Archivio del Tag ‘differenze’
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De Benoist: guarire il mondo, oltre destra e sinistra
Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».Per Preve, ricorda Zarelli su “La Voce del Ribelle” (post ripreso da “Come Don Chisciotte) la società contemporanea è dominata da un’ideologia che intreccia due formule dogmatizzate, destra e sinistra intese come «categorie generiche, non più identificate con concrete forze sociali». Di destra è il cosiddetto “pensiero unico”, ovvero l’idea che la società di mercato e il capitalismo internazionale – con tutti i suoi corollari, compresa la guerra intesa come operazione di “polizia internazionale” – costituiscano l’unico orizzonte possibile e auspicabile; di sinistra invece è lo stile “politically correct”, imperniato sull’esaltazione dei diritti dell’individuo, sul moralismo e sull’esigenza di politeness della politica, che viene ridotta a mero dibattito o pura chiacchiera. «Pressoché tutte le agenzie operanti all’interno dell’industria culturale, così come il sapere accademico, si muovono all’interno di questo codice dominante, la cui funzione è quella di legittimare il sistema vigente, raccogliendone i benefici in termini di visibilità mediatica e di carriere “intellettuali”».Idee di destra, valori di sinistra? De Benoist non è allineato con questa combinazione, dato che il suo pensiero politico potrebbe essere rappresentato con una formula esattamente contraria: valori di destra, idee di sinistra. Oggi, scrive Zarelli, destra e sinistra sono state entrambe «soppiantate dall’adozione di un trasversale criterio di governance, che evita accuratamente di mettere in discussione il quadro generale di riferimento di una società di mercato – ovvero di una società che è diventata mercato – sulla quale ormai quasi tutti concordano». Alain de Benoist invece «esprime una posizione che è esattamente l’opposto rispetto a quella dominante, la quale sostiene l’uguaglianza di principio tra gli uomini e al contempo cristallizza però le differenze sociali e le conseguenti ingiustizie». Il che, come sostenne già nel 1995 a Perugia, «non significa dunque che non esisterà più una destra o una sinistra», ma «le linee di frattura sono ormai trasversali: passano all’interno della destra come all’interno della sinistra». Le due categorie sono destinate a diventare complementari, «assumendo ciò che di meglio e di più vero esse possono avere».La ricerca meta-politica di de Benoist è orientata verso un ambito «in cui collocare la sua prospettiva di valore», che però «non coincide più con l’appartenenza a un’identità politica data». Per questo, lanciando la rivista “Krisis” alla fine degli anni ‘80, la definì «di sinistra, di destra, del fondo delle cose e del mezzo del mondo». Intellettuale “non catalogabile”, de Benoist considera post-moderno il suo pensiero, che critica la modernità. Dal suo avamposto isolato, riflette: la dicotomia destra-sinistra è un’invenzione «recente e localizzata», cioè «legata all’avvento delle democrazie di tipo parlamentare». Infatti, «non appena ci si allontana dall’Occidente per andare verso il terzo mondo, i concetti di destra e sinistra appaiono sempre meno pertinenti». E visto che quei concetti sorgono in Europa solo con la Rivoluzione Francese, bisogna ammettere che ciò che designano «non esisteva prima», e quindi non contengono «niente di immutabile». Dato che si tratta di categorie moderne, andrebbero riscritte in modo diacronico: la modernità (individual-universalista) sarebbe “di sinistra” e le società dell’Ancien Régime “di destra”. Ma questo è vero solo per noi occidentali: «Che cosa dire, allora, delle società tradizionali? E di quale utilità per l’analisi può essere una “destra” che finirebbe con l’inglobare i nove decimi della storia dell’umanità?».Il dogma fondamentale della civilizzazione moderna, scrive Zarelli, è lo sviluppo economico, o “progresso”, che consiste «nella sistematica sostituzione dell’ecosfera o mondo reale (la fonte dei benefici naturali) con la tecnosfera o mondo surrogato (la fonte dei benefici artificiali)». Problema: «Nessun “credente” accetta l’idea che sia proprio questo “sacro” processo la causa della sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo, che egli imputa invece a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione; di conseguenza, la visione del mondo del “modernismo” gli impedisce di comprendere il rapporto con il mondo reale, quello in cui vive, e di adattarsi a esso in modo da massimizzare il proprio benessere e la propria reale ricchezza». La visione del mondo del modernismo, e in particolare i paradigmi della scienza e dell’economia, «servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico, o “progresso”, che sta portando l’uomo alla distruzione del mondo naturale». Com’è possibile che l’obiettività scientifica si comporti in modo tanto poco oggettivo? Semplice: «La scienza non è oggettiva, e questo è stato ben argomentato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza contemporanea, come Thomas Khun, Imre Lakatos o Paul Feyerabend».Gli scienziati, continua Zarelli, accettano il paradigma della scienza – e quindi la concezione del modernismo – perché «razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono». Del resto, «è molto difficile, per una persona, evitare di considerare il mondo in cui vive – l’unico che ha mai conosciuto – come la condizione normale della vita umana su questo pianeta». Sicché, «è improrogabile l’affermazione di una “visione del mondo” ecologica, alla luce della quale sia possibile invertire la tendenza e ricomporre la frattura tra natura e cultura, aprendosi a una interpretazione sacrale del vivente che reincanti la realtà». Per Edward Goldsmith, l’obiettivo primario di una “società ecologica” deve essere un modello di comportamento teso a preservare l’ordine fondamentale del mondo naturale e del cosmo.In molte culture tradizionali esiste una parola per definire quel modello di comportamento: gli indiani dell’epoca vedica lo chiamavano “rta”, nell’Avesta il termine è “a_a”, gli antichi egizi lo chiamavano “maat”, gli indù e i buddisti “dharma”, i cinesi “Tao”. «Il Tao come “principio primo”, onnicomprensivo. Gli esseri umani, seguendo il Tao, o la Via, si comportano naturalmente». In termini spirituali, questo significa attenersi al principio del “Wu wei” (agire senza agire) di Lao-Tzu, perché «le cose, quando obbediscono alle leggi del Tao, formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato». In altre parole, quello che comunemente viene definito come “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale, sostiene Zarelli. «Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine naturale e quindi la stabilità dell’ecosfera», il progresso (o anti-evoluzione) «sconvolge l’ordine naturale pregiudicandone la stabilità».La “rivoluzione conservatrice”, controversa tendenza culturale affermatasi tra le due guerre mondiali, tentò di conciliare mito e scienza. Una vocazione che ricorda la l’impegno culturale di «rifondazione dei riferimenti filosofico-politici» sviluppato da Alain de Benoist «in una prospettiva comunitaria e pluralista». Impegno riassumibile in due punti: la fine della dicotomia destra-sinistra (in favore dell’elaborazione di una nuova cultura) e l’intuizione secondo cui «la trasversalità tra destra e sinistra deve essere raggiunta attraverso nuove sintesi», come «positiva contraddizione» e non «mera reciproca negazione». Da qui la ricerca di «nuovi, ulteriori e proficui paradigmi» per interpretare e cogliere le contraddizioni della civilizzazione occidentale. Riuscirà De Benoist a rinnovare lessico, modalità ideative e contenuti del dibattito politico-culturale contemporaneo? Siamo certi, conclude Zarelli, che l’impegno «è all’altezza della sua intelligenza», confortata dall’onestà intellettuale di questo «pensatore “epocale”, oltre il moderno».Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».
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Dopo Marx, sarà l’ex terzo mondo a sfidare l’élite
“Lavoratori di tutto il mondo unitevi”, recita l’iscrizione sulla tomba di Karl Marx nel cimitero di Highgate a Londra. Di sicuro la storia non è andata proprio in questo modo. Per quanto rumore “Occupy Wall Street” sia riuscito a generare in pochi mesi, ora il silenzio è assordante. Infatti, mentre le multinazionali si mangiavano il potere contrattuale dei lavoratori, gli operai del mondo ricco sono diventati meno inclini ad aiutare i loro compagni salariati dei paesi poveri. Ma c’è una scuola di pensiero che immagina il ritorno di una politica di classe globale. Se così fosse, dice Charles Kenny, le élite dovrebbero iniziare a tremare. Un nuovo spettro si aggira per il mondo, inquietando l’1% dei super-ricchi? Forse sì: ed è «l’attivismo della classe media». A una condizione, ovviamente: che non cessi la crescita dei Brics e dell’ex terzo mondo. In quel caso, un nuova mid-class globale potrebbe rivendicare i suoi (nuovi) diritti, sfidando l’attuale strapotere dell’élite.Nel blog “Foreign Policy”, Kenny ricorre alla rivisitazione del marxismo: «Nella sua lotta di classe, Marx vide una logica apocalittica. E la battaglia della grande massa contro la piccola plutocrazia aveva una conclusione inevitabile: lavoratori 1, ricchi 0». Marx pensava che l’impulso rivoluzionario proletario fosse soprattutto globale, che le classi lavoratrici sarebbero state unite in tutto il mondo dalla loro comune esperienza di povertà devastante e dall’alienazione della vita in fabbrica. Ragionevole, per l’epoca. Secondo Branko Milanovic, economista della Banca Mondiale, quando nel 1848 fu scritto il “Manifesto” comunista la maggior parte della disuguaglianza del reddito a livello globale dipendeva dalla differenza fra classi su base nazionale. Sebbene alcuni paesi fossero più ricchi di altri, il reddito che poteva rendere un uomo ricco o confinarlo alla povertà in Inghilterra si sarebbe tradotto nella stessa cosa in Francia, negli Stati Uniti e persino in Argentina.Ma, mentre la Rivoluzione Industriale prendeva piede, quella parità mutava drammaticamente durante il secolo successivo: una ragione per la quale la predizione di Marx circa una rivoluzione proletaria globale si rivelò errata. Solo pochi anni dopo la pubblicazione del “Manifesto”, i salari dei lavoratori cominciarono a crescere in Inghilterra. La tendenza proseguì nel resto d’Europa e in Nord America, mentre divennero abissali le differenze col resto del mondo: «Centoquarant’anni fa l’africano medio era ricco un quinto del suo compagno inglese. Oggi, vale meno di un decimo». Mentre l’Occidente decollava verso una crescita continua, scrive Kenny in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, le differenze di reddito fra paesi sovrastavano il divario di reddito all’interno dei paesi stessi. Ovvero: «Una segretaria a tempo determinato nell’Est di Londra può ancora avere difficoltà ad arrivare alla fine del mese, ma se la mandi a Lagos potrà vivere come una regina». Lo stesso Milanovic stima che il reddito medio del 5% più ricco dell’India equivale a quello del 5% più povero degli Usa.I lavoratori municipali di più basso grado in Europa e negli Stati Uniti sono ben più ricchi dei loro omologhi nei paesi poveri in via di sviluppo, e stanno comunque meglio della gran parte degli occupati in quei paesi. Vero, la povera gente in Europa e in America fa parte dell’élite reddituale, secondo gli standard del Sud Asia o dell’Africa. Questo perché «i lavoratori di tutto il mondo non si sono ancora uniti», conclude Kenny. Nel 1920, l’Internazionale Comunista condannò il “tradimento” di molti socialisti europei e americani durante la Prima Guerra Mondiale, quando difesero la madrepatria per camuffare il “diritto” della loro borghesia di schiavizzare le colonie. Per i comunisti, la diffidenza generata nel resto del mondo poteva essere sradicata solo abbattendo l’imperialismo nei paesi avanzati e riscattando l’economia del terzo mondo. Oggi, il colonialismo si chiama globalizzazione. Ma secondo Kenny «è ancora un processo in fase di cambiamento», perché «a mano a mano che i mercati globali diventano sempre più interconnessi, i redditi medi convergono». Dati alla mano, «gli ultimi dieci anni hanno visto i paesi in via di sviluppo crescere molto più rapidamente dei paesi ad alto reddito, diminuendo la differenza fra redditi medi».Un altro economista, Arvind Subramanian, prevede che la Cina nel 2030 sarà ricca come l’intera Unione Europea oggi. E lo stesso Brasile non sarà molto indietro, attestandosi a un Pil pro-capite di 31.000 dollari, seguito a breve distanza da paesi come l’Indonesia e la Corea del Sud. «Semplicemente – annota Kenny – questo significa che, nello spazio di una generazione al massimo, una buona porzione del mondo sarà presto ricca, o come minimo solidamente classe media». Secondo le previsioni sviluppate in collaborazione con Sarah Dykstra di “Global Development”, Kenny rileva che circa il 16% della popolazione della Terra vive in paesi tanto ricchi da poter essere considerati dalla Banca Mondiale “ad alto reddito”. Se i tassi di crescita continueranno come nella decade passata, il 41% della popolazione mondiale si troverà entro il 2030 nella fascia “ad alto reddito”. «Quindi, se i paesi in via di sviluppo continueranno a crescere al ritmo che abbiamo visto di recente, la disuguaglianza fra nazioni si ridurrà, e la disuguaglianza all’interno delle nazioni tornerà la componente dominante della disuguaglianza globale».Ciò significa che Marx aveva ragione, con due secoli di anticipo? «Non esattamente», sostiene Kenny. «La realtà è che questa nuova classe media avrà una vita che la classe lavoratrice dell’era vittoriana poteva solo sognare. Lavoreranno in negozi e uffici illuminati da led piuttosto che in oscure e infernali fabbriche. E vivranno quasi 40 anni più a lungo della persona media nel 1848, secondo l’aspettativa di vita alla nascita». Ma la vera domanda è: condivideranno la causa con i loro compagni operai che sono ad un oceano di distanza? «Forse, ma non perchè le barricate sono l’unica opzione praticabile. Marx ha predetto che la classe lavoratrice globale si sarebbe unita e ribellata perché ovunque i salari sarebbero stati portati a livelli di sussistenza. Ma, a mano a mano che i salari crescono e si livellano in tutto il mondo, la brutta situazione del proletariato – lavoro duro, paga bassa – oggi più che mai significa lavoro più semplice e paga migliore».Solo in Cina, questo sviluppo sta portando centinaia di milioni di persone fuori dalla povertà. «Proprio perché il ricco e il povero di Lagos e di Londra si somiglieranno, sarà più probabile nel 2030 un’unione dei lavoratori di tutto il mondo». Mentre la tecnologia e il commercio livellano il campo di gioco e uniscono l’umanità, i previsti 3,5 miliardi di lavoratori nel mondo potranno capire quanto hanno in comune rispetto alle super-ricche élite dei propri paesi. Secondo Kenny, i nuovi esponenti della mid-class mondiale «faranno pressioni sui governi per collaborare al fine di assicurare che il loro sudore e il loro sangue non arricchiscano troppo una piccola globale élite capitalista, ma siano diffusi più largamente». E magari «lavoreranno per fermare i paradisi fiscali dove i plutocrati del mondo nascondono i loro guadagni, e sosterranno i trattati per prevenire le corse al ribasso sui diritti del lavoro e nelle politiche fiscali pensate e stilate per attrarre le compagnie». Uno stile di vita globale, non solo per i più ricchi. Rivoluzione in vista? «La prossima decade – profetizza Kenny – non vedrà tanto la povertà disperata affrontare la plutocrazia, quanto la classe media riprendersi quanto le spetta».“Lavoratori di tutto il mondo unitevi”, recita l’iscrizione sulla tomba di Karl Marx nel cimitero di Highgate a Londra. Di sicuro la storia non è andata proprio in questo modo. Per quanto rumore “Occupy Wall Street” sia riuscito a generare in pochi mesi, ora il silenzio è assordante. Infatti, mentre le multinazionali si mangiavano il potere contrattuale dei lavoratori, gli operai del mondo ricco sono diventati meno inclini ad aiutare i loro compagni salariati dei paesi poveri. Ma c’è una scuola di pensiero che immagina il ritorno di una politica di classe globale. Se così fosse, dice Charles Kenny, le élite dovrebbero iniziare a tremare. Un nuovo spettro si aggira per il mondo, inquietando l’1% dei super-ricchi? Forse sì: ed è «l’attivismo della classe media». A una condizione, ovviamente: che non cessi la crescita dei Brics e dell’ex terzo mondo. In quel caso, un nuova mid-class globale potrebbe rivendicare i suoi (nuovi) diritti, sfidando l’attuale strapotere dell’élite.
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OvesFest, notti underground ballando l’Africa
Musica indipendente e gruppi undergroud, ma anche showcase acustici, esposizioni fotografiche, giovani artisti, pittura, cortometraggi e un’intera giornata dedicata all’Africa e all’interculturalità. E’ la formula di “OvesFest”, dal 23 al 28 giugno al parco Le Serre di Grugliasco, rassegna culturale sostenuta dalla Provincia di Torino per promuovere “l’elogio della differenza”, tema trasversale di tutta la manifestazione, organizzata nell’ambito delle politiche giovanili di Grugliasco e Collegno.