Archivio del Tag ‘disarmo’
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Putin resiste al regime globalista che ha liquidato Trump
Chi ci guadagna, nel trascinare verso terreni ignoti una crisi come quella ucraina? Posso dire chi ci perde: innanzitutto il popolo ucraino, sacrificato per coprire gli interessi di una élite che ha come unico obiettivo quello di accerchiare Putin, buttarlo fuori dai giochi ed escluderlo, come player, dal processo in corso, cioè il malaugurato Nuovo Ordine Mondiale. Questo è il disegno: sfruttare l’Ucraina come casus belli per assediare Putin e costringerlo a una fuoriuscita dalla scena politica internazionale, per poi probabilmente sostituirlo con qualcuno che possa adeguarsi all’Agenda 2030 e quindi alla realizzazione di un New World Order al di sopra degli interessi nazionali, al di sopra dei popoli e delle loro tradizioni e identità. E’ una specie di élite dominante, non eletta da nessuno, che si arroga il potere di regolare le sorti del mondo. C’è qualcuno che evidentemente non cede, rifiutandosi di accettare questo. E allora, così come hanno eliminato Trump dalla scena politica con i brogli del 2020, oggi stanno cercando di portare Putin a una situazione di esasperazione.Spaccano in due l’Ucraina e alimentano lo scontro con la vecchia logica del “divide et impera”. Chi ci guadagna è l’élite globalista, anche se forse sta tirando un po’ troppo la corda. Credo che la Cina, probabilmente, avrà un ruolo fondamentale nella mediazione di questa crisi, che purtroppo in questi giorni sta volgendo al peggio. Riusciranno a rovesciare Putin? Così come il Deep State ha cercato di tessere la sua ragnatela negli Stati Uniti e in Europa, c’è sicuramente un Deep State anche in Russia, che è collegato agli stessi centri di potere ai quali appartengono gli altri Deep State, quello americano e quello europeo: la matrice è la medesima. Chiaramente, il tentativo – attraverso le sanzioni – di portare la Russia in una condizione di crisi economica profonda, e quindi il tentativo di portare il popolo russo – attraverso il bisogno e la paura – a cacciare il proprio leader in virtù della fame, è una strategia subdola che, purtroppo, nella storia è stata sempre utilizzata, dalla matrice globalista che, nel corso dei decenni, è arrivata a imporre il suo progetto di Nuovo Ordine Mondiale, che include l’annientamento delle identità e delle culture nazionali, soprattutto quella cristiana.Se oggi il mondo conosce le dinamiche del Deep State è perché, in quattro anni, Donald Trump ha svolto un lavoro certosino nel cercare di illustrare, all’umanità intera, che cosa fosse questo Stato Profondo, questo “potere nel potere” fatto di gente mai eletta da nessuno, se non all’interno di una specie di “cabala planetaria” di autoproclamatisi potenti, in grado di regolare la vita delle nazioni al di là della volontà popolare. Una delle organizzazioni all’origine della crisi tra Ucraina e Russia è il World Economic Forum di Davos, di cui il signor Zelensky è membro. Proprio a Davos, Trump disse che il futuro appartiene ai patrioti, non all’élite globalista: questo, evidentemente, causò panico e terrore tra le fila dei potenti, che fino ad allora erano abbastanza occulti. Agivano attraverso svariate organizzazioni, ma i loro nomi e cognomi (le facce, i volti) erano ancora sconosciuti, ai più. Trump li ha esposti alla luce del sole, o oggi tutti noi sappiamo chi sono gli Schwab, i Rothschild, i Rockefeller, i Gates, i Biden, i Clinton.Questa specie di Spectre, che domina su tutto e tutti, oggi si sta muovendo quasi a carte scoperte: Zelensky, il Beppe Grillo ucraino, è stato “costruito” dall’oligarca ashkenazita Igor Kolomiosky, produttore della serie Tv che ha reso popolare l’attore, ora presidente ucraino. Un po’ la stessa dinamica che, in Italia, ha portato al potere il Movimento 5 Stelle. Oggi, quindi, vediamo all’opera un personaggio che sta guidando un paese, sacrificando il proprio popolo, per i piani oscuri di qualcun altro: e questo è piuttosto triste. Io credo che l’Ucraina abbia il diritto di essere una nazione indipendente, così come credo che le due autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, nel Donbass, abbiano parimenti il diritto (visto che c’è stato un referendum, anche lì) di avere la loro autonomia, sia pure all’interno dell’Ucraina. Intervistato dal “Tempo”, lo stesso generale Paolo Inzerilli (già a capo del Sismi e di Gladio, struttura nata proprio per contrastare l’Urss) conferma che stiamo rischiando grosso, anche come Italia, in nome di interessi che vanno ben oltre gli apparenti scopi di questa guerra, cioè ben oltre l’indipendenza dell’Ucraina.Putin ha semplicemente richiesto a Kiev un disarmo e la garanzia che l’Ucraina non entri nella Nato. Anch’io penso sia opportuno che l’Ucraina diventi una nazione neutrale, uno Stato-cuscinetto, dove la parte russofona (nel Donbass e in Crimea) possa avere la propria autonomia, pur restando entro i confini statali ucraini, senza però essere discriminata. Ricordiamoci che questa guerra è iniziata nel 2014, sono otto anni che si trascina: questo è l’epilogo della guerra, la sua fine. E purtroppo ci siamo caduti anche noi, in questa guerra, probabilmente perché Joe Biden, vista la scarissima popolarità che sconta negli Usa, specie dopo la débacle afghana, sta cercando di spostare all’esterno l’attenzione del mondo, utilizzando l’arena ucraina come campo da gioco per dare in pasto all’opinione pubblica internazionale il nuovo cattivone di turno, il nuovo pazzo, il guerrafondaio. In realtà, negli ultimi anni, la Nato si è espansa verso Est in modo massiccio: Romania, Bulgaria, Lettonia, Lituania, Estonia. E la Russia, che ha accettato tutto questo storcendo il naso, non può pensare di avere a 180 chilometri da casa propria le batterie missilistiche puntatele addosso da un nuovo membro della Nato, che confina con essa.Chi sta pagando il prezzo più alto, purtroppo, oggi è il popolo dell’Ucraina, che è strumentalizzato e usato, da una parte e dall’altra, per rivendicare ognuno la propria egemonia. O meglio, Putin sta cercando di rifiutare l’egemonia del Nuovo Ordine Mondiale sulla Russia, e l’Ucraina viene utilizzata come terreno di scontro tra queste due visioni del mondo: una identitaria e nazionale, l’altra globalista e trasnazionale, oltre che realmente comunista. Paradossalmente, il comunismo oggi non è quello di Putin, ma è quello di Klaus Schwab, del Forum di Davos, della sinistra globalista europea della Fabian Society, quella che nasce dalla London School of Economics. Parla da solo il logo della Fabian Society, il lupo travestito da agnello: quello che stanno facendo (e l’abbiamo appena visto anche con il Covid) è il controllo sociale e l’annientamento progressivo della proprietà privata. Non a caso, con la scusa della pandemia, in Italia hanno chiuso 400.000 aziende. E ora, con la scusa della “green economy”, le proprietà che non si adegueranno verranno colpite dal governo.Lentamente, la nostra sovranità di cittadini viene meno: e c’è sempre qualcuno che pensa per noi e ci dice quando respirare, quando uscire di casa, quando poter andare a lavorare e quando no (non ci vai se non sei un cittadino modello, cioè se non hai il passaporto verde). Questo è il modello comunista cinese, il modello del lasciapassare per l’espatrio che era in vigore nella Ddr, la Germania Est. Oggi, purtroppo, i comunisti sono a Occidente. Non sottovalutiamo neppure i segnali di malcontento che emergono anche dai nostri vertici militari e da generali come Inzerilli e Marco Bertolini, alti ufficiali che hanno fatto la storia dell’intelligence italiana. Oggi, vedono che l’attuale primo ministro (mai eletto neppure come assessore in un piccolo Comune, ma paracadutato dalla finanza a guidare una nazione in un momento critico come questo), non osserva lo spirito dell’articolo 11 della Costituzione e non difende gli interessi dell’Italia, anche sul piano dei rapporti con la Russia e dell’energia, che per noi è necessaria.Berlusconi fece un ottimo lavoro, nel cercare di rendere l’Italia sempre più forte e più indipendente, sul piano energetico. Con la fine di quel governo, pian piano, ci siamo sottomessi agli interessi di qualcun altro: abbiamo ceduto alla Francia la leadership in Libia, abbiamo progressivamente perso tono, e oggi siamo un paese che non ha più quasi niente: soprattutto dopo due anni di cosidetta pandemia, ci troviamo in una condizione di disastro economico. Per rendersene conto basta fare un salto alla pompa di benzina, o dare un’occhiata alle bollette: tutto è aumentato, da quando Super-Mario è arrivato alla guida del paese. Mi domando: chi ce l’ha mandato, e perché? Ci stiamo giocando la democrazia e la libertà, mentre il governo – anziché quelli nazionali – fa gli interessi di qualcun altro. Oggi più che mai, si contrappongono due visioni del mondo: chi crede nella libertà, nell’identità dei popoli in una logica di cooperazione fra Stati indipendenti e sovrani, e chi invece vuole imporre un Nuovo Ordine Mondiale nelle mani di un’élite finanziaria di potenti che, attraverso la paura e il bisogno, dominano sul resto del mondo.Ecco perché oggi la Russia è il target da eliminare: è una spina nel fianco, perché impedisce il completamento del progetto, che – filosoficamente – è davvero “luciferino”, e adotta sempre gli stessi metodi. Berlusconi, ad esempio, fu tolto di mezzo – con la storia delle doninne – proprio dopo la crisi in Libia: occasione d’oro, per Francia e Germania, per liberarsi del vicino scomodo. E vogliamo parlare di come è stato liquidato Trump, che alle presidenziali aveva ottenuto 15 milioni di voti in più, rispetto a quattro anni prima? Conteggiando più volte le stesse schede elettorali è stato insediato Joe Biden, il cui figlio – Hunter Biden – è nel Cda di Burisma, il colosso dell’energia ucraina. E oggi il mondo rischia di dover affrontare una guerra su vasta scala: ma per chi? Per Schwab? Per Biden? Per gli interessi di un comico messo lì a sacrificare il proprio popolo in nome del potere di qualcun altro? Dobbiamo ricominciare a ripensare agli interessi nazionali. Vorrei tanto che ci fosse una classe politica come quella di un tempo: nonostante tutto, aveva il senso delle istituzioni nazionali.Mai prima d’ora, da parte italiana, c’era stata tanta determinazione nel sostenere una guerra – alla faccia della nostra Costituzione, più volte calpestata anche durante l’intera gestione Covid. Ancora una volta, lo stato d’emergenza conferisce i super-poteri a Super-Mario, che ha super-incasinato il nostro paese: ha super-fatto fallire 400.000 imprese e ha super-favorito i grandi centri finanziari transnazionali. Quindi mi domando: a chi giova, tutto questo? Sicuramente non al popolo italiano, tantomeno a quello ucraino. Dunque chi ne beneficia, se non un’élite di mascalzoni che vorrebbero dominare il mondo sul sangue, sul dolore e sul sacrificio dei popoli? Per tornare all’Agenda: di verde, la “green economy” non ha niente, esattamente come il Green Pass. Si punta esclusivamente alla sottommissione, delle persone e dell’economia reale, alle logiche di potere dell’alta finanza: l’unica cosa “green”, in questa storia, è il loro portafoglio. Il punto è questo: stiamo erodendo il tessuto sociale delle nazioni Ue. Stiamo rinunciando ai nostri diritti, alla nostra libertà, al nostro denaro (siamo arrivati al punto in cui non si può entrare in banca o in Posta senza il passaporto sociale).Stiamo arrivando a un lento e progressivo annientamento della proprietà privata, frutto del lavoro onesto (non della speculazione, che infatti non viene toccata: anzi, beneficia della crisi in cui viene gettata la maggioranza dei cittadini). Tutto questo è contro l’umanità. Quando si parla di geoingegneria, in nome del cosiddetto “global warming” (altra leggenda metropolitana) per ammettere che si vorrebbe “oscurare il Sole”, significa che siamo arrivati alla presunzione, da parte di questa élite di satrapi, di potersi “sostituire a Dio” e ridisegnare non solo l’economia e la vita delle persone, ma persino il creato, a loro immagine e somiglianza: e questo è inaccettabile. Io credo che servirebbe un soprassalto di dignità e di sano patriottismo, al di là di ogni schieramento ideologico: credo che ogni italiano dovrebbe amare il proprio bellissimo paese, a prescindere da come la pensa politicamente. Dovremmo riscoprire la nostra storia, la nostra cultura: per ritrovarci uniti, anziché divisi. Bisogna riscoprirsi italiani: e capire quanto stiamo perdendo, in nome del nulla.Persino durante la Guerra Fredda, l’Italia ha svolto un importante ruolo diplomatico di mediazione e pacificazione: a quello dovremmo tornare, abbandonando l’attuale linea (stupida, se non criminale) di asservimento agli interessi altrui. Noi dovremmo pensare, innanzitutto, a difendere il nostro paese e proteggere la nostra gente da chi ci vuole usare come agnello sacrificale per i suoi interessi. Ci si domanda se Putin sia consapevole, del fatto che la sua iniziativa lo esponga al rischio di essere defenestrato. Il problema è uno solo: probabilmente, la tenuta del potere di Putin è strumentale al fatto di non doversi inginocchiare davanti al totem del Nuovo Ordine Mondiale. Alla fine, credo che anche la lunga permanenza di Putin alla guida della Federazione Russa sia necessaria a tenere duro, di fronte al tentativo di sottomettere anche la Russia all’adorazione di Moloch, cioè al dominio dell’élite globalista. Lo scenario che viviamo è molto pericoloso: forse mai, dal dopoguerra, abbiamo rischiato tanto. Una guerra totale, su scala mondiale.Se la situazione precipitasse davvero, rischierebbero di saltare gli storici trattati sul controllo reciproco degli armamenti atomici. L’Europa dovrebbe essere la prima a mediare, invece – stranamente – sta soffiando sulla brace, invece di provare a spegnere l’incendio. Anziché operare fine diplomazia, l’Europa – con l’inasprimento delle sanzioni, con l’invio di armamenti – sta aumentando la tensione. Mi domando: cui prodest? Purtroppo, i ruoli si sono invertiti: oggi il comunismo ce l’abbiamo in casa, qui in Europa. Con questo non dico che Putin sia un santo. Dico che ha le sue ragioni, specie per le aree della Crimea e del Donbass. Non solo: non è stato rispettato il Trattato di Minsk, non è stata rispettata l’autonomia di Donetsk e Lugansk. E i morti del Donbass, chissà perché, non fanno rumore: non hanno mai surriscaldato le coscienze di nessuno. Ripeto: il popolo ucraino ha tutta la mia solidarietà. Ma attenzione: gli ucraini non stanno combattendo per la loro indipendenza nazionale, cui hanno certamente diritto; stanno combattendo per il Nuovo Ordine Mondiale, che è nemico giurato di qualsiasi identità, compresa la loro.Gli ucraini sono l’agnello sacrificale nelle mani del New World Order, che sfrutta il legittimo nazionalismo ucraino, strumentalizzandolo. Kira Raduk, una deputata ucraina vicina a Zelensky, si è fatta riprendere mentre imbraccia un kalashnikov e dice: non stiamo combattendo solo per la nostra indipendenza, ma anche per il Nuovo Ordine Mondiale. Lo ha ammesso: ma il Nuovo Ordine è nemico di qualsiasi indipendenza e di qualsiasi sovranità. Lo vedete, il paradosso? Si lasciano strumentalizzare facilmente, gli ucraini. Vale anche per l’uso (sempre strumentale) di un’ideologia come il nazismo, ormai condannata dalla storia. Prendiamo il famigerato Battaglione Azov: è stato messo in piedi dello stesso finanziatore di Zelenzy, cioè Igor Kolomiosky. Dunque a finanziare i neonazisti del Battaglione Azov è stato un ebreo (ashkenazita): è assurdo, ma è così.Le stesse insegne dell’Azov si richiamano direttamente al nazismo: in questo modo, purtroppo, si insultano persino le vittime della Shoah. Questi miliziani potrebbero compiere operazioni di pulizia etnica nel Donbass. Se si macchiassero di gravi colpe, però, proprio la loro etichetta “nazista” metterebbe al riparo i loro finanziatori. Le bandiere del Battaglione Azov rappresentano un utilizzo un po’ infantile della simbologia nazista. Ma, anche in questo caso, diventa comodo far ricadere su organizzazioni di ispirazione neonazista colpe che in realtà appartengono all’apparato. Strano, che un presidente come Zelensky tolleri il Battaglione Azov. Anche Zelenzky, tra l’altro, è lui ebreo ashkenazita: come Kolomiosky e la stessa deputata Raduk. Questi signori dovrebbero vergognarsi, in nome della memoria degli ebrei perseguitati dal regime nazista. Mi chiedo come possano utilizzare strumentalmente certi personaggi e certe simbologie, per fini che non sono assolutamente chiari. Dovrebbero vergognarsi perché, prima di tutto, sono ebrei: e dovrebbero avere più rispetto, per i propri antenati perseguitati.(Gianluca Sciorilli, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming su YouTube “La guerra dei mondi”, l’8 marzo 2022. Sciorilli è un analista indipendente esperto in intelligence, sicurezza e studi strategici).Chi ci guadagna, nel trascinare verso terreni ignoti una crisi come quella ucraina? Posso dire chi ci perde: innanzitutto il popolo ucraino, sacrificato per coprire gli interessi di una élite che ha come unico obiettivo quello di accerchiare Putin, buttarlo fuori dai giochi ed escluderlo, come player, dal processo in corso, cioè il malaugurato Nuovo Ordine Mondiale. Questo è il disegno: sfruttare l’Ucraina come casus belli per assediare Putin e costringerlo a una fuoriuscita dalla scena politica internazionale, per poi probabilmente sostituirlo con qualcuno che possa adeguarsi all’Agenda 2030 e quindi alla realizzazione di un New World Order al di sopra degli interessi nazionali, al di sopra dei popoli e delle loro tradizioni e identità. E’ una specie di élite dominante, non eletta da nessuno, che si arroga il potere di regolare le sorti del mondo. C’è qualcuno che evidentemente non cede, rifiutandosi di accettare questo. E allora, così come hanno eliminato Trump dalla scena politica con i brogli del 2020, oggi stanno cercando di portare Putin a una situazione di esasperazione.
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Gorbaciov: ho paura. Francesi in Siria con i terroristi Nato
L’ultimo bombardamento sulla Siria, deciso da Donald Trump, «l’ho definito una specie di esercitazione militare in preparazione di qualcosa di molto più serio: è preoccupante». Parola di Mikhail Gorbaciov, al telefono con Giulietto Chiesa. «Adesso arrivano notizie secondo cui un contingente francese sarebbe entrato in territorio siriano, armi e bagagli». Non solo francesi, aggiunge Chiesa, ma anche tedeschi. «Se facciamo la somma, ormai hanno messo piede, e non da ieri, contingenti americani, inglesi, francesi, tedeschi e israeliani». E nel conto, sottolinea Gorbaciov, «bisogna mettere anche gli arabo-sauditi e i turchi, che fanno il loro gioco. Sono tutti là. E ho l’impressione che si stia preparando qualche cosa di grosso, e di molto grave», afferma l’ultimo presidente dell’Urss, Premio Nobel per la Pace. Conseguenze immediate piuttosto allarmanti, come confermato dall’offensiva militare, mediatica e diplomatica di Israele contro l’Iran, impegnato in Siria accanto ai russi e all’esercito di Damasco. L’Occidente e i suoi alleati non accettano che Mosca abbia sconfitto l’Isis e messo fine alla guerra siriana contro i “terroristi” armati dalla Nato. Se ora gli Usa e i loro vassalli scendono in campo direttamente, come si regolerù Putin?«E’ evidente che la sconfitta dello Stato Islamico, ad opera dei russi, e la situazione che si è creata sul terreno, non piace né a Washington, né a Parigi né Londra», dichiara Gorbaciov. «Adesso agiscono in due direzioni: una diplomatica, come si è visto a Bruxelles nella conferenza che hanno chiamato “Aiutare il futuro della Siria e dell’intera regione” e il cui scopo è quello di mettere fine al processo di Astana», la capitale del Kazakhstan che ha ospitato il vertice russo-turco-iraniano. «Là erano solo Mosca, Ankara e Teheran. Ora vogliono sostituirlo con una gestione, formalmente sotto egida Onu, ma sostanzialmente funzionale a una ripresa del controllo americano sulla crisi siriana. Nello stesso tempo – aggiunge Gorbaciov – stanno cercando di cambiare i rapporti di forza militare sul terreno». La situazione è questa: «Adesso l’Isis, di fatto, non esiste più. L’esercito siriano avanza su tutti i fronti, sostenuto dalla presenza russa sia dall’aria che sul terreno. Lo sostituiscono direttamente le truppe occidentali». In altre parole: truppe occidentali stanno prendendo il posto della loro creatura, l’Isis, sconfitta sul campo. Il rischio di scontro diretto Usa-Russia si va facendo altissimo, sostiene l’uomo che ha posto fine alla guerra fredda.«Vladimir Putin si trova di fronte alla domanda delicatissima su come fermarli», spiega Gorbaciov. «Un conto era avere di fronte l’esercito dello Stato Islamico. Era una finzione, perché sappiamo chi lo sosteneva, ma evitava il contatto diretto con le forze occidentali che erano già sul terreno ma invisibili, sotto forma di servizi segreti. Adesso il rischio è di un confronto militare diretto tra Russia e Stati Uniti, Russia e Francia, Russia e Gran Bretagna». Sono tutti eserciti Nato, quindi un eventuale scontro coinvolgerebbe indirettamente anche l’Italia, finora rimasta fuori dalla mischia benché ancora presente con la missione di peacekeeping in Libano, il paese da cui proviene la milizia sciita Hezbollah schierata in Siria con Assad. Come risponderà Putin al drammatico cambio di marcia dell’Occidente? «Non lo so», ammette Gorbaciov. «Mi pare chiaro che non potrà abbandonare la Siria». Tra l’altro, aggiunge, «la Russia è sul campo per diretta richiesta da parte del governo legittimo di Damasco, mentre tutti gli altri stanno occupando il territorio siriano in aperta violazione di tutte le norme internazionali. Nulla li legittima. È una operazione di aggressione».Tira una brutta aria, «e non riguarda solo la Siria», purtroppo. Gorbaciov ricorda la Nato sta premendo per incorporare l’Ucraina e la Georgia, in aperta violazione delle solenni assicurazioni fatte da George Bush all’epoca della distensione, il disarmo missilistico bilaterale: la Casa Bianca aveva promesso che non avrebbe esteso verso Est il perimetro Nato, a ridosso delle frontiere russe. Nel frattempo, le sanzioni economiche contro Mosca «stanno diventando asfissianti, al punto che siamo ormai nella situazione in cui il ministero del Tesoro americano decide della sorte dell’industria russa dell’alluminio». Sempre secondo Gorbaciov, la “ritirata” dell’industriale russo Oleg Deripashka, che ha perduto la maggioranza azionaria della sua impresa a Londra, «è un segnale di preavviso mandato a Vladimir Putin alla vigilia della inaugurazione del suo quarto mandato». In altre parole, «la “guerra ibrida” è in pieno sviluppo». E stavolta Mikhail Gorbaciov teme che la crisi – particolarmente incancrenita in Siria – possa nascondere esiti pericolosi e inimmaginabili. Tutto è precipitato – dal caso Skripal al bombardamento di Trump – dopo l’annuncio di Putin sui missili “imparabili”, ipersonici, di cui dispone la Russia. L’Occidente terrorista sfiderà il Cremlino a impiegarle, le armi-killer in grado di affondare le portaerei?L’ultimo bombardamento sulla Siria, deciso da Donald Trump, «l’ho definito una specie di esercitazione militare in preparazione di qualcosa di molto più serio: è preoccupante». Parola di Mikhail Gorbaciov, al telefono con Giulietto Chiesa. «Adesso arrivano notizie secondo cui un contingente francese sarebbe entrato in territorio siriano, armi e bagagli». Non solo francesi, aggiunge Chiesa, ma anche tedeschi. «Se facciamo la somma, ormai in Siria hanno messo piede, e non da ieri, contingenti americani, inglesi, francesi, tedeschi e israeliani». E nel conto, sottolinea Gorbaciov, «bisogna mettere anche gli arabo-sauditi e i turchi, che fanno il loro gioco. Sono tutti là. E ho l’impressione che si stia preparando qualche cosa di grosso, e di molto grave», afferma l’ultimo presidente dell’Urss, Premio Nobel per la Pace. Conseguenze immediate piuttosto allarmanti, come confermato dall’offensiva militare, mediatica e diplomatica di Israele contro l’Iran, impegnato in Siria accanto ai russi e all’esercito di Damasco. L’Occidente e i suoi alleati non accettano che Mosca abbia sconfitto l’Isis e messo fine alla guerra siriana contro i “terroristi” armati dalla Nato. Se ora gli Usa e i loro vassalli scendono in campo direttamente, come si regolerù Putin?
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Murray: a colpire Skripal è stato il Mossad, non la Russia
Porta la firma del Mossad israeliano il tentato omicidio in Inghilterra dell’ex agente russo Sergej Skripal, che ha innescato la guerra tra Londra e Mosca con espulsioni simmetriche di diplomatici. Lo sostiene Craig Murray, già ambasciatore britannico in paesi come l’Uzbekistan. Murray non è un fan di Putin. Al contrario: ritiene che siano stati i russi ad assassinare col polonio Alexandr Litvinenko nel 2006, in più imputa alla Russia l’occupazione “illegale” della Crimea e dell’Ossezia del Sud (Georgia), e arriva ad accusare il Cremlino di aver organizzato auto-attentati allo scopo di avere il pretesto del «brutale assalto alla Cecenia». E’ infatti emerso che fu proprio Boris Eltsin a promuovere il “separatismo ceceno”, per poi procedere con l’intervento militare (cui mise fine proprio Putin). Ma stavolta i russi non c’entrano, con l’attentato che ha ridotto in fin di vita l’ex 007 Skripal e sua figlia Yulia nella città inglese di Salisbury. E’ più che sospetta la determinazione con la quale il governo britannico ha subito puntato il dito contro Mosca: la premier Theresa May e il ministro degli esteri Boris Johnson additano la Russia come unico mandante. La loro tesi: l’ex agente del Gru (l’intelligence militare di Mosca, poi passato agli inglesi) è stato avvelenato con gas nervino. Ma è l’agenzia internazionale per il disarmo chimico a chiarire che la Russia non dispone più di gas letali. E poi, perché rischiare un simile autogoal d’immagine?La versione di Londra, scrive “L’Antidiplomatico”, non convince affatto l’ex ambasciatore britannico Craig Murray, che invita ad approfondire una strada diversa: quella che conduce direttamente a Israele e al Mossad. Lo riporta il giornalista investigativo Nafeez Ahmed su “Insurge”. Semmai è Israele a possedere l’agente nervino, spiega Murray, e il suo servizio segreto, il Mossad, «è estremamente abile negli omicidi in territorio straniero». Theresa May ha rivendicato la propensione russa all’assassinio all’estero far credere che ci sia Mosca dietro all’attentato? «Se è per questo, il Mossad ha una propensione ancora maggiore all’assassinio all’estero», afferma Murray. «E mentre mi sto sforzando per trovare un motivo valido per cui la Russia avrebbe dovuto rischiare di danneggiare la sua reputazione internazionale in modo così penoso – aggiunge – Israele ha una chiara motivazione per danneggiare la reputazione russa in modo così profondo». E spiega: «L’azione russa in Siria ha minato la posizione israeliana in Siria e Libano in modo fondamentale, e Israele ha tutti i motivi per voler danneggiare la posizione internazionale della Russia con un attacco che mira a gettare responsabilità su Mosca». Murray inoltre evidenzia come sia improbabile che i russi «abbiano atteso otto anni per colpire», dopo la “diserzione” del loro vecchio agente. Allo stesso modo, «non ha alcun senso assassinare improvvisamente una spia liberata attraverso uno scambio di prigionieri, e che per ben otto anni ha vissuto a Londra alla luce del sole».Nel caso Skripal, scrive “L’Antidiplomatico”, a colpire è la determinazione, la pervicacia, con cui le autorità britanniche si affannano a incolpare la Russia, «senza peraltro fornire alcuna prova a sostegno delle tesi accusatorie», peraltro seccamente smentite persino dall’Opcw, l’organizzazione internazionale per la proibizione delle armi chimiche. «L’agenzia, con sede a L’Aia, ha infatti certificato che la Russia ha distrutto il proprio arsenale di armi chimiche, agenti nervini compresi». L’Opcw non ha quindi trovato alcuna evidenza indicante che la Russia mantenga una capacità di “avvelenamento” da gas nervino, «mentre non si può dire lo stesso per Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele». A far da detonatore, dopo il successo russo in Siria, potrebbe anche esser stato il clamoroso annuncio del 1° marzo, nel quale Putin – presentando i nuovi missili atomici iper-sonici, come nuova frontiera della deterrenza (armi che annullerebbero l’arsenale nucleare Usa) – ha di fatto mutato, in modo clamoroso, l’aspetto militare dell’equilibrio geopolitico. Al punto che Donald Trump è giunto alla rimozione di Rex Tillerson. Nuovo segretario di Stato, il “falco” antirusso Mike Pompeo, che lascia la guida della Cia a Gina Haspel, accusata di aver introdotto l’uso sistematico della tortura (come il “waterboardig”) per i sospetti terroristi, inclusi quelli detenuti a Guantanamo in flagrante violazione dei diritti umani.Porta la firma del Mossad israeliano il tentato omicidio in Inghilterra dell’ex agente russo Sergej Skripal, che ha innescato la guerra tra Londra e Mosca con espulsioni simmetriche di diplomatici. Lo sostiene Craig Murray, già ambasciatore britannico in paesi come l’Uzbekistan. Murray non è un fan di Putin. Al contrario: ritiene che siano stati i russi ad assassinare col polonio Alexandr Litvinenko nel 2006, in più imputa alla Russia l’occupazione “illegale” della Crimea e dell’Ossezia del Sud (Georgia), e arriva ad accusare il Cremlino di aver organizzato auto-attentati allo scopo di avere il pretesto del «brutale assalto alla Cecenia». E’ infatti emerso che fu proprio Boris Eltsin a promuovere il “separatismo ceceno”, per poi procedere con l’intervento militare (cui mise fine proprio Putin). Ma stavolta i russi non c’entrano, con l’attentato che ha ridotto in fin di vita l’ex 007 Skripal e sua figlia Yulia nella città inglese di Salisbury. E’ più che sospetta la determinazione con la quale il governo britannico ha subito puntato il dito contro Mosca: la premier Theresa May e il ministro degli esteri Boris Johnson additano la Russia come unico mandante. La loro tesi: l’ex agente del Gru (l’intelligence militare di Mosca, poi passato agli inglesi) è stato avvelenato con gas nervino. Ma è l’agenzia internazionale per il disarmo chimico a chiarire che la Russia non dispone più di gas letali. E poi, perché rischiare un simile autogoal d’immagine?
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Putin: addio armi chimiche. E condona il debito dell’Africa
Distrutte tutte le armi chimiche e condonati 20 miliardi di debiti africani. Sono due notizie “hard” di notevole rilevanza politica mondiale e provengono da Mosca. In sé meriterebbero un’attenzione cospicua, ma il modo di operare del sistema informativo dominante è così impermeabile alle notizie vere sulla Russia, che anche gli eventi suscettibili di grande peso simbolico e politico in campo militare ed economico passano praticamente inosservati. Così siamo informati fino all’ultimo tweet sulla lite fra Donald Trump e i giocatori di football, ma non ci viene detto con bastevole attenzione che il più formidabile arsenale chimico della storia, capace di distruggere diverse volte l’intera vita sul pianeta, ha concluso la sua esistenza il 27 settembre 2017. Né ci viene detto che – sempre in quella data – la Russia ha deciso unilateralmente di cancellare il grosso dei sui crediti che gravavano sui paesi africani più indebitati. Dunque, i fatti. Con tre anni di anticipo sulla tabella di marcia, Mosca ha adempiuto in toto alla Convenzione sulle armi chimiche ratificata 20 anni fa, nel 1997, quando ancora possedeva ben 40mila tonnellate fra gas nervini e sostanze vescicanti.Il presidente Vladimir Putin ha riservato a questo fatto una notevole solennità, come quando si posa la prima pietra di una grande manifattura. Solo che in questo caso la cerimonia è stata invece riservata al mettere fine all’ultimo chilogrammo rimasto degli ultimi due ordigni. Il quantitativo terminale è stato definitivamente distrutto con un ordine impartito da Putin in persona, in videoconferenza con i funzionari inviati presso il villaggio di Kizner, dove si trovava l’ultima goccia dell’arsenale chimico che Mosca ha ereditato dall’Urss. Putin lo ha definito «un enorme passo verso un maggiore equilibrio e sicurezza nel mondo di oggi». Ha ricordato che per adempiere al trattato internazionale il suo paese ha speso tanto e ha investito in imprese high-tech in grado di neutralizzare l’intero arsenale. Ha poi ricordato che gli Stati Uniti stanno opponendo ogni tipo di scusa economica e finanziaria per giustificare i continui rinvii sulla completa distruzione del proprio arsenale. «Onestamente, questa storia della mancanza di fondi mi suona proprio strana», ha ironizzato Putin.La Russia in questi anni ha padroneggiato strategicamente il tema dell’eliminazione delle armi chimiche, al punto da ottenere grandi dividendi politici nelle negoziazioni internazionali: nel 2013 Mosca impedì l’aggressione diretta delle forze armate occidentali alla Siria mettendo sul piatto della bilancia la completa eliminazione dell’arsenale chimico siriano (che a suo tempo Damasco aveva costruito come deterrente opposto alle decine di bombe atomiche detenute da Israele). Fu una tappa diplomatica fondamentale per rovesciare poi le sorti del conflitto siriano a sfavore della galassia jihadista. E ora arriva quella che il turco Ahmet Üzümcü – direttore dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche – definisce come una «grande pietra miliare» per il disarmo chimico mondiale.Ovviamente questa non è ancora la fine delle armi di distruzione di massa, visto che tutte le potenze nucleari continuano a testare nuovi armamenti sempre più micidiali e sofisticati. In proposito, nel suo discorso in videoconferenza, Putin ha sottolineato di avere piena consapevolezza «dei pericoli potenziali e dei rischi associati alla ripresa della corsa agli armamenti e ai tentativi di sconvolgere la parità strategica». Ha sottolineato che la sicurezza globale richiede il dialogo e il «rafforzamento delle misure per la creazione di fiducia». Il disarmo chimico è un passo politico importante e dimostra in modo pratico che grandi misure strategiche di disarmo sono possibili e governabili, magari un domani anche nel campo degli armamenti nucleari.Il condono del debito africano. Lo ricorda il sito “Sputnik”: il presidente Putin ha annunciato la decisione di cancellare «oltre 20 miliardi di dollari di debiti ai paesi dell’Africa», il tutto nell’ambito delle «iniziative per aiutare i paesi poveri fortemente indebitati». Molte partite geopolitiche si stanno giocando ora nel continente africano, e avranno tutte enormi conseguenze sull’energia, le materie prime, le basi militari e i grandi flussi migratori. Il Cremlino cala sul campo una carta che può cambiare lo scenario, con un maggior peso della Russia. L’annuncio del presidente russo è stato fatto in occasione del suo incontro con Alpha Condé, che è sì il presidente della Guinea, un paese di meno di 11 milioni di abitanti, ma è soprattutto il presidente dell’Unione Africana, che ricomprende tutti i 54 Stati dell’Africa (1,1 miliardi di abitanti).(Pino Cabras, “Russia: distrutte tutte le armi chimiche e condonati 20 miliardi di debiti africani”, da “Megachip” del 29 settembre 2017).Distrutte tutte le armi chimiche e condonati 20 miliardi di debiti africani. Sono due notizie “hard” di notevole rilevanza politica mondiale e provengono da Mosca. In sé meriterebbero un’attenzione cospicua, ma il modo di operare del sistema informativo dominante è così impermeabile alle notizie vere sulla Russia, che anche gli eventi suscettibili di grande peso simbolico e politico in campo militare ed economico passano praticamente inosservati. Così siamo informati fino all’ultimo tweet sulla lite fra Donald Trump e i giocatori di football, ma non ci viene detto con bastevole attenzione che il più formidabile arsenale chimico della storia, capace di distruggere diverse volte l’intera vita sul pianeta, ha concluso la sua esistenza il 27 settembre 2017. Né ci viene detto che – sempre in quella data – la Russia ha deciso unilateralmente di cancellare il grosso dei sui crediti che gravavano sui paesi africani più indebitati. Dunque, i fatti. Con tre anni di anticipo sulla tabella di marcia, Mosca ha adempiuto in toto alla Convenzione sulle armi chimiche ratificata 20 anni fa, nel 1997, quando ancora possedeva ben 40mila tonnellate fra gas nervini e sostanze vescicanti.
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Sankara: basta rapinare l’Africa, col debito. E lo uccisero
Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee. In modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia, di investire da noi con l’obbligo di rimborso. Ci dicono di rimborsare il debito. Non è un problema morale. Rimborsare o non rimborsare non è un problema di onore. Abbiamo prima ascoltato e applaudito il primo ministro della Norvegia, intervenuta qui. Ha detto, lei che è un’europea, che il debito non può essere rimborsato tutto. Il debito non può essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno, siamone sicuri. Invece se paghiamo, saremo noi a morire, ne siamo ugualmente sicuri. Quelli che ci hanno condotti all’indebitamento hanno giocato come al casinò. Finché guadagnavano non c’era nessun problema; ora che perdono al gioco esigono il rimborso. E si parla di crisi. No, signor presidente. Hanno giocato, hanno perduto, è la regola del gioco. E la vita continua.Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagare. Non possiamo rimborsare il debito perché non siamo responsabili del debito. Non possiamo pagare il debito perché, al contrario, gli altri ci devono ciò che le più grandi ricchezze non potranno mai ripagare: il debito del sangue. E’ il nostro sangue che è stato versato. Si parla del Piano Marshall che ha rifatto l’Europa economica. Ma non si parla mai del Piano africano che ha permesso all’Europa di far fronte alle orde hitleriane quando la sua economia e la sua stabilità erano minacciate. Chi ha salvato l’Europa? E’ stata l’Africa. Se ne parla molto poco. Così poco che noi non possiamo essere complici di questo silenzio ingrato. Se gli altri non possono cantare le nostre lodi, noi abbiamo almeno il dovere di dire che i nostri padri furono coraggiosi e che i nostri combattenti hanno salvato l’Europa e alla fine hanno permesso al mondo di sbarazzarsi del nazismo.Il debito è anche conseguenza degli scontri. Quando ci parlano di crisi economica, dimenticano di dirci che la crisi non è venuta all’improvviso. La crisi è sempre esistita e si aggraverà ogni volta che le masse popolari diventeranno più coscienti dei loro diritti di fronte allo sfruttatore. Oggi c’è crisi perché le masse rifiutano che le ricchezze siano concentrate nelle mani di pochi individi. C’è crisi perché pochi individui depositano nelle banche estere delle somme colossali che basterebbero a sviluppare l’Africa intera. C’è crisi perché di fronte a queste ricchezze individuali, che hanno nomi e cognomi, le masse popolari si rifiutano di vivere nei ghetti e nei bassifondi. C’è crisi perché i popoli rifiutano dappertutto di essere dentro una Soweto di fronte a Johannesburg. C’è quindi lotta, e l’esacerbazione di questa lotta preoccupa chi ha il potere finanziario.Ci si chiede oggi di essere complici della ricerca di un equilibrio. Equilibrio a favore di chi ha il potere finanziario. Equilibrio a scapito delle nostre masse popolari. No! Non possiamo essere complici. Non possiamo accompagnare quelli che succhiano il sangue dei nostri popoli e vivono del sudore dei nostri popoli nelle loro azioni assassine. Signor presidente, sentiamo parlare di club – Club di Roma, Club di Parigi, Club di dappertutto. Sentiamo parlare del Gruppo dei Cinque, dei Sette, del Gruppo dei Dieci, forse del Gruppo dei Cento o che so io. E’ normale allora che anche noi creiamo il nostro club e il nostro gruppo. Facciamo in modo che a partire da oggi anche Addis Abeba diventi la sede, il centro da cui partirà il vento nuovo del Club di Addis Abeba. Abbiamo il dovere di creare oggi il fronte unito di Addis Abeba contro il debito. E’ solo così che potremo dire, oggi, che rifiutando di pagare non abbiamo intenzioni bellicose ma, al contrario, intenzioni fraterne.Del resto, le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune. Quindi il club di Addis Abeba dovrà dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato. Quando diciamo che il debito non sarà pagato non vuol dire che siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola. Noi pensiamo di non avere la stessa morale degli altri. Tra il ricco e il povero non c’è la stessa morale. La Bibbia, il Corano, non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano. Non possiamo accettare che ci parlino di dignità. Non possiamo accettare che ci parlino di merito per quelli che pagano, e perdita di fiducia per quelli che non dovessero pagare. Noi dobbiamo dire, al contrario, che oggi è normale si preferisca riconoscere come i più grandi ladri siano i più ricchi.Un povero, quando ruba, non commette che un peccatucolo per sopravvivere e per necessità. I ricchi sono quelli che rubano al fisco, alle dogane. Sono quelli che sfruttano il popolo. Signor presidente, non è quindi provocazione o spettacolo. Dico solo ciò che ognuno di noi pensa e vorrebbe. Chi non vorrebbe, qui, che il debito fosse semplicemente cancellato? Quelli che non lo vogliono possono subito uscire, prendere il loro aereo e andare dritti alla Banca Mondiale a pagare! Non vorrei poi che si prendesse la proposta del Burkina Faso come fatta da “giovani”, senza maturità ed esperienza. Non vorrei neanche che si pensasse che solo i rivoluzionari parlano in questo modo. Vorrei semplicemente che si ammettesse che è una cosa oggettiva, un fatto dovuto. E posso citare, tra quelli che dicono di non pagare il debito, dei rivoluzionari e non, dei giovani e degli anziani. Per esempio Fidel Castro ha già detto di non pagare. Non ha la mia età, anche se è un rivoluzionario. Ma posso citare anche François Mitterrand, che ha detto che i paesi africani non possono pagare, i paesi poveri non possono pagare. Posso citare la signora primo ministro di Norvegia. Non conosco la sua età e mi dispiacerebbe chiederglielo, è solo un esempio.Vorrei anche citare il presidente Félix Houphouët Boigny. Non ha la mia età, eppure ha dichiarato pubblicamente che, quanto al suo paese, la Costa d’Avorio, non può pagare. Ma la Costa d’Avorio è tra i paesi che stanno meglio in Africa, almeno nell’Africa francofona. E per questo, d’altronde, è normale che paghi un contributo maggiore, qui. Signor presidente, la mia non è quindi una provocazione. Vorrei che molto saggiamente lei ci offrisse delle soluzioni. Vorrei che la nostra conferenza adottasse la risoluzione di dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito. Non in uno spirito bellicoso, bellico. Questo per evitare di farci assassinare individualmente. Se il Burkina Faso da solo rifiuta di pagare il debito, io non sarò qui alla prossima conferenza! Invece, col sostegno di tutti, di cui ho molto bisogno, col sostegno di tutti potremo evitare di pagare. Ed evitando di pagare potremo consacrare le nostre magre risorse al nostro sviluppo.E vorrei terminare dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma, è contro un africano. Non contro un europeo, non contro un asiatico. E’ contro un africano. Perciò dobbiamo, anche sulla scia della risoluzione sul problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi. Sono militare e porto un’arma. Ma, signor presidente, vorrei che ci disarmassimo. Perché io porto l’unica arma che possiedo. Altri hanno nascosto le armi che pure portano. Allora, cari fratelli, col sostegno di tutti, potremo fare la pace a casa nostra. Potremo anche usare le sue immense potenzialità per sviluppare l’Africa, perché il nostro suolo e il nostro sottosuolo sono ricchi. Abbiamo abbastanza braccia e un mercato immenso, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Abbiamo abbastanza capacità intellettuali per creare, o almeno prendere la tecnologia e la scienza in ogni luogo dove si trovano.Signor presidente, facciamo in modo di realizzare questo fronte unito di Addis Abeba contro il debito. Facciamo in modo che, a partire da Addis Abeba, decidiamo di limitare la corsa agli armamenti tra paesi deboli e poveri. I manganelli e i machete che compriamo sono inutili. Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa. Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo, invece di importarlo. Il Burkina Faso è venuto a mostrare qui la cotonella, prodotta in Burkina Faso, tessuta in Burkina Faso, cucita in Burkina Faso per vestire i burkinabé. La mia delegazione e io stesso siamo vestiti dai nostri tessitori, dai nostri contadini. Non c’è un solo filo che venga d’Europa o d’America. Non faccio una sfilata di moda, ma vorrei semplicemente dire che dobbiamo accettare di vivere africano. E’ il solo modo di vivere liberi e degni.(Thomas Sankara, estratto dal “discorso sul debito” pronunciato al vertice panafricano di Addis Abeba, Etiopia, il 29 luglio 1987. Un anno dopo, il 28 ottobre, Sankara verrà assassinato a Ouagadougu, capitale del Burkina Faso, che quattro anni prima aveva liberato, con la sua rivoluzione, dal colonialismo francese. Il presidente dell’Organizzazione per l’Unità Africana, cui Sankara si rivolge nel discorso, è il congolese Denis Sassou-Nguesso, mentre la citata premier norvegese è Gro Harlem Brundtland, progressista e ambientalista. Riletto oggi, il celebre discorso di Sankara – martire socialista della sovranità democratica dell’Africa – è particolarmente illuminante, di fronte alla tragedia quotidiana dell’esodo dei migranti africani).Noi pensiamo che il debito si analizzi prima di tutto dalla sua origine. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri Stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali, che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo. Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici – anzi, dovremmo invece dire “assassini tecnici”. Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei “finanziatori”. Un termine che si usa ogni giorno, come se ci fossero degli uomini che solo “sbadigliando” possono creare lo sviluppo degli altri. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più.
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Buoni propositi: le velleità dei 5 Stelle su Ue, Nato, mondo
Ancora incerto, il programma dei 5 Stelle. Ma forse un po’ meno vago, dopo la consultazione online che, secondo il blog di Grillo, attraverso la piattaforma “Rousseau” ha coinvolto quasi 25.000 iscritti, impegnati a esprimersi sulle linee generali da seguire in politica estera. Un’apertura di credito proviene da una fonte critica come “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e mostra un cauto interesse per il verdetto dei grillini: «Sicuramente non è un programma che piacerà all’establishment, alla Nato e all’Unione Europea che ha ingranato la quarta sul piano delle spese militari». Visto così, secondo “Contropiano”, il mondo entro cui dovrebbe articolarsi la politica estera del M5S «appare in aperta controtendenza con quella con cui i governi italiani di destra o centro-sinistra hanno ingabbiato e reso subalterno il paese nei decenni scorsi». Beninteso: «La politica estera del M5S non annuncia rotture, né verso la Nato né verso l’Unione Europea», ovviamente. Eppure, «parla di “adeguamento” della prima e di “riforma” della seconda». Per il newsmagazine “comunista”, si tratta di «un velleitarismo moderato che in qualche modo alimenta l’idea che tali apparati possano essere “riformati” sulle base di buone ragioni».Sulla Nato, 4.547 grillini “votano” per un «adeguamento dell’alleanza atlantica al nuovo contesto multilaterale», cioè «in un’ottica esclusivamente difensiva». L’impegno è a sottoporre al Parlamento «un’agenda per il disimpegno dell’Italia da tutte le missioni militari della Nato in aperto contrasto con la lettera e lo spirito dell’articolo 11 della nostra Costituzione». In più, i grillini considerano il territorio italiano «indisponibile per il deposito e il transito di armi nucleari, batteriologiche e chimiche», nonché «per installazioni e addestramenti che ledano la salute degli italiani». Più popolare, nella consultazione interna, la mozione sull’Europa, scelta da 8.529 iscritti. Chiedono «un’Europa senza austerità», per la quale il Movimento 5 Stelle annuncia di voler farsi promotore «di un’alleanza con i paesi dell’Europa del Sud per superare definitivamente le politiche di austerità e rigore, facendo fronte comune per ottenere una profonda riforma dell’Eurozona e dell’Unione Europea».Si tratta di «argomentazioni non dissimili da quelle della sinistra europea», secondo “Contropiano”, che fa notare come «la Grecia di Tsipras le smentisce nei fatti, mentre il mondo non ha ancora notizia di un paese che sia riuscito a modificare la natura della Nato». Ecco il punto: «La vera incognita rimane quella della coerenza tra enunciazioni e fatti». E quello che s’è visto finora nel governo della capitale, da parte dei 5 Stelle, «non induce alla fiducia». Il problema è serio: «Sul piano locale come su quello internazionale, perseguire una rottura dell’esistente presuppone una solidità politica e personale e un impianto di idee consolidato che fino ad oggi non ha dato grandi prove di sé». In cima ai desiderata della base grillina, votato da oltre 10.000 attivisti, campeggia il capitolo “contrasto ai trattati internazionali come Ttip e Ceta” (in realtà il Ttip è tecnicamente defunto, sostituito dal Misds, di cui i 5 Stelle non parlano, così come del Ceta, l’insidioso trattato sulla privatizzazione dei servizi). Seguono il capitolo su “Europa senza austerità” e la voce “ripudio della guerra”. A seguire: “smantellamento della Troika”, “disarmo come premessa alla pace”, “Russia: un partner economico e strategico contro il terrorismo”. In coda: “riformare la Nato”, “risoluzione dei conflitti in Medio Oriente” e “nuovi scenari di alleanze per l’Italia”.In tema di sovranità, si parla di «cooperazione e dialogo tra le popolazioni», sorvolando però sulla forma più essenziale di sovranità, quella monetaria e finanziaria. Quallo allo “smantellamento della Troika”, il M5S sfodera toni bellicosi nella forma ma pletorici, innocui nella sostanza. Annuncia che «si opporrà in ogni modo a tutti quei ricatti dei mercati e della finanza internazionale travestiti da “riforme”», senza spiegare cosa opporrà, in concreto, al potere di ricatto della finanza privata. «In particolare», aggiunge la nota, il Movimento 5 Stelle «si impegnerà allo smantellamento del Mes (Fondo “Salva Stati”) e della cosiddetta “Troika”, organismi sovranazionali che hanno appaltato la democrazia delle popolazioni imponendo, senza nessun mandato popolare, le famigerate “rigorose condizionalità”», cioè le misure imposte dall’euro (di cui i 5 Stelle continuano a non parlare).Ai seguaci di Grillo, il menù “politica estera” è stato presentato direttamente dal leader, via web, mediante proposte già preconfezionate: solo su quelle era possibile pronunciarsi. Testi “facili” e infarciti di annunci poco impegnativi, del tipo: «Combatteremo in ogni sede possibile le pratiche oggi utilizzate dalle multinazionali per eludere il fisco mediante “triangolazioni internazionali”». Addirittura, i grillini aggiungono che “lavoreranno” «per la riforma dell’architettura finanziaria internazionale», aumentando a tal fine «la cooperazione con tutti quegli organismi, come il G7 più Cina, che si impegnano in questa direzione». Niente di pratico, insomma, per affrontare – per le corna – il toro della crisi europea, incarnato dalla privatizzazione della moneta. Nonostante la sua vaghezza, comunque, “Contropiano” non cestina la possibile agenda dei grillini, sforzandosi di scorgervi il bicchiere mezzo pieno: «Se su questo programma di politica estera il M5S mostrerà coerenza e conseguenza – scrive il newsmagazine – sarebbe indubbiamente un cambio di passo significativo per il dibattito pubblico sul nostro paese e le sue relazioni con il mondo».Ancora incerto, il programma dei 5 Stelle. Ma forse un po’ meno vago, dopo la consultazione online che, secondo il blog di Grillo, attraverso la piattaforma “Rousseau” ha coinvolto quasi 25.000 iscritti, impegnati a esprimersi sulle linee generali da seguire in politica estera. Un’apertura di credito proviene da una fonte critica come “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e mostra un cauto interesse per il verdetto dei grillini: «Sicuramente non è un programma che piacerà all’establishment, alla Nato e all’Unione Europea che ha ingranato la quarta sul piano delle spese militari». Visto così, secondo “Contropiano”, il mondo entro cui dovrebbe articolarsi la politica estera del M5S «appare in aperta controtendenza con quella con cui i governi italiani di destra o centro-sinistra hanno ingabbiato e reso subalterno il paese nei decenni scorsi». Beninteso: «La politica estera del M5S non annuncia rotture, né verso la Nato né verso l’Unione Europea», ovviamente. Eppure, «parla di “adeguamento” della prima e di “riforma” della seconda». Per il newsmagazine “comunista”, si tratta di «un velleitarismo moderato che in qualche modo alimenta l’idea che tali apparati possano essere “riformati” sulle base di buone ragioni».
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Incubo Fema: fronteggiare 6 milioni di ’superstiti’. Da cosa?
Campi di detenzione e soccorso, scorte di sopravvivenza, decine di migliaia di soldati addestrati alla guerra domestica, antisommossa. E poi enormi concentrazioni di mezzi blindati, caricati su treni. E persino bare multiple, per milioni di persone, dislocate negli Usa. Voci che sul web si riconcorrono da anni e si vanno infittendo, come segnala Gabriele Lombardo, che su “Seven Network” parla della Fema, la Federal Emergency Management Agency, e della «mega emergenza, tra campi, bare, scorte, mezzi e altre stanezze», attorno al presunto iper-attivismo della protezione civile americana. Fonti? Esclusivamente «in rete, tra siti governativi, di protesta contro i campi, e notizie che arrivano da tutti i fronti (compresi video che ci mostrano queste zone con riprese aeree)». Fantasie? Incubi? Nel romanzo “La strada”, Cormac McCarthy mette in scena gli ultimi superstiti di un’umanità livida e pericolosa, devastata da una catastrofe apocalittica. Qualcuno si sta preparando a qualcosa di simile? «Ormai – scrive Lombardo – sono anni che sentiamo parlare di campi di concentramento e detenzione, dell’acquisto di bare a sei posti, di intere aree di cimiteri, di razioni liofilizzate a milioni, mezzi speciali. Ma di cosa stiamo parlando, realmente?».La domanda: «Cosa c’è in moto, e a cosa servono tutti questi preparativi ed accantonamenti di materiale? A cosa servono tutti questi campi e l’approvvigionamento di scorte alimentari e di beni di prima necessità, soccorso, sopravvivenza e via discorrendo?». “Seven Network” individua tre tipologie di “campi” sul territorio Usa: «Il primo tipo, in effetti, come dicono le voci complottistiche, sembra un campo di prigionia classico, il secondo sembra un campo di protezione e il terzo sembra addirittura un agglomerato urbano indipendente». Nel campo di primo tipo, «già visto nei “lager”e “gulag” rispettivamente tedeschi e sovietici», l’area è delimitata da cerchi concentrici di filo spinato militare, invalicabile. Nella seconda tipologia, invece, «non ci sono le sporgenze con il filo spinato dal lato interno, cosa che dimostra che è chi sta dentro a dover essere protetto da chi invece sta fuori dal campo». L’ospite, protetto con torrette e postazioni per mitragliatrici, «non viene considerato un possibile fuggitivo-prigioniero o una minaccia». Nel terzo tipo di campi Fema, poi, non ci sono nemmeno recinzioni vere e proprie. Al suo interno, anziché baracche in legno come nei precedenti, si trovano mezzi bianchi, camper e roulotte, oppure case prefabbricate antivento, anche’esse bianche, dotate di ogni comfort e circondate da canali idrici e aree coltivabili.«Negli ultimi due tipi di campi di cui abbiamo parlato, è presente una struttura centrale fortificata che sembra essere costruita per la difesa urbana estrema, e soprattutto nel caso dei campi di protezione (i terzi descritti), la fortificazione interna sembra poter ospitare per giorni molti civili e militari, dove check-point con tanto di ingressi con sbarre rotanti automatizzate e cemento armato ovunque, impediscono l’ingresso a chi non ha permessi per entrare». Per Lombardo, sembra di osservare «un tipico punto di controllo e smistamento persone delle aree a rischio terrorismo, guerra urbana e rivolte armate, come quelli già visti nello Stato d’Israele o dopo le guerre di Afghanistan e Iraq». Deduzione: «È probabile che i tre tipi di campi abbiano tre scopi differenti», come se il governo avesse «preparato vari tipi di piani di emergenza per tipi differenti di situazione». I documenti di emergenza della protezione civile statunitense contemplano «terremoti devastanti, eruzioni vulcaniche cataclismatiche, attacchi terroristici nucleari, epidemie incontrollabili, pandemie globali, guerra chimica e batteriologica, impatto di una grande meteora, multi-impatto meteoritico, mega-tsunami, black-out totale prolungato, militarizzazione del sistema con legge marziale, impiego dell’esercito per disarmo forzato dei civili, e tanto altro ancora».In effetti, aggiunge “Seven Network”, è possibile che in ogni zona degli Stati americani sotto un unico comando abbiano creato strutture differenti sul territorio per diverse situazioni verificabili, «e questo spiegherebbe in buona parte anche l’incredibile dislocamento e concentramento in punti precisi di mezzi militari, di mezzi da escavazione, di gruppi elettrogeni, potabilizzatori di acqua, e molti altri veicoli». Non va dimenticato che negli Usa ci sono altissimi rischi di cataclisma: uragani, inondazioni e tifoni. Dunque, «alcune procedure del Fema, così come alcuni assembramenti di mezzi, potrebbero essere giustificate». A inquietare, ovviamente, sono i numeri: perché tante bare? «Alcune fonti», sempre su web, «parlano di 500.000 bare da 6 posti ciascuno, ovvero contenitori per tre milioni di corpi», mentre «altre fonti» (non precisate) parlano addirittura di 6 milioni di bare “multiple”, cioè riservate a 36 milioni di corpi. Le classiche “fake news”? Un risvolto non verificabile, né confermato da nessuna fonte ufficiale, riguarda le voci del “sequestro”, da parte dell’esercito, di intere aree cimiteriali. Più precise invece le informazioni sulle bare, in materiale plastico, prodotrte dall’azienda Polyguard & Co che si occupa specificatamente di bare “sicure”, asettiche ed ermetiche, al riparo da infiltrazioni di qualsiasi genere.«Un’altra stranezza assurda – aggiunge Lombardo – è l’acquisto da parte di alcuni Stati americani di ghigliottine automatiche; risulta infatti, da documenti, che alcuni Stati ne hanno comprate per un totale di 200 unità, e questo apre scenari sconcertanti ed enigmatici». Altra “stranezza”, «l’acquisto di migliaia di mezzi antisommossa, e l’addestramento da parte del governo Usa di oltre 30.0000 soldati in guerra urbana». Tra le priorità dell’addestramento ci sarebbero «l’irruzione in casa, il blocco di persone in fuga, il disarmo con uso della forza dei civili, l’abbattimento di persone che minacciano i militari o altri civili con armi, le irruzioni elicotteristiche su circuito urbano e in mezzo al traffico autostradale, il trasporto e la scorta di gruppi di civili con mezzi blindati e treni speciali, l’uso di munizioni ad ogiva forata». “Seven Network” riferisce di esercitazioni a Houston e Los Angeles, dove «gli elicotteri hanno terrorizzato le persone bloccate in autostrada durante un’esercitazione sparando munizioni a salve», nei primi mesi del 2013. «In questi episodi, si simulava un’incursione sopra i civili incolonnati e bloccati in autostrada».Altre esercitazioni si sarebbero svolte «in città degli Stati del Sud», dove i militari in assetto antiterrorismo «irrompevano in abitazioni civili per snidare uomini armati che facevano resistenza». Poi c’è la grande concentrazione di mezzi, cresciuta a dismisura sotto la presidenza Obama: «Le testimonianze di persone che hanno parlato attraverso i media o principalmente divulgato informazioni in rete attraverso foto e video, hanno largamente dimostrato la presenza di mezzi militari antisommossa non solo statunitensi ma anche di altre nazioni in molte città americane, di mezzi militari da difesa e combattimento schierati nel deserto del Nevada e in quello della California, di intere caserme e aree adiacenti a quelle metropolitane». Si parla di «quantità incredibili di pale meccaniche, gruppi elettrogeni, camion da trasporto materiali, ruspe, potabilizzatori d’acqua, mezzi per il monitoraggio dell’inquinamento, per le telecomunicazioni satellitari e tanti altri tipi di velivoli strani ed inconsueti». Quanto all’accumulo di provviste, si stima possa servire a milioni di persone, con anche «kit medici, acqua potabile, coperte termiche, cibo in scatola», il tutto destinato a “superstiti”.Secondo Lombardo, «i campi Fema possono ospitare 42-48 milioni di persone, le bare e le sepolture della stessa agenzia ne possono ospitare 6-36 milioni a seconda del reale numero, le scorte di sopravvivenza sono calcolate per 6 milioni di superstiti, quelle di cibo se consideriamo i 10 giorni di razionamento a persona (tre pasti giornalieri ciascuno come specificato proprio dall’ente governativo) abbiamo pasti per più di 6 milioni di superstiti». Lombardo considera “gonfiato” il numero di persone ospitabili nei campi: «Considerando la quantità di campi presenti negli Stati Uniti e la loro grandezza, e non per ultimo il numero approssimativo di strutture al loro interno, possiamo certamente scendere a circa 6 milioni di persone». E quindi: 6 milioni di superstiti, reclusi-ospiti-protetti, da sfamare e da seppellire? «Sarà solo una teoria strampalata oppure è una concreta possibilità?».Campi di detenzione e soccorso, scorte di sopravvivenza, decine di migliaia di soldati addestrati alla guerra domestica, antisommossa. E poi enormi concentrazioni di mezzi blindati, caricati su treni. E persino bare multiple, per milioni di persone, dislocate negli Usa. Voci che sul web si riconcorrono da anni e si vanno infittendo, come segnala Gabriele Lombardo, che su “Seven Network” parla della Fema, la Federal Emergency Management Agency, e della «mega emergenza, tra campi, bare, scorte, mezzi e altre stranezze», attorno al presunto iper-attivismo della protezione civile americana. Fonti? Esclusivamente «in rete, tra siti governativi, di protesta contro i campi, e notizie che arrivano da tutti i fronti (compresi video che ci mostrano queste zone con riprese aeree)». Fantasie? Incubi? Nel romanzo “La strada”, Cormac McCarthy mette in scena gli ultimi superstiti di un’umanità livida e pericolosa, devastata da una catastrofe apocalittica. Qualcuno si sta preparando a qualcosa di simile? «Ormai – scrive Lombardo – sono anni che sentiamo parlare di campi di concentramento e detenzione, dell’acquisto di bare a sei posti, di intere aree di cimiteri, di razioni liofilizzate a milioni, mezzi speciali. Ma di cosa stiamo parlando, realmente?».
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Proteste al soldo dell’1%, per deporre Trump (o ucciderlo)
Delegittimare Trump serve a indebolirlo, per poi magari arrivare a ucciderlo. Milioni di americani in piazza contro di lui? Non capiscono il pericolo che corrono: sono manipolati da organizzazioni criminali, le stesse che hanno organizzato il golpe in Ucraina pagando manifestanti (anche non ucraini) per abbattere il governo regolarmente eletto. I “progressisti” che contestano la vittoria di Trump, firmando la petizione eversiva di “Change.org” che chiede ai grandi elettori di scippare il risultato elettorale facendo eleggere Hillary presidente? Sono gli stessi che, ieri, condannavano Trump quando disse che non avrebbe accettato un verdetto elettorale a lui contrario, se fossero emersi sospetti di irregolarità. Quello che non comprendono, i manifestanti anti-Trump, è che stanno lavorando per l’oligarchia, per il famigerato 1% che aveva imposto Hillary come unica scelta possibile, con il concorso criminoso di tutti i grandi media. Questi i ragionamenti che un analista di primo piano come Paul Craig Roberts propone, di fronte alle clamorose agitazioni post-elettorali. Roberts cita il sociologo progressista Arthur Schlesinger Jr., che avvertiva: tutti i grandi scossoni «provocano sempre rabbia da parte di chi traeva profitto dal vecchio ordine». E Marx chiariva: nessuna rivoluzione ha successo, se la vecchia classe dirigente resta al suo posto.Per Craig Roberts, la colossale manipolazione in corso per tentare di “scippare” a Trump la vittoria è pericolosa, perché mina la tenuta democratica degli Stati Uniti – paese su cui pesano ombre gigantesche, dal coinvolgimento di settori dell’intelligence negli omicidi eccellenti della storia (i Kennedy, Martin Luther King) alle “inspiegabili” falle nella sicurezza in occasione di tutti i grandi attentati, dall’11 Settembre in poi. Tradotto: Donald Trump – chiunque sia davvero, politicamente – non può non sapere di essere in serio pericolo: potrebbe essere travolto dalle proteste o ricattato dagli organizzatori della “rivolta”, affinché accetti di “prendere a bordo” gli uomini-chiave di Hillary. E’ per loro, in ogni caso, che i manifestanti anti-Trump lavorano: alla guida della rivolta ci sono «teppisti prezzolati, pagati dall’oligarchia», proprio come «Washington e il German Marshall Fund pagarono gli studenti di Kiev per contestare il governo ucraino democraticamente eletto al fine di preparare il colpo di Stato». L’organizzazione “Change.org”, secondo Craig Roberts «sta distruggendo la reputazione di tutti i progressisti facendo circolare una petizione per chiedere all’Electoral College di annullare le elezioni».Tutto già visto nel 2014 a Kiev, dove «la paga era abbastanza buona da attirare persone che non erano nemmeno ucraine ma erano pagate per protestare come se lo fossero». Ci risiamo? Per la “Cnn”, moltissimi americani rifiutano di accettare la vittoria di Trump, e così hanno riempito le strade in non meno di 25 città statunitensi, dall’oggi al domani. «Spero che nessuno creda veramente che proteste simultanee in 25 città siano un evento spontaneo», sottolinea Craig Roberts nel suo blog, in un post ripreso da “Megachip”. «Gli stessi slogan e gli stessi simboli, la notte stessa dopo le elezioni? Quali interessi stanno servendo? E, come sempre si chiedevano gli antichi romani, “cui prodest”? C’è solo una risposta: l’oligarchia e solo l’oligarchia ne trae beneficio». La lettura di Roberts: «Trump è una minaccia per l’oligarchia, perché intende fermare la svendita all’estero dei posti di lavoro americani. Questa svendita, santificata come “libero mercato” dagli economisti-spazzatura neoliberisti, è una delle ragioni principali del peggioramento nel XXI secolo della distribuzione del reddito negli Usa».In altre parole, «i soldi che erano pagati come salario e stipendi per la classe media a impiegati dell’industria manifatturiera americana e ai diplomati, sono stati dirottati nelle tasche dell’Uno Percento. Quando le corporation americane spostano la loro produzione di merci e servizi venduti agli americani, nei paesi asiatici come la Cina e l’India, il loro costo in stipendi crolla. I soldi prima pagati come reddito per la classe media diventano invece bonus per gli executive, dividendi e profitti sui capitali per gli azionisti». Risultato: «La scala per la mobilità verso l’alto che ha fatto dell’America la terra delle opportunità è stata smantellata per il solo obiettivo di rendere multimiliardaria una manciata di persone». Inotre, Trump è «una minaccia per l’oligarchia», anche perché «vuole relazioni pacifiche con la Russia». Tutto si spiega: «Per rimpiazzare la tanto profittevole “minaccia sovietica”, l’oligarchia e i loro agenti neocon hanno lavorato incessantemente per creare la “minaccia russa” demonizzando la Russia». Craig Roberts sa di cosa parla: era al governo con Reagan, di cui è stato viceministro del Tesoro. «Abituato a molti decenni di profitti in eccesso dalla profittevole Guerra Fredda, il complesso militare-securitario si arrabbiò quando il presidente Reagan mise fine alla Guerra Fredda. Prima che queste idrovore di contribuenti americani riuscissero a prolungare la Guerra Fredda, l’Unione Sovietica collassò come risultato del colpo di Stato della destra contro il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov».Al che, continua Craig Roberts, «il complesso militare-securitario e i suoi agenti neocon e sionisti cucinarono allora la “guerra al terrore” per continuare a far fluire i soldi all’Uno Percento. Ma per quanto duramente lavorassero i media “presstitute” per creare la paura del “pericolo musulmano”, persino gli americani indifferenti sapevano che i musulmani non possiedono migliaia di missili intercontinentali con testate termonucleari capaci di distruggere gli interi Stati Uniti in pochi minuti». Non ce l’avevano, i musulmani, «l’Armata Rossa capace di invadere l’Europa in un paio di giorni». Di fatto, i musulmani non avevano neppure bisogno di armate: «I rifugiati dalle guerre scatenate da Washington stanno invadendo l’Europa». Caduta l’Urss, comunque, «la scusa per il trilione di dollari annuale per il complesso militare-industriale non c’era più. Così l’oligarchia creò il “nuovo Hitler” in Russia. Hillary fu il principale agente dell’oligarchia per surriscaldare la nuova Guerra Fredda. Hillary è lo strumento, arricchito dall’oligarchia, il cui lavoro da presidente sarebbe stato quello di proteggere e aumentare il budget da un trilione di dollari al complesso militare-securitario. Con Hillary alla Casa Bianca, il saccheggio dei contribuenti americani, in nome dell’opulenza dell’Uno Percento, sarebbe andato avanti senza ostacoli. Ma se Trump mette fine alla “minaccia russa”, la rendita dell’oligarchia si prende un bel colpo».Inoltre, le proteste contro Trump sono sospette anche per un altro motivo: «Al contrario di Hillary, Obama e George W. Bush, Donald Trump non ha fatto a pezzi e disperso milioni di persone in sette nazioni, mandando milioni di rifugiati delle guerre dell’oligarchia a invadere l’Europa». Trump ha fatto fortuna «senza vendere l’influenza del governo degli Usa ad agenti stranieri, come invece hanno fatto Bill e Hillary». E allora, perché stanno protestando i contestatori? «Sono stati ingaggiati per protestare. Così come i contestatori di Maidan a Kiev erano ingaggiati per protestare dalle Ong finanziate dagli Usa e dalla Germania». In Ucraina, gli Usa riuscirono a infiltrare i loro agenti nel nuovo governo ucraino, così come ha confermato Victoria Nuland, una neocon piazzata al Dipartimento di Stato da Hillary Clinton col proposito di creare un conflitto con la Russia. Dunque, conclude Paul Craig Roberts, l’esplosione della protesta anti-Trump dimostra che l’oligarchia lo teme davvero, anche se «alcuni pensano che Trump sia uno stratagemma dell’oligarchia». Non ha senso: visto l’investimento su Hillary, per gli oligarchi era preferibile «vincere con la propria piattaforma», anziché «installare un presidente con una piattaforma opposta e poi cercare di rivoltarselo», anche perché «un’altra svendita aumenterebbe la rabbia del popolo».La dura verità, però, è che «Trump ha vinto la presidenza, ma l’oligarchia è ancora al potere», e questo «rende difficile ogni riforma». Aggiunge Craig Roberts: Marx comprese dall’esperienza storica un drammatico insegnamento che poi Lenin e Stalin impararono da lui. E cioè: «Il cambiamento non può avere successo se la classe dirigente scalzata è lasciata intatta dopo una rivoluzione contro di essa». Lo dimostra il Sud America: «Ogni rivoluzione degli indigeni ha lasciato senza fastidi la classe dirigente, e ogni rivoluzione è stata sconfitta dalla collusione tra la classe dirigente e Washington», che «ha cospirato con le élite tradizionali per rimuovere i presidenti eletti», come accaduto in Honduras «moltissime volte». Di recente, Washington «ha aiutato le élite a rimuovere le presidentesse dell’Argentina e del Brasile». I presidenti del Venezuela, dell’Ecuador e della Bolivia «sono a mezz’aria e probabilmente non sopravvivranno». In più, l’oligarchia «è determinata a mettere le mani su Julian Assange», il fondatore di Wikileaks. «A tal fine Washington intende abbattere il governo dell’Ecuador che, a scorno di Washington, ha dato a Julian Assange asilo politico». Ancora più cruento lo scontro in Venezuela, dove – secondo Craig Roberts – il presidente socialista Hugo Chavez è stato addirittura assassinato. Il suo errore? Aver graziato i golpisti che avevano cospirato contro di lui.«Secondo Marx, Lenin e Stalin, questo è il classico errore per un rivoluzionario: contare sulla buona volontà da parte della classe dirigente scalzata è il modo più sicuro per lasciar sconfiggere la rivoluzione». Secondo Craig Roberts, l’America Latina si è dimostrata incapace di capire questa lezione: le rivoluzioni non possono essere concilianti. Donald Trump? «E’ un uomo d’affari. L’oligarchia gli può permettere l’aura del successo in cambio di nessun cambiamento reale». Intendiamoci: «Trump non è perfetto. Potrebbe fallire da solo. Ma noi lo sosterremo sui suoi due punti del suo programma più importanti: ridurre le tensioni tra le due maggiori potenze nucleari e bloccare la politica di Washington che permette al globalismo di distruggere le prospettive economiche degli americani», insiste Craig Roberts. «La combinazione di un’economia svuotata dal globalismo ed immigrazione è un incubo. Che Trump lo abbia capito è una ragione per sostenerlo». E per temere per la sua incolumità: «Una volta che il presidente Trump sarà delegittimato, sarà facile per l’oligarchia assassinarlo, a meno che l’oligarchia possa nominare e controllare il suo governo». Per ora, comunque, «Trump è il primo candidato per un assassinio».Delegittimare Trump serve a indebolirlo, per poi magari arrivare a ucciderlo. Decine di migliaia di americani in piazza contro di lui? Non capiscono il pericolo che corrono: sono manipolati da organizzazioni criminali, le stesse che hanno organizzato il golpe in Ucraina pagando manifestanti (anche non ucraini) per abbattere il governo regolarmente eletto. I “progressisti” che contestano la vittoria di Trump, firmando la petizione eversiva di “Change.org” che chiede ai grandi elettori di scippare il risultato elettorale facendo eleggere Hillary presidente? Sono gli stessi che, ieri, condannavano Trump quando disse che non avrebbe accettato un verdetto elettorale a lui contrario, se fossero emersi sospetti di irregolarità. Quello che non comprendono, i manifestanti anti-Trump, è che stanno lavorando per l’oligarchia, per il famigerato 1% che aveva imposto Hillary come unica scelta possibile, con il concorso criminoso di tutti i grandi media. Questi i ragionamenti che un analista di primo piano come Paul Craig Roberts propone, di fronte alle clamorose agitazioni post-elettorali. Roberts cita il sociologo progressista Arthur Schlesinger Jr., che avvertiva: tutti i grandi scossoni «provocano sempre rabbia da parte di chi traeva profitto dal vecchio ordine». E Marx chiariva: nessuna rivoluzione ha successo, se la vecchia classe dirigente resta al suo posto.
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Trump spaventa l’élite della guerra: deve morire, come Jfk
«Donald Trump è entrato in una “kill zone” politica: l’establishment statunitense si sta allineando per eliminarlo». Trump farà la fine di John Fitzgerald Kennedy. Solo che, stavolta, non serviranno pallottole vere: basteranno quelle, virtuali, “sparate” dai media, che rispondono agli ordini dello “Stato Profondo”, cioè il vertice finanziario, l’élite di Wall Street, il Pentagono e i suoi terminali di intelligence, Fbi e Cia. Lo sostiene il britannico Finian Cunningham, osservatore indipendente, già autore di editoriali per il “Mirror”, l’“Irish Times” e l’“Independent”. «Al giorno d’oggi, l’assassinio politico ad opera dell’autorità costituita non comporta necessariamente la liquidazione fisica di un individuo ritenuto un nemico dello Stato», specie se «la diffamazione di un personaggio pubblico raggiunge lo stesso risultato desiderato, vale a dire l’eliminazione del bersaglio dalla scena pubblica». Ma a impressionate Cunningham è l’inquietante parallelismo con Kennedy: anche Trump, infatti (sia pure a suo modo) si candida a interpretare un cambio di rotta radicale, all’insegna della “fine delle ostilità”: smobilitazione dell’Isis e pace con la Russia.«È ovvio che il potere costituito di Washington ha deciso di fare della rivale democratica Hillary Clinton la scelta da preferire per proteggere i loro interessi privilegiati», scrive Cunningham su “Sputnik News”, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. Diffamando l’antagonista Trump, i media mainstream divengono «complici dell’assassinio del suo personaggio agli occhi dell’opinione pubblica» Ed è il colmo, aggiunge Cunningham, «dato che ci sono storie molte più sordide sul conto della Clinton», coinvolta fino al collo nella strategia della tensione varata a livello internazionale dall’oligarchia neo-aristocratica statunitense: propaganda di guerra, operazioni clandestine volte ad un cambio di regime, nonché abuso del segreto di Stato per accrescere il proprio prestigio grazie a risorse finanziarie di provenienza estera. Secondo Cunningham, il punto è che la campagna di discredito per annientare Trump dimostra una volontà di «liquidazione politica», specialità «in cui la plutocrazia statunitense eccelle», fino a ieri anche con il ricorso sistematico all’omicidio, «l’effettiva uccisione del bersaglio».Il caso più noto è quello di Kennedy, assassinato a Dallas il 22 novembre 1963. In quel periodo, ricorda Cunningham, diversi altri leader politici stranieri vennero assassinati da agenti di Stato americani, inclusi Patrice Lumumba in Congo, Rafael Trujillo nella Repubblica Dominicana e Ngo Dinh Diem nel Vietnam del Sud. «L’assassinio politico era e continua ad essere la norma, in America». L’allora procuratore di New Orleans, Jim Garrison, che indagò sull’assassinio di Jfk, «sostenne che la ragione primaria per il suo assassinio era che il presidente stava lavorando per portare a conclusione la Guerra Fredda con la Russia: Kennedy stava utilizzando in sordina un canale riservato con la controparte russa Nikita Krushev per implementare piani ambiziosi per il disarmo nucleare». In più, aggiunge Cunningham, Jfk aveva nettamente bocciato le proposte segrete presentate dal Pentagono per un’azione nucleare preventiva ai danni dell’Unione Sovietica. E stava anche chiudendo con le operazioni terroristiche finanziate dalla Cia contro Cuba, preparando il ritiro delle truppe americane dalla nascente guerra in Vietnam.«In questo modo Kennedy era entrato nella “kill zone” politica per quel che riguardava il potente e non-eletto Stato Profondo. Le sue politiche stavano minacciando gli enormi interessi delle imprese degli armamenti militari, le grandi compagnie petrolifere e l’alta finanza di Wall Street. Quindi la Cia e i suoi killer a contratto vennero schierati per eliminare il problema». Oggi tocca a Trump? “The Donald” ha due aspetti in comune con Jfk, scrive Cunningham: «Come Kennedy, il magnate ha grosse disponibilità economiche, il che lo mette in condizione di parlare apertamente, senza il bisogno di doversi ingraziare potenti finanziatori». Il secondo e più importante aspetto è la politica estera: Trump si è ripetutamente scagliato contro l’inarrestabile consolidamento della Nato nell’Europa dell’Est, contro lo schieramento delle truppe americane oltremare e in particolare contro l’ostilità di Washington nei confronti di Mosca. Al contrario, Trump vorrebbe la normalizzazione delle relazioni con la Russia. E così, la sua posizione divenra «un anatema per l’establishment di Washington» che invece richiede, come assoluta necessità, «la demonizzazione delle nazioni straniere come minacce alla sicurezza nazionale, al fine di mantenere la gargantuesca economia militarizzata degli Stati Uniti».In sostanza, insiste Cunningham, lo “Stato Profondo” americano «prospera grazie al perpetuo ricrearsi delle guerre», dove la guerra «è una funzione permanente del fallito capitalismo americano». E questa “disfunzione sistemica” consiste in ciò che era e continua ad essere la Guerra Fredda con la Russia, ovvero «il pompaggio di milioni di dollari nelle casse dell’élite finanziaria e istituzionale, che continua a farla franca nonostante l’imbroglio, grazie ai suoi lacchè che serpeggiano nei canali politici e mediatici». Per questo, «chiunque osi sfidare i potenti interessi americani è esposto all’eliminazione: si entra nella zona di tiro». In passato, i metodi di eliminazione con effetto immediato prevedevano abitualmente l’eliminazione fisica. Cinque decadi dopo il governo Kennedy, continua Cunningham, i metodi di assassinio politico degli Stati Uniti si sono evoluti, divenendo più sofisticati: «Il più delle volte, la diffamazione può dirsi sufficiente. Nessun bisogno di assoldare sicari o invischiarsi in inchieste pubbliche. Saranno i killer mediatici ad occuparsene. Basterà piazzare il bersaglio al centro di un fuoco incrociato di un incessante bombardamento mediatico che non gli lasci scampo». Trump come Putin, un “problema” da eliminare. «Mettere fuori gioco i nemici politici “con effetto immediato” è il metodo americano».«Donald Trump è entrato in una “kill zone” politica: l’establishment statunitense si sta allineando per eliminarlo». Trump farà la fine di John Fitzgerald Kennedy. Solo che, stavolta, non serviranno pallottole vere: basteranno quelle, virtuali, “sparate” dai media, che rispondono agli ordini dello “Stato Profondo”, cioè il vertice finanziario, l’élite di Wall Street, il Pentagono e i suoi terminali di intelligence, Fbi e Cia. Lo sostiene il britannico Finian Cunningham, osservatore indipendente, già autore di editoriali per il “Mirror”, l’“Irish Times” e l’“Independent”. «Al giorno d’oggi, l’assassinio politico ad opera dell’autorità costituita non comporta necessariamente la liquidazione fisica di un individuo ritenuto un nemico dello Stato», specie se «la diffamazione di un personaggio pubblico raggiunge lo stesso risultato desiderato, vale a dire l’eliminazione del bersaglio dalla scena pubblica». Ma a impressionate Cunningham è l’inquietante parallelismo con Kennedy: anche Trump, infatti (sia pure a suo modo) si candida a interpretare un cambio di rotta radicale, all’insegna della “fine delle ostilità”: smobilitazione dell’Isis e pace con la Russia.
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Nucleare-fantasma: bombe in 7 paesi europei, Italia inclusa
Ampiamente documentato: Belgio, Olanda, Germania, Italia e Turchia sono in possesso di armi nucleari che sono dispiegate contro la Russia, l’Iran e altri paesi del Medio Oriente. Lo scrive, su “Global Research”, il professor Michael Chossudovsky, economista dell’università canadese di Ottawa e prezioso osservatore internazionale. Durante i recenti sviluppi, a seguito del fallito colpo di Stato turco del luglio 2016, i media hanno riportato la notizia di armi atomiche, stoccate nella base di Incirlik. La difesa statunitense ha confermato il dispiegamento di 90 cosiddette armi tattiche B61, alcune delle quali sono state poi “decomissionate”. Lo stoccaggio e il dispiegamento delle bombe B61 in questi 5 paesi “non nucleari” ha come obiettivo il Medio Oriente, afferma Chossudovsky. Inoltre, in accordo con il “piano di attacco” predisposto dalla Nato, queste bombe termonucleari (capaci di penetrare e distruggere bunker sotterranei) possono essere lanciate «contro obiettivi come la Russia o nazioni del Medio Oriente, come Iran e Siria», scrive il National Resources Defense Council, nel rapporto “Nuclear Weapons in Europe”.Durante i recenti avvenimenti – scrive sempre Chossudovsky in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte” – la stampa europea, inclusa “Deutsche Welle”, ha confermato il dispiegamento di 50 testate B61 nella base di Incirlik. Ma questo è risaputo moltissimo tempo. «Ci sono voluti 10 anni affinché i media riconoscessero che la Turchia (stato ufficialmente “non nucleare”) possedesse un numero non indifferente di testate nucleari». Le B61 stoccate a Incirlik sono “bombe a gravità” con testate nucleari di una capacità esplosiva di 170 chilotoni, cioè fino a 12 volte la potenza di quella di Hiroshima. «L’accuratezza sul numero esatto di bombe riportate dai media deve essere ancora verificata. Come sappiamo per certo, alcune bombe sono state decommissionate durante gli anni e altre sono state rimpiazzate da una loro versione più recente, tra cui i B61-11. Deve essere sottolineato il fatto che negli ultimi anni il Pentagono ha sviluppato una versione più avanzata del B61, chiamata B61-12, che è in linea per rimpiazzare le versioni vecchie attualmente stoccate in Europa e Turchia. Altre armi nucleari sono in progetto: una testata da un trilione di dollari viene in questo momento contemplata dal Pentagono».Addio al principio di deterrenza, dice Chossudovsky: «Queste cosiddette mini-bombe nucleari esistono per essere usate. Sotto il programma del Pentagono chiamato “Life Extension”, le B61 sono programmate per rimanere operative fino al 2025». Quindi la Turchia è a tutti gli effetti una potenza nucleare non dichiarata? «La risposta è sì, ma ciò si può dire anche di altre quattro nazioni europee: Belgio, Olanda, Germania e Italia, in quanto posseggono bombe B61 dispiegate sotto ordine governativo e aventi come obiettivo la Russia, il Medio Oriente e l’Iran», scrive sempre l’analista canadese. «Lontano dal rendere l’Europa più sicura e meno dipendente da armi nucleari, questo programma rischia di portare più armi nucleari sul suolo europeo e rendere più complicati i tentativi di disarmo multilaterale». Lo ha dichiarato persino l’ex segretario generale della Nato, George Robertson, in una dichiarazione ripresa da “Global Security” già nel 2010. Domande inevitabili: potrebbe l’Italia lanciare un attacco termonucleare? Possono i belgi e olandesi sganciare bombe all’idrogeno su obiettivi nemici? E ancora: può l’aviazione tedesca aver ricevuto un training per effettuare attacchi con bombe 13 volte più potenti di quella di Hiroshima?«Bombe nucleari sono conservate in basi aree in Italia, Belgio, Germania e Olanda», tutti paesi «dotati di forze aeree in grado di usarle», anche secondo “Time Magazine”. Potenze nucleari “fantasma”, accanto alle 5 ufficialmente riconosciute: gli Usa, in Europa la Gran Bretagna e la Francia, quindi la Russia e la Cina. Hanno tutte sottoscritto un trattato di non-proliferazione nucleare. Lo rispettano? Non sembra. Accanto a questi paesi, altre potenze – India e Pakistan, più la Corea del Nord (fuori dal trattato di non-proliferazione) sono state identificate come in possesso di armi nucleari. Tra i “fantasmi”, poi, Chossudovsky annovera anche Israele, «identificato come “Stato nucleare non-dichiarato”». In realtà, scrive il professore, Tel Aviv «produce e dispiega testate nucleari dirette contro obiettivi e militari nel Medio Oriente, inclusa Teheran». Ma, mentre il potenziale iraniano rimane non confermato, quello delle superpotenze atomiche è ben riconosciuto. E gli Usa, aggiunge Chossudovsky, «hanno fornito qualcosa come 480 B61, testate termonucleari», alle nazioni “amiche” e «ufficialmente “non nucleari”».Tra le cinque nazioni nucleari “fantasma”, poi, «la Germania rimane quella in assoluto più nuclearizzata, con tre basi (due delle quali pienamente operative) che potrebbero stoccare fino a 150 testate B61». In accordo con la Nato, queste armi tattiche sono puntate anche in Medio Oriente, scrive Chossudovsky. E la Germania – altra notizia – non è solo un vettore nucleare non dichiarato, ma «produce testate nucleari per la Marina francese». Oltre a ciò, la European Aeronautic Defense and Space Company (Eads) una joint venture franco-ispanico-tedesca controllata dalla Deutsche Aerospace e dal potente gruppo Daimler, «è il secondo più grande produttore di armi europeo, e vende i famosi missili nucleari francesi M51». Tutto questo, naturalmente, con il placet degli Stati Uniti.In altre parole, ignorando le regole dell’Aiea – l’agenzia nucleare delle Nazioni Unite – gli Usa «hanno attivamente contribuito alla proliferazione di armi nucleari». Tant’è vero che «parte integrante dell’arsenale europeo è la Turchia», con le sue 90 testate a Incirlik. Tutto questo – si domanda Chossudovsky – significa che Iran e Russia, potenziali obiettivi di attacco nucleare occidentale, dovrebbero contemplare un “contrattacco nucleare difensivo” contro Belgio, Germania, Olanda, Turchia e Italia? «La risposta è no, neanche ad immaginarlo». Il pericolo viene da una sola parte, la nostra, ribadisce il professore: le potenze nucleari non-dichiarate dell’Europa occidentale hanno continuato per anni a lanciare accuse di vario genere contro Teheran, senza alcuna prova documentata sul “nucleare iraniano”, quando inveve sono loro ad avere la capacità di lanciare un attacco nucleare contro l’Iran. Lo stesso dicasi per le continue minacce nei confronti della Russia di Putin. «Dire che questo è un chiaro esempio di “due pesi e due misure” da parte dell’Aiea e della solita “comunità internazionale” è dire poco».Ampiamente documentato: Belgio, Olanda, Germania, Italia e Turchia sono in possesso di armi nucleari che sono dispiegate contro la Russia, l’Iran e altri paesi del Medio Oriente. Lo scrive, su “Global Research”, il professor Michael Chossudovsky, economista dell’università canadese di Ottawa e prezioso osservatore internazionale. Durante i recenti sviluppi, a seguito del fallito colpo di Stato turco del luglio 2016, i media hanno riportato la notizia di armi atomiche, stoccate nella base di Incirlik. La difesa statunitense ha confermato il dispiegamento di 90 cosiddette armi tattiche B61, alcune delle quali sono state poi “decomissionate”. Lo stoccaggio e il dispiegamento delle bombe B61 in questi 5 paesi “non nucleari” ha come obiettivo il Medio Oriente, afferma Chossudovsky. Inoltre, in accordo con il “piano di attacco” predisposto dalla Nato, queste bombe termonucleari (capaci di penetrare e distruggere bunker sotterranei) possono essere lanciate «contro obiettivi come la Russia o nazioni del Medio Oriente, come Iran e Siria», scrive il National Resources Defense Council, nel rapporto “Nuclear Weapons in Europe”.
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L’Islanda: boicottiamo Israele, per l’Olocausto palestinese
Boicottare Israele, colpevole di genocidio contro i palestinesi. Per la prima volta in Europa, o meglio in tutto l’Occidente, la proposta è sul tavolo di un governo. Ed è appena stata approvata dalla capitale, Reykjavik, su iniziativa della consigliera comunale Björk Vilhelmsdóttir: bloccare l’importazione di tutti i prodotti israeliani (non soltanto i prodotti dei Territori Occupati, ma tutto ciò che proviene dallo Stato ebraico). «Cosa può spingere quest’isola remota, battuta dalle tempeste atlantiche e fisicamente lontana da tutto e tutti, a bandire i prodotti “made in Israel”?», si domanda Giulio Meotti sul “Foglio”. La risoluzione anti-israeliana, scrive, è stata proposta dall’Alleanza socialdemocratica, mentre il leader del Partito dell’Indipendenza, Halldór Halldórsson, ha votato contro, dicendo che «il libero scambio è il modo migliore per ottenere la pace». Durante la guerra a Gaza del 2011, il ministro dell’interno islandese, Ögmundur Jónasson, guidò una protesta di mille persone di fronte all’ambasciata americana a Reykjavik. I manifestanti si erano cosparsi di rosso sangue e il ministro accusò lo Stato ebraico di “olocausto del popolo palestinese”.Immediata (e scontata) la protesta di Tel Aviv, affidata al portavoce del ministero degli esteri, Emanuel Nachson: «Non c’è alcuna ragione o giustificazione per questo provvedimento a parte l’odio in se stesso, che si fa sentire sotto forma di appelli al boicottaggio contro Israele, lo Stato ebraico. Speriamo che qualcuno in Islanda si svegli e fermi questa cieca unilateralità rivolta contro l’unica democrazia del Medio Oriente». E mentre il Congresso ebraico valuta azioni legali contro l’Islanda, la Ong filo-israeliana “Standwithus” ha già lanciato il contro-boicottaggio dei prodotti islandesi. Dal canto suo, il ministro degli esteri islandese, Össur Skarphéinsson, ha annunciato di voler valutare con la massima attenzione la fine dei rapporti commerciali con Gerusalemme: se alla fine deciderà di non procedere, ha dichiarato, sarà soltanto perché l’Islanda intrattiene relazioni anche cone paesi non esattamente democratici, come il Sudan e la Corea del Nord.«Strano paese, l’Islanda», scrive Meotti sul “Foglio”. «Sembra un girone dantesco abitato da rari mufloni. Fatta da sterminati ghiacciai (il Vatnajokull è il più vasto d’Europa), vulcani e geyser, sorgenti minerali fredde e calde, laghi e cascate, deserti e verdi pianori». Un paese dove il termometro non scende mai oltre i cinque gradi sotto zero. «L’Islanda si pregia di essere “il popolo più pacifico d’Europa”. Sull’elenco del telefono, i nomi precedono i cognomi: e i primi sono più importanti, anche legalmente, dei secondi. Una società descritta come “giusta e felice”. Il tenore di vita è alto, senza ricchi né poveri, senza disoccupati, ed è accresciuto dal manto protettivo dello Stato assistenziale scandinavo». Durante la guerra fredda, aggiunge Meotti, si disse che dall’Islanda soffiava il “vento della pace”: era l’epoca degli incontri a Reykjavik fra Reagan e Gorbaciov sui missili. La proposta di boicottaggio contro Tel Aviv equipara dunque Israele a uno Stato-canaglia? «Oggi dall’isola nordeuropea spira un freddo vento antisemita», scrive il giornalista, che – come spesso accade del mainstream – definisce “antisemitismo”, cioè razzismo, l’anti-sionismo di chi non critica gli ebrei, ma la feroce politica del governo israeliano.Contro l’apartheid genocida di Israele, in realtà, si vanno schierando personalità influenti: la decisione di Reykjavik sembra rispondere al clamoroso appello per il boicottaggio lanciato dal leader dei Pink Floyd, Roger Waters. Nell’agosto 2014, dopo l’ultima strage di bambini a Gaza, l’eroe olandese Henk Zanoli, 91enne, è arrivato a restituire il massimo riconoscimento israeliano, quello di “Giusto tra le nazioni”, ottenuto per aver salvato un bambino ebreo durante la Shoah. In quei giorni, il giovane militare di leva Udi Segal preferì finire in carcere piuttosto che sparare sui civili di Gaza. E il più autorevole storico israeliano, Zeev Sternhell, insignito nel 2008 dal Premio Israele per le Scienze Politiche, massima onorihicenza culturale del paese, si è espresso senza mezzi termini: «L’apartheid contro i palestinesi deve finire, il mondo libero isoli Israele». Preso in parola, si direbbe, dall’attuale decisione delle autorità islandesi.Ma il potentissimo pregiudizio filo-sionista è duro a morire: «Si potrebbe suggerire ai pallidi e socialdemocratici islandesi di apporre anche una stella di Davide sulla merce», chiosa Meotti sul “Foglio”, evocando lo spettro più classico, quello del nazismo. Osservazione totalmente fuori luogo, come si evince dall’opera del caposcuola della storiografia israeliana contemporanea, il professor Ilan Pappe, che ha dovuto lasciare il paese dopo i suoi libri in cui spiega che proprio la spietata pulizia etnica, pianificata da Ben Gurion molto prima dell’orrore hitleriano, è il “peccato originale” di Israele, nascosto alla coscienza degli stessi israeliani: molti territori furono infatti strappati ai palestinesi attraverso lo sterminio sistematico della popolazione di interi villaggi, inclusi donne e bambini. Un bilancio di sangue, un abominio regolarmente rimosso. A lungo, in Israele, non è stato neppure diffuso nelle scuole “Se questo è un uomo”, il capolavoro di Primo Levi: com’è noto, lo scrittore non era tenero col regime sionista e denunciò con fermezza i crimini di Tel Aviv contro i profughi palestinesi, a partire dal massacro di Sabra e Chatila in Libano. A lungo, è rimasta isolata la voce dei “refuseniks”, i militari israeliani obiettori di coscienza. Oggi, la decisione di Reykyavik sembra premiare il loro coraggio.Boicottare Israele, colpevole di genocidio contro i palestinesi. Per la prima volta in Europa, o meglio in tutto l’Occidente, la proposta è sul tavolo di un governo. Ed è appena stata approvata dalla capitale, Reykjavik, su iniziativa della consigliera comunale Björk Vilhelmsdóttir: bloccare l’importazione di tutti i prodotti israeliani (non soltanto i prodotti dei Territori Occupati, ma tutto ciò che proviene dallo Stato ebraico). «Cosa può spingere quest’isola remota, battuta dalle tempeste atlantiche e fisicamente lontana da tutto e tutti, a bandire i prodotti “made in Israel”?», si domanda Giulio Meotti sul “Foglio”. La risoluzione anti-israeliana, scrive, è stata proposta dall’Alleanza socialdemocratica, mentre il leader del Partito dell’Indipendenza, Halldór Halldórsson, ha votato contro, dicendo che «il libero scambio è il modo migliore per ottenere la pace». Durante la guerra a Gaza del 2011, il ministro dell’interno islandese, Ögmundur Jónasson, guidò una protesta di mille persone di fronte all’ambasciata americana a Reykjavik. I manifestanti si erano cosparsi di rosso sangue e il ministro accusò lo Stato ebraico di “olocausto del popolo palestinese”.
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Obama fa pace con l’Iran. Smetterà di sostenere l’Isis?
«È sicuramente storico: la diplomazia forse ha vinto». Così anche Pepe Escobar saluta l’accordo tra Usa e Iran, dopo 35 anni di incomunicabilità e le tensioni continue dell’ultimo decennio. Un accordo “epocale”, nei termini del Nuovo Grande Gioco in Eurasia, con «conseguenti scosse tettoniche che riorganizzano la zona». In pratica, l’Iran, supportato da Russia e Cina , «ha finalmente, con successo, scoperto il bluff degli atlantisti – lungo, tortuoso e durato 12 anni – riguardo le proprie “armi nucleari”». Tutto ciò, continua Escobar, è accaduto solo perché l’amministrazione Obama ha bisogno di «almeno un successo di politica estera», nonché di un modo per «provare a influenzare la messa in opera del nuovo ordine geopolitico che ruoterà attorno all’Eurasia». Grande domanda, a questo punto: se gli Usa “sdoganano” Teheran, permettendole di svolgere appieno il suo ruolo di grande potenza regionale, questo significa che Washington si appresta ad abbandonare il sostegno occulto all’Isis, consentendo agli iraniani di sbaragliare sul campo i tagliagole jihadisti annidati in Siria e in Iraq sotto la protezione delle monarchie petrolifere del Golfo?Ci spera Vladimir Putin, super-negoziatore accanto all’Iran, secondo cui l’accordo contribuirà alla lotta al terrorismo in Medio Oriente. Il presidente russo parla di «miglioramento della sicurezza globale e regionale, dato dal rafforzamento dell’accordo di non-proliferazione del nucleare», fino alla eventuale «creazione, in Medio Oriente, di una zona libera da armi di distruzione di massa». Il vero problema, scrive Escobar in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è iniziato quando il ministro degli esteri russo Sergeij Lavrov ha affermato che Mosca si aspetta la cancellazione del piano di difesa missilistica di Washington, dopo che l’accordo con l’Iran ha dimostrato che Teheran non è, e non sarà, una “minaccia” nucleare. «Ecco l’ostacolo. Il Pentagono semplicemente non vuole cancellare una parte della propria dottrina militare “Full Spectrum Dominance”», accampando banali ragioni “diplomatiche”. «Ogni analista di sicurezza non accecato dall’ideologia sa che la difesa missilistica non è mai stata rivolta all’Iran, ma alla Russia. L’ultima analisi militare del Pentagono menziona – non a caso – le maggiori figure asiatiche (Iran, Russia e Cina) come “minacce” alla sicurezza nazionale statunitense».Dal punto di vista delle relazioni Iran-Russia, aggiunge Escobar, il commercio è destinato ad aumentare, specialmente in nanotecnologie, componenti meccaniche e agricoltura. Sul fronte energetico, l’Iran sicuramente competerà con la Russia sui più importanti mercati come la Turchia e presto l’Europa occidentale, ma c’è ampio margine per Gazprom e l’iraniana Nioc (National Iranian Oil Company) per spartirsi le quote di mercato. Il capo di Nioc, Mohsen Qamsari, anticipa che l’Iran darà priorità alle esportazioni verso l’Asia e proverà a recuperare almeno il 42% del mercato che aveva in Europa prima delle sanzioni. «Piuttosto mediocre», secondo Escobar, reazione di Washington: «Obama ha preferito affermare – giustamente – che ogni percorso che portasse ad armi nucleari iraniane è stato impedito, e ha promesso di porre il veto a qualsiasi intervento del Congresso atto a bloccare l’accordo. Quando ero a Vienna, la settimana scorsa, ho avuto una conferma sicura – da fonte europea – che l’amministrazione Obama è fiduciosa di avere i voti necessari a Capitol Hill».Cosa succederà a tutto quel greggio iraniano? Tariq Rauf, ex capo delle politiche di sicurezza dell’Aiea, l’agenzia Onu per il controllo del nucleare, e ora direttore del programma di non-proliferazione e disarmo all’Istituto di Ricerca Internazionale sulla Pace di Stoccolma (Sipri), definisce l’intesa «il più importante accordo multilaterale sul nucleare degli ultimi vent’anni», dopo quello contro i test nucleari del 1996, al punto di proporre il Nobel per la Pace per il segretario di Stato John Kerry e il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif. «Ricostruire la fiducia tra Iran e Usa, tuttavia, sarà una via lunga e pericolosa», spiega Escobar. Teheran ha acconsentito a una moratoria di 15 anni per limitare di due terzi la sua potenzialità di arricchimento dell’uranio. Entro il 15 dicembre, tutte le questioni ancora in sospeso – si parla di 12 punti – andranno chiarite, e l’Aiea farà una valutazione finale. «Uno dei punti più spinosi è stato risolto quando Teheran ha permesso agli ispettori dell’Onu di visitare potenzialmente tutti i siti». Non ci saranno ispettori statunitensi, ma solo di nazioni con relazioni diplomatiche in atto con l’Iran. Tuttavia, «l’implementazione dell’accordo richiederà almeno i prossimi 5 mesi», sicché «le sanzioni verranno tolte solo all’inizio del 2016».L’Iran diventerà una calamita per gli investimenti esteri, continua Escobar: «Le più grandi multinazionali occidentali e asiatiche sono già ai blocchi di partenza per iniziare a martellare questo mercato praticamente vergine, con più di 70 milioni di abitanti, tra cui una classe dall’educazione molto valida. Ci sarà un boom in settori come l’elettronica, l’industria dell’auto e il turismo e il tempo libero». Poi c’è, come al solito, il greggio. «L’Iran ha ben 50 milioni di barili conservati in porto – pronti ad essere buttati sul mercato globale. Il cliente preferito sarà, inevitabilmente, la Cina – dato che l’Occidente resta imbrigliato nella recessione. Il primo punto all’ordine del giorno iraniano è riacquisire le fette di mercato perse a vantaggio dei produttori del Golfo. Attualmente il trend dei prezzi del greggio è in discesa – quindi l’Iran non può contare su grandi profitti a medio-breve termine». E la “guerra al terrore”, finora solo promessa da Obama? Tanto per cominciare, «l’embargo ai danni dell’Iran per quanto riguarda le armi convenzionali resta in essere, per 5 anni: è assurdo, se paragonato ad Israele e alla Casa di Saud che continuano ad armarsi fino ai denti».Lo scorso maggio, ricorda Escobar, il Congresso Usa ha approvato un vendita di armi da 1,9 miliardi di dollari ad Israele. Comprende 50 bombe anti-bunker Blu-113 («per far cosa? Bombardare il sito iraniano di Natanz?») e 3.000 missili Hellfire. Per quanto riguarda l’Arabia Saudita, secondo il Sipri, la Casa di Saud ha speso ben 80 miliardi di dollari in armi lo scorso anno: più del potenziale nucleare di Francia e Gran Bretagna. L’Arabia Saudita «sta foraggiando una – illegale – guerra in Yemen», accusa il giornalista. «Il Qatar non sta indietro di molto. Ha raggiunto un accordo da 11 miliardi di dollari per acquistare elicotteri Apache e sistemi di difesa missilistica Patriot, e ha in programma di comprare un sacco di caccia F-15». Trita Parsi, presidente del Consiglio Nazionale Statunitense-Iraniano, va dritto al punto: «L’Arabia Saudita spende per la difesa 13 volte l’Iran, ma in qualche modo l’Iran, e non l’Arabia Saudita, è visto dagli Usa come un potenziale aggressore». Questa è la realtà: «Quindi, qualsiasi cosa succeda, aspettiamoci giorni duri», conclude Escobar, presente ai negoziati di Vienna.A un ristretto gruppo di giornalisti indipendenti, racconta Escobar, il ministro degli esteri Zafidha rivelato che le negoziazioni saranno un successo perché Usa e Iran si sono accordati sul «non umiliarsi a vicenda». Ha affermato di aver pagato «un alto prezzo domestico per non incolpare gli statunitensi» e ha elogiato Kerry come «un uomo ragionevole». Ma era molto sospettoso dell’establishment Usa, «fermamente intenzionato a non togliere le sanzioni». Zarif ha anche elogiato l’idea russa: in seguito all’accordo, sarebbe ora di creare una vera coalizione contro il terrorismo, unendo Stati Uniti, Iran, Russia, Cina ed Europa – anche se Putin e Obama hanno acconsentito a lavorare insieme per “questioni regionali”. «La diplomazia iraniana dava segnali del fatto che l’amministrazione Obama si è finalmente resa conto che l’alternativa ad Assad in Siria è l’Isis/Isil/Daesh, non il “libero” esercito siriano». Un tale grado di collaborazione, dopo il muro della diffidenza, deve ancora essere visto. Solo allora «sarà veramente possibile valutare chiaramente se l’amministrazione Obama avrà preso una decisione strategica e se la “normalizzazione” delle relazioni con l’Iran comporti più di quanto non stia alla luce del sole», compresa quindi la liquidazione dell’armata di tagliagole telecomandati che agisce in favore di telecamera.«È sicuramente storico: la diplomazia forse ha vinto». Così anche Pepe Escobar saluta l’accordo tra Usa e Iran, dopo 35 anni di incomunicabilità e le tensioni continue dell’ultimo decennio. Un accordo “epocale”, nei termini del Nuovo Grande Gioco in Eurasia, con «conseguenti scosse tettoniche che riorganizzano la zona». In pratica, l’Iran, supportato da Russia e Cina , «ha finalmente, con successo, scoperto il bluff degli atlantisti – lungo, tortuoso e durato 12 anni – riguardo le proprie “armi nucleari”». Tutto ciò, continua Escobar, è accaduto solo perché l’amministrazione Obama ha bisogno di «almeno un successo di politica estera», nonché di un modo per «provare a influenzare la messa in opera del nuovo ordine geopolitico che ruoterà attorno all’Eurasia». Grande domanda, a questo punto: se gli Usa “sdoganano” Teheran, permettendole di svolgere appieno il suo ruolo di grande potenza regionale, questo significa che Washington si appresta ad abbandonare il sostegno occulto all’Isis, consentendo agli iraniani di sbaragliare sul campo i tagliagole jihadisti annidati in Siria e in Iraq sotto la protezione delle monarchie petrolifere del Golfo?