2011 siano proprio “Standard & Poor’s” e “Moody’s”». Un’ipotesi, quella di Limes, che getta nuova luce su tanta parte della narrazione di questi anni sulla Germania, l’Europa e i Piigs, a partire dalle polemiche di quell’agosto bollente, «con Merkel e Sarkozy fustigati da Giuliano Amato sul “Sole 24 Ore”», anche se Amato – ricorda la Bruzzone – in quel 2011 era fra l’altro “senior advisor” proprio di Deutsche Bank. «E chissà che senza la decisione di Deutsche Bank di vendere i titoli di Stato di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, la tempesta finanziaria non sarebbe iniziata». Un’ipotesi realistica, secondo la Bruzzone, che apre altri interrogativi: sugli intrecci fra potere finanziario e politico, sul “potere sovrano” degli Stati (anche della potente Germania) e sulla composizione azionaria di questi onnipotenti istituti. Banche, fondi, superfondi: di chi sono? Chi decide che cosa, al di là dei luoghi comuni ripetuti delle narrative ufficiali?La fine della Deutsche Bank come motore sano dell’economia industriale tedesca risale all’epoca del crollo dell’Urss, quando l’attenzione della finanza angloamericana si concentra sull’Europa. E avviene a seguito di misteriosi omicidi, scrive la giornalista della “Stampa”, ricordando che Alfred Herrhausen, presidente della banca e consigliere fidato del cancelliere Kohl – un uomo che aveva in mente uno sviluppo della mission tradizionale e stilò addirittura un progetto di rinascita delle industrie ex comuniste, in Germania, Polonia e Russia, andandone persino parlarne a Wall Street – venne «improvvisamente freddato fuori dalla sua villa», a fine 1989. Si disse dalla Raf, o dalla Stasi, o da altri ancora. Stessa sorte toccò al suo successore, altro economista che si era opposto alla svendita delle imprese ex comuniste elaborando piani industriali alternativi alla privatizzazione. Fu ucciso nel 1991 da un tiratore scelto.Dopo di lui, alla sede londinese di Deutsche Bank arriva uno squadrone di ex banchieri della Merrill Lynch, compreso il capo, che diventa presidente, riorganizzando tutto in senso “moderno”. Anche lui però muore, a soli 47 anni, «in uno strano incidente del suo aereo privato». Va meglio al suo giovane braccio destro, Anshu Jain, un indiano con passaporto britannico, cresciuto professionalmente a New York, tutt’oggi presidente della banca diventata prima al mondo per quantità di derivati, spodestando Jp Morgan: la Deutsche Bank infatti è considerata fuori dalle righe “la banca più fallita del mondo”, «esposta per 55.000 miliardi, cioè 20 volte il Pil tedesco», a fronte di depositi per appena 522 miliardi. «Quanto è pericoloso il potere di mercato delle maggiori banche di investimento?». Se lo chiedeva due anni fa lo “Spiegel”, riportando un durissimo scontro fra Deutsche Bank e il ministro tedesco dell’economia, il super-massone Wolfgang Schaeuble.Scriveva il settimanale: «Un pugno di società finanziarie domina il trading di valute, risorse naturali, prodotti a interesse. Migliaiaia di investitori comprano, vendono, scommettono. Ma le transazioni sono in mano a un club di istituti globali come Deutsche Bank, Jp Morgan, Goldman Sachs. Quattro banche maneggiano la metà delle transazioni di valuta: Deutsche Bank, Citigroup, Barclays e Ubs». Un’altra ragione che dovrebbe farci prestare attenzione alla “Roccia Nera”, aggiunge “Limes”, è che ha messo radici in molte realtà imprenditoriali nel nostro paese. Per “L’Espresso”, addirittura, «si sta comprando l’Italia». Se un altro colosso americano, State Street Corporations, ha acquistato la divisione “securities” di Deutsche Bank e nel 2010 ha comprato l’attività di “banca depositaria” di Intesa SanPaolo (custodia globale, controllo di regolarità delle operazioni, calcoli, amministrazione delle quote, servizi ausiliari, gestione dei cambi e prestito di titoli), è proprio BlackRock a far la parte del leone.A fine 2011, il super-fondo americano aveva il 5,7% di Mediaset, il 3,9% di Unicredit, il 3,5% di Enel e del Banco Popolare, il 2,7% di Fiat e Telecom Italia, il 2,5% di Eni e Generali, il 2,2% di Finmeccanica, il 2,1% di Atlantia (che controlla Autostrade) e Terna, il 2% della Banca Popolare di Milano, Fonsai, Intesa San Paolo, Mediobanca e Ubi. E oggi Molte di queste quote sono cresciute e BlackRock è ormai il primo azionista di Unicredit (col 5,2%) e il secondo azionista di Intesa SanPaolo (5%). Stessa quota in Atlantia, mentre avrebbe ill 9,4% di Telecom. «Presidi strategici, che permetteranno a BlackRock di posizionarsi al meglio in vista delle privatizzazioni prossime venture invocate da molti “per far scendere il debito”», scrive “Limes”. E’ la nuova ondata in arrivo, dopo quella del 1992-93 a prezzi di saldo. «La crisi dei Piigs a che altro serve, se no?».Chi è BlackRock? Il web rivela, più che altro, un labirinto. Secondo “Yahoo Finanza”, il maggiore azionista (21,7%) sarebbe Pnc, antica banca di Pittsburgh, quinta per dimensioni negli Usa ma poco nota. Azionisti numero uno e due sarebbero Norges Bank, cioè la banca centrale di Norvegia, e Wellington Management Co., altro fondo di investimenti, di Boston, con 2.100 investitori istituzionali in 50 paesi e asset per 869 miliardi di dollari. Poi ci sono State Street Corporation, Fmr-Fidelity e Vanguard Group, che a loro volta sono gli unici investitori istituzionali di Pnc. Sempre loro, i “magnifici quattro”, si ritrovano con varie quote fra gli azionisti delle principali megabanche: non solo Jp Morgan, Bank of America, Citigroup e Wells Fargo, ma anche le banche d’affari come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of Ny Mellon. A ricorrere nell’azionariato di questi istituti ci sono anche altre società e banche, ma i “magnifici quattro” non mancano mai.Oltre ai soliti BlackRock, Vanguard, in Barclays – megabanca britannica che risale al 1690 – è presente anche Qatar Holding, sussidiaria del fondo sovrano del Golfo, specializzata in investimenti strategici. La stessa holding qatariota è anche maggior azionista di Credit Suisse, seguita dall’Olayan Group dell’Arabia Saudita, che ha partecipazioni in svariate società di ogni genere, mentre nell’altra megabanca elvetica, Ubs, si ritrovano BlackRock, una sussidiaria di Jp Morgan, una banca di Singapore e la solita Banca di Norvegia. Barclays Investment Group compariva tra i grandi azionisti di BlackRock, e viceversa, ma prima della crisi del 2008: dopo, non più – almeno in apparenza. Su “Global Research”, Matthias Chang mostra come nel 2006 “octopus” Barclays fosse davvero una piovra con tentacoli ovunque: Bank of America, Wells Fargo, Wachovia, Jp Morgan, Bank of New York Mellon, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Lehman Brothers e Bear Sterns, senza contare un lungo elenco di multinazionali di ogni genere, americane ed europee, comprese le miniere, senza dimenticare i grandi contractor della difesa.Dopo la crisi, che ha rimescolato le carte dell’élite finanziaria, il paesaggio cambia: Barclays Global Investors viene comprata nel 2009 da BlackRock. Il maxi-fondo, che nel 2006 aveva raggiunto il trilione di dollari in asset, dal 2010 al 2014 cresce ancora (fino ai 4.600 miliardi di dollari) insieme a Vanguard, presente in Deutsche Bank. Seguite i soldi, raccomanda il detective. Chi c’è dietro? «Attraverso il crescente indebitamento degli Stati – scrive la Bruzzone – megabanche e superfondi collegati, già azionisti di multinazionali, stanno entrando nel capitale di controllo di un numero crescente di banche, imprese strategiche, porti, aeroporti, centrali e reti energetiche. Solo per bilanciare l’espansione dei cinesi?». E’ un processo che va avanti da anni, «accelerato molto dalla “crisi” del 2007-8 e dalle politiche controproducenti come l’austerità, che sempre più si rivela una scelta politica». Tutto ciò è «evidentissimo nei paesi del Sud Europa, Grecia in testa, ma presente anche altrove e negli stessi Stati Uniti». Lo dicono blogger come Matt Taibbi ed economisti come Michael Hudson. Titolo del film: più che Germania contro Grecia, è la guerra delle banche verso il lavoro. Guerra che continua, dopo Thatcher e Reagan, nel mondo definitivamente globalizzato dai signori della finanza.Faccio scoppiare l’Italia con la crisi dello spread, la costringo a svendere i gioielli di famiglia e quindi arrivo io, col portafogli in mano, pronto a rilevare a prezzi stracciati interi settori vitali dell’economia italiana, messa in ginocchio dalla manovra finanziaria. Secondo “Limes”, l’architetto supremo del complotto non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero. La rivista di Lucio Caracciolo, riassume Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa”, ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi e il vero potere del primo fondo d’investimenti mondiale, fattosi sotto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi, dopo che ormai il Pil italiano era stato letteralmente raso al suolo dai tecnocrati nostrani, in accordo con quelli di Bruxelles. Il “Moloch della finanza globale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari: non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.
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La Bce può coprirci di euro: ci salverebbe, perciò non lo fa
«Il limite di spesa degli Stati euro è talmente miserabile che è come dare ai vigili del fuoco una bottiglia di acqua minerale al mese per spegnere gli incendi». Perché il governo europeo della Bce riversa trilioni di euro in liquidità sempre nei luoghi sbagliati e dove la gente non pescherà mai nulla? E perché ci si rifiuta di permettere a tutti gli Stati dell’Eurozona di spendere più di un misero 3% (sempre più risicato in futuro) per la vita dei cittadini, delle famiglie, delle aziende, della nostra democrazia? Perché, nella epocale impostura dell’euro, persino una banca centrale come la Bce – sovrana e libera sulla creazione illimitata di moneta – viene equiparata a qualsiasi banca privata, che il denaro non può emetterlo creandolo dal nulla. Di qui, sostiene Paolo Barnard, la patologia maniacale – tutta tedesca – che si riflette nel culto del “risparmio”, come se lo Stato stesso non fosse il monopolista dell’interesse pubblico, ma una semplice azienda o una normale famiglia. E’ tutto falso: la Bce, se solo volesse, potrebbe immettere fiumi di denaro nella nostra economia reale, resuscitandola di colpo.«Tutti sanno che la Bce è il monopolista dell’euro, solo lei e le sue banche centrali possono emetterlo, e lo danno ai governi comprandogli ogni tanto titoli di Stato sul mercato secondario», scrive Barnard nel suo blog. «La paura dei politici europei del nord, ma anche dei nostri, è che se la Bce ci desse molti euro in più, tipo ci permettesse di spendere un 10% o un 12% nel limite di spesa statale (chiamato “deficit di bilancio”), potrebbe correre il rischio che Grecia o Francia o Belgio o Italia, un giorno, non siano più in grado di ripagare quei soldi della Bce». E allora, attenzione: «La Germania in testa, e tutti gli altri fagiani politici, sono convinti che se domani qualche Stato cui fu permesso di spendere di più (per salvare la sua gente) fa bancarotta, allora sarà la Germania a doverci mettere il mancante». Si tratta di una «idiozia olimpionica, da qualsiasi punto di vista della macro-economia». Perché? Semplice: perché la Bce, potendo emettere moneta senza limite, non può mai temere di ritrovarsi a corto di denaro per ripianare eventuali buchi.«Facciamo che la Spagna non restituisca la sua spesa alla Bce», esemplifica Barnard. «Cosa succede alla Bce? Ha un buco nel bilancio. E questo dà un brutto segnale agli azionisti che toglieranno un po’ di soldi dal capitale della Bce (azioni)». Facile immaginarlo: «Tutti i tecnocrati e i politici a strapparsi i capelli». Aiuto, la Bce ha perso capitale: orrore, ora “la Germania deve ripagare la perdita”. No, tutto sbagliato. «Così come è vera e giusta la legge di gravità, è vero e giustissimo che la Bce non ha mai bisogno di un certo livello di capitale, per funzionare: mai e poi mai. Perché non è Unicredit, o Deutsche Bank, o Carisbo, cioè avventurosi privati. La Bce è il monopolista della moneta, è il Re, è Dio con l’euro, non la ferma nessuno, mai. Impossibile». E allora, «perché ci fanno morire, agonizzare, disperarci in un oceano di disoccupazione, con ’sta balla», secondo cui la Bce non potrebbe «rischiare di permettere agli Stati euro di spendere per noi cittadini molto di più, per paura di perdere capitale?». Risposta: «Perché i politici non hanno la più pallida idea di come funzionano le operazioni monetarie di una banca centrale. E noi crepiamo». La verità, conclude Barnard, la conoscono «pochissimi tecnici, a Francoforte e a Bruxelles, alla Bocconi, a Berlino: sanno benissimo che quello che dico è vero, e stanno zitti per sentirci urlare». Bisogna «scoprire chi sa e tace», perché questi «sono crimini contro la civiltà europea, più devastanti di una guerra».«Il limite di spesa degli Stati euro è talmente miserabile che è come dare ai vigili del fuoco una bottiglia di acqua minerale al mese per spegnere gli incendi». Perché il governo europeo della Bce riversa trilioni di euro in liquidità sempre nei luoghi sbagliati e dove la gente non pescherà mai nulla? E perché ci si rifiuta di permettere a tutti gli Stati dell’Eurozona di spendere più di un misero 3% (sempre più risicato in futuro) per la vita dei cittadini, delle famiglie, delle aziende, della nostra democrazia? Perché, nella epocale impostura dell’euro, persino una banca centrale come la Bce – sovrana e libera sulla creazione illimitata di moneta – viene equiparata a qualsiasi banca privata, che il denaro non può emetterlo creandolo dal nulla. Di qui, sostiene Paolo Barnard, la patologia maniacale – tutta tedesca – che si riflette nel culto del “risparmio”, come se lo Stato stesso non fosse il monopolista dell’interesse pubblico, ma una semplice azienda o una normale famiglia. E’ tutto falso: la Bce, se solo volesse, potrebbe immettere fiumi di denaro nella nostra economia reale, resuscitandola di colpo.
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Vogliono acqua, luce e gas: soldi a palate, e il Pd obbedirà
Acqua, luce, gas. Perché il Pd vuole privatizzare i servizi pubblici fondamentali? Perché gliel’hanno ordinato gli speculatori: la finanza ci guadagna di più e non rischia niente. Ecco il motivo dell’invocata modifica del Titolo V della Costituzione, che tuttora affida agli enti locali il controllo delle reti di distribuzione. Tutto iniziò con Franco Bassanini, attuale presidente della Cdp, la Cassa Depositi e Prestiti. Già socialista, poi transitato al Pds: fu lui, ricorda Paolo Barnard, a sferrare il primo storico attacco alla gestione pubblica dei servizi degli enti locali, le “utility”. Risultato: la legge 267 del 2000, figlia del lavoro svolto negli anni ‘90 da questo tecnocrate europeista. Bassanini «obbediva al già infame trattato Gats dell’Organizzazione Mondiale del Commercio di Ginevra», cioè il trattato del Wto che «mirava a mettere nelle mani degli speculatori internazionali (cioè privatizzare) i tuoi servizi essenziali, come scuola, sanità, assistenza sociale, cimiteri, anagrafe, acqua, luce, gas». Poi il Gats «si è impantanato», ma niente paura: oggi rientra dalla finestra col nome di Tisa ed è collegato al Ttip, il Trattato Transatlantico sul commercio.Dopo le “limature” di Prodi e D’Alema alla fine degli anni ’90, continua Barnard, oggi Renzi «vuole portare la stoccata finale alla privatizzazione dei servizi enti locali». Domanda: «Ma perché tutta ’sta furia del Pd (coccige di Wall Street) a fare ’ste “riforme”?». La risposta è persino banale: «Gli investitori sanno da tempo che investire in un servizio “utility” rende molto di più e si rischia molto di meno che investire nelle banche». Per la precisione, «significa che uno speculatore/investitore americano o russo o cinese guadagna molto di più, e rischia 9 volte di meno!, a investire nell’acqua o nel gas di un Comune che li privatizza piuttosto che a investire in Unicredit o Intesa o Bank of America o Bnp Paribas o Deutsche Bank». Non ci credete? «Non credete che mettere 1 milione di dollari sull’acqua sia mooolto meglio che metterli nelle super-potenti banche?». Il modello, continua Barnard, viene ovviamente dall’America: «Le “utility”, cioè proprio i servizi locali di acqua, luce e gas, hanno garantito agli investitori americani degli utili dall’80% al 50% di media!».Rendimenti stellari, se paragonati ai settori finanziari classici, le mega-banche: ai suoi investitori, Jp Morgan ha garantito il 30%, mentre Bank of America «un miserabile 4%», e un colosso come Citigoup «un’agonia dello 0,9%». Senza contare i debiti, naturalmente: «Imparate che il rapporto fra i debiti di una banca e il suo capitale (azioni) si chiama “leverage ratio”. Più alto è il debito e più basso è il capitale, più c’è “leverage” (rischio). Gli investitori hanno sempre guardato a questo rapporto debiti-capitale quando hanno messo soldi in banche o in “utility”. Oggi – aggiunge Barnard – la realtà che gli Stati Uniti hanno insegnato all’Europa è che chi investe in banca si becca in media un “leverage” di 1 di capitale contro 10 di debiti, mentre, e qui sta il punto dei punti, chi investe in “utilities” si becca un rischio 9 volte inferiore, oltre che molti più utili». Il nostro problema? «Il rapido Renzi scondinzola», quindi «noi cittadini siamo fottuti», visto che «qui si chiude il cerchio maledetto: la finanza ordina, il Pd obbedisce». Disposizione chiara: via il Titolo V, per poter privatizzare le “utility”. Coi più sentiti ringraziamenti, da parte degli speculatori, agli italiani che hanno votato Pd.Acqua, luce, gas. Perché il Pd vuole privatizzare i servizi pubblici fondamentali? Perché gliel’hanno ordinato gli speculatori: la finanza ci guadagna di più e non rischia niente. Ecco il motivo dell’invocata modifica del Titolo V della Costituzione, che tuttora affida agli enti locali il controllo delle reti di distribuzione. Tutto iniziò con Franco Bassanini, attuale presidente della Cdp, la Cassa Depositi e Prestiti. Già socialista, poi transitato al Pds: fu lui, ricorda Paolo Barnard, a sferrare il primo storico attacco alla gestione pubblica dei servizi degli enti locali, le “utility”. Risultato: la legge 267 del 2000, figlia del lavoro svolto negli anni ‘90 da questo tecnocrate europeista. Bassanini «obbediva al già infame trattato Gats dell’Organizzazione Mondiale del Commercio di Ginevra», cioè il trattato del Wto che «mirava a mettere nelle mani degli speculatori internazionali (cioè privatizzare) i tuoi servizi essenziali, come scuola, sanità, assistenza sociale, cimiteri, anagrafe, acqua, luce, gas». Poi il Gats «si è impantanato», ma niente paura: oggi rientra dalla finestra col nome di Tisa ed è collegato al Ttip, il Trattato Transatlantico sul commercio.
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Gangster al governo, brogli d’oro per salvare il dollaro
Truccano il prezzo dell’oro, giocando al ribasso e colpendo l’economia e i risparmiatori, solo per proteggere il dollaro, cioè la grande speculazione finanziaria. Peggio ancora: controllati e controllori sono le stesse persone. In un sistema sano, dovrebbero finire in galera. Lo affermano Paul Craig Roberts e Dave Kranzler: la finanza americana è un colossale imbroglio, scrivono, e cospira contro l’economia reale, a cominciare da quella degli Stati Uniti, aziende e famiglie. Sono accusa i “bankster” delle famigerate “bullion bank”, soprattutto Jp Morgan, Hsbc, ScotiaMocatta, Barclays, Ubs e Deutsche Bank: «Agendo probabilmente per conto della Federal Reserve, hanno sistematicamente spinto al ribasso il prezzo dell’oro», dal settembre del 2011. «Tenere basso il prezzo dell’oro serve a proteggere il dollaro Usa da una esplosione incontrollata dell’aumento del valore del dollaro e dei debiti in dollari». Certo, la domanda di oro continua a salire. Ma il prezzo viene tenuto basso col trucco dei “futures”: il prezzo dell’oro non è determinato dal mercato fisico, ma dalle scommesse speculative sul prezzo che si vuole stabilire.«Praticamente tutte le scommesse effettuate sul mercato dei “futures” sono pagate in contanti, in moneta e non in oro», spiegano Craig Roberts e Krnzler. Così, «il pagamento in contanti dei contratti serve a spostare dal mercato fisico al mercato monetario il luogo in cui si determina il prezzo dell’oro». E’ il terreno perfetto per manpolazoni d’ogni genere.L’ultima macchinazione orchestrata? E’ legata alla Fed, per esempio, che ha deciso di far salire il picco del tasso di cambio del dollaro dopo aver annunciato la fine del “quantitative easing”. Appena la banca centrale Usa ha dichiarato che avrebbe smesso di stampare dollari per sostenere il prezzo delle obbligazioni, ha dato mandato alle banche di far scendere il prezzo dell’oro con nuove vendite “naked”, cioè “allo scoperto”. Funziona così: enormi quantità di contratti a termine “scoperti”, cioè solo di carta, vengono stampati per essere buttati, tutti in una volta, sul mercato dei “futures” nei momenti in cui il mercato tende a salire. «Aumentando l’offerta di “oro di carta”, le vendite di enormi quantità servono a far scendere il prezzo dei “futures”, ed è il prezzo del “future” che determina il prezzo a cui le quantità fisiche dei lingotti possono essere acquistate».Stesso schema in Giappone, dove il prezzo dell’oro – su pressione di Washington – è stato fatto crollare per compensare l’effetto del nuovo massiccio programma di “Qe”. Obiettivo: impedire che l’oro si valorizzasse come bene-rifugio, a scapito della speculazione finanziaria. «L’annuncio del Giappone di voler creare moneta all’infinito avrebbe dovuto provocare un rialzo del prezzo dell’oro. Quindi, per evitare questa prevedibile risalita, alle 3 di notte – ora occidentale – mentre era in corso un intenso scambio di “futures” dell’oro, il mercato dei “futures” elettronico (Globex) è stato investito da una improvvisa vendita di 25 tonnellate di contratti Comex di “oro di carta”, allo scoperto, facendo scendere immediatamente il prezzo dell’oro a 20 dollari. «Nessun venditore onesto avrebbe buttato via il proprio capitale con una vendita di quel genere, in quel modo». Il prezzo dell’oro si è stabilizzato con un lieve rialzo, ma alle 8 del mattino – ora della costa orientale Usa – 20 minuti prima della apertura del New York Futures Market (Comex), sono state messe in vendita altre 38 tonnellate di oro in “futures di carta e allo scoperto”, sempre per far scendere il prezzo del lingotto. «Anche in questo caso, nessun investitore onesto si sarebbe liberato di una quantità tanto enorme di suoi beni personali, cancellando così improvvisamente la sua propria ricchezza».Il fatto che il prezzo dell’oro sia determinato in un mercato di carta – in cui non c’è nessun limite di quantità nel creare la carta su cui scrivere i contratti – produce lo strano risultato che la domanda di lingotti di oro fisico si trovi in un mondo fuori dal tempo, senza rapporti con la produzione reale, e quindi il prezzo può continuare a scendere, annotano Craig Roberts e Kranzler. «La domanda asiatica è pesante, in particolare quella dalla Cina, e le aquile d’argento e d’oro stanno volando via dagli scaffali della zecca degli Stati Uniti in quantità da record. Le scorte dei lingotti si stanno esaurendo, ma i prezzi dell’oro e dell’argento continuano a scendere giorno dopo giorno». Spiegazione: «Il prezzo del lingotto non è determinato in un mercato reale, ma in un mercato truccato, fatto solo di carta, in cui non c’è nessun limite alla quantità e alla possibilità di creare “oro di carta”». Cinesi, russi e indiani «sono ben lieti che autorità americane corrotte, con questo sistema, rendano loro possibile acquistare sempre maggiori quantità di oro a prezzi sempre più bassi». Infatti, «un mercato truccato è proprio quello che ci vuole per gli acquirenti di lingotti, così come è proprio quello che ci vuole per le autorità Usa che si sono impegnate a proteggere il dollaro da un aumento del prezzo dell’oro».Certo, «una persona onesta potrebbe pensare che esista una incompatibilità tra una forte domanda per un bene che può essere fornito solo in quantità vincolata e un contemporaneo calo del suo prezzo». Il fenomeno è più che anomalo: «Una situazione del genere dovrebbe suscitare l’interesse degli economisti, dei media finanziari, delle autorità finanziarie e delle commissioni del Congresso». Tutto tace, invece. «Dove sono le class action delle compagnie delle miniere d’oro contro la Federal Reserve, e contro le banche che custodiscono i lingotti, e contro tutti quelli che stanno danneggiando gli interessi delle società minerarie con contratti di vendita “allo scoperto” a breve?». Sottolineano Craig Roberts e Kranzler: «La manipolazione dei mercati, soprattutto sulla base di informazioni privilegiate, è illegale e altamente immorale. La vendita allo scoperto – “naked” – sta causando danni agli interessi delle miniere. Una volta che il prezzo dell’oro sarà portato sotto i 200 dollari l’oncia, molte miniere diventeranno antieconomiche. Dovranno chiudere. I minatori diventeranno disoccupati. Gli azionisti perderanno soldi. Come si può continuare a mantenere un prezzo a questo livello, ovviamente truccato, e continuare a manipolarlo?».La risposta, scrivono Craig Roberts e Kranzler, è che «il sistema politico e finanziario degli Stati Uniti è stato inghiottito da un sistema di corruzione e criminalità», nientemeno. «La politica della Federal Reserve di brogli sui prezzi delle obbligazioni e dell’oro per dare liquidità alla speculazione del mercato azionario ha danneggiato l’economia e decine di milioni di cittadini americani, solo per proteggere le quattro mega-banche dai loro errori e dai loro crimini». Attenzione: «Questo uso privato della politica pubblica non ha precedenti nella storia». E’ puro banditismo. «I responsabili devono essere arrestati e mandati sotto processo e dovrebbero contemporaneamente essere citati per danni». Il guaio è che, accanto alle mega-banche, sono implicate le stesse autorità Usa, che «pagano S&P per mantenere un valore artificiale del cambio del dollaro e per trovare la liquidità necessaria per sostenere i titoli azionari e obbligazionari, particolarmente quest’ultimo tanto artificiosamente alto che i risparmiatori ricevono dalle banche un interesse reale negativo sui loro risparmi investiti in obbligazioni». Tutto abusivo, e pericoloso, perché il sistema finanziario è fuori dalla realtà dell’economia: «Quando le autorità non riusciranno più a tenere in piedi il castello di carte, il crollo del castello sarà completo».«La costruzione di questo castello di carta – accusano Craig Roberts e Kranzler – è la prova della complicità degli economisti, dell’incompetenza dei mezzi finanziari e della corruzione delle autorità pubbliche e delle istituzioni private. I capi di una manciata di mega-banche responsabili di tutto questo problema sono le stesse persone che siedono al Tesoro degli Stati Uniti, alla Fed di New York e nelle agenzie che controllano la finanza degli Stati Uniti. Stanno usando il loro potere di controllo sulla politica pubblica per proteggersi e per proteggere le loro imprese dai loro stessi comportamenti insensati». Dettaglio: «Il prezzo di questa protezione è tutto sulle spalle dell’economia e degli americani che pagano le tasse, e il prezzo da pagare sta continuando a salire». Ok, l’America sarà anche la patria dell’economia, vista la quantità di Premi Nobel. Questo però non spiega «come gli economisti americani non abbiano notato che il prezzo dell’oro, dell’argento, delle azioni e delle obbligazioni emesse negli Stati Uniti non abbiano nessun rapporto con la realtà economica del paese. L’incompatibilità tra mercati e realtà economica non disturba, comunque, né i politici né gli economisti, che fanno solo gli interessi del governo e dei gruppi di interesse loro alleati». Il risultato? «E’ un’economia ridotta a un castello di carte», gestita da personaggi che «dovrebbero stare in galera, anziché al governo».Truccano il prezzo dell’oro, giocando al ribasso e colpendo l’economia e i risparmiatori, solo per proteggere il dollaro, cioè la grande speculazione finanziaria. Peggio ancora: controllati e controllori sono le stesse persone. In un sistema sano, dovrebbero finire in galera. Lo affermano Paul Craig Roberts e Dave Kranzler: la finanza americana è un colossale imbroglio, scrivono, e cospira contro l’economia reale, a cominciare da quella degli Stati Uniti, aziende e famiglie. Sono accusa i “bankster” delle famigerate “bullion bank”, soprattutto Jp Morgan, Hsbc, ScotiaMocatta, Barclays, Ubs e Deutsche Bank: «Agendo probabilmente per conto della Federal Reserve, hanno sistematicamente spinto al ribasso il prezzo dell’oro», dal settembre del 2011. «Tenere basso il prezzo dell’oro serve a proteggere il dollaro Usa da una esplosione incontrollata dell’aumento del valore del dollaro e dei debiti in dollari». Certo, la domanda di oro continua a salire. Ma il prezzo viene tenuto basso col trucco dei “futures”: il prezzo dell’oro non è determinato dal mercato fisico, ma dalle scommesse speculative sul prezzo che si vuole stabilire.
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Bifo: noi e la barbarie dell’Ue, fabbrica di miseria e guerra
Si può fermare l’offensiva liberista in Italia? La manifestazione nazionale indetta a Roma dalla Cgil il 25 ottobre può essere l’inizio di un’onda di rivolta dei lavoratori italiani contro il soffocante austeritarismo dell’Unione Europea, e contro il governo Renzi-Berlusconi, vassalli locali del potere finanziario. Speriamo che lo sia, facciamo tutto quel che possiamo perché lo sia, ma con poche illusioni. Non si può più fermare fermare l’offensiva padronale, la precarizzazione, l’impoverimento, lo smantellamento delle strutture sociali, perché tutto questo è già avvenuto, con la collaborazione dei sindacati. E’ meglio saperlo. Nel 1980, di fronte a 25.000 licenziamenti decisi da Agnelli, Berlinguer chiamò gli operai Fiat a occupare la fabbrica, ma il suo partito negli anni precedenti aveva lavorato a disgregare la forza operaia, e ne aveva isolato le avanguardie fino al punto di avallare il licenziamento di 62 lavoratori “estremisti”. Naturalmente fu una sconfitta dalla quale gli operai italiani non si sono ripresi più.Così oggi il sindacato si mobilita contro la precarizzazione che ormai dilaga, contro l’impoverimento e lo smantellamento del sistema economico italiano che ormai sono cosa fatta. Ancora una volta si chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati. L’articolo 18 è un feticcio vuoto perché la precarietà è divenuta forma generale del rapporto di lavoro salariato, e a questo si aggiunge l’espansione continua del lavoro schiavistico, mascherato da lavoro volontario. La cancellazione dell’articolo 18 è il colpo di grazia, il sacrificio rituale che il dio della finanza chiede a Renzi per concedergli in cambio un po’ di flessibilità finanziaria. Nonostante tutto questo la mobilitazione contro la ferocia del ceto politico-finanziario può avere un effetto positivo nel lungo periodo, riaprendo una dinamica di solidarietà e organizzazione che negli ultimi anni si è progressivamente spenta. Ma qual è il contesto?L’Unione Europea è un morto che cammina. A che punto è la notte europea? Purtroppo la notte è appena cominciata, anzi quel che stiamo vivendo forse è solo il tramonto. Il tramonto della speranza di democrazia e di pace nel continente. La democrazia è parola svuotata dalla pratica austeritaria, mentre dovunque cresce il nazionalismo come hanno dimostrato le elezioni del maggio che il ceto finazista europeo non ha voluto neppure considerare. Al finazismo della Bce e al revanscismo tedesco risponde un nuovo nazionalismo nei paesi economicamente più impoveriti dall’offensiva finazista. Il disegno del finazismo globale è stato da sempre ed è oggi più che mai lo smantellamento definitivo dell’Unione Europea, e la sottomissione della popolazione europea alla condizione semi-schiavistica della precarietà. Il punto di precipitazione definitiva dell’Unione, e di inizio della nuova guerra civile europea si trova nel confronto franco-tedesco. La probabile vittoria del Front National è destinata a segnare la fine dell’Unione con conseguenze inimmaginabili, sullo sfondo della guerra russo-ucraina.Non occorre molta sapienza storica per capire che il nazionalismo francese non può tollerare che l’Europa sia unita sotto il dominio tedesco, anche se la Deutsche Bank ha preso il posto che nel 1941 aveva la Wehrmacht. La sceneggiatura è già scritta: crollo del partito di Hollande, affermazione dei nazionalisti, sgretolamento dell’Unione Europea. E dopo? Un articolo di George Soros uscito sulla “Repubblica” del 26 ottobre chiama l’Europa a prepararsi alla guerra con la Russia. Alcuni auspicano l’uscita dell’Italia dall’Unione come se questo fosse la soluzione di qualcosa. L’Italia è uno stato fallito, una società disgregata, depressa, corrotta, un’economia smantellata, un patrimonio industriale distrutto o svenduto come Alitalia. Parlare di Italia è idiota. Occorre parlare della classe operaia che da Torino a Napoli – per quanto decimata, tradita, sconfitta – può mettere in moto un processo che coinvolga il lavoro precario, e soprattutto il lavoro cognitivo disperso fuori dai confini nazionali. Non per la riscossa nazionale di un paese la cui unica azienda in attivo è la mafia, ma per aprire e guidare un processo di rivolta e di autonomia dei lavoratori europei.Siamo entrati in un’epoca oscura e non serve fingere di non vederlo: non si può restaurare la democrazia, l’occupazione non è destinata a crescere ma a diminuire, la pace civile si sta sgretolando, e la crescita non ha più senso economico né ecologico. Occorre prepararsi al pieno dispiegamento delle condizioni che stanno iscritte nella disgregazione sociale, e nella cultura della competizione e della paura: prepararsi alla miseria e alla guerra, per dirlo in chiaro. E’ in questa prospettiva che si devono creare le condizioni per l’autonomia sociale e il dispiegamento delle potenzialità contenute nell’alleanza possibile tra tecnologia e lavoro.Che caratteri avrà un nuovo movimento di emancipazione, dentro e oltre il disastro che liberismo e finazismo hanno preparato con l’aiuto servile della sinistra?Si uscirà dall’epoca buia solo quando la cultura sociale si orienterà verso la riduzione generale del tempo di lavoro. Metà dei posti di lavoro sono inutili, se si applica a pieno la potenza tecnologica. Nelle condizioni del capitalismo questo è un disastro senza rimedio. In condizioni libere dalla stretta del capitalismo questa potenza tecnica può diventare fattore di arricchimento egualitario e di rinascimento culturale. La potenza dell’intelletto generale in rete riduce il tempo di lavoro necessario. L’effetto di questa riduzione è stato finora riduzione del salario, aumento dello sfruttamento relativo e assoluto, aumento della disoccupazione e della miseria. Il sindacato ha testardamente e inutilmente difeso il posto di lavoro mentre si trattava (ormai dagli anni ’80) di scatenare la forza della società e l’immaginazione del lavoro cognitivo per la liberazione di tempo sociale dal lavoro salariato. La sconfitta politica e l’arretramento culturale di questi anni derivano direttamente dall’incapacità della sinistra e del sindacato di allearsi con la tecnologia e il lavoro cognitivo, e di battersi per la riduzione del tempo di lavoro generale.Ora siamo in un tunnel molto nero. La luce verrà soltanto dal rovesciamento della cultura lavorista. Non il produttivismo, non la difesa della composizione esistente del lavoro, non la partecipazione alla corsa del topo liberista. Ma la riduzione generale del tempo di lavoro, la redistribuzione della ricchezza, la liberazione delle energie affettive, educative, culturali dalla morsa imbecille della competizione. Occorre cominciare subito, mentre il tramonto volge verso il buio assoluto. Occorrerà continuare mentre nel buio l’uomo si farà lupo per l’uomo. I lavoratori italiani possono riprendere il ruolo di avanguardia che ebbero nel passato non per salvare il cadavere d’Europa che sta ammorbando l’atmosfera, ma per mettere in moto un processo di lotta europea e internazionalista, per la liberazione del tempo dal lavoro, per la liberazione dell’intelligenza dall’oscurantismo economicista.(Franco “Bifo” Berardi, “Al tramonto d’Europa”, da “Micromega” del 25 ottobre 2014).Si può fermare l’offensiva liberista in Italia? La manifestazione nazionale indetta a Roma dalla Cgil il 25 ottobre può essere l’inizio di un’onda di rivolta dei lavoratori italiani contro il soffocante austeritarismo dell’Unione Europea, e contro il governo Renzi-Berlusconi, vassalli locali del potere finanziario. Speriamo che lo sia, facciamo tutto quel che possiamo perché lo sia, ma con poche illusioni. Non si può più fermare fermare l’offensiva padronale, la precarizzazione, l’impoverimento, lo smantellamento delle strutture sociali, perché tutto questo è già avvenuto, con la collaborazione dei sindacati. E’ meglio saperlo. Nel 1980, di fronte a 25.000 licenziamenti decisi da Agnelli, Berlinguer chiamò gli operai Fiat a occupare la fabbrica, ma il suo partito negli anni precedenti aveva lavorato a disgregare la forza operaia, e ne aveva isolato le avanguardie fino al punto di avallare il licenziamento di 62 lavoratori “estremisti”. Naturalmente fu una sconfitta dalla quale gli operai italiani non si sono ripresi più.
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Laurea inutile, qui lavoreranno solo schiavi sottopagati
Perché mai formare giovani laureati, in un paese che l’euro-crisi sta declassando al rango di colonia per manovalanza a basso costo? «Continuando a tagliare sul finanziamento di università e ricerca si continuerà ad aggravare una situazione che già ora sembra essere irrecuperabile», afferma Francesco Sylos Labini: «Un folle gioco al ribasso che rende necessario, per supplire alla mancanza d’innovazione, abbassare i costi del lavoro e i diritti dei lavoratori». E’ il “miracolo” dell’Eurozona, che fabbrica concorrenza sleale a beneficio della sola Germania. La Deutsche Bank domina l’Unione Europea attraverso la Commissione e la Bce, col pieno accordo dei super-poteri finanziari atlantici, rappresentati dal Fmi e dalle potentissime lobby che – attraverso trattati-capestro come il Ttip – a Bruxelles dettano le regole per spianare la strada al business, smantellando lo stato sociale e i diritti dei cittadini, consumatori e lavoratori. Lo scalpo dell’Italia? Uno dei punti-chiave del piano: per indossare i panni di kapò della nuova Europa, la Germania ha preteso che venisse rasa al suolo la temutissima concorrenza italiana. Incluso, ovviamente, il capitolo della formazione.“Hanno scelto l’ignoranza”, è il titolo della lettera.-appello che Sylos Labini ha scritto con un gruppo di scienziati di diversi paesi. Ripresa da tutta la stampa europea, la lettera è stata finora firmata da più di 15.000 persone. Il titolo è ispirato a una famosa riflessione di Derek Bok, ex presidente dell’università di Harvard: «Se pensi che l’istruzione sia costosa, prova l’ignoranza». Il progressivo taglio di finanziamenti all’istruzione e alla ricerca – scrive Sylos Labini sul “Fatto Quotidiano” – sta rapidamente portando a una situazione di non ritorno molti paesi in cui l’ignoranza, cioè il deficit di preparazione avanzata, riguarderà, purtroppo, le fondamenta strutturali. L’Italia, ad esempio, ha circa la metà (21%) di laureati nella fascia di popolazione tra 25 e 34 anni della media Ocse (38%). Inoltre, nell’ultimo decennio il numero di immatricolati è diminuito del 20%: «Il capro espiatorio della crisi sembra essere l’università incapace di preparare al mondo del lavoro», ma in realtà, aggiunge Sylos Labini, «c’è una bassissima richiesta di personale con formazione avanzata: la quota di occupati nelle professioni ad alta specializzazione è tra le più basse in Europa, come anche la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese italiane (la metà rispetto alla media europea) mentre i ricercatori delle imprese rispetto agli occupati sono un terzo della Francia e della Germania».Renzi sostiene che, come soluzione, le università italiane dovrebbero imitare i garage della Silicon Valley, dove, nell’immaginario collettivo, nascerebbero l’innovazione e il business grazie a giovani scamiciati e geniali aiutati dalle forze del libero mercato? «In questa fantasiosa rappresentazione della realtà ci si dimentica del fatto che, nel paese per altri versi paladino del libero mercato, la ricerca di base è finanziata dal governo federale per 40 miliardi di dollari all’anno. Se si possono impunemente raccontare queste favole – conclude Sylos Labini – significa che li stiamo toccando con mano, i danni dell’ignoranza». Se n’è sicuramente reso conto il milione di persone che ha manifestato in piazza con la Cgil, un popolo «che si è ritrovato orfano di un qualsiasi riferimento non solo politico ma anche culturale». La farsa, intanto, deve continuare: il governo enfatizza i 150.000 nuovi assunti dell’ultimo periodo, mentre prepara i contratti-spazzatura del Jobs Act. Un lavoro per tutti, magari pagato 450 euro al mese come per i mini-job alla base del super-export tedesco, di cui la Germania non si vergogna. Prima o poi anche gli sfruttati tedeschi esploderanno, avverte Luciano Gallino. Ma intanto si continua a demolire tutto ciò che può dare fastidio all’élite industriale e finanziaria di Berlino.Perché mai formare giovani laureati, in un paese che l’euro-crisi sta declassando al rango di colonia per manovalanza a basso costo? «Continuando a tagliare sul finanziamento di università e ricerca si continuerà ad aggravare una situazione che già ora sembra essere irrecuperabile», afferma Francesco Sylos Labini: «Un folle gioco al ribasso che rende necessario, per supplire alla mancanza d’innovazione, abbassare i costi del lavoro e i diritti dei lavoratori». E’ il “miracolo” dell’Eurozona, che fabbrica concorrenza sleale a beneficio della sola Germania. La Bundesbank domina l’Unione Europea attraverso la Commissione e la Bce, col pieno accordo dei super-poteri finanziari atlantici, rappresentati dal Fmi e dalle potentissime lobby che – attraverso trattati-capestro come il Ttip – a Bruxelles dettano le regole per spianare la strada al business, smantellando lo stato sociale e i diritti dei cittadini, consumatori e lavoratori. Lo scalpo dell’Italia? Uno dei punti-chiave del piano: per indossare i panni di kapò della nuova Europa, la Germania ha preteso che venisse rasa al suolo la temutissima concorrenza italiana. Incluso, ovviamente, il capitolo della formazione.
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Di finanza si muore: ed ecco la bolla finale della Bce
Le bolle finanziarie obbediscono a una legge ferrea: più crescono e più si avvicina la loro fine. Così, annunciando misure per sostenere la bolla, Mario Draghi ne ha appena avvicinato lo scoppio. Le misure annunciate sono la riduzione del tasso Bce allo 0,05%, un “Quantitative Easing” (Qe) nella forma di acquisti di cartolarizzazioni (“Asset-Backed Securities”) e di “covered bonds” da parte della Bce a cominciare dal quarto trimestre. Poi un’altra ondata di Ltro, prestiti di fatto gratis alle banche. L’ultima misura è chiamata “funding for lending” e dovrebbe servire ad aumentare il credito al settore produttivo. «In realtà fallirà l’obiettivo», secondo “Movisol”, «come lo ha fallito il modello originale, applicato in Gran Bretagna». L’intento della Bce è descritto con franchezza in uno studio di 104 pagine pubblicato dallo stratega di Deutsche Bank, Jim Reid, l’11 settembre: il sistema finanziario, scrive Reid, è un’unica, gigantesca bolla, che deve essere continuamente pompata per non collassare.«Negli ultimi due decenni, l’economia globale è passata da una bolla all’altra con eccessi che non sono mai stati pienamente rivelati. Invece, una politica aggressiva ha incoraggiato il rifinanziamento con nuove bolle. Ciò ha discutibilmente fatto del sistema finanziario moderno, così come lo conosciamo, una preoccupazione costante», si legge nel rapporto. La bolla è ora “migrata” nel mercato obbligazionario, ed è diventata «una condizione necessaria per mantenere in piedi il superindebitato sistema finanziario». Non c’è più un luogo dove migrare, visto che ora la bolla è nelle mani dei governi e delle banche centrali, i prestatori di ultima istanza, e perciò «pensiamo che questa bolla vada mantenuta per assicurare la solvibilità dell’attuale sistema finanziario». Prevedibilmente, azioni e obbligazioni sono salite dopo l’annuncio di Draghi. Secondo alcune fonti, non sono solo i privati a speculare, ma le stesse banche centrali starebbero acquistando “futures” e altri titoli derivati per sostenere direttamente il mercato.Mentre non è certo quale sarà la domanda di Ltro, il pezzo forte della Bce è il programma di acquisto di Abs. Il 12 settembre lo stesso Juncker ha dichiarato che una delle priorità della nuova Commissione Europea sarà rivitalizzare il mercato Abs. La Bce si è avvalsa della consulenza del colosso statunitense BlackRock, a sua volta grande possessore di titoli Abs, delineando quindi un «leggero conflitto di interessi». Ma la Bce, avverte “Movisol”, non vuole rischiare in proprio: «Sta già pensando di scaricare il peso degli Abs tossici sulle spalle del contribuente». Benoit Coeure, membro dell’esecutivo di Francoforte, ha chiarito: perché un programma di acquisti di Abs raggiunga tutto il suo potenziale, i governi devono garantire almeno parte del debito. «L’Europa si trova ad affrontare una scelta fondamentale se vuole muoversi verso un mercato Abs che abbia la stessa profondità e la liquidità del mercato americano», ha detto Coeure in un’intervista alla rivista “Risk”, distribuita dalla Bce.«Per raggiungere questo obiettivo», aggiunge Coeure, «il mercato delle cartolarizzazioni richiederà una quantità significativamente maggiore di sostegno pubblico di quella attuale». In altre parole, riassume “Movisol”, «la Bce pompa la bolla finale, in parte stampando soldi, in parte con soldi pubblici (i contribuenti), in una mossa futile e disperata che non impedirà alla bolla di scoppiare ma piuttosto ne accelererà la fine». Nel frattempo, «la recessione nell’Ue sta rivelandosi una depressione». Infatti, «la disoccupazione di massa ha raggiunto livelli da anni Trenta e in alcuni casi le istituzioni democratiche sono state compromesse irreversibilmente». E’ il “capolavoro” della moneta non-sovrana, che mette in crisi gli Stati e le economie nazionali, obbligandole a elemosinare credito presso il mercato finanziario internazionale attraverso il sistema bancario privato. E la Bce è il gestore dell’euro-regime, il braccio armato della grande crisi. «Liberiamoci del pilota pazzo ai comandi!», conclude “Movisol”.Le bolle finanziarie obbediscono a una legge ferrea: più crescono e più si avvicina la loro fine. Così, annunciando misure per sostenere la bolla, Mario Draghi ne ha appena avvicinato lo scoppio. Le misure annunciate sono la riduzione del tasso Bce allo 0,05%, un “Quantitative Easing” (Qe) nella forma di acquisti di cartolarizzazioni (“Asset-Backed Securities”) e di “covered bonds” da parte della Bce a cominciare dal quarto trimestre. Poi un’altra ondata di Ltro, prestiti di fatto gratis alle banche. L’ultima misura è chiamata “funding for lending” e dovrebbe servire ad aumentare il credito al settore produttivo. «In realtà fallirà l’obiettivo», secondo “Movisol”, «come lo ha fallito il modello originale, applicato in Gran Bretagna». L’intento della Bce è descritto con franchezza in uno studio di 104 pagine pubblicato dallo stratega di Deutsche Bank, Jim Reid, l’11 settembre: il sistema finanziario, scrive Reid, è un’unica, gigantesca bolla, che deve essere continuamente pompata per non collassare.
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Wall Street, gli amici nazisti e il solito bersaglio: la Russia
Criminali, bugiardi, complici. Non ci fa una bella figura, l’ipocrita Occidente, nemmeno rileggendo la Seconda Guerra Mondiale: furono americani e inglesi a scommettere su Hitler. Ne finanziarono l’ascesa in modo decisivo, incaricandolo – già allora – di una missione che ossessiona gli anglosassoni: colpire la Russia e affondarla. Lo ricorda Yuriy Rubtsov, alla luce degli attuali drammatici sviluppi in Ucraina: «I denti del drago devono essere conficcati ancora una volta nella carne viva dell’Europa», come già fu in passato. Lo conferma «la storia segreta dei rapporti fra Wall Street e la Germania nazista». Storia che nessuno ha voglia di rievocare, e che fu seppellita dalla solennità del Processo di Norimberga, che inchiodava la Germania sconfitta come unica colpevole, senza alleati atlantici. Se oggi sono in molti a definire “nazista” il golpe di Kiev costruito dagli Usa utilizzando l’estrema destra ucraina, Rubtsov chiarisce: «Per quanto ne sappiamo, l’Ucraina di oggi non può essere paragonata alla Germania di Hitler». Ma attenzione: «Non dimentichiamo che la folle corsa del nazismo ebbe inizio da uno sconosciuto caporale che predicava xenofobia e vendetta».L’altra verità, fondamentale, è che quel caporale non sarebbe andato molto lontano, senza i suoi amici d’oltreoceano. «E’ un “segreto di pulcinella” il fatto che Hitler sia stato sostenuto dagli Stati Uniti», scrive Rubtsov in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «La penetrazione commerciale e finanziaria statunitense, e in particolare la cooperazione con l’industria bellica tedesca, è stata fin dall’inizio molto significativa». Nel 1933, l’anno del boom elettorale nazista, «gli Stati Uniti controllavano alcuni settori-chiave dell’economia tedesca, ma anche diverse grandi banche, come ad esempio la Deutsche Bank e la Dresdner Bank». Le grandi imprese cominciarono a fidarsi di Hitler, continua Rubtsov. E molti fondi esteri presero ad affluire in quel paese. Per esemoio, grazie alle donazioni del gruppo di Fritz Thyssen, che comprendeva la “Vereinigte Stahlwerke Ag” e la “Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie Ag”. E poi i soldi del magnate dell’industria mineraria Emil Kirdorf. Risultato: 6,4 milioni di tedeschi votarono per Hitler. Non sapevano, però, quanto denaro gli angloamericani avessero investito nel futuro del loro capo.L’economista Hjalmar Schacht, banchiere e politico liberale, nonché co-fondatore nel 1918 del “Partito Democratico Tedesco”, diventò il collegamento fra l’industria tedesca e gli investitori stranieri, ricorda Rubtsov. A quel punto, «anche il mondo commerciale e bancario britannico cominciò a canalizzare importanti donazioni verso il partito nazista: il 4 gennaio 1932 Montague Norman, governatore della Banca d’Inghilterra dal 1920 al 1944, incontrò Hitler e il cancelliere tedesco Franz von Papen, per stringere un accordo segreto volto al finanziamento di quel partito». Alla fatidica riunione erano rappresentati anche gli Stati Uniti, coi fratelli Dulles, anche se «gli storici occidentali evitano di menzionare questa circostanza», accusa Rubtsov. John Foster poi segretario di Stato, suo fratello Allen direttore della Cia. «Erano due avvocati politicamente collegati a Wall Street, servi di quelle corporations che hanno gettato gli Stati Uniti nella guerra invisibile che ha forgiato il mondo di oggi. Negli anni ‘50, in piena guerra fredda, proprio i due fratelli Dulles, immensamente potenti, guidarono gli Stati Uniti in una lunga serie di avventure all’estero, i cui effetti stanno ancora scuotendo il mondo».Nel ‘33, continua Rubtsov, il nuovo governo tedesco fu trattato molto favorevolmente dai circoli dominanti degli Usa e del Regno Unito: «Non casualmente le democrazie occidentali tacquero, quando Berlino si rifiutò di pagare le riparazioni di guerra», relative al primo conflitto mondiale. Lo stesso Schacht, divenuto presidente della Reichsbank e ministro dell’economia, il 30 maggio di quell’anno andò negli Stati Uniti per incontrare il presidente Roosevelt e i principali banchieri di Wall Street. Alla Germania fu concesso un credito pari ad 1 miliardo di dollari. Un mese dopo, durante una visita al banchiere centrale di Londra, Montague Norman, Schacht chiese un prestito aggiuntivo pari a 2 miliardi di dollari, nonché la riduzione e l’eventuale cessazione del pagamento dei vecchi prestiti. «I nazisti ottennero, in conclusione, qualcosa che i precedenti governi avevano chiesto invano». E nell’estate del 1934 la Gran Bretagna firmò l’“Anglo-German Transfer Agreement”, che diventò uno dei princìpi fondamentali della politica britannica nei riguardi del Terzo Reich. Negli anni successivi il Regno Unito diventò il primo partner commerciale della Germania: la “Banca Schroeder” divenne l’agente principale per gli affari fra Berlino e Londra, e nel 1936 la sua filiale di New York si fuse nella Holding Rockefeller, per creare la banca d’investimento “Schroeder, Rockfeller e Co.”, che il “New York Times” descrisse come «il perno economico-propagandistico dell’asse Berlino-Roma».Già nell’agosto del ‘36 Hitler aveva redatto un “Memorandum Segreto”, dei cui contenuti solo pochi alti dirigenti nazisti erano a conoscenza. Il memorandum, scrive Rubtsov, stabiliva che entro quattro anni la Germania avrebbe dovuto dotarsi di forze armate pronte al combattimento. Di conseguenza, l’economia tedesca avrebbe dovuto mobilitarsi per supportare l’imminente sforzo bellico. Di qui l’annuncio, a Norimberga, del “Piano Quadriennale” di investimenti strategici. «Il credito estero costituiva la base finanziaria necessaria», quindi «tutto ciò non aveva sollevato il minimo allarme»: il Terzo Reich si stava semplicemente preparando a fare il “lavoro” per il quale era stato profumatamente pagato. «Nel mese di agosto del 1934 il gigante petrolifero americano Standard Oil acquistò 730.000 ettari di terreno in Germania, per costruirci delle grandi raffinerie di petrolio, per rifornire di carburante i nazisti. Allo stesso tempo altre corporations statunitensi rifornirono la Germania delle più moderne attrezzature per la costruzione di aerei civili, che in realtà davano copertura alla produzione di aerei militari».La Germania, aggiunge Rubtsov, fu in grado di utilizzare un gran numero di brevetti provenienti da società americane, tra le quali la Pratt & Whitney, la Douglas e la Bendix Corporation. «Il bombardiere “Junkers-87”, ad esempio, fu costruito utilizzando esclusivamente delle tecnologie americane». Così, quando la guerra scoppiò, «i monopoli americani si attaccarono alla vecchia e buona regola del “niente di personale, si tratta solo di affari”». Nel 1941, quando la Seconda Guerra Mondiale era ormai in pieno svolgimento, «gli investimenti americani nell’economia tedesca furono pari a 475 milioni di dollari dell’epoca: la Standard Oil, da sola, aveva investito 120 milioni di dollari, la General Motors 35 milioni, la Itt 30 milioni, la Ford 17,5 milioni». Quali motivazioni aveva l’Occidente per far crescere la forza della Germania nazista? «L’obiettivo era quello di far dirigere Hitler ad Est, verso l’invasione tedesca della Russia. La conquista dello “spazio vitale” costituiva, per Hitler ed il resto dei nazionalsocialisti, il più importante obiettivo di politica estera».Al suo primo incontro con i principali generali e ammiragli del Reich, il 3 febbraio 1933, Hitler parlò infatti della «conquista dello spazio vitale» a Est e della spietata «germanizzazione» come dei due «obiettivi finali» della sua politica estera. Per Hitler, la terra che avrebbe fornito sufficiente “spazio vitale” alla Germania era costituita dall’Unione Sovietica, che agli occhi di Hitler era un paese dotato di ricchi e vasti terreni agricoli, abitato da «slavi sub-umani» governati da una banda di «rivoluzionari ebrei», assetati di sangue ma grossolanamente incompetenti. Queste persone non erano “germanizzabili”, ma la loro terra sì. «Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che si opponevano con fermezza alla crescita del comunismo sovietico, avevano tacitamente avallato la “conquista dello spazio vitale a Est” da parte di Hitler, che egli stesso aveva preannunciato nel “Mein Kampf”». Lo scrisse, Hitler, nel suo manifesto programmatico: «Vogliamo cominciare da dove abbiamo finito, sei secoli fa. Se fermiamo la perpetua marcia tedesca verso il Sud e l’Ovest dell’Europa, avremo sotto ai nostri occhi i paesi che si trovano ad Est». Quella era «la direzione della politica territoriale del futuro». Per chi non avesse capito: «Sia chiaro, comunque, che quando parliamo di “nuove terre” in Europa, parliamo soprattutto della Russia e dei paesi al confine orientale».A partire dal 1930, ricorda Rubtsov, i paesi occidentali attuarono verso la Germania una politica di “appeasement”, nel contesto generale costituito dalla piena cooperazione economica e finanziaria fra anglo-americani e Germania nazista, anche se Berlino si era appena ritirata dalla Società delle Nazioni e dalla conferenza di Ginevra sul disarmo mondiale. Da lì in poi, una sequenza ininterrotta di provocazioni e aggressioni. Prima la rioccupazione della Renania, smilitarizzata dopo il Trattato di Versailles. Poi l’annessione dell’Austria. «In nessun caso l’Occidente reagì». Nel 1937, il piano per invadere la Cecoslovacchia, pure protetta dal Patto di Monaco: subito dopo aver firmato l’accordo di non aggressione, insieme ad Arthur Neville Chamberlain, Edouard Daladier e Benito Mussolini, nel 1938 Hitler decise di marciare comunque su Praga e poi su Memel, il porto baltico che dal 1923 faceva parte della Lituania. Quindi nel marzo del 1939 l’ultimatum alla Polonia per ottenere il corridoio di Danzica, che divideva la Prussia Orientale dal resto della Germania. «Hitler era consapevole del fatto che nessuno, in Occidente, aveva intenzione di fermarlo: così, nell’aprile del 1939, ordinò segretamente che la Polonia doveva essere attaccata il successivo 1° settembre».Con l’occupazione della Cecoslovacchia, continua Rubtsov, il fine della politica di Hitler diventò il classico “segreto di pulcinella” anche per i politici e i diplomatici meno lungimiranti. Tutti sapevano che l’Unione Sovietica accarezzava la speranza di poter costruire un sistema di sicurezza collettivo in Europa. Mosca «riuscì a dar inizio, in effetti, a dei colloqui con Londra e Parigi, per la creazione di un’efficace alleanza in grado di contrastare l’aggressore. Ma quei colloqui rivelarono che i partner occidentali erano piuttosto riluttanti ad ostacolare la politica espansionistica di Hitler verso l’Oriente». Lo conferma il britannico Sir Alexander Cadogan, sottosegretario agli esteri: «Riferì in seguito che Chamberlain avrebbe preferito dimettersi (dalla premiership), piuttosto che stringere un accordo con i sovietici». Quando Hitler fece esplodere la Seconda Guerra Mondiale invadendo la Polonia, i leader occidentali preferirono puntare il dito contro l’accordo difensivo che Berlino appena firmato con Mosca. «Supportati dal coro della propaganda, dissero che la colpa per aver scatenato la guerra non era da attribuire alla politica di “appeasement” portata avanti dai paesi occidentali, ma piuttosto al “patto di non aggressione” fra l’Urss e la Germania».«Nonostante fossero chiaramente sulla strada che portava alla Seconda Guerra Mondiale – continua Rubtsov – né Londra, né Washington, né Parigi vollero lasciar spazio alla verità, in relazione a quegli eventi storici». Domanda: «Com’è possibile che questi paesi abbiano firmato il verdetto del “Processo di Norimberga”, che ha giudicato la Germania colpevole di crimini molto gravi (aver violato il “diritto internazionale” e le “leggi di guerra”), senza riconoscere chi c’era dietro alla Germania nazista?». In realtà, «le élites politiche e finanziarie degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia erano direttamente coinvolte nella promozione del regime nazista: hanno incitato Hitler a muoversi verso Est». Di fatto, «l’Occidente non ha mai riconosciuto la proprie responsabilità per aver dato sostegno al regime di Hitler». E oggi, nel 2014, «sta facendo del suo meglio», ancora una volta, «per impedire il ritorno della Russia sulla scena mondiale». Nessun imbarazzo, nele capitali occidentali, per il nazismo e la xenofobia del regime di Kiev. Si preferisce «far circolare la storia, inventata da Washington e imposta all’Europa, dell’aggressione russa contro l’Ucraina». Un classico: «La Russia viene prima provocata e poi demonizzata, per coinvolgerla direttamente nel conflitto interno ucraino». Attenzione: «L’ulcera del nazismo, combinata con le spinte russofobiche, sta guadagnando slancio». Già in passato, gli apprendisti stregoni dell’Occidente non riuscirono più a controllare il mostro che avevano contribuito a creare. Oggi va forte lo slogan “l’Ucraina innanzitutto”, un sinistro remake del motto nazista “Deutschland über Alles”. «Il motto “Ukraine über Alles” viene costantemente utilizzato per giustificare i crimini commessi dalle forze ucraine in Novorossiya».Criminali, bugiardi, complici. Non ci fa una bella figura, l’ipocrita Occidente, nemmeno rileggendo la Seconda Guerra Mondiale: furono americani e inglesi a scommettere su Hitler. Ne finanziarono l’ascesa in modo decisivo, incaricandolo – già allora – di una missione che ossessiona gli anglosassoni: colpire la Russia e affondarla. Lo ricorda Yuriy Rubtsov, alla luce degli attuali drammatici sviluppi in Ucraina: «I denti del drago devono essere conficcati ancora una volta nella carne viva dell’Europa», come già fu in passato. Lo conferma «la storia segreta dei rapporti fra Wall Street e la Germania nazista». Storia che nessuno ha voglia di rievocare, e che fu seppellita dalla solennità del Processo di Norimberga, che inchiodava la Germania sconfitta come unica colpevole, senza alleati atlantici. Se oggi sono in molti a definire “nazista” il golpe di Kiev costruito dagli Usa utilizzando l’estrema destra ucraina, Rubtsov chiarisce: «Per quanto ne sappiamo, l’Ucraina di oggi non può essere paragonata alla Germania di Hitler». Ma attenzione: «Non dimentichiamo che la folle corsa del nazismo ebbe inizio da uno sconosciuto caporale che predicava xenofobia e vendetta».
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A cena con l’assassino: così il Ttip ci avvelena il menù
Meno sicurezza alimentare significa più veleni, e quindi più malattie. E’ il grande business del colosso agroalimentare che sta facendo la parte del leone nelle trattative segrete tra Usa e Ue per il Ttip, il Trattato Transatlantico sul commercio destinato a sconvolgere l’equilibrio europeo delle tutele, frutto di mezzo secolo di leggi e conquiste. In questa partita epocale, condotta a porte chiuse sulla testa di mezzo miliardo di europei, il giornalista indipendente inglese Colin Todhunter svela il ruolo decisivo dei grandi industriali del cibo, decisi a fare piazza pulita degli «ostacoli normativi inutili». In altre parole: vogliono «indebolire le condizioni lavorative, sociali, ambientali e le norme a tutela dei consumatori». L’idea è dell’“High Level Working Group on Jobs and Growth”, super-lobby tecnocratica euroatlantica che dichiara di occuparsi di “crescita”. Oltre al settore delle biotecnologie, i gruppi di pressione per raggiungere l’accordo includono Toyota, General Motors, l’industria farmaceutica, Ibm e la Camera di Commercio degli Stati Uniti, massima lobby americana. Ma la fetta più grossa sarà quella dell’industria del cibo.“Business Europe”, la principale organizzazione che rappresenta i datori di lavoro in Europa, presentò la propria strategia in un trattato economico e commerciale Ue-Usa nei primi mesi del 2012, ricorda Todhunter in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. I suoi “suggerimenti” furono ampiamente inclusi nella bozza di mandato dell’Ue. «L’accordo potrebbe autorizzare le società a sfidare legalmente una vasta gamma di regolamenti che esse non gradiscono». Il piano: «Guidare l’attività decisionale “sottobanco”, evitando in tal modo il controllo democratico e permettendo alle aziende di “tenere in ostaggio” i processi normativi». In pratica, l’Ue dovrebbe “riconoscere” le leggi Usa, che in fatto di tutela sono quasi inesistenti, specie in settori come l’agricoltura. «La lobby del cibo “Food and Drink Europe” ha richiesto l’agevolazione della presenza di un livello minimo di colture geneticamente modificate», oggi non autorizzate in Europa. «Ciò viene anche appoggiato dai giganti commerciali dei mangimi e dei cereali, tra cui Cargill, Bunge, Adm e la grande lobby agricola Copa-Cogeca».E il peggio è che «i negoziati per questo accordo sono avvolti nel mistero». Associazioni, sindacati e Ong? Tutti «estromessi, a favore di un agenda guidata dalle aziende». E’ il sintomo «dell’etica generale e delle pratiche dei burocrati e funzionari di Bruxelles», scrive Todhunter: se fosse approvato, il Ttip cementerebbe «la progressiva ristrutturazione delle economie a favore degli interessi delle élite». E l’altra pessima notizia – per la salute degli europei – è che «nessun settore ha esercitato più pressioni sulla Commissione Europea» di quello agroalimentare, attraverso il “Dg Trade”, cioè la direzione generale del commercio Ue. Secondo il Ceo, “Corporate Europe Observatory”, «le multinazionali del cibo, i commercianti agricoli e i produttori di sementi hanno avuto più contatti con il dipartimento» che non «i lobbisti della farmaceutica, della chimica, dell’industria finanziaria e delle auto messi insieme». Dei 560 incontri con le lobby che “Dg Trade” ha tenuto per preparare i negoziati, 520 (il 92%) sono stati con i lobbisti aziendali, mentre solo 26 (il 4%) con i gruppi di interesse pubblico. Per ogni incontro con un sindacato o gruppo di consumatori, ve ne sono stati 20 con le aziende e le federazioni industriali.Come rivela Pia Eberhardt, attivista per la parte commerciale nel Ceo, «“Dg Trade” ha attivamente coinvolto gli affaristi delle lobby nel redigere la posizione dell’Ue per il Ttip tenendo a bada i “fastidiosi” sindacalisti e altri gruppi di interesse pubblico». Risultato: nell’agenda «viene prima di tutto il business, che mette in pericolo molte conquiste per le quali le persone in Europa hanno a lungo lottato, dalle norme di sicurezza alimentare alla tutela dell’ambiente». E in prima fila, nell’assalto alle normative europee, c’è proprio l’industria dell’alimentazione. Lo conferma Nina Holland, attivista nel settore agroalimentare in ambito Ceo: «Le lobby del settore agroalimentare, come l’industria dei pesticidi, hanno fortemente dato una spinta ai loro programmi tramite i negoziati del Ttip con l’obiettivo di minare le vigenti normative alimentari dell’Ue. Strumenti commerciali come il “mutuo riconoscimento” e la “cooperazione regolamentare” rischiano di portare a un’erosione degli standard di sicurezza alimentare nel lungo periodo. L’industria sta anche cercando di utilizzare il Ttip per far deragliare importanti iniziative comunitarie come quella di affrontare il problema delle sostanze chimiche che alterano il sistema endocrino».Nella “grande abbuffata” ovviamente non mancano le telecomunicazioni e l’It (Information Technology), l’industria automobilistica, l’ingegneria e il settore chimico. A decidere, accanto agli statunitensi, sono soprattutto i colossi inglesi e tedeschi, rappresentati da “BusinessEurope” e dallo “European Service Forum”, una lobby a corredo di grandi società di servizi come Deutsche Bank e The City Uk. I dati, aggiunge Todhunter, rivelano poi che oltre il 30% (94 su 269) dei gruppi di interesse del settore privato che hanno esercitato pressioni sulla “Dg Trade” per il Ttip sono assenti dal Registro per la Trasparenza dell’Ue: tra questi, vi sono grandi aziende come Wal-Mart, Walt Disney, General Motors, France Telecom e Maersk. Alcune delle associazioni industriali che premono più duramente per il Ttip, come la Camera di Commercio degli Stati Uniti e “Transatlantic Business Council”, stanno esercitrando pressioni anche sotto il radar del registro delle lobby. E, a quanto pare, il boccone più grosso sarà quello che consentirà all’agribusiness di scegliere il nostro futuro menù, a scapito della qualità e della sicurezza di ciò che avremo nel piatto.Meno sicurezza alimentare significa più veleni, e quindi più malattie. E’ il grande business del colosso agroalimentare che sta facendo la parte del leone nelle trattative segrete tra Usa e Ue per il Ttip, il Trattato Transatlantico sul commercio destinato a sconvolgere l’equilibrio europeo delle tutele, frutto di mezzo secolo di leggi e conquiste. In questa partita epocale, condotta a porte chiuse sulla testa di mezzo miliardo di europei, il giornalista indipendente inglese Colin Todhunter svela il ruolo decisivo dei grandi industriali del cibo, decisi a fare piazza pulita degli «ostacoli normativi inutili». In altre parole: vogliono «indebolire le condizioni lavorative, sociali, ambientali e le norme a tutela dei consumatori». L’idea è dell’“High Level Working Group on Jobs and Growth”, super-lobby tecnocratica euroatlantica che dichiara di occuparsi di “crescita”. Oltre al settore delle biotecnologie, i gruppi di pressione per raggiungere l’accordo includono Toyota, General Motors, l’industria farmaceutica, Ibm e la Camera di Commercio degli Stati Uniti, massima lobby americana. Ma la fetta più grossa sarà quella dell’industria del cibo.
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Voto, Scozia indipendente? Londra: scordatevi la sterlina
La Scozia starebbe meglio economicamente se fosse un paese indipendente? Non è così secondo la stragrande maggioranza degli intervistati della terza indagine mensile del Cfm, il “Centre for Macroeconomics” finanziato da università inglesi. Data fatidica: 18 settembre 2014. Referendum sull’indipendenza della Scozia. Gli elettori scozzesi verranno chiamati a rispondere alla seguente domanda: “La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?”. In caso di una vittoria del “Sì”, il piano è che la Scozia diventi indipendente nel marzo 2016: dopo 307 anni non sarebbe più una nazione costitutiva del Regno Unito. Sarebbe un cambiamento fondamentale non solo per il governo della Scozia, ma anche per Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord, che continuerebbero a costituire lo “United Kingdom”. Altri paesi con forti identità regionali, scrive “LaVoce.info”, potrebbero essere influenzati dal referendum scozzese, che potrebbe quindi avere conseguenze sulle relazioni internazionali della Gran Bretagna. A cominciare dalla Spagna, che teme per la perdita della Catalogna.I sondaggi mostrano una consistente maggioranza contraria allo strappo da Londra, ma il vantaggio si è andato riducendo fino al 5%, esclusi i “non so”. «Favorevoli e contrari all’indipendenza della Scozia concordano comunque sul fatto che le questioni economiche sono al centro del referendum», come confermano i quesiti posti dal “Cfm”. Primo tema: i benefici economici dell’indipendenza. La Scozia ha 5,3 milioni di abitanti, l’8,3% della popolazione totale del Regno Unito. Pil pro capite: 20.571 sterline in Scozia, contro le 21.295 sterline nella Gran Bretagna nel suo insieme. Scozia e Regno Unito hanno la medesima produttività del lavoro, mentre la disoccupazione è del 6,4% in Scozia rispetto al 6,8% della media britannica. Il governo scozzese stima il rapporto deficit-Pil al 14%, a fronte di un disavanzo del 7,3% nel Regno Unito. «Se alla Scozia venisse destinato l’84% (una quota “geografica”) delle imposte derivanti dall’estrazione di petrolio e gas del Mare del Nord, si stima che il suo deficit potrebbe scendere all’8,3%».Con il regime fiscale attuale, continua “LaVoce.info”, il governo scozzese è responsabile per il 60% della spesa pubblica totale in Scozia e per il 16% del gettito fiscale. «Se la Scozia diventasse indipendente, il suo governo sarebbe responsabile di tutta la spesa pubblica e delle entrate fiscali, mentre i prestiti e i trasferimenti fiscali transfrontalieri cesserebbero». Il governo scozzese ha detto che accetterà una congrua parte del debito sovrano del Regno Unito e che intende formare una unione monetaria formale con il Regno Unito, ipotesi che però Londra ha escluso. «C’è inevitabilmente più di un’incertezza su quelle che sarebbero le condizioni finali di un accordo tra una Scozia indipendente e il resto del Regno Unito». Il “Cfm” ha quindi invitato gli intervistati a rispondere alla prima domanda «in base alla loro percezione di quali potrebbero essere questi termini», specificando che la voce “condizioni economiche” comprende innanzitutto il reddito pro capite, più altri aspetti del progresso economico.Prima domanda: “Sei d’accordo che la Scozia starebbe meglio in termini economici se fosse un paese indipendente?”. Hanno 28 esperti su 46. «Tre quarti degli intervistati ha detto di non essere d’accordo o di essere fortemente in disaccordo con la proposta». Solo uno dei 28 intervistati è d’accordo o fortemente d’accordo. Se si escludono gli indecisi, il 95% del campione si dichiara preoccupato dal futuro economico della Scozia in caso di secessione. «Le principali preoccupazioni sono sulle prospettive di bilancio di una Scozia indipendente: George Buckley (Deutsche Bank) la descrive come esposta a entrate fiscali più deboli». Pesano le incognite dell’esaurimento delle risorse petrolifere e lo stesso profilo demografico, più fragile di quello britannico. John Driffill (Birkbeck) rileva che «una Scozia indipendente potrebbe sì impostare politiche più adatte alle sue preferenze, ma potrebbe essere comunque svantaggiata dall’indipendenza perché potrebbero emergere problemi di coordinamento su quegli aspetti che invece vanno gestiti congiuntamente fra Scozia e Regno Unito». Sia Michael Wickens (York) sia Martin Ellison (Oxford) dicono che la Scozia «potrebbe pagare oneri finanziari più elevati rispetto al Regno Unito».Diversi intervistati mettono in dubbio la saggezza di disfare molte istituzioni quando non si conosce l’efficacia di quelle che le sostituiranno. David Cobham (Heriot-Watt) si chiede se abbia senso «separare i cittadini di nazioni così integrate». Jagjit Chadha (Kent) segnala i possibili rischi derivanti dalla «possibile mancanza di nuovi equilibri politici ed economici robusti». Michael McMahon (Warwick) pensa che ci sarebbero «notevoli costi di transizione». In parecchi si dicono preoccupati per l’incertezza dei tempi in cui la Scozia indipendente potrebbe rientrare nell’Unione Europea (dalla quale peraltro la stessa Gran Bretagna potrebbe uscire, visto il referendum all’orizzonte per il 2017). Marco Bassetto (Ucl) sostiene che la questione legata al processo di adesione all’Ue è «più importante di quella legata all’unione monetaria», mentre Anche Richard Portes (Lbs) e Nicholas Oulton (Lse) esprimono preoccupazione che «l’incertezza riguardo l’adesione alla Ue potrebbe essere dannosa per l’economia».Nel caso la Scozia diventasse indipendente, il Regno Unito sarebbe costituito da Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord. Tutte le attuali istituzioni dello Stato, a eccezione di quelle situate fisicamente in Scozia, resterebbero britanniche. In primis la Banca d’Inghilterra: soggetta al Parlamento di Londra, rimarrebbe la banca centrale del Regno Unito senza alcuna competenza per una Scozia indipendente, salvo diverso accordo. Le esportazioni dalla Scozia verso il resto del Regno Unito sono stimate intorno ai 48 miliardi di sterline, il 38% del Pil scozzese previsto nel 2012 (esclusi petrolio e gas). Le stime dicono che il resto della Gran Bretagna abbia esportato tra i 50 e i 60 miliardi di sterline in Scozia, circa il 4% del Pil. «Sia la Scozia sia il Regno Unito hanno grandi settori finanziari con il valore degli asset del sistema bancario molte volte più grande dei rispettivi Pil. Se la Scozia indipendente assumesse una quota di debito pubblico proporzionata alla sua quota di popolazione, il rapporto debito-Pil potrebbe arrivare all’86% nel 2016».Gli scozzesi vorrebbero un’unione monetaria? Il governatore della Bank of England, Mark Carney, risponde – in piena consonanza coi politici di Londra – che «le unioni monetarie di successo richiedono unioni fiscali, bancarie e alcune cessione di sovranità nazionale». Nel sondaggio “Cfm”, alla domanda – giusto escludere gli scozzesi dalla sterlina? – hanno risposto in 34, con pareri più equamente divisi ma un prevalente consenso verso la posizione di Londra. Secondo Martin Ellison (Oxford) la recente crisi dell’euro «mostra come sia difficile creare un’unione monetaria senza l’unione politica, fiscale e bancaria». Per David Cobham (Heriot-Watt) i vincoli all’unione monetaria britannica sarebbero difficilmente accettabili per una Scozia indipendente. Luis Garicano (Lse) ritiene che un impegno di non-salvataggio per la Scozia indipendente non sarebbe credibile verso il mondo e il governo scozzese, sicché il Regno Unito «finirebbe per subire il peggio dei due mondi: la mancanza di disciplina di mercato e l’azzardo morale». Altri tecnici ritengono che i contribuenti di ciascuno Stato sovrano potrebbero essere isolati dai rischi dell’altro. Troppa pretattica, però, rischia di inquinare l’opinione pubblica, come denunciano Christopher Pissarides (Lse) e John Driffill (Birkbeck), secondo cui «l’attuale posizione del Regno Unito», contraria all’unione monetaria con gli scozzesi, «è puramente motivata dalla volontà di influenzare il referendum», scoraggiando l’indipendenza della Scozia.La Scozia starebbe meglio economicamente se fosse un paese indipendente? Non è così secondo la stragrande maggioranza degli intervistati della terza indagine mensile del Cfm, il “Centre for Macroeconomics” finanziato da università inglesi. Data fatidica: 18 settembre 2014. Referendum sull’indipendenza della Scozia. Gli elettori scozzesi verranno chiamati a rispondere alla seguente domanda: “La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?”. In caso di una vittoria del “Sì”, il piano è che la Scozia diventi indipendente nel marzo 2016: dopo 307 anni non sarebbe più una nazione costitutiva del Regno Unito. Sarebbe un cambiamento fondamentale non solo per il governo della Scozia, ma anche per Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord, che continuerebbero a costituire lo “United Kingdom”. Altri paesi con forti identità regionali, scrive “LaVoce.info”, potrebbero essere influenzati dal referendum scozzese, che potrebbe quindi avere conseguenze sulle relazioni internazionali della Gran Bretagna. A cominciare dalla Spagna, che teme per la perdita della Catalogna.
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Barare e rubare senza vergogna, così si diventa Germania
Volete essere l’economia leader di questa (putrefatta) Eurozona? Facile: barate, ma barate proprio in modo disgustoso, senza vergogna. Ecco le ricette. A) Inventatevi una Cassa Depositi e Prestiti, dategli il nome di Kfw, fatele investire soldi pubblici nelle aziende private nazionali senza che neppure un centesimo di questi soldi compaia nei famigerati conti di Stato, così nessuno a Bruxelles se ne accorge e vi mette le manette. B) Fate riforme del lavoro che fanno ristagnare i salari nazionali per 12 anni, così le vostre mega-industrie nazionali possono esportare a prezzi concorrenziali succhiando il sangue ai loro dipendenti. Ma quando questi s’infuriano (perché non sono tutti idioti), date la colpa delle loro pene non al governo né ai giganti dell’export, no! La colpa è di altri paesi europei, quelli spendaccioni, stupidi e incapaci.C) Create un sistema di moneta unica europea che ha in sé un complesso meccanismo finanziario per cui il vostro concorrente industriale numero uno, l’Italia, verrà spazzato via, messo in crisi e deprezzato all’estremo. Così le vostre patetiche Pmi (che in questo caso si chiamano Mittelstand) potranno venire in Italia a rubarci i nostri super-brevetti e le nostre prodigiose tecnologie per due soldi bucati, e portarsele a casa loro. Oh!, e i lavoratori/imprenditori italiani… bè c’è sempre un gabinetto dove metterli, no? D) Dettate la legge suprema della competitività in Europa, dove la regola numero uno è, ad esempio, prendere un Monti o una Fornero, promettergli la paghetta finale (consulenze private milionarie in ambito finanziario) a patto che diminuiscano drammaticamente sia i salari italiani che le pensioni. Ma a casa vostra fate esattamente il contrario: diminuite l’età pensionabile e fate addirittura intervenire la Banca Centrale (!) a dire che i salari vanno aumentati.F) Strombazzate in tutte le sedi di potere tecnocratico che la vostra disoccupazione è la minore in Europa, quando la verità è che barate da prendervi a schiaffi, perché avete il più alto tasso di lavoratori sottopagati rispetto alla media di reddito nazionale di tutta Europa, ma guarda caso risultano come occupati! G) Fate la voce grossa sulle RIFORME, che tutti ’sti paesi mollicci del sud Europa devono assolutamente fare perché sono spendaccioni, corrotti, incapaci zavorre all’economia del continente. Ma poi nascondete con oculatezza che l’Ocse vi mette al ventottesimo posto su 34 paesi come efficienza nelle… RIFORME! Cioè siete dei brocchi da vergognarsi. Ma con gli altri fate la voce grossa. H) Cambiate rapidamente discorso quando qualcuno vi ricorda che prima dell’introduzione dell’euro, cioè della macchina monetaria che vi permette di barare, c’era un piccolo industrioso paese chiamato Italia che vi faceva un c… così sia in termini di esportazioni, che come innovazione tecnologica, ed era esattamente al vostro pari nei maggiori parametri macroeconomici come Posizione Patrimoniale sull’Estero, Conto delle Partite Correnti e Debito Privato (qui poi noi italiani siamo ancora di gran lunga messi meglio).I) Vantate di avere una grande autorevole seria mega-banca, leader mondiale… mica ’ste botteghe di pochi spiccioli come hanno gli altri. Ma nascondete di nuovo che ’sta vostra illustrissima banca non è solo stra-fallita, con un equity capital ratio (l’opposto del leverage ratio) del 2,5%, cioè come avere 15 euro in cassa e avere debiti di miliardi con il Pentagono. E nascondete che ’sta vostra big bank si è anche accumulata scommesse in derivati (dinamite senza pompieri) per un totale di 20 volte il Pil del vostro stesso paese. E quando salta quella, la vostra illustrissima banca, salta il mondo. Ma voi zitti! Mentite con la faccia come il c… sul modello mondiale che ’sta vostra banca putrefatta rappresenta. Insomma, volete primeggiare in questa Eurozona? Mentite, barate, spogliatevi della minima decenza, siate bugiardi oltre il tollerabile… in altre parole chiamatevi Germania e Deutsche Bank.Ps: poi hanno il più alto giro di mazzette in termini assoluti di tutta Europa (Craxi era un pivello). E siccome hanno dato il pretesto (la tragedia dell’Olocausto) ai sionisti ebrei per massacrare i palestinesi, dovrebbero pagare di tasca loro un piano Marshall per tutta la Palestina. Ma non solo: i tedeschi dovrebbero essere processati per crimini contro l’umanità in Grecia, oggi. Dai, i tedeschi sono nazisti nel Dna, inutile, o l’Onu commissaria la Germania in blocco, oppure continueranno a fare Olocausti. Ce l’hanno nel Dna di essere nazisti.(Paolo Barnard, “Per essere Germania bisogna rubare, barare… fare proprio schifo”, dal blog di Barnard del 2 agosto 2014).Volete essere l’economia leader di questa (putrefatta) Eurozona? Facile: barate, ma barate proprio in modo disgustoso, senza vergogna. Ecco le ricette. A) Inventatevi una Cassa Depositi e Prestiti, dategli il nome di Kfw, fatele investire soldi pubblici nelle aziende private nazionali senza che neppure un centesimo di questi soldi compaia nei famigerati conti di Stato, così nessuno a Bruxelles se ne accorge e vi mette le manette. B) Fate riforme del lavoro che fanno ristagnare i salari nazionali per 12 anni, così le vostre mega-industrie nazionali possono esportare a prezzi concorrenziali succhiando il sangue ai loro dipendenti. Ma quando questi s’infuriano (perché non sono tutti idioti), date la colpa delle loro pene non al governo né ai giganti dell’export, no! La colpa è di altri paesi europei, quelli spendaccioni, stupidi e incapaci.
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Se Renzi avesse la lira, governerebbe fino a 80 anni
Se Matteo Renzi avesse la lira invece che l’euro, sarebbe un uomo felice. Perché il suo 41% sarebbe saldo e diventerebbe imbattibile. Se Matteo Renzi e l’Italia oggi avessero la lira, la manovra degli “80 euro” avverrebbe senza bisogno di imporre tagli e tasse equivalenti per l’intera somma (tra i 6 e i 10 miliardi annui), annullandone di fatto l’illusorio effetto, che difatti non si sta manifestando. Se Matteo Renzi avesse la lira, la manovra ridicola e di sola comunicazione sugli “80 euro” sarebbe anzi raddoppiata, con detrazioni di 150 euro al mese per ogni lavoratore; e anzi sarebbero coinvolti anche coloro che non beneficiano di un contratto da lavoratore dipendente, oramai la maggioranza dei lavoratori specialmente giovani. Potrebbe dunque detassare imposte sul lavoro fino a 20 miliardi senza coperture di nuove tasse e riduzione spesa. Se Matteo Renzi avesse la lira, lui e il suo sottosegretario Delrio non dovrebbero inventare e sperare in inutili contabilità su astratti fogli di carta ma prive di sostanza pratica, del tipo non contabilizzare nel debito gli investimenti pubblici.Perché con l’euro ogni centesimo speso dallo Stato, contabilizzato o meno che si voglia, è un centesimo di debito contratto con 19 grandi istituti di credito che oggi prendono a prestito dalla Bce allo 0,15% e poi prestano agli Stati al 3, 4, 5%, contraendo utili sulle rendite finanziarie colossali e sicuri (Banca Imi, Barclays, Bnp Paribas, Citigroup, Commerzbank, Crédit Agricole, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs, Hsbc, Ing, Jp Morgan, Merrill Lynch, Monte dei Paschi, Morgan Stanley, Unicredit, Société Générale, Nomura, Ubs). Se Matteo Renzi avesse la lira, potrebbe dunque finanziare gli investimenti con moneta monopolio di Stato e non delle banche private, e dunque finanziare tutti gli investimenti che vuole. Non dovrebbe imporre le tasse per coprire questi investimenti, e dunque non sarebbe costretto a restituire il denaro speso come avviene adesso, per la somma capitale più gli interessi; tanto che se non applicasse politiche di austerità l’insieme di monopolisti privati della moneta sopra elencati potrebbero impedire in pochi giorni il flusso di denaro nelle casse dello Stato.Matteo Renzi ora è ricattabile e anzi ricattato e consenziente; invece sarebbe autonomo. Quindi un vero democratico come stabilito dalla Costituzione e non un colono. Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe elemosinare a commissari o ministri stranieri la possibilità di cambiare le politiche di bilancio, e non dovrebbe rispettare assurdi parametri come quello del 3% deficit/pil (diventato 2,6% grazie alle promesse sue e di Padoan, è bene specificarlo: Renzi è più realista del Re, più austero della Merkel) o del 60% debito/pil. Potrebbe agire liberamente sulla base delle esigenze del suo paese e ridurre la tassazione rispetto alla spesa pubblica fino alla piena occupazione e al pieno rilancio dell’economia e della cultura. Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe versare all’Unione Europea quasi 10 miliardi all’anno; il Patto di Stabilità finirebbe subito e gli enti locali italiani potrebbero immediatamente pagare i loro fornitori; non dovrebbe elemosinare modifiche ai principi di co-finanziamento dei fondi europei che obbligano gli enti locali a sborsare ingenti somme per realizzare i progetti presentati, e spesso rinunciare per impossibilità di impiegare i fondi pur disponibili (il cane che morde la coda: Patto di Stabilità).Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe circondarsi di bei volti giovani e pop e dalla parlantina spigliata quanto vuota, perché tanto, oltre a raccattare voti, non si deve decidere nulla se non tenere buoni i cittadini; anzi meno capiscono e più tweet insensati scrivono tanto è meglio. No, se Matteo Renzi avesse la lira dovrebbe selezionare una classe politica capace di capire la forza di una moneta sovrana siffatta, e quindi le sue potenzialità per realizzare piena occupazione, piena democrazia, pieno benessere senza inflazione. Perché se invece occorre ascoltare i Gozi, le Bonafè, le Moretti e compagnia cantante, un partito avverso consapevole (quindi non M5S, quindi non lo sbrindellato centrodestra italiano di oggi, quindi non i timorosi di Tsipras) sbaraglierebbe il campo una volta vinte le elezioni (infatti la Dc governò 40 anni senza problemi nonostante la forte opposizione del Pci, perché sapeva come attivare la ricchezza, e un popolo con la pancia piena e la testa sgombra di pensieri non fa mai salti nei buio; ma negli ultimi 10 anni affondò, tra gli altri motivi, perché lo strumento di azione, la lira sovrana, era stato disattivato con la complicità di Ciampi e Andreatta).Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe mandare lettere a tutti i sindaci d’Italia per selezionare gli interventi di edilizia scolastica, ma imporrebbe a tutti i sindaci d’Italia i massimi standard di servizi, di sicurezza e di istruzione da raggiungere nel comparto scolastico (e non solo), stanzierebbe i fondi necessari, stabilirebbe in quanto tempo realizzare i lavori e poi, una volta scaduti i termini, bloccherebbe i finanziamenti e istituirebbe commissioni di inchiesta per valutare i motivi dell’inefficienza nel caso le opere non fossero realizzato a dovere. Se Matteo Renzi avesse la lira non dovrebbe contribuire con 125 miliardi per garantire i debiti pubblici dell’Eurozona, né, come farfuglia Del(i)rio, garantire il debito di Stato con beni immobili.Se Matteo Renzi avesse la lira, il debito pubblico non sarebbe un “debito” pubblico da ripagare come se lo Stato fosse un’azienda e una famiglia privata (e dunque aumentare il debito annuo del 5% ad esempio anziché il 3% significherebbe davvero far gravare sui figli la spesa di oggi, ed è quindi politica per pigliare due voti ma senza strategia), ma sarebbe una “ricchezza finanziaria” dei cittadini, ed ogni aumento di debito pubblico equivarrebbe ad un aumento dei risparmi di famiglie e imprese. Se Matteo Renzi avesse la lira governerebbe fino ad 80 anni, l’Italia tornerebbe un paese invidiato in tutto il mondo, la disoccupazione sarebbe un problema occasionle e molto temporaneo, le imprese italiane tornerebbero a produrre in Italia grazie ad una imposizione fiscale via via più bassa.Se Matteo Renzi avesse la lira i tassi di interesse sui titoli di Stato scenderebbero, dal 2/4% reale di oggi, ad un tasso prossimo allo zero o addirittura negativo. Gli 85 miliardi di spesa per interessi non sarebbero una zavorra per i conti pubblici ma una delle vie con le quali si manifesta la spesa pubblica, che potrebbe essere ridotta o aumentata sulla base delle scelte discrezionali di uno Stato. Invece: «Tornare alla lira? Per i giovani è uno strumento musicale». E allora, sentirai che musica, Matté: «Manovra correttiva di 10 miliardi inevitabile». Gira la ruota, va’.(“Se Renzi avesse la lira, ma non la vuole e non la capisce”, dal sito MeMmt del 14 luglio 2014).Se Matteo Renzi avesse la lira invece che l’euro, sarebbe un uomo felice. Perché il suo 41% sarebbe saldo e diventerebbe imbattibile. Se Matteo Renzi e l’Italia oggi avessero la lira, la manovra degli “80 euro” avverrebbe senza bisogno di imporre tagli e tasse equivalenti per l’intera somma (tra i 6 e i 10 miliardi annui), annullandone di fatto l’illusorio effetto, che difatti non si sta manifestando. Se Matteo Renzi avesse la lira, la manovra ridicola e di sola comunicazione sugli “80 euro” sarebbe anzi raddoppiata, con detrazioni di 150 euro al mese per ogni lavoratore; e anzi sarebbero coinvolti anche coloro che non beneficiano di un contratto da lavoratore dipendente, oramai la maggioranza dei lavoratori specialmente giovani. Potrebbe dunque detassare imposte sul lavoro fino a 20 miliardi senza coperture di nuove tasse e riduzione spesa. Se Matteo Renzi avesse la lira, lui e il suo sottosegretario Delrio non dovrebbero inventare e sperare in inutili contabilità su astratti fogli di carta ma prive di sostanza pratica, del tipo non contabilizzare nel debito gli investimenti pubblici.