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Archivio del Tag ‘domanda’

  • Della Luna: Conte e i frugali, una recita penosa. Ciao Italia

    Scritto il 23/7/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Nel Risorgimento l’unificazione d’Italia fu un progetto franco-britannico in funzione anti-germanica, coperto con ideali fabbricati privi di riscontro nei popoli coinvolti, giustificato e portato avanti da un clero intellettuale massonico-progressista. Questo progetto ha prodotto l’Italia, un organismo politico artificioso, fallimentare a causa della sua composizione, con parti non adatte a stare insieme per loro caratteristiche storiche consolidate, che perciò ha prodotto impoverimento e violenze, dapprima, ai danni del Meridione, e poi una meridionalizzazione africaneggiante dello Stato e della politica ai danni del Settentrione. Simile per concetto e per effetti è il progetto dell’unificazione europea: creare un blocco in funzione di contenimento dell’Urss-Russia al servizio degli Usa, guidato dalla Franco-Germania, mettendo questa in condizioni di rastrellare le risorse dai paesi subalterni; il tutto ammantato da ideali fasulli, propagandati da un clero mercenario pseudo-intellettuale, massonico-progressista. Anche questo progetto ha prodotto un organismo artificiale, fallimentare a causa della sua composizione con parti non adatte a stare insieme per loro caratteristiche storiche consolidate, che perciò ha prodotto e produce impoverimento e violenze, per ora ai danni dei paesi meridionali e a vantaggio di quelli egemoni del Nord.
    Nella corrente trattativa per i soccorsi all’Italia e ad altri paesi molto danneggiati dalla gestione della pandemia, vediamo Mark Rutte fare il poliziotto cattivo per consentire alla Merkel con Macron di fare il poliziotto buono – ma il disegno non è cambiato, è sempre quello predatore-accentratore sopra indicato, del famoso Piano Funk, ratio essendi della ‘costruzione europea’. Sarebbe una buona cosa se le condizioni richieste dai paesi rigoristi all’Italia per concederle prestiti e aiuti fossero condizioni idonee ad assicurare un uso produttivo, anziché partitico-clientelare-assistenziale-elettorale, di quei soldi, inclusa l’abolizione del demenziale reddito di cittadinanza, della moralmente giusta ma insostenibile Quota 100, dei criminali sprechi per i clandestini. Ma quelle condizioni paiono essere grecificanti: tagli agli investimenti, tasse più alte, servizi peggiori – quindi un colpo alla domanda interna per distruggere del tutto l’economia, e un colpo alle possibilità di aumento della produttività, per relegare l’Italia al ruolo di protettorato.
    Si auspica il compromesso, che può essere nei seguenti termini: i paesi virtuosi concedono a Conte e ai suoi una certa quantità di soldi da spendere in funzione elettorale, così da farlo restare in sella; e in cambio Conte accetta di aprire un pertugio per una futura Trojka e si accontenta di aiuti che la gente senta come già acquisiti, ma che saranno concretamente disponibili tra due o tre anni (tra allocazione europea e spendita in Italia passano anni, per ragioni tecnico-burocratiche). Vi è chi ipotizza, in caso di mancato accordo, la sostituzione di Conte con Draghi e il supporto di Berlusconi (reso pro-Mes e pro-Eu dalla speme di sentenze propizie contro Vivendi e dall’ottenuto permesso di acquisire il 15% di ProSiebenSat1, così da divenirne il primo azionista e da inserirla nel suo Media to Europe). Così acconciamente rilegittimato, il regime potrà evitare le elezioni (magari anche quelle amministrative di settembre, importando immigrati contagiatori e lasciandoli evadere dalla quarantena così da giustificare un nuovo lockdown) e completare la riforma in senso autoritario ed esterocratico dello Stato-protettorato italia (la minuscola è intenzionale).
    Un governo italiano culturalmente onesto e politicamente leale al paese chiamerebbe il bluff austro-olandese, spiegando che non ha senso ragionare in termini di risparmio di moneta, dato che la moneta oggi è creata a costo zero, essendo simbolica e non convertibile, e non costituendo obbligazione. E’ invece necessario usarla in modi validi, produttivi, al fine di prevenire inflazione monetaria e il diffondersi del parassitismo. Allora, se i virtuosi, ossia i ciarlatani economici, si incaponiscono sulle loro posizioni (in realtà, perché vogliono mettere l’Italia in ginocchio per costringerla a svendere i suoi ‘pezzi’ migliori ai loro ‘investitori’), nessun problema: l’Italia può, entro i vigenti trattati, generare moneta interna statale a costo zero, e smascherare così, assieme ai ciarlatani del risparmio, tutto il bluff delle regole finanziarie europee, del Mes, dei vincoli, del 3%, rendendo evidente la finzione criminale applicata dall’Unione alla Grecia a tutela dei banksters, con tutte le migliaia di morti che ha causato. E che causerà anche all’Italia. Altro che solidarietà europea: genocidio.
    (Marco Della Luna, “Il bluff genocida dei frugali”, dal blog di Della Luna del 20 luglio 2020).

    Nel Risorgimento l’unificazione d’Italia fu un progetto franco-britannico in funzione anti-germanica, coperto con ideali fabbricati privi di riscontro nei popoli coinvolti, giustificato e portato avanti da un clero intellettuale massonico-progressista. Questo progetto ha prodotto l’Italia, un organismo politico artificioso, fallimentare a causa della sua composizione, con parti non adatte a stare insieme per loro caratteristiche storiche consolidate, che perciò ha prodotto impoverimento e violenze, dapprima, ai danni del Meridione, e poi una meridionalizzazione africaneggiante dello Stato e della politica ai danni del Settentrione. Simile per concetto e per effetti è il progetto dell’unificazione europea: creare un blocco in funzione di contenimento dell’Urss-Russia al servizio degli Usa, guidato dalla Franco-Germania, mettendo questa in condizioni di rastrellare le risorse dai paesi subalterni; il tutto ammantato da ideali fasulli, propagandati da un clero mercenario pseudo-intellettuale, massonico-progressista. Anche questo progetto ha prodotto un organismo artificiale, fallimentare a causa della sua composizione con parti non adatte a stare insieme per loro caratteristiche storiche consolidate, che perciò ha prodotto e produce impoverimento e violenze, per ora ai danni dei paesi meridionali e a vantaggio di quelli egemoni del Nord.

  • Reddito universale (e meno tasse): come salvare il paese

    Scritto il 21/6/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Negli ultimi mesi si è ricominciato a parlare con una certa insistenza di reddito universale. Riproposto nel corso del 2019 dallo scrittore Carlo Toto, ospite della trasmissione condotta da Fabio Frabetti sul canale “Border Nights”, è stato rilanciato da Beppe Grillo e, di recente, addirittura da Papa Francesco. Persino gli Stati Uniti di Donald Trump hanno adottato temporaneamente tale misura sociale per risollevare le sorti dell’economia. L’idea del reddito universale piace, inoltre, anche al governo spagnolo. Insomma, l’utilizzo del reddito universale, a causa della pesante crisi, aggravata dal periodo Covid-19, è tornato fortemente di attualità. Chiariamo subito che il reddito universale non è il “famoso” reddito di cittadinanza adottato ad opera del Movimento Cinque Stelle, il quale lo ha di fatto ridotto ad un sussidio per determinate categorie di soggetti. Il reddito universale è ben altra cosa, ovvero rappresenta un reddito di base per tutti i cittadini italiani maggiorenni che, a prescindere dal fatto che abbiano o meno un’occupazione, possono usufruire di tale introito per le spese di sussistenza: alimentari, di studio, spese mediche, ecc. Quindi verrebbe garantito il sostentamento a chi un reddito non ce l’ha e integrerebbe il reddito di quei soggetti che già svolgono un’attività lavorativa o imprenditoriale.
    Tale strumento sarebbe da forte stimolo per l’economia, poiché alimenterebbe la domanda interna, con conseguenti benefici per tutto il sistema economico. Si tratta di una misura socio-economica che mette al centro l’uomo e le sue esigenze, che sono certamente più importanti dell’impersonale volere del mercato o dei “mercati”. Le risorse messe in campo con il reddito universale potrebbero essere sostenute attraverso il ricorso all’emissione di una moneta parallela non a debito, non convertibile in euro, che circolerebbe solo in Italia. Si stamperebbero, in sostanza, le Statonote proposte dall’economista Nino Galloni. Non si dovrebbero temere neanche i tanto paventati innalzamenti del livello di inflazione. Considerate, infatti, le attuali condizioni dell’economia, con grandissima parte della capacità produttiva del sistema-Italia inutilizzata, l’ultimo pensiero dovrebbe essere quello di eventuali impulsi inflazionistici. Come dire, risolviamo la situazione contingente, prima che sia troppo tardi, e quando si dovesse presentare il problema “inflazione” se ne riparlerà.
    Se saranno reiterate le solite azioni tattiche del “tira a campare” e le ormai strutturali promesse di manovre espansive, con attenzione al contenimento del debito pubblico (la famosa austerità espansiva: contraddizione in termini), per il nostro paese sarà un disastro: le famiglie non compreranno più perché senza soldi, chiuderanno le poche aziende che sono rimaste in Italia, ci saranno nuove ondate di disoccupazione e lo Stato incasserà sempre meno soldi, fino ad arrivare al punto che anche gli stipendi dei tecnocrati, sponsor dell’austerità espansiva e della stabilità dei prezzi (a discapito della piena occupazione e del benessere sociale) non potranno più essere pagati. Il reddito universale, quindi, rappresenta una chiave di svolta, una soluzione definitiva di risanamento dell’economia accompagnato da una forte riduzione della pressione delle imposte. Avere una pressione fiscale non predatoria è un diritto costituzionale che deve essere assolutamente garantito. Infatti, così come avviene per molti altri principi contenuti nella nostra Costituzione, la capacità contributiva che dovrebbe assicurare un’equa tassazione sui redditi prodotti viene costantemente mortificata e disattesa.
    Da molti anni ormai, la linea di condotta di tutto l’apparato tributario italiano è quella di incassare sempre e comunque. A partire dall’accertamento, fino al processo tributario, il diritto ad una tassazione equa è stato sostanzialmente cancellato per lasciare il posto al “dovere” di passare in ogni caso alla cassa. Anche l’aspetto fiscale è di fondamentale importanza per il rilancio dell’economia, ma il livello di tassazione ha raggiunto limiti oramai insostenibili, contribuendo fortemente a lasciare la maggior parte degli italiani con pochissime disponibilità finanziarie. Il principio della capacità contributiva è stato in definitiva trasformato nel distorto principio sostanziale della “incapacità contributiva”. Un primo passo da compiere per riportare il nostro paese verso un prelievo fiscale più equo è senz’altro quello di rimodulare le fasce di reddito con le relative aliquote.
    Un’ipotesi di rivisitazione della tassazione sulle persone fisiche potrebbe prevedere, ad esempio, una progressione basata su tre aliquote con la fissazione di una “no tax area” (come previsto anche in altri paesi europei) ed ampie detrazioni di imposta per le spese mediche e di istruzione, come di seguito riportato: No-tax area fino ad € 14.400; da € 14.401 fino ad € 100.000: 20%; da € 100.001 ad € 200.000: 30%; da € 200.001: 40%. Detrazione pari al 100% delle spese mediche e di istruzione, personali e per i familiari a carico. Un regime di imposizione fiscale come quello sopra prospettato e, soprattutto, l’adozione di uno strumento quale il reddito universale, permetterebbero al nostro paese di superare brillantemente la oramai decennale situazione di stallo (rinvigorita e ulteriormente peggiorata a causa del Covid-19) per tornare ad essere una delle economie più forti del pianeta, con benessere diffuso e diritti sociali garantiti per tutte le fasce di reddito.
    (Vincenzo Curia, “Reddito universale e riduzione della pressione fiscale”, 21 giugno 2020. Curia è un dirigente del Movimento Roosevelt, che – come sottolineato più volte dallo stesso vicepresidente, Nino Galloni, si batte per salvare l’Italia dalla sprirale dell’austerity recuperando un approccio esapansivo e keynesiano dell’economia).

    Negli ultimi mesi si è ricominciato a parlare con una certa insistenza di reddito universale. Riproposto nel corso del 2019 dallo scrittore Carlo Toto, ospite della trasmissione condotta da Fabio Frabetti sul canale “Border Nights”, è stato rilanciato da Beppe Grillo e, di recente, addirittura da Papa Francesco. Persino gli Stati Uniti di Donald Trump hanno adottato temporaneamente tale misura sociale per risollevare le sorti dell’economia. L’idea del reddito universale piace, inoltre, anche al governo spagnolo. Insomma, l’utilizzo del reddito universale, a causa della pesante crisi, aggravata dal periodo Covid-19, è tornato fortemente di attualità. Chiariamo subito che il reddito universale non è il “famoso” reddito di cittadinanza adottato ad opera del Movimento Cinque Stelle, il quale lo ha di fatto ridotto ad un sussidio per determinate categorie di soggetti. Il reddito universale è ben altra cosa, ovvero rappresenta un reddito di base per tutti i cittadini italiani maggiorenni che, a prescindere dal fatto che abbiano o meno un’occupazione, possono usufruire di tale introito per le spese di sussistenza: alimentari, di studio, spese mediche, ecc. Quindi verrebbe garantito il sostentamento a chi un reddito non ce l’ha e integrerebbe il reddito di quei soggetti che già svolgono un’attività lavorativa o imprenditoriale.

  • L’Istat: nel marzo 2019, morti di polmonite 15.000 italiani

    Scritto il 05/4/20 • nella Categoria: segnalazioni • (9)

    Numeri alla mano, nello stesso periodo di tempo, l’anno scorso, sono morte più persone per malattie respiratorie che quest’anno per Covid-19. La parte sommersa dell’iceberg è formata anche dai morti che nessuno ha mai censito, questo ormai lo ammette anche l’Istituto Superiore di Sanità. Riusciremo a capire quanti sono? Noi ci esprimiamo con i numeri che riusciamo a raccogliere e a validare. Quando affermiamo che nei primi 21 giorni di marzo al Nord i decessi sono più che raddoppiati rispetto alla media 2015-19 non è una impressione, ma un dato. Quando scriviamo che a Bergamo i decessi sono quasi quadruplicati passando da una media di 91 casi nel 2015-2019 a 398 nel 2020, riferiamo delle evidenze. Idem quando denunciamo «situazioni particolarmente allarmanti» nel Bresciano oppure un maggiore incremento dei decessi degli uomini e delle persone maggiori di 74 anni di età. Lavoriamo per ampliare queste conoscenza, ma dobbiamo tenere conto del fatto che la trasmissione dei dati è più lenta e complicata di quel che si vorrebbe in condizioni ordinarie, figuriamoci in un’emergenza sanitaria. Quando l’Istat fornisce un valore, quello è stato trattato secondo standard europei.
    Quanti morti erano già malati? Abbiamo tre tipi di morti: quelli che ricollegabili soprattutto al Covid, con o senza altre patologie; coloro che non muoiono di Covid ma per Covid, cioè ad esempio infartuati che in condizioni normali si salverebbero; i morti che non hanno contratto Covid. Noi siamo in grado di dare elementi sui decessi, distinguerli per 21 fasce d’età e farlo estraendo questi numeri dall’anagrafe centralizzata, in modo da dare ai decisori preziosi elementi di valutazione. Per l’approfondimento delle schede di morte c’è l’Istituto Superiore di Sanità. Questo, comunque, è un virus per vecchi. I dati che stanno emergendo circa la mortalità dicono chiaramente che colpisce in maniera molto prevalente persone anziane: è quasi un terribile processo di selezione naturale che elimina i soggetti deboli. Terribile. Ma ancor più terribile perché appare in qualche modo facilitato dalla nostra capacità di curarli. La chiamo “la maledizione degli anni pari”. Il 2019, come tutti gli anni dispari, ha visto una regressione dei decessi. L’anno pari inizia bene, ma poi arriva marzo, con un virus che falcia coloro che la morte aveva risparmiato.
    Dal 21 febbraio al 31 marzo sono morte 12.428 persone per Covid-19. Quanti sono i morti di influenza nel mese di marzo (nel quale, quest’anno, si sono concentrati i decessi di coronavirus) degli anni scorsi? Più che i morti per influenza, che è più difficile da attribuire come effettiva causa di morte, conviene ricordare i dati sui certificati di morte per malattie respiratorie. Nel marzo 2019 sono state 15.189 e l’anno prima erano state 16.220. Incidentalmente si rileva che sono più del corrispondente numero di decessi per Covid (12.352) dichiarati nel marzo 2020. Quale impatto economico stimiamo per il lockdown? Stiamo valutandolo. I dati economici relativi ai settori che hanno subito la sospensione delle attività mostrano come il lockdown coinvolga 2,2 milioni di imprese (il 48,8% del totale), oltre 7 milioni di addetti (il 42,8%), con un valore aggiunto annuo di poco meno di 300 miliardi. È ancora presto per definire scenari, anche se c’è poco da stare allegri, visto che, come abbiamo comunicato in questi giorni, l’epidemia Covid-19 è intervenuta in un momento in cui in Italia la fase di ripresa ciclica perdeva vigore, per via della Brexit, dei dazi statunitensi e del rallentamento della domanda tedesca.
    (Gian Carlo Blangiardo, dichiarazioni rilasciate a Paolo Viana per l’intervista “Nel 2019 a marzo 15mila morti per polmoniti varie”, pubblicata da “Avvire” il 2 aprile 2020. Blangiardo è il presidente dell’Istat, istituto nazionale di statistica).

    Numeri alla mano, nello stesso periodo di tempo, l’anno scorso, sono morte più persone per malattie respiratorie che quest’anno per Covid-19. La parte sommersa dell’iceberg è formata anche dai morti che nessuno ha mai censito, questo ormai lo ammette anche l’Istituto Superiore di Sanità. Riusciremo a capire quanti sono? Noi ci esprimiamo con i numeri che riusciamo a raccogliere e a validare. Quando affermiamo che nei primi 21 giorni di marzo al Nord i decessi sono più che raddoppiati rispetto alla media 2015-19 non è una impressione, ma un dato. Quando scriviamo che a Bergamo i decessi sono quasi quadruplicati passando da una media di 91 casi nel 2015-2019 a 398 nel 2020, riferiamo delle evidenze. Idem quando denunciamo «situazioni particolarmente allarmanti» nel Bresciano oppure un maggiore incremento dei decessi degli uomini e delle persone maggiori di 74 anni di età. Lavoriamo per ampliare queste conoscenza, ma dobbiamo tenere conto del fatto che la trasmissione dei dati è più lenta e complicata di quel che si vorrebbe in condizioni ordinarie, figuriamoci in un’emergenza sanitaria. Quando l’Istat fornisce un valore, quello è stato trattato secondo standard europei.

  • Galloni: soldi a tutti, prima che si assaltino i supermercati

    Scritto il 02/4/20 • nella Categoria: idee • (3)

    Reddito universale? Il punto di partenza di Grillo è che, dato che c’è la decrescita e non ci potrà essere la piena occupazione (anzi, ci sarà la massima disoccupazione, a prescindere dal virus), bisogna dare un reddito a tutti per sostenere l’economia. Tutto ciò ovviamente si p aggravato con l’emergenza in corso. Qui, tra me e Grillo, c’è una prima divergenza di fondo: più che di decrescita, dell’industria o dell’agricoltura, bisogna parlare di un risposizionamento (dell’industria, dell’agricoltura e dei servizi). Ma dovranno crescere altre attività, ad esempio nel comparto dei beni e dei servizi immateriali, che prenderanno il posto delle occupazioni precedenti. Quando si sviluppò l’industria, si ridusse drasticamente l’occupazione in agricoltura. Quando s’è sviluppato il post-industriale, cioè i servizi, c’è stato un calo più o meno drastico degli addetti all’industria. Poi, nella fase che nei miei libri ho definito post-capitalistica, si ridimensionano tutti questi settori a reddito. E’ quindi necessario far crescere la risposta ai bisogni della società (in questo sta il cambio del paradigma, rispetto alla ricerca di profitto) perché comunque la società va avanti. Quindi, quando parliamo di reddito universale, dobbiamo tener ben presente questa differenza: non stiamo andando verso la decrescita, che per essere “felice” necessita di una riduzione della popolazione che sia maggiore del calo della popolazione, sennò sarebbe ancora più infelice.
    Per essere “felice”, la decrescita richiedere di ridurre la popolazione mondiale: è il vecchio progetto di alcuni ambienti estremistici dell’ambientalismo, e di ambienti particolarmente retrivi della grande finanza (che sono poi quei due ambienti che qualcuno sospetta che abbiano avviato e condizionato l’impresa di Grillo e Casaleggio). A fianco di questo aspetto, che è cruciale, ve n’è però un altro – che è il motivo per cui siamo entrati in questa crisi, che poi è stata aggravata da quella sanitaria. E cioè: nella maggior parte dei comparti produttivi, la redditività degli investimenti è diventata negativa. Per capirlo dobbiamo osservare l’andamento del Pil: nel caso italiano (e l’Italia è una delle potenze industriali del pianeta) è stato significativamente vicino allo zero per parecchio tempo, e fra l’altro sarebbe negativo il Pil pro capite, che è quello più importante per la domanda: a fronte del Pil che non cresce, c’è la popolazione residente che cresce. Continua ad aumentare l’occupazione, è vero, anche se è precaria e sottopagata. Ma se noi da questa occupazione e da questo Pil sottraiamo quel 20-30% che ancora fa reddito positivo, con un fatturato decisamente superiore al costo (quindi, stipendi buoni), tutto il resto è ancora più insostenibile. Quindi noi dobbiamo affrontare questi due aspetti: da una parte il ridimensionamento dei comparti produttivi dell’economia materiale, dall’altra la decrescente redditività degli investimenti.
    Chi è il grande sconfitto, di questa situazione? E’ tutta la moneta a debito: tutto ciò che è a debito non è sostenibile. Lo vedete: il Pil non cresce, ma cresce il debito pubblico. Questo di per sé non è un segnale di insostenibilità, perché comunque abbiamo un grande risparmio privato, sia pure anch’esso in calo: titoli e depositi, in ogni caso, rappresentano quasi il doppio del debito pubblico. Quindi il sistema-Italia sta benissimo, paradossalmente; ma le sue prospettive non sono sostenibili, se non si esce dall’economia del debito. Perciò va benissimo parlare di reddito universale. Basta che non sia sorretto da due fattori, che denuncio. E cioè: l’aumento del debito, in particolare del debito pubblico, ovvero un aumento (o una introduzione) di una forte tassa patrimoniale. Meglio l’emissione di una moneta nazionale parallela, non convertibile in euro, fino al raggiungimento della piena occupazione. Data la crisi aggravata dal coronavirus, si può quindi pensare a un reddito universale di 1000-1500 euro mensili pro capite, in più prestando particolare attenzione, innanzitutto, ai comparti più colpiti dallo stop imposto dall’emergenza. Il turismo, ad esempio, ha perso l’annata: andrebbe immediatamente istituito un “reddito di quarantena” per tutti quelli che hanno perso completamente il reddito. E quindi turismo, ristorazione, palestre: tutte attività che non riaprianno, quando comincerermo a tornare alla vita normale.
    Se però ci fosse un’interruzione definitiva – come paventato da Mario Draghi – di tutto il sistema produttivo, allora l’immissione di moneta non a debito rischierebbe di creare inflazione. Quindi dobbiamo immetterla per evitare che l’economia, l’industria e la produzione si blocchino: a quel punto servirà a stimolare quelle risorse e quella capacità produttiva aggiuntiva che l’Italia ha. Ma se in Italia, a causa di questa situazione (il perdurare dell’emergenza e la chiusura nelle case di tutti quanti) si dovessero bloccare tutte le attività produttive, bisognare considerare anche la specificità della nostra struttura produttiva, che è basata su aziende piccolissime, che poi a un certo punto chiudono: perché devono pagare l’affitto, le bollette. Senza un aiuto consistente, io smetto di pagare il mutuo, stacco le utenze, faccio presente ai collaboratori che è finita. Poi, se arrivano risorse reddituali aggiuntive (perché lo Stato immette) ma intanto l’attività è stata chiusa, che cosa ci si compra, con quei soldi? Questo è il problema della moneta non a debito: l’urgenza. Invece, se si usa solo moneta a debito, tutta dentro un progetto finanziario, poi la devi ripagare, e quindi devi guadagnare di più di quello che è il debito. E abbiamo visto che non è più possibile, essendo finito il capitalismo (questo è il vero motivo per cui c’è la crisi).
    E’ finito, il capitalismo, ma non abbiamo uno straccio di paradigma altenativo per far funzionare l’economia mondiale. E allora, intanto che tutte le potenze mondiali si avvicinano a questa constatazione, come si farà a gestire il sistema economico mondiale? Bisogna trovare un altro paradigma, un altro sistema – in cui ci sia anche la parte di profitto, ma chiaramente il grosso dovrà essere retto da moneta non a debito. Ovvero, come spiego nei miei libri: retto da credito bancario a tasso d’interesse negativo altissimo. Questo consentirà alle banche di non subire perdite: si limiteranno a ridurre i propri guadagni, registrando un mancato arricchimento. Stato e banche però devono modificare la loro contabilità, altrimenti non ce la si fa. Prima che la gente assalti i supermercati, è urgente risolvere questi problemi. Serve agire in fretta: l’agricoltura già denuncia la mancanza di manodopera, e le coltivazioni trascurate poi non si recuperano rapidamente, i danni sono catastrofici.
    Se non si permette alla gente di tornare a lavorare, il comparto agricolo rischia di scomparire. Se mancano consumatori sui mercati, provvisti di soldi, addio. Trasponendo questo nella manifattura, nell’industria e negli altri comparti, capiamo qual è la posta in gioco adesso: o lo Stato interviene subito con moneta aggiuntiva non a debito, a circolazione solo nazionale e compatibile con l’euro, oppure tra 4-5 mesi ci troveremo in una situazione talmente difficile, che solo aumentando il debito con l’Europa potremmo cercare di far riprendere l’economia (e ho qualche dubbio, che ci accada). Anche Draghi ha espresso questi dubbi. Certo, la sua posizione è diversa: lui propone di mantenere la moneta a debito, quindi la contabilità bancaria, perché deve nascondere come si crea la moneta. Però, se Draghi arriva e fa questa operazione, in vista della cancellazione del debito aggiuntivo (350 miliardi, da considerare come “debito di guerra” destinato a cancellarsi), allora anche l’ipotesi-Draghi va presa seriamente in considerazione.
    Beninteso, in Draghi non c’è nessuna “metamorfosi”: Draghi è uno dei massimi rappresentanti della finanza mondiale, quella che ci privatizzato e massacrato. Però non fa parte di quella finanza mondiale legata all’estremismo ambientalista (e ad altri giri tipo Rothschild) che vuole invece la riduzione della popolazione del pianeta. In quel caso avrebbe detto: benissimo, se salta tutto per aria, moriranno milioni di italiani. Sarebbe meglio, se l’Italia si riducesse a 20 milioni di abitanti? Questo lo pensano alcuni, ma non Draghi. In lui, però, non c’è nessuna metamorfosi: sta solo applicando, pedissequamente, i principi per i quali abbandonò a suo tempo la nostra scuola post-keynesiana, passando al liberismo. Evidentemente vuole mantenere la partita doppia e la moneta a debito, per poi cancellarla: in questo modo non si vedrebbe la creazione monetaria, che evidentemente è quello che gli preme. Infatti, se tutti vedessimo che la moneta si può creare senza costo, scenderemmo tutti in piazza a dire: ma scusate, se l’avete fatto per salvare le banche, perché non lo potete fare per salvare le persone?
    L’espressione “capitalismo inclusivo”, peraltro, è un ossimoro: è come dire “liberismo solidaristico”. Quello che ha funzionato, in passato, con molti limiti ma con grandi risultati, sono state le economie miste, in cui c’erano elementi di capitalismo e di socialismo. Probabilmente finiremo per orientarci in questo senso: un recupero della solidarietà nell’economia, veicolato dalle grandi scelte strategiche e dal peso dello Stato, diretto e indiretto, nell’economia stessa. Un assetto abbandonato formalmente, a livello mondiale, dopo il G7 di Tokyo del 1979. Dopodichè abbiamo avuto un quarantennio di liberismo, e adesso il liberismo non funziona più. L’economia mista, solidaristica, ha funzionato per quasi 40 anni dopo la Seconda Guerra Mondiale; il suo abbandono ha coinciso con la fine dei partiti liberali. Con il crollo del Muro di Berlino è finita la Dc, che era anticomunista. E adesso, che siamo di fronte al crollo della globalizzazione, immagino che i nazionalismi finiscano per entrare in crisi: a vincere sarà il ritorno alla solidarietà, sia interna che internazionale. Sarà un’alternativa sia al sovranismo miope, sia alla mancanza di sovranità.
    (Nino Galloni, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming “Reddito universale, Carlo Toto e Nino Galloni rispondono a Grillo”, su YouTube il 1° aprile 2020. Vicepresidente del Movimento Roosevelt e prestigioso economista post-keynesiano, Galloni – figlio del ministro democristiano Giovanni Galloni, già vicepresidente del Csm – è stato a lungo dirigente del ministero del lavoro. Come Draghi, Galloni è stato allievo del professor Federico Caffè, insigne economista progressista).

    Reddito universale? Il punto di partenza di Grillo è che, dato che c’è la decrescita e non ci potrà essere la piena occupazione (anzi, ci sarà la massima disoccupazione, a prescindere dal virus), bisogna dare un reddito a tutti per sostenere l’economia. Tutto ciò ovviamente si è aggravato con l’emergenza in corso. Qui, tra me e Grillo, c’è una prima divergenza di fondo: più che di decrescita, dell’industria o dell’agricoltura, bisogna parlare di un risposizionamento (dell’industria, dell’agricoltura e dei servizi). Ma dovranno crescere altre attività, ad esempio nel comparto dei beni e dei servizi immateriali, che prenderanno il posto delle occupazioni precedenti. Quando si sviluppò l’industria, si ridusse drasticamente l’occupazione in agricoltura. Quando s’è sviluppato il post-industriale, cioè i servizi, c’è stato un calo più o meno drastico degli addetti all’industria. Poi, nella fase che nei miei libri ho definito post-capitalistica, si ridimensionano tutti questi settori a reddito. E’ quindi necessario far crescere la risposta ai bisogni della società (in questo sta il cambio del paradigma, rispetto alla ricerca di profitto) perché comunque la società va avanti. Quindi, quando parliamo di reddito universale, dobbiamo tener ben presente questa differenza: non stiamo andando verso la decrescita, che per essere “felice” necessita di una riduzione della popolazione che sia maggiore del calo della produzione, sennò sarebbe ancora più infelice.

  • Bifarini: cari italiani, siamo finiti. Subiremo una catastrofe

    Scritto il 30/3/20 • nella Categoria: idee • (5)

    Siamo di fronte a una crisi economica senza precedenti nella storia moderna. Credo che sia addirittura peggiore di una guerra, cui è stata paragonata. Durante i conflitti mondiali, infatti, esisteva comunque un’industria bellica a fare da traino. Oggi è fermo tutto, sia dal lato della produzione che della domanda. Resistono solo i consumi primari, quelli di generi alimentari. A farne le spese per primi saranno le partite Iva, i lavoratori autonomi, i commercianti, i ristoratori, i liberi professionisti, le agenzie immobiliari, i centri di benessere, le palestre, gli albergatori e tutto il fiorente settore del turismo italiano col suo indotto. Possiamo dire che gli unici a salvarsi, almeno per ora, saranno i dipendenti pubblici e i pensionati. A guadagnarci? Probabilmente i detentori del capitale, che a breve potranno fare shopping di quello che rimarrà del paese a bassissimo prezzo, vista la inevitabile svalutazione sia degli immobili che degli asset produttivi e strategici. Misure alternative per non bloccare il paese? Sarebbe stato più opportuno adottare una strategia mirata e non replicare il cosiddetto modello Whuan. La Cina, infatti, ha applicato il blocco a una sola regione, seppur popolosa come l’Italia, e non all’intero paese come abbiamo fatto noi. La loro economia ha continuato a produrre e a muoversi, seppur a ritmi rallentati, mentre noi abbiamo paralizzato l’Italia intera.
    Inoltre, visto il ritardo della Cina nel comunicare l’infezione, possiamo fidarci che sia stata davvero debellata, da loro? Andavano fatti tamponi a tappeto, come in Corea, per individuare e isolare i contagiati. Inoltre, poiché i dati dell’Iss confermano che l’età media dei deceduti è di circa 80 anni e si tratta prevalentemente di persone con una o più patologie pregresse, per i tre quarti di sesso maschile, occorreva effettuare una profilazione dei soggetti più a rischio e adottare misure specifiche, per essi. Non si può fermare l’intero paese, riservando ai bambini, che hanno un rischio pressoché nullo, le stesse restrizioni degli anziani, che anzi possono uscire a fare la spesa o per portare fuori il cane. Maggiore è l’esposizione al rischio, maggiori devono essere le restrizioni e anche le tutele. Sarebbe stato opportuno offrire alle persone più fragili al virus un servizio di consegna a domicilio di cibo e medicinali. Laddove necessario, mettere a disposizione degli alloggi per separare genitori e figli di età adulta, che possono contagiarsi all’interno dello stesso nucleo familiare. È illusorio e ingenuo credere che tra conviventi non avvenga il contagio. Le fasce più deboli hanno bisogno di maggiore protezione: questo è il compito dello Stato, e non riservare lo stesso trattamento restrittivo a tutti.
    È possibile che i prezzi dei beni di prima necessità aumentino, e che alcuni prodotti diventino introvabili? Per la legge della domanda e dell’offerta che regola il mercato, sì. È chiaro che, se blocchi tutte le attività produttive, prima o poi potrebbe verificarsi una situazione del genere. Inoltre il panico che si è diffuso tra la popolazione spinge a comportamenti istintivi, che aumentano la domanda di alcuni beni per la paura di non trovarli in futuro. Se la situazione non si sblocca velocemente, che fine faranno, tra poco, tutte quelle famiglie che non possono contare sui risparmi? Credo che sia stata innescata una bomba a orologeria. Secondo le stime la disoccupazione italiana, che era finalmente scesa sotto il 10%, arriverà al 20%. Io credo che potrebbe andare ben oltre, considerato che il solo turismo offre il 6% dell’occupazione totale nazionale. Molte aziende ed esercizi commerciali costretti a interrompere la loro attività non riapriranno più. A pagarne le spese per primi saranno tutti quei lavoratori, per lo più giovani e precari, della ristorazione, del commercio e delle Pmi. I primi a essere licenziati saranno loro; senza poter contare su risparmi messi da parte, dovranno tornare a vivere con i propri genitori, laddove ne abbiano la possibilità, non potendo più permettersi un affitto, un’abitazione autonoma.
    Poi sarà la volta dei loro datori di lavoro che, esauriti gli eventuali risparmi, senza un flusso di liquidità non potranno più sostenere i costi fissi e gli investimenti fatti per la loro attività. Insomma, sarà un effetto domino che travolgerà tutti. Rischiamo rivolte popolari? Quando la povertà si diffonde a tutti gli strati sociali, la situazione diventa fuori controllo. Per il momento viene potenziata la presenza delle forze dell’ordine, e addirittura è previsto l’esercito in strada. Ma siamo di fronte a una situazione inedita, imprevedibile. I 25 miliardi stanziati dal governo? Acqua fresca, purtroppo. Secondo una stima del centro di ricerche Cerved, se questa situazione dovesse protrarsi fino a maggio – ma ormai sembra un’ipotesi irrealistica – la perdita stimata per il nostro tessuto produttivo sarebbe di 275 miliardi di euro, nel periodo 2020/2021. Nel caso in cui invece questa situazione di emergenza dovesse durare fino a dicembre la perdita totale ammonterebbe a 641 miliardi. Ma queste previsioni sono state fatte prima dell’ulteriore stretta delle restrizioni. D’altronde tutta l’economia è ferma, a parte il comparto alimentare: cosa dobbiamo aspettarci?
    L’Italia tornerà a essere quella che è stata fino a un mese fa? Per un’economia già fragile come la nostra, con un Pil quasi immobile da anni, già vicina alla recessione, questo sarà il colpo di grazia. Abbiamo un debito pubblico già elevatissimo ed è possibile che vengano applicate le misure già sperimentate in Grecia dalla Troika. Difficile trovare soluzioni per uscire fuori da questo disastro annunciato: una volta distrutta l’economia reale, il tessuto produttivo nazionale e quella rete di Pmi che da sempre rappresenta il cuore pulsante nazionale, dell’Italia rimarrà ben poco. Anche il turismo, da sempre nostro settore trainante, faticherà molto a riprendersi, sia per il danno d’immagine che l’Italia ha subito più di altri, sia per un inevitabile e prolungato rallentamento dei viaggi a livello mondiale. Come magra consolazione possiamo dire che neanche per il resto delle economie avanzate la situazione tornerà come prima; ma, sfortunatamente, saremo noi a pagare il prezzo più alto.
    (Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate a Pietro di Martino per l’intervista “Ecco cosa sta per succedere all’Italia”, ripresa dal blog della Bifarini il 27 marzo 2020).

    Siamo di fronte a una crisi economica senza precedenti nella storia moderna. Credo che sia addirittura peggiore di una guerra, cui è stata paragonata. Durante i conflitti mondiali, infatti, esisteva comunque un’industria bellica a fare da traino. Oggi è fermo tutto, sia dal lato della produzione che della domanda. Resistono solo i consumi primari, quelli di generi alimentari. A farne le spese per primi saranno le partite Iva, i lavoratori autonomi, i commercianti, i ristoratori, i liberi professionisti, le agenzie immobiliari, i centri di benessere, le palestre, gli albergatori e tutto il fiorente settore del turismo italiano col suo indotto. Possiamo dire che gli unici a salvarsi, almeno per ora, saranno i dipendenti pubblici e i pensionati. A guadagnarci? Probabilmente i detentori del capitale, che a breve potranno fare shopping di quello che rimarrà del paese a bassissimo prezzo, vista la inevitabile svalutazione sia degli immobili che degli asset produttivi e strategici. Misure alternative per non bloccare il paese? Sarebbe stato più opportuno adottare una strategia mirata e non replicare il cosiddetto modello Whuan. La Cina, infatti, ha applicato il blocco a una sola regione, seppur popolosa come l’Italia, e non all’intero paese come abbiamo fatto noi. La loro economia ha continuato a produrre e a muoversi, seppur a ritmi rallentati, mentre noi abbiamo paralizzato l’Italia intera.

  • Galloni: il virus smaschera il rigore. Ma come affrontarlo?

    Scritto il 25/3/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    La grande vittima della pandemia – la prima, ma non sarà l’ultima – è la suprema verità finanziaria: le risorse sono limitate. Può l’emergenza aver modificato una suprema verità? No. Essa era un falso. Come facevano le banche centrali a creare moneta (a costo zero, soprattutto dopo lo sganciamento della moneta stessa dall’oro)? Con una magia di contabilità: al passivo dello stato patrimoniale veniva messo il valore nominale dell’emissione monetaria, all’attivo i titoli; siccome i due valori si eguagliavano (interessi a parte, che potevano andare nel conto profitti e perdite), l’operazione si annullava, cioè si nascondeva. Ma era un artificio che, adesso, risulta evidente: si possono far crescere i debiti (i titoli di Stato, ad esempio) oppure no. Ma, domani, i debiti si potranno: cancellare, monetizzare, cartolarizzare, derivare… Di quanti soldi abbiamo bisogno, nelle attuali circostanze e nel futuro? Finalmente possiamo invertire il paradigma e chiederci: di cosa abbiamo bisogno? E i soldi non ci mancheranno! Unico limite: se le capacità produttive sono tutte utilizzate al massimo, la successiva immissione monetaria non determina effetti reali; ma, adesso, abbiamo bisogno – ad esempio – di mascherine; e possiamo riconvertire aziende tessili e simili, assumere lavoratori, ecc.
    Per parlare del futuro, ovvero delle prospettive degli investimenti futuri, dovremmo prima cercare di capire cosa succederà dell’attuale emergenza. Come è stato accennato (nell’articolo che mi precede), occorre partire non dall’1% della popolazione che presenta sintomi gravi o ha bisogno di assistenza vitale (che è, orami evidente a tutti, il “bottle neck” motore di tutte le decisioni governative), ma del restante 99% circa della popolazione: come rafforzarne le difese immunitarie e proteggerlo. Il 99%, infatti, comprende anche le persone più fragili perché anziane (non sto dicendo che il virus risparmi i giovani!) o immunodepresse: nei limiti delle cose ragionevoli e possibili, anziani, immunodepressi, eccetera, dovrebbero trovarsi in situazioni di minor contato con i portatori sani e coi malati. Invece si mette in isolamento la parte sana o priva di sintomi, ovvero quella che dovrebbe assicurare – comunque – la continuità della vita sociale: non possiamo stare troppo tempo senza respirare, bere, nutrirci. E, mentre si sbaglia nell’impostazione di fondo perché si guarda solo all’emergenza in termini di cure urgenti e posti letto (il che è giusto, beninteso, ma non basta) non si sa né quanto durerà, né se si ripeterà una stagione sì e l’altra no.
    Quindi, si fanno paragoni in base all’esperienza di altri paesi: in Cina è stata isolata un’area corrispondente all’1% della popolazione – che è stata rifornita dall’esterno, con le dovute cautele. In Italia si è voluto isolare il 100% della popolazione, ovviamente in modo meno restrittivo e, via via, più restrittivo. Ma non si sa come sarà la situazione a metà aprile, a fine maggio, in autunno: c’è chi giura che l’estate passerà tranquilla, ma anche chi (sempre tra esperti virologi e medici) ritiene che la mutazione del virus stesso potrebbe comportare una sua maggior resistenza al calore estivo. Chi scommette sull’Italia perché il Sud – più caldo – appare alquanto immune, sottovaluta che, pur con eccezioni che non confermano la regola, il virus si è sviluppato in modo più deciso dove più intense erano le attività produttive e l’inquinamento. Come si è fatto per l’ambiente, si commette lo stesso errore: allora si diceva (vi ricorderete) “occorre fermare il surriscaldamento”, oggi occorre “fermare” il virus. Non è così: occorre affrontare (saper affrontare) il virus, del pari dell’emergenza climatica. Il virus non si ferma. Il virus si affronta: come si debellerà? Come è sempre avvenuto, ovverosia con una diffusione che ne depotenzi la forza. Ma quante vittime, per ottenere tale risultato? Allora: evitare che il contagio faccia tante vittime, ma rinforzare la popolazione affinché aumentino i casi di coloro che costruiscono gli anticorpi, ovvero presentano sintomi trascurabili, o si rivelano immuni.
    Temibili virus sono stati debellati coi vaccini, ma qui non sappiamo se i tempi di costruzione di un vaccino sono inferiori alla mutazione stagionale! Abbiamo visto che la combinazione con pregressi vaccini antinfluenzali e determinate tipologie di medicinali ha aggravato le condizioni dei pazienti: ma non sappiamo se la catena causativa vada da mali pregressi a indebolimento verso il Sars o viceversa. Pare ci siano medicinali – spesso usati per altre patologie – in grado di risolvere o attenuare la malattia in esame. In ogni caso sarebbe importante rafforzare la popolazione con vitamine, regole alimentari, fisiche e psichiche adeguate. Chiarito che il limite delle risorse monetarie è dato dalla disponibilità di risorse reali, rimane l’incognita delle tempistiche e della dinamica futura dell’emergenza. Oltre un certo limite, infatti, le imprese chiudono (anche per mancanza di domanda che, però, dev’essere sostenuta da adeguate iniezioni pubbliche di moneta/reddito aggiuntiva); e solo un coordinamento europeo, internazionale, può assicurare ai paesi, via via o ad intermittenza in situazioni più gravi, di essere riforniti di beni e servizi essenziali che potrebbero scarseggiare.
    (Nino Galloni, “Ai tempi del Corona”, dal blog del Movimento Roosevelt del 22 marzo 2020. Economista post-keynesiano, allievo del professor Federico Caffè, Galloni è vicepresidente del Movimento Roosevelt).

    La grande vittima della pandemia – la prima, ma non sarà l’ultima – è la suprema verità finanziaria: le risorse sono limitate. Può l’emergenza aver modificato una suprema verità? No. Essa era un falso. Come facevano le banche centrali a creare moneta (a costo zero, soprattutto dopo lo sganciamento della moneta stessa dall’oro)? Con una magia di contabilità: al passivo dello stato patrimoniale veniva messo il valore nominale dell’emissione monetaria, all’attivo i titoli; siccome i due valori si eguagliavano (interessi a parte, che potevano andare nel conto profitti e perdite), l’operazione si annullava, cioè si nascondeva. Ma era un artificio che, adesso, risulta evidente: si possono far crescere i debiti (i titoli di Stato, ad esempio) oppure no. Ma, domani, i debiti si potranno: cancellare, monetizzare, cartolarizzare, derivare… Di quanti soldi abbiamo bisogno, nelle attuali circostanze e nel futuro? Finalmente possiamo invertire il paradigma e chiederci: di cosa abbiamo bisogno? E i soldi non ci mancheranno! Unico limite: se le capacità produttive sono tutte utilizzate al massimo, la successiva immissione monetaria non determina effetti reali; ma, adesso, abbiamo bisogno – ad esempio – di mascherine; e possiamo riconvertire aziende tessili e simili, assumere lavoratori, ecc.

  • Bifarini: l’Ue “guarisce” solo con un New Deal rooseveltiano

    Scritto il 08/2/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Nel mio libro “Inganni economici” parlo di un fenomeno preciso, la “divinizzazione dell’economia”, in base al quale i postulati economici diventano dogmi, e le previsioni profezie. L’inganno principale è credere che l’economia sia una scienza esatta come la matematica. Oggi, un modello economico (valido, forse, in alcune circostanze) viene fatto passare per una legge universale. E’ la logica del “there is no alternative”, non c’è alternativa: il principio con il quale ci è stata propugnata l’austerity. Da questo concetto discendono tanti luoghi comuni. Come la convinzione che la disuguaglianza sociale alla lunga possa portare alla crescita e che le riforme strutturali siano la panacea di tutti i mali, quando spesso si traducono in riduzioni dei salari e dei diritti dei lavoratori e possono addirittura aumentare la disoccupazione nel breve periodo, in una situazione di crisi della domanda quale quella stiamo vivendo oggi. A Davos la Merkel ha detto che la Grecia sarebbe tornata a crescere? Ci vuole un grande coraggio per parlare di successo sulla Grecia. Anzi, è una frase che nasconde una profonda mancanza di sensibilità per il lato umano del dramma greco.
    E non parlo solo di disoccupazione giovanile inaccettabile, del Pil caduto del 25%, del debito pubblico che dopo la cura della Troika era arrivato al 180%. A causa dei tagli nel settore sanitario in Grecia si è assistito addirittura ad aumento di casi di Hiv, e al ritorno della malaria. L’errore che si fa quando si disumanizza l’economia è non pensare al paese reale: per valutare lo stato di salute di un paese occorre guardare all’occupazione, alle sue imprese, agli investimenti interni, al livello di equità e a quanto la crescita non sia legata a fattori endogeni e contingenti. E sotto questi punti di vista la situazione non è ancora così rosea come si vuol far credere. Intanto, la locomotiva tedesca rallenta vistosamente. La Germania è uno dei paesi più in crisi in questo periodo: la crescita è timidissima, ha sfiorato la recessione tecnica. E’ l’emblema di un modello fallimentare, quello neomercantilista, tutto basato sull’export. Non è solo una crisi industriale, ma anche sociale: è vero che hanno un basso tasso di disoccupazione, ma scontano un alto livello di “working poors”, lavoratori precari e con salari molto bassi. Troppo rigore e pochi investimenti. Per questo la Germania potrebbe implodere su se stessa. Una fragilità tanto più marcata, nel momento in cui Donald Trump, siglato l’accordo con la Cina, adopera lo strumento dei dazi come arma di ricatto in chiave antieuropea.
    Anche la salute bancaria tedesca non fa ben sperare. Deutsche Bank è uno degli istituti che da tempo ha un problema di sofferenze bancarie e ha subito già dei declassamenti da parte delle agenzie di rating. Pare abbia derivati per oltre 14 volte il Pil della Germania, di cui un alto quantitativo ritenuti tossici. Se la situazione dovesse precipitare, il contagio potrebbe diffondersi, a catena, sulla stabilità dei mercati europei. Quale futuro prevedo per l’Eurozona? Sui tempi non sono ottimista, ma per forza di cose dovrà esserci un cambiamento radicale. Ci sono dei segnali di apertura, anche se restano fazioni di resistenza interne, dovuti agli adoratori dell’austerity, che come cultori di una religione continuano a spingere per un modello economico sbagliato. Il peccato originale dell’Unione Europea? Il problema fondamentale è che la moneta unica è stata anteposta al percorso di integrazione politica e fiscale, che di fatto non c’è ancora. È come costruire un palazzo senza partire dalle fondamenta. Questo rappresenta un handicap di partenza pesantissimo. La crisi del 2008 è nata negli Usa, ma dagli Usa è stata superata, a differenza dell’Europa, che è rimasta ingabbiata nelle sue regole. Dunque le alternative sono due: o una rottura totale, che è alquanto improbabile, oppure continuare il processo di integrazione.
    Ultimamente c’è chi pensa che la via ambientale possa essere una valida via d’uscita. Larry Fink, il capo del più grande fondo d’investimento mondiale, BlackRock, sostiene che il “climate change” cambierà per sempre il volto della finanza. L’ambientalismo potrebbe essere la leva del cambiamento, l’innesco che ci costringerà a rivedere l’attuale modello economico. Inoltre può essere un incentivo a rivedere tante assurdità di questo sistema, come le delocalizzazioni alimentari, ad esempio, per cui importiamo prodotti che potremmo produrre. Anche il Premio Nobel Joseph Stiglitz, uno dei più accesi critici dell’euro, sostiene che il cosiddetto “green new deal” salverà la moneta unica, perché gli investimenti verdi porranno fine all’austerity. E’ uno scenario credibile? Sicuramente è una visione molto ottimistica. Bisogna vedere se riuscirà a passare la proposta che consente di scorporare dal conteggio del deficit gli investimenti sostenibili, superando il Patto di Stabilità. Ma ad oggi c’è stato un rifiuto soprattutto dai paesi del Nord Europa. Da dove passa il cambiamento?Dobbiamo sperare che qualcuno si svegli: per ritornare a crescere occorre un New Deal di stampo rooseveltiano. Che poi sia verde o di qualsiasi altro colore, poco importa. Anzi, meglio.
    (Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate a “La Verità” per l’intervista pubblicata il 27 gennaio 2020, ripresa dal blog dell’economista: “Economia, Unione Europea, ambiente: cosa ci aspetta?”).

    Nel mio libro “Inganni economici” parlo di un fenomeno preciso, la “divinizzazione dell’economia”, in base al quale i postulati economici diventano dogmi, e le previsioni profezie. L’inganno principale è credere che l’economia sia una scienza esatta come la matematica. Oggi, un modello economico (valido, forse, in alcune circostanze) viene fatto passare per una legge universale. E’ la logica del “there is no alternative”, non c’è alternativa: il principio con il quale ci è stata propugnata l’austerity. Da questo concetto discendono tanti luoghi comuni. Come la convinzione che la disuguaglianza sociale alla lunga possa portare alla crescita e che le riforme strutturali siano la panacea di tutti i mali, quando spesso si traducono in riduzioni dei salari e dei diritti dei lavoratori e possono addirittura aumentare la disoccupazione nel breve periodo, in una situazione di crisi della domanda quale quella stiamo vivendo oggi. A Davos la Merkel ha detto che la Grecia sarebbe tornata a crescere? Ci vuole un grande coraggio per parlare di successo sulla Grecia. Anzi, è una frase che nasconde una profonda mancanza di sensibilità per il lato umano del dramma greco.

  • Airbnb fa male: il turismo low cost sfratta i meno abbienti

    Scritto il 24/11/19 • nella Categoria: Recensioni • (Commenti disabilitati)

    Si presenta come la principale “success story” del capitalismo delle piattaforme digitali: oggi, Airbnb è un impero mondiale. Nata nell’ottobre 2007 a San Francisco con l’intuizione di creare un portale online che coniugasse domanda e offerta del turismo low cost, è diventata un colosso da 30 miliardi di dollari: solo nel secondo trimestre del 2019 ha realizzato oltre un miliardo. In costante espansione, si appresta ad acquisire nuove società con l’obiettivo di avere il monopolio del settore a livello globale. «I numeri del boom sono impressionanti, se pensiamo che il portale ha visto crescere gli annunci pubblicati dagli 8.126 del 2011 ai 400mila attuali», scrivono Vincenzo Carbone e Giacomo Russo Spena su “Micromega”. «Utilizzato soprattutto tra i più giovani e gli squattrinati, da un lato è uno strumento comodo che permette di viaggiare a basso costo, dall’altro è diventato per qualcuno un’attività semi-professionale dando la possibilità a chi ha una camera libera nella propria abitazione di affittarla per brevi periodi». Su ogni transazione effettuata, la piattaforma trattiene una percentuale: il 3% dall’host, una percentuale variabile (fino al 20%) dal turista. La tesi: il turismo low cost promosso da Airbnb è contro i poveri.
    «Nel suo frame narrativo – continuano Carbone e Russo Spena – Airbnb parla di “città condivisa” rivendicandosi il ruolo di competitor per le catene alberghiere e per il turismo di lusso. Si autorappresenta come l’opzione politicamente corretta: la rivincita del ceto medio e dei meno abbienti e un nuovo modo di viaggiare tramite lo home-sharing». In effetti, il boom delle stanze in affitto porterebbe benefici diffusi anche per i territori, dal ripopolamento dei centri abbandonati alla riqualificazione di intere aree. Ma è tutto oro quel che luccica? Qual è idea di città che si nasconde veramente dietro il business di Airbnb? Dopo anni di studio, Sarah Gainsforth, ricercatrice e giornalista, ha prodotto il libro “Airbnb città merce” (DeriveApprodi), nel quale effettua un’attenta disamina di questa florida società-prodigio della Silicon Valley, focalizzandosi sulle conseguenze urbane del turismo low cost. Il testo, secondo la recensione di “Micromega”, non risulta né ideologico né manicheo. «La retorica fasulla di Airbnb va combattuta con dati reali e storie vere di origine e resistenza», si legge nella prefazione. Dietro il comodo strumento di Airbnb, si celerebbe un modello di città escludente e diseguale.
    Innanzitutto, il suo business avalla il fenomeno della “gentrification”, ovvero la riqualificazione estetica dei quartieri impoveriti (ma, nello stesso momento, l’aumento dei prezzi e dei valori immobiliari: il che che provoca un ricambio di popolazione e l’espulsione, diretta o indiretta, degli abitanti meno facoltosi). Airbnb contribuisce a questa trasformazione urbana perché gli affitti temporanei di alloggi contraggono l’offerta di case in affitto, favorendo il rialzo dei valori immobiliari e dei canoni di locazione. Secondo la Gainsforth, Airbnb non è altro che «uno strumento di concentrazione della ricchezza proveniente dalla rendita immobiliare: fa profitti imponendo un modello di città sbagliato dove persiste un centro turistico e vetrina e la contemporanea espulsione degli abitanti verso le periferie», che poi diventano contenitori dell’emarginazione sociale. «Che Airbnb favorisca la classe media è una favola», spiega l’autrice in una recente intervista su “Left”: «Se lo fa è soltanto nel mascherare gli effetti delle politiche neoliberiste che sono alla base del suo stesso successo». Peraltro, «il ceto medio è vittima principale delle prassi urbane attivate dall’azienda, in quanto soggetto principale che subisce gli effetti della “gentrification”».
    Molte città in Europa – da Barcellona a Lisbona – secondo “Micromega” stanno correndo ai ripari per arginare quel turismo di massa che sta devastando il volto dei propri centri, palesandosi come il principale strumento di “gentrification” e di marketing delle città, diventate al tempo stesso “imprenditrici” e merce di consumo. Se il mantra dei nostri tempi è “il turismo genera ricchezza”, la domanda è: per chi? «Questo modello di marketing turistico concentra i profitti nelle mani di pochi operatori privati, principalmente le compagnie aeree, i tour operator e i proprietari immobiliari», sostiene il ricercatore Augustin Cocola-Gant, intervistato nel libro: «Tutti gli altri ne sono esclusi, quella che inizialmente poteva sembrare un’opportunità per la città si sta rivelando una dimensione drammatica». In Italia, città come Firenze, Napoli e Venezia stanno cambiando volto per l’invasione del turismo di massa: «Nel capoluogo toscano, oltre 8.200 annunci per case-vacanze su 11.200 sono nel centro storico, e ciò sta portando all’abbandono dal centro di molti residenti».
    La “monocultura turistica”, poi, sfrutta (come “merce esperienziale”) ogni valore territoriale, ogni aspetto delle culture materiali: dal patrimonio enogastronomico, alle relazioni sociali nei contesti di vita, dalle sagre ai mercatini tipici, dalle rievocazioni storiche alle più arcaiche pratiche delle culture tradizionali, scrivono Carbone e Russo Spena. Persino nelle forme «polverizzate non governate (immediatamente) dai grandi tour operator», la massificazione dell’industria turistica «ha reso “merce” le esperienze urbane e dei territori», trasfigurando i quartieri. Siti d’interesse turistico «hanno visto progressivamente mutare funzioni e significati», e intere aree urbane «subiscono trasformazioni nella composizione degli abitanti, nelle attività economiche e commerciali, nei tempi di vita, esclusivamente scanditi su quelli del consumo». Un nuovo deserto: «I panorami sociali di queste aree sono spopolati, pochissimi i residenti stabili, mentre le classi meno agiate e le famiglie di ceto medio vengono espulsi», visto che mancano “servizi di prossimità” e i costi crescono.
    Poi ci sono appartamenti di rappresentanza, usati solo per pochi giorni l’anno: «Case senza abitanti e abitanti senza casa rappresentano un altro stridente paradosso dei territori turistificati, nei quali si generano conflitti sull’uso dello spazio e sui significati attribuiti ai luoghi tra chi li vive quotidianamente e chi, invece, semplicemente, li consuma». Secondo  Sarah Gainsforth, una nuova “trappola” dell’economia delle piattaforme digitali si è costituita nell’incontro tra dispositivi tecnologici e meccanismi di autoimpresa: accogliere turisti è rappresentato come un’attività facile (smart) e persino divertente, mentre le tecnologie digitali consentono di intercettare agevolmente la domanda di ospitalità, mentre la condivisione dello spazio domestico costituisce «una modalità creativa per l’integrazione del reddito». L’idea di abitare, scrive “Micromega”, è mutata dalla molecolarizzazione dell’impresa turistica contemporanea: fare soldi con il turismo significa sempre più spesso “vendere” i turisti, «una preziosa merce da mobilitare per carpirne l’attenzione e per estrarne capacità di spesa».
    La città e il territorio? «Costituiscono un mezzo di produzione, una risorsa estrattiva per questa forma di produzione: i luoghi sono rendite da cui trarre profitto». Di fatto, la finanza «ha ridisegnato le città non più soltanto facilitando l’acquisto delle case attraverso i mutui ipotecari, ma attraverso l’ascesa delle grandi corporazioni immobiliari sostenute dai mercati di capitale internazionale e del capitalismo delle piattaforme come Airbnb». In altre parole, va a farsi benedire la pianificazione urbanistica, insieme con l’idea di città come spazio essenzialmente pubblico. «Già esistono, in Europa, modelli per regolamentare la sharing economy», concludono Carbone e Russo Spena. «Il turismo è un fenomeno complesso che modifica il senso della città ed è necessario governarlo. Non si può più relegare all’economia predatoria delle piattaforme digitali come Airbnb. Ci vogliono scelte politiche innovative, radicali e coraggiose. In Italia quando?».
    (Il libro: Sarah Gainsforth, “Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale”, DeriveApprodi, 190 pagine, 18 euro).

    Si presenta come la principale “success story” del capitalismo delle piattaforme digitali: oggi, Airbnb è un impero mondiale. Nata nell’ottobre 2007 a San Francisco con l’intuizione di creare un portale online che coniugasse domanda e offerta del turismo low cost, è diventata un colosso da 30 miliardi di dollari: solo nel secondo trimestre del 2019 ha realizzato oltre un miliardo. In costante espansione, si appresta ad acquisire nuove società con l’obiettivo di avere il monopolio del settore a livello globale. «I numeri del boom sono impressionanti, se pensiamo che il portale ha visto crescere gli annunci pubblicati dagli 8.126 del 2011 ai 400mila attuali», scrivono Vincenzo Carbone e Giacomo Russo Spena su “Micromega“. «Utilizzato soprattutto tra i più giovani e gli squattrinati, da un lato è uno strumento comodo che permette di viaggiare a basso costo, dall’altro è diventato per qualcuno un’attività semi-professionale dando la possibilità a chi ha una camera libera nella propria abitazione di affittarla per brevi periodi». Su ogni transazione effettuata, la piattaforma trattiene una percentuale: il 3% dall’host, una percentuale variabile (fino al 20%) dal turista. La tesi: il turismo low cost promosso da Airbnb è contro i poveri.

  • Barnard: l’evasione fiscale ci parla, e purtroppo ha ragione

    Scritto il 26/10/19 • nella Categoria: idee • (4)

    In Italia circa 270 miliardi di euro sfuggono al fisco ogni anno. Lì dentro c’è di tutto, dal “nero” di cittadini e aziende, alle fughe di capitali nei cosiddetti paradisi fiscali; dall’artigiano che non paga l’Iva per sfamarsi, all’immobiliarista che scoppia di soldi ma non ne ha mai abbastanza. Abbiamo compassione per il primo e ci fa incazzare il secondo. Ok. Ma se guardiamo alla realtà contabile dell’evasione fiscale con occhi fermi e non isterici, e se invece di gridare contro l’evasione proviamo ad ascoltarla, allora tutto cambia. Cosa fa chi evade? Si tiene dei soldi. Così non li incassa lo Stato. E cosa fa con quei soldi? Li spende, o li investe in risparmi. Ok, fermi qui per un attimo. Ora due minuti di riepilogo di cose già dette e ridette. Cosa accade allo Stato se incassa meno tasse? Accadono solo quattro cose: A) ha meno mezzi per controllare l’inflazione (si tassa per diminuire la massa monetaria in circolazione se è eccessiva e quindi causa inflazione); B) ha meno mezzi per controllare i patrimoni privati (si tassa per impedire al Paperone di diventare più ricco dello Stato); C) ha meno mezzi per incoraggiare o scoraggiare certi comportamenti e consumi (si tassa il consumo di alcool e si detassano i comportamenti “green”); D) ha meno mezzi per controllare la domanda in economia (si tassa per frenare i consumi se eccessivi, si detassa per incoraggiare l’economia se langue).
    Ora, cosa non accade allo Stato se incassa meno tasse. Non accade che esso abbia meno soldi da spendere per la funzione pubblica, cioè ospedali, asili, strade, infrastrutture, servizi ecc. Infatti lo Stato è colui che emette la moneta dal nulla, e può certamente emetterne quanta ne vuole per ospedali, asili, strade, infrastrutture, servizi, senza alcun bisogno di andarla a chiedere ai cittadini tassandoli. Anzi: è impossibile che lo Stato possa spendere per ospedali, asili, strade, infrastrutture, servizi solo se prima ci tassa, perché i soldi per pagare le tasse sono i soldi che lo Stato ci ha per forza dovuto dare prima di ritirarli in tasse. Prima ce li deve dare (cioè spesa pubblica in ospedali, asili, strade, infrastrutture, servizi) e solo poi ce li ritira in tasse. Quindi la spesa pubblica non dipende mai dalle tasse (se poi lo Stato è così folle da adottare l’euro, che non può più emettere e che deve andare a cercare da banche private, e se quindi a quel punto lo Stato non può più fare quanto sopra, be’, questa è un’altra storia, che non cambia la vera natura dell’evasione fiscale).
    Allora, torniamo all’evasione. Con essa i cittadini dicono allo Stato: «Noi abbiamo bisogno di tenerci più soldi». E’ come se dicessero allo Stato: «Tu ci dovresti dare più soldi, quindi dovresti spendere di più». L’evasione è quindi una richiesta dei cittadini allo Stato. Quando i cittadini evadono, essi semplicemente espandono informalmente la spesa dello Stato. Ora, la domanda è: questa richiesta, questa espansione di spesa imposta, è legittima? La risposta è chiara: A) in larga parte sì, perché proveniente da cittadini/aziende che davvero senza evadere non sopravviverebbero; B) in piccola parte no, perché frutto dell’ingordigia di alcuni milionari o miliardari. Bene, ora vediamole tutte e due. Come detto sopra, chi evade per disperazione, per arrivare a fine mese, per non chiudere la baracca, cioè la grande maggioranza degli evasori, sta semplicemente dicendo al suo Stato: «Espandi il deficit, espandi la spesa, non ce la facciamo!». Questa chiamata va assolutamente ascoltata, infatti la macroeconomia della Me-Mmt ci insegna senza ombra di dubbio che oggi nella maggioranza dei governi i deficit sono troppo bassi, non troppo alti, e le tasse sono inaffrontabili.
    I controlli fiscali ci devono essere, ma solo dopo che lo Stato ha assicurato a milioni di cittadini/aziende di avere abbastanza denaro per pagare tutte le tasse, ma anche per vivere e risparmiare. Se lo Stato fa il pareggio di bilancio, dove spende 100 e tassa gli stessi 100 lasciando a cittadini/aziende zero denaro, esso non può poi pretendere che nessuno evada. Come fanno cittadini/aziende a vivere e a risparmiare? Dove lo vanno a pendere, il denaro, se è vero che solo lo Stato lo emette? Per forza devono evadere. Chi evade perché non ne ha mai abbastanza si copre di una colpa che va dimezzata, perché il denaro che essi sottraggono allo Stato viene poi o speso, oppure investito in risparmi. Il denaro che spendono (che include quello temporaneamente ammassato in paradisi fiscali) ritorna in circolo nelle economie, crea domanda, cioè vendite, lavoro, occupazione, investimenti. Questo non è male, anzi, ed è il 50% della colpa che decade.
    Rimane quel 50% che colpisce lo Stato nei 4 punti di cui sopra, ma ricordiamoci sempre che anche questa evasione non sottrae allo Stato la sua capacità di spesa pubblica, per cui il ricco evasore non sottrae a noi alcuno ospedale, strada, asilo, servizio. Chi ce li sottrae è lo Stato se segue le ideologie economiche delle austerità che oggi sono di moda, e che sono criminose. Altro che paradisi fiscali. Conclusione: l’evasore “odioso” (miliardario) è colpevole a metà, e certamente per quella metà va perseguito. In tutti i casi, l’evasione fiscale non è un crimine che sottrae beni e servizi ai cittadini, perché come detto è solo l’ideologia sbagliata degli Stati a fare questo. Nella maggioranza dei casi essa è una richiesta al governo di espandere la spesa, perché siamo con l’acqua alla gola, e quella richiesta va ascoltata, non sepolta da stupida retorica anti-evasori. Chiaro?
    (Paolo Barnard, “L’evasione fiscale ci parla, e ha ragione”, dal blog di Barnard del 3 agosto 2013).

    In Italia circa 270 miliardi di euro sfuggono al fisco ogni anno. Lì dentro c’è di tutto, dal “nero” di cittadini e aziende, alle fughe di capitali nei cosiddetti paradisi fiscali; dall’artigiano che non paga l’Iva per sfamarsi, all’immobiliarista che scoppia di soldi ma non ne ha mai abbastanza. Abbiamo compassione per il primo e ci fa incazzare il secondo. Ok. Ma se guardiamo alla realtà contabile dell’evasione fiscale con occhi fermi e non isterici, e se invece di gridare contro l’evasione proviamo ad ascoltarla, allora tutto cambia. Cosa fa chi evade? Si tiene dei soldi. Così non li incassa lo Stato. E cosa fa con quei soldi? Li spende, o li investe in risparmi. Ok, fermi qui per un attimo. Ora due minuti di riepilogo di cose già dette e ridette. Cosa accade allo Stato se incassa meno tasse? Accadono solo quattro cose: A) ha meno mezzi per controllare l’inflazione (si tassa per diminuire la massa monetaria in circolazione se è eccessiva e quindi causa inflazione); B) ha meno mezzi per controllare i patrimoni privati (si tassa per impedire al Paperone di diventare più ricco dello Stato); C) ha meno mezzi per incoraggiare o scoraggiare certi comportamenti e consumi (si tassa il consumo di alcool e si detassano i comportamenti “green”); D) ha meno mezzi per controllare la domanda in economia (si tassa per frenare i consumi se eccessivi, si detassa per incoraggiare l’economia se langue).

  • Uber, non solo taxi: lavoratori sottopagati, come nell’800

    Scritto il 24/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Ci sono professioni che da tempo sono divenute obsolete e che rimangono in auge solo perché godono di una forte protezione legale. L’attività notarile è una di queste attività. La tecnologia però non minaccia mai davvero questo tipo di professioni, anche se sulla carta sembrerebbe proprio così. Il sistema dei blocchi algoritmici promossa dalla tecnologia blockchain, ad esempio, consentirebbe già a partire da domani mattina di sostituire i notai. Detto diversamente, non abbiamo più bisogno che qualcuno ci dica che l’immobile che abbiamo appena acquistato è di nostra proprietà… (e forse non ce n’è mai stato davvero bisogno). Eppure, questi retaggi ottocenteschi rimangono attuali grazie alla forte pressione politica che le notarili corporazioni riescono ad esercitare. Chi si deve davvero preoccupare delle nuove tecnologie sono invece i lavoratori comuni, i piccoli artigiani, gli autisti, ma se ciò avviene non è solo colpa dello sviluppo delle applicazioni informatiche.

  • Lotta alla CO2? Acqua senza plastica, anziché tasse “green”

    Scritto il 17/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (13)

    Uno dei segreti di un paese sano economicamente ed ecologicamente (eco deriva da “òikos” che in greco significa “casa”, concetto che richiama anche alla famiglia…) è riconvertire aziende praticamente parassitarie in realtà che producano beni e servizi davvero rispondenti ai bisogni delle persone comuni. Ma in Italia, come al solito, si apprende che stanno per piovere sulle nostre tasche nuove imposizioni fiscali spacciate per “green” che, ovviamente, non risolvono un bel niente e danneggiano le famiglie. Secondo voi un costo leggermente più alto sul diesel, soprattutto in assenza di servizi pubblici, ridurrà l’utilizzo delle auto o rappresenterà un ennesimo balzello per i comuni mortali?  E collegandomi a ciò, la presunta democrazia diretta ci ha fornito il top delle menti in economia o per l’ennesima volta personaggi pilotati da chissà chi e in cerca d’autore? Qualcosa di simile alla questione diesel riguarda la molecola inorganica da noi più amata e indispensabile: l’acqua! Ciò che adesso può sembrare utopico, fino a 20 anni fa è stata la regola: bere acqua del rubinetto. L’acqua in bottiglia all’epoca non predominava negli spot televisivi fino alla manipolazione di massa e veniva riservata a ruoli marginali come festini e gite, insieme a bibite zuccherate e patatine.
    Immaginate, considerando la totalità dei cittadini italiani, quanto si svilupperebbe l’economia nazionale se si evitasse di far finire questo denaro nelle solite multinazionali che in parte non reinvestono (lo accumulano: tesaurizzazione). Non serve un genio dell’economia per capire che i posti di lavoro persi in questa filiera verrebbero più che compensati da assunzioni di altro tipo visto che circolerebbero più soldi, in primis localmente, e che quindi si incrementerebbe il benessere. Senza che ce ne rendessimo conto, quindi, chi sta dietro al business dell’acqua in bottiglia ne ha “costruito la domanda” a nostre spese, sia economiche che come rischio salute (vedi “Aduedi, bottiglie in plastica). Se non fosse stato così, pensate che a qualcuno sarebbe saltato in mente di comperare a peso d’oro l’H2O (!?), qualcosa di immediatamente disponibile in casa? Non stiamo quindi parlando di una tematica limitata agli ambientalisti.
    Pensate che sia un caso che in certe realtà locali, quando non in intere regioni, gli acquedotti non siano sicuri e perdano ingenti quantità di risorsa? Unite a questo la promozione sulle etichette di immagini accattivanti di cervi, paesaggi freschi e laghetti, in un contesto di continuo bombardamento televisivo, radiofonico e internettiano, e il gioco è fatto. Essendo dal 2012 che mi interesso a codesto tema, credo siano maturi i tempi per sollevare la questione e per essere “gretiano”, ma in modo intelligente; oltre a fare azioni con campagne che interessano il fenomeno a valle (spesso strumentalizzate vergognosamente dai partiti politici), dovremmo permettere ai cittadini di tornare al rubinetto con acquedotti sicuri su tutto il territorio nazionale, ristrutturandoli e/o rifacendoli di sana pianta e assumendo ricercatori, microbiologi e tecnici in questo comparto.
    Tutte queste azioni concrete ridurrebbero drasticamente le emissioni (in Italia comunque storicamente minori, pro capite, come si può vedere dal primo grafico), il consumo di fonti fossili per produrre plastica, le bottiglie in mare e perfino nei parchi marini con effetti devastanti sulla fauna e sulla catena alimentare (microplastiche) e le idee balzane di altri prelievi fiscali sulle persone comuni che sono le meno responsabili secondo tutti i dati come da secondo grafico. Si pensi che, se riempiamo una brocca da mezzo litro con acqua del rubinetto, essa ha un costo per noi di circa duemila volte minore rispetto a quella del negozio; e il sapore, dai test effettuati, risulta generalmente migliore. Ciò che è ignorato dai più, inoltre, è che l’acqua – prima di giungere sulle nostre tavole dal negozio – viene depositata spesso e volentieri in luoghi dove si scalda, e il suo contenitore di plastica in questo modo rilascia antimonio, benzofenone, acetaldeide e formaldeide quantità tutte da valutare (vedi “Bevi meno plastica, approfondimenti”).
    Benissimo (!) direte, non ne ho mai sentito parlare; cosa saranno mai queste sostanze!? Sono sostanze cancerogene, che cioè provocano il cancro, e mutagene, che cioè modificano il nostro Dna mettendoci nelle condizioni di partorire un figlio non sano (o renderci sterili). E la brutta notizia è che i controlli per valutare i livelli presenti in ciò che beviamo sono rarissimi e incerti: si pensi che un’acqua a 30 gradi vede quasi decuplicato il proprio contenuto di queste sostanze; effetti paragonabili avvengono anche quando l’acqua sta nei contenitori per 3 mesi o più. Non so che effetto vi farà questo articolo; ma sono certo che, se condiviso e conosciuto, finirebbe sul tavolo dei governi. La buona notizia è che possiamo farci sentire.
    (Marco Giannini, “Lotta alla CO2? Non tasse ma acquedotti sicuri in tutta Italia!”, Libreidee, 17 ottobre 2019).

    Uno dei segreti di un paese sano economicamente ed ecologicamente (eco deriva da “òikos” che in greco significa “casa”, concetto che richiama anche alla famiglia…) è riconvertire aziende praticamente parassitarie in realtà che producano beni e servizi davvero rispondenti ai bisogni delle persone comuni. Ma in Italia, come al solito, si apprende che stanno per piovere sulle nostre tasche nuove imposizioni fiscali spacciate per “green” che, ovviamente, non risolvono un bel niente e danneggiano le famiglie. Secondo voi un costo leggermente più alto sul diesel, soprattutto in assenza di servizi pubblici, ridurrà l’utilizzo delle auto o rappresenterà un ennesimo balzello per i comuni mortali?  E collegandomi a ciò, la presunta democrazia diretta ci ha fornito il top delle menti in economia o per l’ennesima volta personaggi pilotati da chissà chi e in cerca d’autore? Qualcosa di simile alla questione diesel riguarda la molecola inorganica da noi più amata e indispensabile: l’acqua! Ciò che adesso può sembrare utopico, fino a 20 anni fa è stata la regola: bere acqua del rubinetto. L’acqua in bottiglia all’epoca non predominava negli spot televisivi fino alla manipolazione di massa e veniva riservata a ruoli marginali come festini e gite, insieme a bibite zuccherate e patatine.

  • Sapelli: patto segreto Vaticano-Cina, e Conte si è allineato

    Scritto il 08/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Via della Seta? Attenti alla Cina: l’asse Roma-Pechino indebolisce l’Italia, facendo perdere al Belpaese la protezione di Washington di fronte all’Ue a trazione franco-tedesca. Quello che pochi conoscono è il ruolo del Vaticano nella svolta filo-cinese del governo italiano. Lo afferma il professor Giulio Sapelli, economista e storico, acuto analista degli scenari geopolitici. Il 22 settembre 2018, scrive Sapelli sul “Sussidiario”, è stato firmato un accordo tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese, «ancor oggi secretato e sconosciuto all’opinione pubblica». Altrettanto in ombra è la storia, travagliata, dei rapporti diplomatici tra l’Oltretevere e Pechino, interrottisi nel 1951 e riapertisi di fatto solo nel 2014, «giungendo a influenzare più profondamente di quanto non si pensi la stessa vicenda italico-governativa». L’accordo stipulato un anno fa, spiega Sapelli, si fonda sulla libertà del governo cinese di proporre i vescovi cattolici. In cambio, la Santa Sede potrà scegliere quelli che ritiene più idonei al ruolo pastorale. «L’autorità immensa di cui ancor oggi la Santa Sede e il Romano Pontefice godono nel mondo – osserva Sapelli – sono in tal modo sottoposti al rischio di porsi di fatto al servizio delle ambizioni egemoniche e quindi anche culturali cinesi». Oggi, peraltro, «la gerarchia pastorale di Hong Kong ha levato la sua voce contro l’accordo».
    Le implicazioni con il Conte-bis? Il cuore dell’intesa che ha dato vita all’attuale accordo “pastorale”, scrive Sapelli, non risiede solo nella Segreteria di Stato vaticana, ma anche nella struttura diretta per decenni dal cardinale Achille Silvestrini, prefetto delle Chiese Orientali e grande protettore di Giuseppe Conte. L’attuale premier «è stato una figura importante nell’azione di Villa Nazareth», annota Sapelli. E la sua presenza a Palazzo Chigi, prima alleato con la Lega e ora col Pd, «illumina di una luce molto interessante il profilo culturale sia del governo, sia della nuova politica “pastorale” vaticana». Alcuni hanno parlato di “nuovo cesaropapismo”. In realtà, sintetizza Sapelli, «il governo ha intrapreso una strada parallela in merito ai rapporti economici e geostrategici con la Cina». Questo è appunto l’oggetto del contendere con gli Usa, come ben dimostra la visita riservata del Segretario di Stato americano Mike Pompeo in Vaticano, «che ha avuto come oggetto proprio la questione cinese». Secondo Sapelli, anche in merito alla collocazione internazionale dell’Italia, «gli Usa non possono non essere preoccupati dello straordinario azzardo geostrategico compiuto prima dal governo Conte-1 e poi dalla sua replica», che ha lasciato invariati «i termini di un accordo che segna un pericoloso cambiamento della politica estera italiana».
    La stessa polemica in corso sui dazi, continua Sapelli, non è stata affrontata in modo serio e veritiero: è stato infatti sottaciuto che il conflitto sul commercio non è tra Italia e Usa, ma tra Stati Uniti e Ue. Una guerra iniziata nel 2004 con il ricorso degli Usa alla Wto per gli aiuti di Stato europei al progetto Airbus, che avrebbe danneggiando la Boeing e l’industria nordamericana (avionica e difesa, telecomunicazioni, elettronica). «Senza dimenticare il ruolo cruciale del “dieselgate” e delle pulsioni anti-industrialiste insite nel progetto della cosiddetta auto elettrica». Non a caso, aggiunge Sapelli, «il peso degli interessi francesi e del Regno Unito in Italia sta crescendo con una velocità imprevista, che non potrà non riflettersi sull’azione del governo». Dal Conte-bis, nessuno spiraglio per una ripresa economica: «L’Iva è certo un tema importante, ma se non è collegato a una politica di investimenti e di creazione di nuove imprese e di sostegno delle esistenti non può provocare né l’innovazione competitiva, né l’aumento del mercato interno», letteralmente indispensabile «per riavviare la crescita e sconfiggere la povertà in Italia». Rimediare con le privatizzazioni? Sarebbe un tragico suicidio. Sapelli cita Luigi Campiglio, economista in forza alla Pirelli: «Privatizzare le migliori imprese italiane, come raccomanda il Fondo Monetario Internazionale, non produrrebbe affatto conseguenze positive per la nostra economia».
    Il nostro principale problema, infatti, resta l’incremento della domanda interna: se crolla, vincono i prodotti d’importazione. Privatizzando, aggiunge Campiglio, «si darà qualche soldo allo Stato, ma le aziende che producono per la domanda interna diventano straniere», e quindi «l’Italia ne beneficerà soltanto in minima parte». Per Sapelli, la questione è molto chiara: «Senza tutte le politiche economiche ancora importanti per la creazione di occupazione sostenendo le imprese esistenti, in primo luogo le piccole, le artigiane e le medie, non si potrà uscire da questa depressione, che si profila molto pesante». Facili previsioni: «La deflazione secolare rischia di tramutarsi da stagnazione in recessione». Opporsi è possibile, secondo il professore, «solo facendo comprendere che la resilienza italiana è la sola via che oggi deve intraprendere tutta l’Europa, Germania e Francia in primis». Ovvero: se si pone al centro l’ampliamento del mercato interno, l’occupazione, la lotta alla povertà e alla disgregazione sociale, «l’interesse nazionale è l’interesse di tutta l’Europa, al di là delle differenze di produttività del lavoro, di innovazione e di collocazione nelle catene del valore».
    Al Conte-bis si richiede dunque «un cambiamento di rotta profondo, a cominciare dalla politica estera, riaffermando l’alleanza con gli Usa e respingendo l’idea che sia possibile una crescita europea riproponendo continuamente la divisione geostrategica e geoeconomica iniziata nel 2003 anche per difetto della politica unipolarista degli Usa, che condusse alla divisione tra Francia e Germania da un lato, e Stati Uniti dall’altro». Il guaio è che, per Sapelli, le prospettive del governo, soprattutto in politica estera, «non sono solo insufficienti, ma preoccupanti». Roma dovrebbe «sciogliere i legami dipendenti con la Cina, riaffermare l’interesse prevalente del Mediterraneo per difendere le nostre industrie energetiche e infine uscire dalla confusione sulla cosiddetta economia verde, che mortifica gli interessi industriali italiani (mentre l’industria italiana è la più sostenibile al mondo, non solo nel tessuto energetico e chimico)». Dalla politica estera si giunge alla politica industriale, «che non è solo nazionale, ma sempre continentale e mondiale per l’inserzione italiana nelle filiere industriali e dei servizi alle imprese nel mondo». Quello che molti italiani non sanno, però, è che a Palazzo Chigi siede un premier attentissimo alle indicazioni del Vaticano, che oggi ha stretto un patto strategico con la Cina, vero antagonista storico del nostro tradizionale riferimento, cioè gli Usa.

    Via della Seta? Attenti alla Cina: l’asse Roma-Pechino indebolisce l’Italia, facendo perdere al Belpaese la protezione di Washington di fronte all’Ue a trazione franco-tedesca. Quello che pochi conoscono è il ruolo del Vaticano nella svolta filo-cinese del governo italiano. Lo afferma il professor Giulio Sapelli, economista e storico, acuto analista degli scenari geopolitici. Il 22 settembre 2018, scrive Sapelli sul “Sussidiario”, è stato firmato un accordo tra Santa Sede e Repubblica Popolare Cinese, «ancor oggi secretato e sconosciuto all’opinione pubblica». Altrettanto in ombra è la storia, travagliata, dei rapporti diplomatici tra l’Oltretevere e Pechino, interrottisi nel 1951 e riapertisi di fatto solo nel 2014, «giungendo a influenzare più profondamente di quanto non si pensi la stessa vicenda italico-governativa». L’accordo stipulato un anno fa, spiega Sapelli, si fonda sulla libertà del governo cinese di proporre i vescovi cattolici. In cambio, la Santa Sede potrà scegliere quelli che ritiene più idonei al ruolo pastorale. «L’autorità immensa di cui ancor oggi la Santa Sede e il Romano Pontefice godono nel mondo – osserva Sapelli – sono in tal modo sottoposti al rischio di porsi di fatto al servizio delle ambizioni egemoniche e quindi anche culturali cinesi». Oggi, peraltro, «la gerarchia pastorale di Hong Kong ha levato la sua voce contro l’accordo».

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