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Archivio del Tag ‘Donald Trump’

  • Israele, belve al lavoro: botte ai bambini e case demolite

    Scritto il 05/8/19 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Otto giorni fa, undici edifici palestinesi contenenti settanta appartamenti monofamiliari situati nel villaggio di Wadi al-Hummus, nella parte est di Gerusalemme occupata illegalmente da Israele, sono stati demoliti in un’operazione militare da oltre 1.000 fra soldati, poliziotti e lavoratori municipali israeliani, con l’utilizzo di bulldozer, terne ed esplosivi. I residenti che hanno provato a resistere sono stati picchiati dai soldati, buttati giù dalle scale ed anche colpiti a distanza ravvicinata con proiettili di gomma. I soldati sono stati filmati mentre ridevano e festeggiavano durante il loro sporco lavoro. Anche agli occupanti che non avevano opposto resistenza e che avevano alzato le mani in segno di resa non era stato risparmiato il bastone, così come agli osservatori stranieri che si trovavano sul posto per aggiungere la loro voce a coloro che protestavano contro il vile gesto. Le lesioni subite da alcune delle vittime sono state fotografate e sono disponibili online. Dodici palestinesi e quattro osservatori britannici sono stati feriti abbastanza gravemente, tanto da essere ricoverati in ospedale. Gli inglesi hanno riferito di essere stati «calpestati, trascinati per i capelli, strangolati con una sciarpa e irrorati con spray al peperoncino dalla polizia di frontiera israeliana».
    Uno dei ricoverati in ospedale ha descritto come i soldati israeliani lo avessero trascinato per i piedi, sollevandolo e prendendolo a calci nello stomaco, mentre un soldato gli calpestava la testa quattro volte «con tutta la sua forza», prima di tenerlo fermo e tirargli i capelli. Un altro ha avuto una costola fratturata dopo che «[il poliziotto] mi aveva colpito alla gola ed altri avevano iniziato a prendermi a pugni sul torace. E’ stata una sadica esibizione». Anche un’osservatrice straniera è stata trascinato fuori da una casa, «le sue mani sono state schiacciate in modo così grave da subire una frattura ad una nocca della mano sinistra, mentre la destra ha riportato gravi danni ai tessuti “che rimarranno permanentemente deformati, a meno che non subisca un intervento di chirurgia estetica”». Edmond Sichrovsky, un attivista austriaco di origine ebraica, che si trovava in una delle case, ha descritto come le forze israeliane avessero sfondato la porta, trascinando fuori i palestinesi per primi, «facendo cadere il nonno sul pavimento di fronte ai suoi nipoti che piangevano e gridavano». I telefoni cellulari erano stati rimossi con la forza per eliminare qualsiasi foto o ripresa prima che i soldati iniziassero ad attaccare lui ed altri quattro attivisti.
    «Mi hanno ripetutamente preso a calci e a ginocchiate, procurandomi una ferita al naso ed escoriazioni multiple, oltre a rompermi gli occhiali con una ginocchiata in faccia. Una volta fuori, mi hanno sbattuto contro un’auto mentre urlavano insulti contro di me e le attiviste, chiamandole puttane». Gli edifici sono stati demoliti con il pretesto che erano troppo vicini all’illegale muro divisorio di Israele, mentre il governo di Benjamin Netanyahu citava presunti “problemi di sicurezza”. Le famiglie residenti negli edifici che non avevano avuto né il tempo né la capacità di portar via i mobili e gli oggetti personali dovranno ora passare al setaccio le macerie per vedere che cosa riusciranno a recuperare, se i soldati israeliani daranno il loro benevolo consenso. Dovranno anche trovare un nuovo posto dove vivere, perché gli israeliani non hanno nessuna intenzione di fornire loro un tetto. Le case erano state legalmente costruite su terreni nominalmente sotto il controllo dell’Autorità Palestinese (Pa), una sottigliezza che le autorità israeliane hanno ritenuto irrilevante. Quando i palestinesi si oppongono ad un tale arbitrario comportamento, vengono mandati davanti ai tribunali militari israeliani che ratificano sempre le decisioni del governo. E il cleptocratico regime di Netanyahu ha chiarito che non riconosce il diritto internazionale sul trattamento delle persone sotto occupazione militare.
    Gli edifici sono stati distrutti pochi giorni dopo che gli inferociti coloni israeliani in Cisgiordania avevano continuato la loro campagna di distruzione dei mezzi di sussistenza dei loro vicini palestinesi. Il 10 luglio, in Cisgiordania sono stati bruciati centinaia di ulivi, in un deliberato tentativo di scacciare gli arabi dalla loro terra, bloccando le attività agricole e strangolando l’economia locale. Gli ulivi sono particolarmente presi di mira perché sono redditizi e gli alberi impiegano molti anni per raggiungere la maturità e produrre. E’ anche risaputo che i coloni israeliani uccidono il bestiame, avvelenano l’acqua, distruggono i raccolti, bruciano gli edifici e picchiano, arrivando persino ad uccidere, i contadini palestinesi e le loro famiglie. A Hebron i coloni hanno circondato la città vecchia e scaricano escrementi e altri rifiuti sui negozi palestinesi sottostanti, che stanno ancora cercando di rimanere aperti. Non dovrebbe sorprendere nessuno che i coloni ebrei che praticano la violenza raramente vengano presi, ancor meno processati e quasi mai puniti. L’odioso governo di Benjamin Netanyahu ha dichiarato che quella che un tempo era la Palestina è ora un paese chiamato Israele, ed è solo per gli ebrei. L’uccisione di un palestinese da parte di un ebreo israeliano è considerato, di fatto, un reato minore.
    Intanto, a Gaza continua la carneficina, con il bilancio delle vittime fra i manifestanti disarmati che ora ammonta a più di 200, oltre a diverse migliaia di feriti, molti dei quali bambini e operatori sanitari. Di recente, ai cecchini dell’esercito israeliano è stato dato l’ordine di colpire i manifestanti alle caviglie, in modo da renderli sciancati a vita. Questo è ciò che serve per essere “l’esercito più etico del mondo”, come è stato definito dallo pseudo-intellettuale francese Bernard-Henri Levy, dimostrando ancora una volta che la tribù sa come fare causa comune. Ma i crimini di guerra compiuti da Israele richiedono anche un sostegno illimitato da parte degli Stati Uniti, sia in termini finanziari che di copertura politica, per fare in modo che tutto ciò possa accadere. Israele non ucciderebbe i palestinesi con tale impunità se non vi fosse il via libera di Donald Trump e del suo pseudo-ambasciatore prono al volere dei coloni, David Friedman, sostenuto da un Congresso che sembra avere a cuore più gli israeliani che gli americani. Com’è possibile che l’orrendo trattamento dei palestinesi da parte degli israeliani, sostenuto e favorito dalla diaspora ebraica mondiale, non sia presente nei titoli della stampa di tutto il mondo?
    Perché il mio governo, con la sua assai sospetta (ma comunque dichiarata) agenda di voler portare democrazia e libertà a tutti, non dice nulla sui palestinesi? O perché non condanna il comportamento israeliano, come aveva fatto tempo fa nei confronti del Sudafrica?Riuscireste ad immaginare i titoli del “New York Times” e del “Washington Post” se soldati e poliziotti americani stessero sfrattando e picchiando gli abitanti di un complesso residenziale in una qualsiasi città degli Stati Uniti? Ma, in qualche modo, Israele ottiene sempre il via libera, non importa cosa faccia, e i politici di entrambe le parti si dilettano nel descrivere come il “rapporto speciale” con lo Stato ebraico sia scolpito nella pietra. Dopo le demolizioni degli edifici, Washington ha ancora una volta protetto Israele dalla condanna delle Nazioni Unite per il suo comportamento, ponendo il veto al Consiglio di Sicurezza. Di conseguenza, lo Stato ebraico non è stato ritenuto responsabile per il suo comportamento scorretto; ad essere onesti, Israele è il regime-canaglia per antonomasia, dedito a trasformare i suoi vicini in rovine fumanti con l’assistenza degli Stati Uniti. È un programma diabolico e non è nell’interesse dell’America continuare ad essere trascinata lungo quella strada.
    (Philip Giraldi, “L’ultima impresa dell’esercito di Israele, il più etico del mondo”, da “Unz.com” del 30 luglio 2019, tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).

    Otto giorni fa, undici edifici palestinesi contenenti settanta appartamenti monofamiliari situati nel villaggio di Wadi al-Hummus, nella parte est di Gerusalemme occupata illegalmente da Israele, sono stati demoliti in un’operazione militare da oltre 1.000 fra soldati, poliziotti e lavoratori municipali israeliani, con l’utilizzo di bulldozer, terne ed esplosivi. I residenti che hanno provato a resistere sono stati picchiati dai soldati, buttati giù dalle scale ed anche colpiti a distanza ravvicinata con proiettili di gomma. I soldati sono stati filmati mentre ridevano e festeggiavano durante il loro sporco lavoro. Anche agli occupanti che non avevano opposto resistenza e che avevano alzato le mani in segno di resa non era stato risparmiato il bastone, così come agli osservatori stranieri che si trovavano sul posto per aggiungere la loro voce a coloro che protestavano contro il vile gesto. Le lesioni subite da alcune delle vittime sono state fotografate e sono disponibili online. Dodici palestinesi e quattro osservatori britannici sono stati feriti abbastanza gravemente, tanto da essere ricoverati in ospedale. Gli inglesi hanno riferito di essere stati «calpestati, trascinati per i capelli, strangolati con una sciarpa e irrorati con spray al peperoncino dalla polizia di frontiera israeliana».

  • Formica: Trump e Putin mollano Di Maio e Salvini per l’Ue

    Scritto il 31/7/19 • nella Categoria: idee • (14)

    Sapete chi è stato a imporre a Di Maio il voltafaccia sul Tav Torino-Lione, che probabilmente segnerà la morte politica dei 5 Stelle? Non tanto Salvini, quanto il vero padrone di casa: gli Stati Uniti. Ma non è che l’inizio: perché la testa di Luigi Di Maio, insieme a quella di Salvini, sarà servita su un piatto d’argento, sia da parte di Washington che di Mosca, per placare la voglia di vendetta dell’Europa, sfidata (solo a parole, per la verità) dal governo gialloverde. A pronosticarlo è Rino Formica, politico socialista della Prima Repubblica e osservatore smaliziato delle due incerte “repubbliche” successive. Secondo Formica neppure il voto potrebbe sanare la crisi. E nulla potrà la terza forza in campo, il fallimentare partito dei “badogliani”. «Ogni contratto ha valore a due condizioni», osserva Formica: «La prima è considerare l’oggetto del contratto, e dunque la situazione da gestire come statica e immobile. In politica è un grave errore, perché le cose si evolvono continuamente». E la seconda? «La seconda è che ad ogni inadempienza contrattuale corrisponde una sanzione». E nel contratto siglato da Lega e M5S «la clausola sanzionatoria è occulta, perché è scaricata su un terzo che non ha colpe: il popolo italiano», dice Formica, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”.
    «Prescindere dalla situazione in continuo movimento – spiega l’ex ministro craxiano – fa sì che il dibattito avvenga sulle clausole contrattuali prefissate. Ma queste sono continuamente superate, modificate, cancellate dal processo politico in atto. Di per sé già questo sancisce il fallimento del governo gialloverde». Poi, aggiunge Formica, c’è la crisi della clausola sanzionatoria delle inadempienze che stanno emergendo da una parte e dall’altra, dalla Flat Tax alla futura linea Tav Torino-Lione. E il conto «lo paga il paese», sostiene Formica. Andare al voto anticipato? «Avrebbe poco senso, perché non sarebbe risolutivo». Secondo l’ex ministro, «c’è una responsabilità delle forze di opposizione e dei mezzi di informazione», due “giocatori” che «non fanno emergere la crisi del contratto e la clausola occulta». Ci lasci indovinare, ipotizza Ferraù: l’Italia è incattivita e in preda al “fascismo”? Secondo Formica, chi oggi governa il paese «lo ha potato all’esasperazione, additando come cause fattori esogeni: l’immigrazione, l’incertezza sul lavoro, l’Europa, la corruzione, la mancata crescita. Il voto non risolverebbe i problemi – sostiene Formica – perché gli italiani sarebbero chiamati alle urne su argomenti che provocano lacerazioni: le stesse che vediamo nel nostro tessuto sociale».
    Ammettiamo che Salvini dichiari conclusa l’esperienza di governo e chieda di andare a votare, ragiona Ferraù. A quel punto, il capo dello Stato troverebbe subito un’altra maggioranza disposta a sostenere un governo di transizione? Non è questo il punto, secondo Formica: «Nel governo ci sono tre forze. M5S e Lega sono entrambi lacerati al proprio interno tra governisti e movimentisti. Due componenti interne, trasversali, che tendono alla divaricazione». E la terza forza? «È data dal gruppo dei ministri badogliani: Conte, Tria e Moavero. Hanno capito che la guerra è persa e non sanno più come evitare che l’edificio crolli loro addosso». Eppure, osserva Ferraù, hanno trovato l’accordo con l’Ue nella scorsa legge di bilancio: hanno evitato la procedura di infrazione e ora aspirano a gestire la prossima manovra. «Ma sono risultati che non hanno avuto effetti sul programma di governo», obietta Formica. I 5 Stelle e la Lega, «invece di fare un bilancio serio, trasparente, del primo anno di governo», finora «hanno enfatizzato il proprio contributo, dal contrasto all’immigrazione al reddito di cittadinanza». E adesso? «Si va verso una crisi profonda, segnata dalla rivolta dentro i 5 Stelle, che probabilmente avverrà anche all’interno della Lega, mentre i badogliani dovranno fare i conti con la propria inefficacia».
    Formica intravede il peggiore degli scenari possibili, per leghisti e grillini: «Sono dell’opinione che la crisi delle due formazioni passerà per la liquidazione dei due leader, Di Maio e Salvini». Motivo: i 5 Stelle e la Lega «hanno perso la battaglia con l’Unione Europea». Strategia fallimentare: «Avevano scommesso, sulla base di due alleanze (con Putin, con Trump o con entrambi), che sarebbero stati capaci di minare la stabilità dell’Europa. Ma l’instabilità dell’Europa non c’è, perché il voto europeo ha visto la vittoria delle forze europeiste. E gli europeisti regoleranno presto i conti con le forze ostili». Redde rationem: «In quel momento il realismo degli Stati Uniti e della Russia sarà favorevole all’iniziativa europea, e per dimostrarlo Washington e Mosca offriranno all’Europa le teste dei rispettivi “servitori” nei singoli paesi». Ma è così scontata l’obbedienza dei 5 Stelle a Washington? Per Formica, il movimento fondato fa Grillo «è un insieme di tante forze contraddittorie, ma la sua parte maggioritaria guardava e guarda al populismo americano».
    Cartina di tornasole della sottomissione grillina agli Usa, il diktat che secondo Formica i pentastellati avrebbero subito da parte dell’ambasciatore statunitense riguardo alla Torino-Lione: «Sulla Tav, Lewis Eisenberg ha chiamato Di Maio. Non si sono scambiati un cioccolatino… “Questa storia si deve chiudere, toglietevi dalle scatole”, gli ha fatto capire l’ambasciatore». Sicché, il M5S «non potrà più far finta che il contratto è in piedi e ne è solo rinviata l’attuazione. No: il contratto non c’è più». Secondo Formica, si sta avvicinando anche la fine di Salvini. Eppure – fa notare Ferraù – il leader della Lega ha il consenso di quasi il 40% degli italiani. «Per ora», precisa Formica. Ma domani? «Nenni diceva che alla fine ogni fiume risponde alla sua sorgente». E la sorgente della Lega «è il Nord». Cioè: «La vera Lega, elettoralmente parlando, è quella lombardo-veneta». Salvini? «Ha ottenuto il consenso del resto del paese solo in chiave reazionaria. Non durerà». Le prime scosse sismiche, sempre secondo Formica, arriveranno con la prossima legge di bilancio: «A dicembre, gli italiani si accorgeranno che l’inadempienza contrattuale è stata scaricata su di loro». E addio gialloverdi.

    Sapete chi è stato a imporre a Di Maio il voltafaccia sul Tav Torino-Lione, che probabilmente segnerà la morte politica dei 5 Stelle? Non tanto Salvini, quanto il vero padrone di casa: gli Stati Uniti. Ma non è che l’inizio: perché la testa di Luigi Di Maio, insieme a quella di Salvini, sarà servita su un piatto d’argento, sia da parte di Washington che di Mosca, per placare la voglia di vendetta dell’Europa, sfidata (solo a parole, per la verità) dal governo gialloverde. A pronosticarlo è Rino Formica, politico socialista della Prima Repubblica e osservatore smaliziato delle due incerte “repubbliche” successive. Secondo Formica neppure il voto potrebbe sanare la crisi. E nulla potrà la terza forza in campo, il fallimentare partito dei “badogliani”. «Ogni contratto ha valore a due condizioni», osserva Formica: «La prima è considerare l’oggetto del contratto, e dunque la situazione da gestire come statica e immobile. In politica è un grave errore, perché le cose si evolvono continuamente». E la seconda? «La seconda è che ad ogni inadempienza contrattuale corrisponde una sanzione». E nel contratto siglato da Lega e M5S «la clausola sanzionatoria è occulta, perché è scaricata su un terzo che non ha colpe: il popolo italiano», dice Formica, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”.

  • Facebook rischia di chiudere, ha contro i giovani (e Soros)

    Scritto il 31/7/19 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Ci sono almeno 3 indizi che portano verso un’inaspettata chiusura del più grande social media del mondo. Il primo è quello di cui tutti parlano oggi: un ipermegamultone che si aggiunge alle rogne pregresse di Zuckerberg; ben presto la politica dovrà mettere mano alla faccenda con una manovra antitrust, anche e soprattutto in vista delle elezioni americane del 3 novembre. C’è chi, come business insider, scommette sulla chiusura di Facebook e parla di una operazione in grande stile che il governo post-Trump dovrà attuare. La vicenda di Cambridge Analytica è a tutti nota, e ora si è aggiunta solo l’indiscrezione per la cifra da pagare a seguito di violazione della privacy: cinque miliardi di dollari. La più elevata mai imposta dalla Federal Trade Commission contro un’azienda di tecnologia. Attenzione, non sarebbe certo la prima volta che accade qualcosa del genere ad un’azienda di grandi dimensioni. E penso alla compagnia petrolifera Standard Oil, fondata da Rockefeller nel 1870 e smembrata per decreto nel 1911 dall’antitrust americana.
    A detta degli espertoni, questo è il più grande rischio che oggi corre Facebook, perché uno smembramento comporterebbe cambiamenti epocali, tali da snaturare l’idea stessa del “faccialibro” per come esso nacque nell’ormai preistorico 2004. Il secondo indizio allieterà senza dubbio i gusti dei complottisti – di gran lunga la categoria umana che preferisco e della quale mi vanto di far parte, nonostante il neologismo sia demenziale e colpisca scorrettamente tutti quelli che propongono dei dubbi. Si tratta di Soros, amici. Eh già, il vecchio volpone dell’economia globalista da qualche tempo attacca Facebook senza remore. «Affermano che distribuiscono solamente informazioni – ha affermato il capitalista ungherese – ma in realtà sono quasi distributori monopolisti, e questo li rende servizi pubblici. Dovrebbero pertanto essere soggetti a regolamentazioni più stringenti mirate a preservare la competizione, l’innovazione e un accesso universale, leale ed aperto». Soros ha poi paragonato Facebook e Google ai casinò, che «progettano deliberatamente la dipendenza ai servizi che forniscono».
    Ma qual è la ragione di questo attacco? Non lo sappiamo, ma da buon complottista ipotizzo che Facebook abbia dato voce a tutti, minando così le cristalline certezze provenienti dai media tradizionali. Insomma, Soros finanzia i liberal sparsi per il mondo, ma chi contesta i liberal è “fuori controllo” grazie a internet. A mio avviso è evidente che lui odi la Rete. Ad esempio, il vegliardo spende una vagonata di soldi per far salire al potere la Hillary Clinton, eppoi la Rete aiuta la visibilità di Donald Trump. Inaccettabile per un lobbysta che si rispetti! Ma è il terzo indizio quello che mi induce a ritenere Facebook avviata al tramonto o ad un profondo rimescolamenteo delle (sue) carte. Il social, infatti, ha dei picchi di utenza che ben presto saranno ridimensionati dal fatto che i millennials non si iscrivono più a questo tipo di social. In altre parole, la disaffezione dei giovani costringerà Zuckerberg alla chiusura in modo molto più determinante delle decisioni dell’Antitrust.
    Ve lo ricordate Myspace? E SecondLife? Tutta bella roba caduta in disuso per assenza di grano, altro che antitrust! Com’è noto, infatti, le nuove generazioni preferiscono Instagram (sempre di proprietà di Zuckerberg) dove praticamente non si parla di politica (e Soros qui non sbrocca, guardacaso), o Tinder, la nuova Bibbia per i segaioli impenitenti. Insomma, immagini taroccate e app per rimorchiare potranno continuare, Facebook rischia invece grosso. Se non cambia pelle. Dovesse accadere, comunque, non tutto il male viene per nuocere. Chi è noiosamente e ampollosamente affezionato ai “discorsi lunghi” potrà infatti tornare ai vecchi cari blog (ehehehe), ai forum, oppure alle nuove app come Telegram, società di messaggistica e canali in stile blog informativi che ha sede nel Regno Unito, ma che è stata fondata dall’imprenditore russo Pavel Durov. Con un cognome così direi che il rischio smembramento è quanto mai remoto.
    (Massimo Bordin, “Facebook verrà chiuso”, dal blog “Micidial” del 29 luglio 2019).

    Ci sono almeno 3 indizi che portano verso un’inaspettata chiusura del più grande social media del mondo. Il primo è quello di cui tutti parlano oggi: un ipermegamultone che si aggiunge alle rogne pregresse di Zuckerberg; ben presto la politica dovrà mettere mano alla faccenda con una manovra antitrust, anche e soprattutto in vista delle elezioni americane del 3 novembre. C’è chi, come business insider, scommette sulla chiusura di Facebook e parla di una operazione in grande stile che il governo post-Trump dovrà attuare. La vicenda di Cambridge Analytica è a tutti nota, e ora si è aggiunta solo l’indiscrezione per la cifra da pagare a seguito di violazione della privacy: cinque miliardi di dollari. La più elevata mai imposta dalla Federal Trade Commission contro un’azienda di tecnologia. Attenzione, non sarebbe certo la prima volta che accade qualcosa del genere ad un’azienda di grandi dimensioni. E penso alla compagnia petrolifera Standard Oil, fondata da Rockefeller nel 1870 e smembrata per decreto nel 1911 dall’antitrust americana.

  • Magaldi: soldi alla Lega? Ma Putin tifa per quest’orrenda Ue

    Scritto il 16/7/19 • nella Categoria: idee • (2)

    Ma ve lo vedete Vladimir Putin, cioè l’amicone segreto di Angela Merkel, finanziare sottobanco qualcuno che cerca di smontare quest’Europa – orrenda – messa in piedi proprio dalla cancelliera, con cui il presidente russo condivide l’esclusivo salotto massonico sovranazionale della superloggia Golden Eurasia, non certo progressista? E chi sarebbe, il terribile nemico dell’Unione Europea? Quello stesso Matteo Salvini rassegnato a rinunciare a Paolo Savona e poi a ingoiare il misero 2% di deficit concesso al governo gialloverde? Suvvia: si è rimbecillito, Putin, per promettere 65 milioni di dollari a un politico italiano irrilevante nel gioco europeo, che infatti ora assiste impotente all’ennesimo trionfo dell’asse franco-tedesco che impone ai massimi vertici due gran dame della massoneria reazionaria, Christine Lagarde alla Bce e Ursula Von der Leyen alla Commissione Europea? Se la ride, Gioele Magaldi, di fronte all’impazzimento mediatico tutto italico (e forse anche un po’ francese) per la non-notizia del fantomatico soccorso elettorale russo – in realtà mai avvenuto – che ha l’aria di essere più che altro «una polpetta avvelenata per l’Eni, che insieme all’Enel è rimasto l’unico avamposto nazionale a fare un po’ di politica estera per l’Italia, gestendo grandi interessi, vista la latitanza fantasmatica dei ministri succedutisi alla Farnesina, dove con Moavero Milanesi abbiamo toccato il fondo».

  • Italian Russiagate: le bufale di BuzzFeed, che odia Salvini

    Scritto il 15/7/19 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    «L’attacco mondialista a Salvini dimostra proprio questo intento, riprendere il flusso dell’immigrazione fuori controllo e continuare a produrre dumping salariale». Tanto, «il presunto argine ‘antisistema’ rappresentato dai 5 Stelle appare sempre più inadeguato, incoerente e ambiguo», visto che lo stesso Di Maio – nel tentativo disperato di tamponare l’emorragia di voti verso la Lega – partecipa volentieri all’ultimo gioco al massacro contro Salvini, invitandolo a rispondere dei presunti finanziamenti russi davanti al Parlamento: «Quando il Parlamento chiama, il politico risponde, perché il Parlamento è sovrano e lo dice la nostra Costituzione». Sovranità limitata, in realtà: è Bruxelles, non Roma, a stabilire cosa può fare l’Italia, la cui Costituzione è stata deturpata dall’inserimento suicida del pareggio di bilancio. Se n’è dimenticato, Di Maio? È evidente, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”, che il capo politico del Movimento 5 Stelle cita “BuzzFeed” come fonte d’informazione altamente attendibile, «celando di proposito le rivelazioni pregresse sulla macchina di propaganda web del MoV, e sul fatto che Alberto Nardelli interpreterebbe un trend politico decisamente di sinistra, avverso al governo gialloverde».

  • ‘Banche illegali: ogni anno creano 1.000 miliardi, esentasse’

    Scritto il 15/7/19 • nella Categoria: segnalazioni • (8)

    Il privilegio di emettere moneta “scritturale”, al di fuori di ogni legge che lo consenta (e anzi, contro l’articolo 128 del Trattato di Lisbona, che riserva la creazione dell’euro alla sola banca centrale) è stato di fatto preso dai banchieri privati, che godono della copertura delle autorità monetarie, e che in Italia ogni anno emettono mediamente 1.000 miliardi di moneta “scritturale”, denominandola “euro” – e non potrebbero farlo, perché violano il monopolio della Bce. La copertura, la protezione di questo privilegio (che in fondo è l’infrastruttura fondamentale del nostro sistema socio-economico) viene assicurata dalla Banca d’Italia. Ma se solo la Bce ha la potestà di creare l’euro, perché si tollera che l’euro venga creato (mediante i prestiti, ndr) dalle normali banche di credito? E’ una situazione di totale illegalità, contraria al diritto. Viene tollerata perché proprio il privilegio è il fondamento del potere politico-economico. I cittadini che si mettono a loro volta a creare moneta “scritturale”, contro cui di scaglia la Banca d’Italia, in realtà fanno esattamente quello che fa il sistema bancario privato.
    Solo che i cittadini, essendo il popolo (che deve essere sfruttato, spremuto e represso) non hanno la copertura delle autorità monetarie. Mentre il cartello bancario privato, che possiede le banche centrali – ne possiede le quote e ne nomina i dirigenti – quella copertura ce l’ha: ha la “legittimazione illegittima” delle autorità monetarie. Se anche venisse legittimata la creazione di euro “scritturali” da parte delle banche private, si avrebbe un grande beneficio: emergerebbe infatti un reddito, ora sommerso, di circa 1.000 miliardi all’anno, in Italia. Il che vorrebbe dire un gettito fiscale di circa 220 miliardi all’anno in più, per lo Stato, e il risanamento di tutti i bilanci bancari – quindi il pagamento di tutte le azioni e le obbligazioni convertibili, il recupero dei risparmi (e naturalmente, anche più soldi per gli investimenti produttivi e per le famiglie). Però non ne parlano, i nostri economisti mezzo-eretici, antisistema solo a metà. Penso a Borghi, Bagnai, Rinaldi e altri: non parlano mai, di questo. Raccontano solo una parte della storia: quella meno pericolosa, meno destabilizzante.
    Non dicono nulla di questo, che ormai è un dato di fatto ammesso dalla Banca d’Italia (che pubblica le tabelle, relative alla creazione della moneta “scritturale” da parte delle banche private). Forse, dire questo sarebbe politicamente insostenibile, per il governo: l’esecutivo verrebbe fatto fuori, se qualche suo esponente ne parlasse. Non parlandone, però, si rimane in una situazione di sudditanza, che condanna l’Italia a una morte economica certa e abbastanza lenta. Beninteso: io apprezzo Rinaldi, Bagnai e Borghi. Li ascolto molto volentieri, però questa cosa non la dicono, ed è la cosa più importante: silenzio, sull’essenziale. Certo, l’essenziale può essere troppo forte: svelare questa realtà pubblicamente, attraverso i mass media, significa destabilizzare il sistema. Se queste cose venissero spiegate alla popolazione, o anche solo agli imprenditori, apparirebbe l’illegittimità profonda e irrimediabile di questo sistema monetario (e anche socio-politico, perché l’economia monetaria determina le condizioni di tutta la politica economica).
    E poi: da un lato c’è il monopolio privato della creazione della moneta, dall’altro c’è il “monopsonio” di 8 banche, relativo all’acquisto dei titoli del debito pubblico, alle aste marginali. Cioè: alla fine, a tutti gli acquisti viene applicato il rendimento più alto della giornata. Quindi, chi ha acquistato titoli a un rendimento più basso, poi non fa altro che aspettare l’ultimo acquisto, per beneficiare del rendimento più alto: il che vuol dire che queste 8 banche possono mettersi d’accordo tra loro per fare manovre al rialzo, sui tassi di rendimento, e quindi far pagare di più ai contribuenti e guadagnare di più esse stesse. Bisognerebbe che qualcuno spiegasse, almeno ai soggetti impenditorialmente attivi, che cos’è questa tenaglia: il monopolio dell’offerta dei rating monetari e il “monopsonio” dell’acquisto alle aste. E’ una tenaglia che spezza qualsiasi residuo di “cosa pubblica”, perché mette tutto il potere in un numero ristretto di grandi banchieri: tutta la politica viene stretta in questa tenaglia.
    L’Italia, come altri paesi, soffre di una carenza artificiale di liquidità, alla quale si ovvierebbe sia col “reddito universale”, cioè creando più moneta per sostenere la capacità di spesa e quindi la domanda interna, sia con una creazione monetaria mirata ad investimenti che aumentino la produzione e la produttività (a patto che l’aumento dei consumi e delle emissioni non comprometta in modo definitivo la salute dell’ecosistema terrestre). Dovrebbe sorgere una rete bancaria parallela, praticamente gratuita, che tolga di mezzo l’attuale sistema bancario, interamente privatizzato. E’ un sistema sostanzialmente vampiresco, che drena risorse dall’economia e le riduce, artificiosamente, per mantenere alto il proprio potere di condizionamento della moneta. Noi viviamo in un sistema al quale viene tolta moneta. Sapete che l’Italia ha a disposizione una quantità di liquidità pro capite che è la metà di quella della Francia e della Germania? Mettete un paese indebitato e in recessione, come l’Italia, accanto a paesi molto meno indebitati e molto meno in recessione, e con il doppio della liquidità, e avrete l’inevitabile: e cioè che i paesi più forti (e con più soldi) si comprano tutto quel che c’è da comprare, dell’Italia. Sono cose di cui non si parla mai. E sono quell’essenza, sottaciuta, dell’economia monetaria.
    In qualsiasi società, abbiamo soggetti che da un lato hanno capacità di dare beni e servizi, e dall’altro hanno bisogno di beni e di servizi. Quindi la società richiede lo scambio. E lo scambio, a sua volta, richiede la moneta, come mezzo di regolazione dello scambio. Se però io mi pongo in una condizione di monopolista della creazione e della distribuzione della moneta (che è un simbolo: non è coperto da oro, e non ha un costo di produzione) e impongo a tutti di servirsi, per legge, della moneta da me prodotta, e gliela faccio pagare in termini di interessi, io gradualmente mi impadronisco di tutto il potenziale economico: costringo tutti a pagare con una moneta che prendono in prestito, versandomi gli interessi, per eseguire le loro transazioni. E accumulandosi gli interessi nel tempo, alla fine il mio potere diventa totale: assorbe quello dello Stato. Così io divento padrone dell’intera economia, ed è questo che è avvenuto. A quel punto io faccio scarseggiare la moneta, per mantenerne alta la domanda e alto il prezzo – e per tenere per il collo, al guinzaglio, le istiuzioni pubbliche, le imprese e i popoli.
    E attenzione: io non do nulla. Ottengo tutto questo senza dare alcun bene reale, alcun servizio reale: semplicemente, approfitto della posizione di monopolio che ho comperato, che ho conquistato in altri modi. Questa è l’economia politica, in essenza. Se prenderà piede Libra, la criptomoneta di Facebook, i giovani capiranno cos’è davvero la moneta: un semplice simbolo, il cui valore dipende unicamente dalla sua accettazione. E quindi capiranno che non ha bisogno di avere alle spalle una garanzia, una copertura in oro. Capiranno anche che la storia del capitale sociale delle banche centrali è una cosa assurda. Le banche centrali, che creano ed emettono la moneta, non hanno bisogno di capitale sociale, perché la moneta la creano. Il capitale sociale è una scorta di moneta, di credito, per far funzionare una normale impresa commerciale, che ha bisogno di prendere moneta dall’esterno: ma le banche centrali non hanno bisogno prendere moneta dall’esterno. E allora perché la Banca d’Italia ha un capitale sociale?
    Risposta: per creare il pretesto, lo specchietto per le allodole che giustifichi il fatto di avere dei proprietari, che sono società private e per lo più estere, che controllano la banca centrale italiana attraverso dei prestanome. Questa è la realtà: è tutta una costruzione fatta per ingannare. I giovani che useranno la moneta di Facebook impareranno che la moneta non ha bisogno di riserve e non ha costi di produzione. E capiranno quindi che tutta la narrazione, lo storytelling delle autorità monetarie (europee, italiane e internazionali, incluso il Fmi) è una panzana. E’ un inganno, una truffa, per spremere il prodotto del lavoro e del risparmio della gente e delle imprese. In tanti cominceranno a chiedersi: come mai Zuckerberg può produrre molti miliardi di Libra, se non ha una banca centrale? A cosa serve la banca centrale? A cosa servono le banche?
    Mi aspetto che si cominci a dubitare della narrazione monetaria e bancaria, prodotta dalle istituzioni per ingannarli. E poi, la Libra sarebbe davvero una criptovaluta? In greco, “cryptos” vuol dire nascosto. Se è evidente quello che hai nel portafoglio, bisognerebbe chiamarla “fanerovaluta”, moneta palese. C’è da fidarsi, di Facebook? Durante la campagna elettorale per le europee, il social network ha oscurato i miei post: sicuramente manifesta la volontà di tutelare certi segreti. Mi ha tenuto sotto censura per circa un mese, poi mi ha riammesso una volta avuti i risultati elettorali. A parte questo, io credo che ai livelli altissimi – in cui si trovano Mark Zuckerberg e le somme autorità monetarie – ci si preoccupi di trovare una via d’uscita dal vero problema di fondo: qualora l’economia mondiale ripartisse (consumi, investimenti, produzione), ripartirebbero anche i processi di esaurimento delle risorse ambientali planetarie, insieme al processo dell’inquinamento. Quindi è probabile che vi sia la volontà di mantenere soffocate le economie e le società, producendo anche depressione diffusa nelle popolazioni, per preparare una soluzione al problema ecologico e demografico.
    Facebook si metterà in una posizione tale da scatenare panico e sfiducia monetaria, nel mondo. Potrà fare disastri, volendo: l’economia, le monete e la finanza vivono di aspettative, e Facebook a un certo punto potrebbe anche scatenare un collasso globale delle monete. Ma forse arriverà prima la guerra, magari la guerra nucleare con l’Iran: Teheran ha appena detto che completerà il suo programma, e Trump ha replicato sostenendo di non avere bisogno dell’approvazione congressuale, per attaccare. Sono solo parole? Vedremo. Se ci sarà una guerra avremo scarsità di petrolio e prezzi fuori controllo. Ma è difficile prevedere il futuro – anzi, è impossibile. Molti economisti prevedono una nuova, grossa crisi ormai imminente? Era attesa, è vero, però gli ultimi segnali prevalenti sono diversi. In base alle informazioni che ricevo per vie interne, so che alla fine dell’anno prossimo inizierà una campagna di investimenti molto massiccia. Soprattutto nel Sud Europa ci sarà una forte espansione delle attività di costruzioni infrastrutturali. Apprendo che, in certi uffici molto importanti, ci si aspetta questo: una ripresa, nel 2020.
    La moneta diventerà solo elettronica? Non credo si possa elminare il cash, anche se la quantità di contante utilizzata, nel mondo, è già molto modesta. In realtà, eliminare il denaro materiale (che esiste già, senza quindi il bisogno che la banca lo mantenga in essere) è un modo per spiare capillarmente la vita dei cittadini e portargli via quello che hanno, senza che possano opporsi. Serve anche a espropriare il denaro a fini fiscali e di sostegno al sistema bancario. E serve a colpire le singole persone, quelle non sottomesse, ribelli – le persone dissenzienti, che disturbano – attraverso il blocco dei conti correnti e altre forme di persecuzione discriminatoria. Pensiamo a cosa può fare, la banca, con una segnalazione (anche falsa) di inadempienza: se ti stai comprando casa, può rovinarti la vita. Vale per tutti: la banca potrebbe fermare le capacità di acquisto, di spesa e di pagamento. E a questo si può certamente arrivare. Morte civile: non puoi più pagarti nemmeno un avvocato che ti difenda.
    E’ un modo per schiavizzare i cittadini – mentre la grande evasione e la grande elusione fiscale avvengono per altri canali: non certamente attraverso il contante, ma attraverso i falsi bilanci bancari che citavo prima (l’omissione della contabilizzazione dei ricavi della creazione monetaria). Evasione ed elusione avvengono anche attraverso manovre al rialzo o al ribasso dei mercati finanziari, e poi attraverso le reti bancarie occulte, che consentono l’occultamento di grandi quantità di denaro (che poi riaffiora nei paradisi fiscali). La moneta è una forma di controllo sociale, penetrante e immediato: repressione e intimidazione dei cittadini. In Cina vieni schedato, a punteggio, in base a come ti comporti su Internet e alle opinioni che esprimi. Alla fine la gente arriverà ad auto-inibirsi, a escludersi dalle comunicazioni: sarà indotta al conformismo, all’acquiescenza, per il timore di incorrere nel blocco del conto corrente e della carta di credito.
    (Marco Della Luna, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti e Tom Bosco nella puntata 318 di “Border Nights”, trasmessa il 25 giugno 2018 e poi ripresa su YouTube. Avvocato e saggista, Della Luna – riguardo alla creazione monetaria impropria, la moneta “scritturale” – allude al normale credito bancario: la banca possiede solo la riserva frazionaria, cioè appena l’1% del denaro che presta; di fatto il 99% lo “crea dal nulla”, emettendo il credito, e lo fa in regime di esclusivo monopolio, in questo caso privato. Della Luna ha pubblicato svariati saggi, sul tema, tra cui “Cimiteuro, uscirne e risorgere: signoraggio, golpe bancario, debito infinito”, “Euroschiavi: chi si arricchisce davvero con le nostre tasse”, “Oligarchia per popoli superflui: l’ingegneria sociale della decrescita infelice”, “Oltre l’agonia: come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari” e “Tecnoschiavi”, uscito nel 2019).

    Il privilegio di emettere moneta “scritturale”, al di fuori di ogni legge che lo consenta (e anzi, contro l’articolo 128 del Trattato di Lisbona, che riserva la creazione dell’euro alla sola banca centrale) è stato di fatto preso dai banchieri privati, che godono della copertura delle autorità monetarie, e che in Italia ogni anno emettono mediamente 1.000 miliardi di moneta “scritturale”, denominandola “euro” – e non potrebbero farlo, perché violano il monopolio della Bce. La copertura, la protezione di questo privilegio (che in fondo è l’infrastruttura fondamentale del nostro sistema socio-economico) viene assicurata dalla Banca d’Italia. Ma se solo la Bce ha la potestà di creare l’euro, perché si tollera che l’euro venga creato (mediante i prestiti, ndr) dalle normali banche di credito? E’ una situazione di totale illegalità, contraria al diritto. Viene tollerata perché proprio il privilegio è il fondamento del potere politico-economico. I cittadini che si mettono a loro volta a creare moneta “scritturale”, contro cui di scaglia la Banca d’Italia, in realtà fanno esattamente quello che fa il sistema bancario privato.

  • Arriva il gigante Putin, e l’Europa dei nani non ha un leader

    Scritto il 08/7/19 • nella Categoria: idee • (2)

    Arriva a Roma un gigante, Vladmir Putin, che guida la Russia con mano sicura dall’inizio del terzo millennio. Accantoniamo i giudizi di valore, piuttosto controversi, sullo zar venuto dal comunismo e dalla tradizione russa. Parliamo di statura politica: è un grande statista che passerà nel bene e nel male alla storia. Anche Donald Trump e Xi Jinping sono due leader giganti, qualunque cosa positiva o negativa si pensi di loro. E il giapponese Shinzo Abe e l’indiano Narendra Modi sono due statisti che con salda mano guidano i loro paesi, confermati dai loro popoli. A suo modo perfino un autocrate come Erdogan è destinato a passare alla storia. Sarà un mezzo dittatore ma stranamente ha indetto elezioni regolari a Istanbul, le ha perse e lo ha riconosciuto. E l’Europa, invece? L’Europa è governata dai sette nani più la biancaneve tedesca. Juncker, Tusk, o se volete Macron, Sanchez e ora le due signore dell’asse franco-tedesco, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde.
    In urbe caecorum la Merkel grandeggia sugli altri anche perché ha guidato il paese più grande e grosso dell’Unione; ma è incomparabile per lungimiranza, forza e consenso ai leader extraeuropei prima citati. Oltretutto è una leader sconfitta, sfiduciata, che non rappresenta più nemmeno la Germania. Tra i sette nani, perfino il nostro premier, Giuseppe Conte, pur scaturito artificiosamente, non venuto dalla politica né dall’establishment, appare non certo peggiore, più inadeguato o meno legittimato degli altri partner europei. Pensatela come volete ma se l’Europa oggi conta poco nel mondo, non piace agli europei, è un mezzo fallimento nelle relazioni interne prima che esterne, non sa farsi valere negli scenari internazionali, una quota importante del suo insuccesso lo deve proprio all’assenza di grandi capi. Mezze calzette che fanno eleggere ai posti chiave mezze cartucce. E nei loro paesi sono tutti leader di forte minoranza, con governi precari di coalizioni fragili e assai eterogenee: da Sanchez alla Merkel, passando per tutti gli altri.
    Si deve arrivare ai paesi più piccoli per trovare leadership salde e governi più omogenei, riconfermati dal voto popolare. Non è per dire, ma il più votato è Viktor Orban, in Ungheria. Ma il suo paese non è tra i grandi e lui nei popolari è a bagnomaria, mezzo sospeso. Non dico leader carismatici o statisti che passeranno alla storia, non dico Adenauer e Schumann, De Gaulle e forse De Gasperi, per restare all’Europa del dopoguerra; ma non c’è nemmeno l’ombra di qualcuno che somigli a Helmut Kohl, François Mitterrand, Margareth Thatcher… Tra i socialisti non c’è nessuno che vagamente somigli a Brandt, Gonzales, a Craxi, a Blair del passato. Non c’è un leader europeo di livello storico manco a pagarlo, non c’è un padre nobile, non c’è un leader naturale o in pectore al di sopra degli altri. Da che dipende? Facile dire che i grandi nascono una tantum e in modo imprevedibile. Sarà pure così ma c’è una spiegazione più forte e articolata che spiega la penuria di leader europei.
    L’Unione Europea è nata male, intorno a una moneta e a una banca centrale, non è scaturita dalla politica, non è cresciuta intorno alla politica, è un processo dispersivo, policentrico e anonimo, senza un conducente, con un pilota automatico e sotto tutela della Troika, dunque dei potentati economico-tecnocratici-finanziari euro-globali. L’Europa che ripudia la storia elegge leader bonsai. In queste condizioni non poteva avere leader forti, ma solo frutti mediocri del compromesso, zelanti esecutori e funzionari di piccolo cabotaggio. Dacché l’Europa si è unificata con l’euro non è emerso neanche un leader europeo; né dalla Commissione Europea e dalle assemblee parlamentari europee né dai governi e dai Parlamenti nazionali. E la politica di austerità dell’Europa, il gioco in difensiva mostra l’assenza di disegni politici e progetti storici e l’asservimento agli assetti contabili e ai loro funzionari di tutta l’Unione. Per questo trovo un po’ ridicolo parlare di “Più Europa”, come fanno la Bonino e Mattarella: l’Europa è il regno del meno, non del più, vince il low profile, la cordata, il compromesso di medio-basso profilo, la conventio ad excludendum.
    Viene premiato chi si fa tappetino, chi china la testa e si adegua all’apparato e ai suoi parametri; viene punito chi alza la testa. È una continua selezione a rovescio, dei più deboli, dei più meschini. Mediocri leadership si avvicendano negli Stati e nelle Commissioni Europee. Forse un presidente dell’Europa eletto direttamente dal popolo europeo, pur piena di insidie e controindicazioni, sarebbe una via per favorire un clima favorevole alla nascita e alla crescita di veri leader. Non è il capriccio di un’indole autoritaria ma quando hai di fronte Putin, o anche Trump e Xi Jinping, non puoi pensare di mandarci mezzi leader sfiduciati in casa propria, che non sanno mai parlare a nome dell’Europa ma riescono a malapena a curare gli interessi di bottega nazionali o del Fondo Mondiale. Gli altri hanno i leader, noi abbiamo le foto di gruppo, i cori e le comitive a sovranità limitata. Ci rendiamo poco credibili e soprattutto incapaci di trattare alla pari. Alla Grande Politica rispondiamo coi micro-leader. Europa mignon guidata dalla nano-tecnocrazia…
    (Marcello Veneziani, “Arriva Putin, e all’Europa manca un leader”, da “La Verità” del 4 luglio 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).

    Arriva a Roma un gigante, Vladmir Putin, che guida la Russia con mano sicura dall’inizio del terzo millennio. Accantoniamo i giudizi di valore, piuttosto controversi, sullo zar venuto dal comunismo e dalla tradizione russa. Parliamo di statura politica: è un grande statista che passerà nel bene e nel male alla storia. Anche Donald Trump e Xi Jinping sono due leader giganti, qualunque cosa positiva o negativa si pensi di loro. E il giapponese Shinzo Abe e l’indiano Narendra Modi sono due statisti che con salda mano guidano i loro paesi, confermati dai loro popoli. A suo modo perfino un autocrate come Erdogan è destinato a passare alla storia. Sarà un mezzo dittatore ma stranamente ha indetto elezioni regolari a Istanbul, le ha perse e lo ha riconosciuto. E l’Europa, invece? L’Europa è governata dai sette nani più la biancaneve tedesca. Juncker, Tusk, o se volete Macron, Sanchez e ora le due signore dell’asse franco-tedesco, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde.

  • Roma fra Putin, la Cina e Trump: nuovo ordine sovranista?

    Scritto il 07/7/19 • nella Categoria: idee • (7)

    Il colpo d’occhio non è male: in tre mesi due grandi leader globali (Xi Jinping e lo Zar del Duemila) sono atterrati a Roma per visite ufficiali in cui hanno dispensato onori e amicizia. In mezzo, il ministro dell’interno in modo totalmente irrituale vola a Washington e viene omaggiato dal vicepresidente Pence e dal segretario di Stato Mike Pompeo. Tre su tre, in pratica. Contiamo davvero qualcosa? No, siamo il solito “ventre molle” d’Europa (come scrive oggi Lucio Caracciolo su “Rep”) su cui di volta in volta i potenti del mondo appoggiano la loro testolina per fare dispetto al rivale di turno. La differenza di oggi è che pure il resto del continente è molle, anzi frollato, e conta sempre meno. I giochi sono tra Trump e Xi, con Putin terzo incomodo grazie alla sua influenza in Siria, Turchia, Venezuela, Egitto. È un incastro di dazi, sanzioni e ripicche in cui il resto del pianeta fa da spettatore o vittima. Putin nelle scorse settimane ha annunciato una grande alleanza con la Cina per sfuggire alla morsa delle sanzioni euro-americane, e ha rinsaldato i rapporti con Turchia e Iran per costituire un blocco che possa dar fastidio all’America. Nel mentre, Xi “regalava” a Trump l’incontro con Kim Jong-Un in Corea del Nord in cambio di un apertura su dazi e Huawei.
    La guerra commerciale con la Cina e le sanzioni alla Russia troveranno soluzione, ma solo nel momento più congeniale alla campagna elettorale di Trump. Poche ore fa è uscito l’ultimo dato sul mercato del lavoro americano: +224.000 posti di lavoro a giugno, disoccupazione al 3,7%. Poteva andare meglio, di sicuro non va male. Sul piano economico, insomma, può stare abbastanza tranquillo. Quello di cui ha bisogno, per vincere le elezioni e guidare la “narrazione” pre-voto, è un “win” geopolitico. La mezza vittoria del disgelo con la Corea del Nord non basta. Serve qualcosa che abbia un impatto mediatico più profondo. Ad esempio, un nuovo accordo con l’Iran, ovviamente più “huge” di quello che firmò Obama, che sarà facilitato dalla Russia in cambio di un allentamento delle sanzioni. Tutto s’incastra, e tutto va distillato in base alla convenienza politica. La prossima data sull’agenda della Casa Bianca è il 17 settembre, quando Israele tornerà al voto per la seconda volta quest’anno, essendo falliti i tentativi di Netanyahu di formare un governo. Per Donald è fondamentale che il suo migliore amico Bibi resti al potere, anche se non è più scontato: oltre al principale rivale Benny Gantz, è riemerso dalle nebbie pure l’ex primo ministro Ehud Barak, che ha annunciato la formazione di un partito, l’ennesimo, che correrà alle legislative. L’alleanza tra Barak e Gantz vuol dire sconfita oer Netanyahu.
    C’è una cosa che hanno in comune i tre leader di Cina, Stati Uniti e Russia, ed è piuttosto clamorosa. Tutti sono d’accordo sul declino della democrazia liberal-liberista. Il requiem pronunciato da Putin al “Financial Times” è sottoscritto da Trump – non in modo esplicito – e ovviamente da Xi. Per loro, la globalizzazione è un fenomeno che è scappato di mano e da correggere, a botte di dazi e sanzioni, perché le disuguaglianze interne che ha creato sono destabilizzanti per i sistemi politici. Per l’America è una questione economica; per la Cina, che dalla globalizzazione ha tratto più benefici, è politica e identitaria: circolano le merci, ma non deve circolare il pensiero. L’Europa invece non ha (ancora?) aderito a questo cambiamento epocale. Però Trump e Putin hanno già promesso accordi bilaterali al Regno Unito quando uscirà dall’Unione Europea, e tutto fa pensare che al timone ci sarà Boris Johnson, uno che è tanto colto e brillante quanto sciroccato e populista. “BoJo” avrà come unico scopo di non far affondare il suo glorioso paese, e metterà l’interesse nazionale davanti a tutto e tutti, non essendo più vincolato dall’odiato consensus di Bruxelles.
    Sia Trump che Putin, in modi diversi ma paralleli, hanno provato a indebolire l’euro (ovvero il marco tedesco), che è l’unica vera arma che l’Europa ha dispiegato negli ultimi vent’anni, l’unico strumento che abbia impensierito le altre potenze. Per ora, vedi le ultime elezioni e le nomine dell’altro giorno, il tentativo di abbattere la costruzione europea è fallito, ma la struttura ne esce comunque indebolita. Come un frigorifero, bisogna farlo oscillare a destra e sinistra più volte prima di poterlo buttare giù. Non è un caso che la rigorista Ursula abbia dato retta alla Merkel e abbia concesso agli Stati membri altri due anni di flessibilità per mettere a posto i conti; la procedura d’infrazione contro l’Italia si è sciolta come un ghiacciolo, mentre fino a due settimane fa era una clava pronta a calare sulle nostre teste. La verità è che l’Europa non può permettersi altri strappi. Già la Brexit rischia di essere una bella botta, che potrebbe creare danni più ai continentali che ai sudditi dell’immortale Elisabetta. Non è un caso, neppure, che uno degli obiettivi principali della nuova presidente della Commissione, già ministro della difesa tedesco, sia quello di costruire una forza militare comune.
    Se si mettono d’accordo, i singoli paesi potrebbero mettere in piedi un esercito europeo tanto forte da poter intervenire in quei luoghi dove gli Stati Uniti non intendono più mettere il naso (Africa, Medio Oriente, persino Sudamerica), e prenderne il posto di sceriffo del mondo. Con l’influenza geopolitica che ne discende. Per la Germania i dazi americani sono un grosso guaio, l’unica strada è allargare lo sguardo all’Africa prima che la Cina si prenda tutto anche lì. Un petit tour italiano di Putin non cambierà nulla per le sanzioni alla Russia. È un modo per dar fastidio agli Usa, punzecchiare la Germania. E ricordare al resto d’Europa che ora si trova in mezzo a un nuovo ordine non mondiale ma sovranista, e che dovrà farci i conti. Da qui alle elezioni americane del novembre 2020 preparatevi a una nuova, forse finale, battaglia mediatica contro il Puzzone della Casa Bianca. Perché se dovesse vincere di nuovo, nulla sarà come prima in Occidente.
    (“La visita di Putin in Italia non cambia niente ma dice tantissimo”, da “Dagospia” del 5 luglio 2019. “Stiamo assistendo a un nuovo ordine mondiale in cui Cina, Stati Uniti e Russia hanno sottoscritto lo stesso modello politico sovranista che condanna la globalizzazione liberal-liberista, e l’Europa è un vaso di coccio tra i tre colossi”).

    Il colpo d’occhio non è male: in tre mesi due grandi leader globali (Xi Jinping e lo Zar del Duemila) sono atterrati a Roma per visite ufficiali in cui hanno dispensato onori e amicizia. In mezzo, il ministro dell’interno in modo totalmente irrituale vola a Washington e viene omaggiato dal vicepresidente Pence e dal segretario di Stato Mike Pompeo. Tre su tre, in pratica. Contiamo davvero qualcosa? No, siamo il solito “ventre molle” d’Europa (come scrive oggi Lucio Caracciolo su “Rep”) su cui di volta in volta i potenti del mondo appoggiano la loro testolina per fare dispetto al rivale di turno. La differenza di oggi è che pure il resto del continente è molle, anzi frollato, e conta sempre meno. I giochi sono tra Trump e Xi, con Putin terzo incomodo grazie alla sua influenza in Siria, Turchia, Venezuela, Egitto. È un incastro di dazi, sanzioni e ripicche in cui il resto del pianeta fa da spettatore o vittima. Putin nelle scorse settimane ha annunciato una grande alleanza con la Cina per sfuggire alla morsa delle sanzioni euro-americane, e ha rinsaldato i rapporti con Turchia e Iran per costituire un blocco che possa dar fastidio all’America. Nel mentre, Xi “regalava” a Trump l’incontro con Kim Jong-Un in Corea del Nord in cambio di un apertura su dazi e Huawei.

  • Magaldi: dietro a Dugin (e Putin) c’è l’oligarchia più antica

    Scritto il 03/7/19 • nella Categoria: idee • (9)

    Pensavate fosse amore, e invece era un calesse? Ma non serve ricorrere a Massimo Troisi per smontare la Quarta Via del filosofo Alexander Dugin, ideologo vicinissimo al Cremlino. Basta e avanza Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, di impronta keynesiana. Curiose coincidenze: Dugin gira l’Europa (e l’Italia) spacciando per nuovissima la sua ricetta obsoleta – il ritorno alla tradizione pre-democratica – proprio mentre Vladimir Putin, sul “Financial Times”, decreta il decesso del liberalismo. Messaggio di forza, da parte dell’autocrate russo? «Al contrario: dopo anni di ascesa costante, oggi il consenso di Putin è meno solido. E la sua uscita ricorda quella di Licio Gelli, che accettò di parlare al “Corriere” proprio alla vigilia del crollo della P2». Questo non significa che Putin stia per cadere. L’invito, semmai, è a leggere tra le righe: è davvero così invitante, la “democratura” di Mosca – magnificata da Dugin – dove i giornalisti vengono messi a tacere? Sul tappeto c’è davvero uno scontro geopolitico con l’Occidente, come ai tempi della guerra fredda? O per caso, invece, non sarebbe meglio inforcare gli occhiali giusti e ricordarsi che Putin, prima ancora che ai russi, risponde ai “fratelli” della Golden Eurasia, potente superloggia neoconservatrice nella quale milita anche Angela Merkel?

  • Veneziani: all’Italia manca un’aristocrazia (dei meritevoli)

    Scritto il 30/6/19 • nella Categoria: idee • (19)

    Prima gli ultimi. No, prima i nostri. No, prima loro, i migranti. No, prima i giovani, le donne, le quote rosa o delle altre categorie discriminate. La battaglia delle priority prosegue senza sosta e senza punto d’incontro. E se, più semplicemente, dicessimo “Prima i primi” ovvero chi ne ha diritto, perché è arrivato primo o per primo, cioè i capaci e i meritevoli, i migliori, chi ha i titoli, l’anzianità e le competenze? E se il problema italiano non fossero le élite ma la loro assenza e il loro mancato ricambio? Andiamo con ordine. Prima gli ultimi, dice Papa Francesco, e sul piano pastorale nulla da dire. Giusto soccorrere chi sta male, aiutare prima chi sta peggio; un cristiano non può eludere la carità. Ma adottare la priorità degli ultimi come criterio sociale di vita pubblica è una catastrofe. In verità il Vangelo di Matteo dice: «Beati i poveri in spirito perché di loro sarà il regno dei cieli»; non promette ai poveri il regno della terra e l’accoglienza ovunque. Tuttavia sul piano religioso la carità come dedizione personale e comunitaria è un grande valore. Ma se diventa criterio distributivo nella vita pubblica e metodo di selezione pubblica, allora le società si deteriorano, degradano verso il peggio. La stessa cosa vale se gli ultimi che diventano i primi sono i migranti e i profughi.
    Si può apprezzare l’intenzione morale, la tensione etica di questa apertura, ma in questo modo una società deperisce, subordina le esigenze reali e prioritarie di tutti cittadini a soddisfare i bisogni di chi viene da lontano. Nefasta è pure la logica delle quote riservate, pur se animata dalle migliori intenzioni: prima le donne, prima i giovani, prima le categorie deboli e protette. Ma la priorità di genere, d’anagrafe o di categoria contrasta con la meritocrazia, mortifica i titoli, le qualità, l’esperienza, il talento; considera solo i disagi, i fattori momentanei o le fragilità vere o presunte; non si pone dal punto di vista della comunità, delle ricadute sociali, ma solo dal punto di vista dei soggetti deboli da aiutare. Risarcisce le disparità passate, creando disparità presenti e future. Così pure fu la rottamazione dei seniores da parte di Renzi. Non basta essere giovani o non avere precedenti (penali e non solo), per essere preferibili; si può essere giovani e inetti, incensurati e incapaci, innocui e imbecilli. Gli esempi sono innumerevoli…
    Prima i nostri, o prima gli italiani, come dice Salvini (o America First di Trump), garantisce coesione sociale e solidarietà comunitaria, riconosce le identità e le appartenenze, dà valore alla cittadinanza. Ma può valere in alcuni ambiti primari, nelle modalità d’accesso all’assistenza, all’assegnazione delle case popolari, alle graduatorie per lavori generici o per necessità elementari. Ma è un metodo inadeguato di scelta nelle attività ad alta specializzazione o ad alta responsabilità o per selezionare competenze professionali, ruoli direttivi, ceti dirigenti. Non si può preferire “uno dei nostri” a “uno bravo”. Del resto, il degrado della nostra società, la discesa progressiva, inarrestabile, dei suoi livelli di qualità, la fuga all’estero delle energie più dinamiche e delle intelligenze più brillanti, confermano la decadenza delle classi dirigenti come una vera e propria catastrofe nazionale. E allora sorge l’indecente, scorrettissima, proposta: e se la priorità del nostro paese fosse individuare, formare, selezionare, una vera aristocrazia in tutti i campi del sapere e del lavoro?
    Da anni siamo infognati nella diatriba tra la Casta e la Massa. E se il problema non fosse contrapporre il popolo alle élite, o peggio le plebi alle oligarchie, ma riconoscere ciascuno secondo il suo rango, cioè le sue capacità, i suoi meriti e i gradi di responsabilità? Il problema non è abbattere le classi dirigenti, identificandole gramscianamente con le classi dominanti, o peggio con le classi sovrastanti, che vivono sopra le masse senza neanche guidarle; ma riattivare l’ascensore sociale, rigenerare la circolazione delle élite, come diceva Pareto; riaprire i ponti in entrata e in uscita, in modo che si proceda per selezione sul campo e non per cooptazione. Circolazione delle classi dirigenti, non circuiti chiusi. Nessuna società sopravvive alla morte o alla stagnazione delle élite. Nessuna società si autogoverna, il popolo ha bisogno di classi dirigenti, non caste chiuse e autoreferenziali ma aperte al ricambio e organiche al popolo.
    Riammettiamo la parola proibita: aristocrazie, non di sangue o di censo, né per trasmissione ereditaria di poteri e di possedimenti, ma premiando i migliori, riconoscendo le eccellenze in ogni settore.
    A formare le élite oggi non ci pensa lo Stato né la Scuola, l’Università, la Chiesa, i Partiti. A proposito, vi dice nulla che i quattro principali leader politici – Salvini, Di Maio, Zingaretti e Meloni – non siano nemmeno laureati? Certo, la laurea non è una garanzia di nulla, ma è una spia indicativa che i quattro principali leader non abbiano una laurea e una professione alle spalle. E infatti nessuno si batte per la meritocrazia né la pratica. All’Italia oggi mancano molte cose: la vitalità, la natalità, il coraggio di rischiare. Però manca una cosa che le precede: un’avanguardia di esempi, mille persone ai vertici degli ambiti decisivi, che siano da guida e da modello per tutti gli altri. I Mille. Non ci sono laboratori di formazione delle élite né in politica né in società, nella pubblica amministrazione o nelle imprese. E invece è necessario ripartire da lì, dalla rivoluzione delle élite. Dalle aristocrazie e dai luoghi di formazione. Prima i più bravi, vincano i migliori.
    (Marcello Veneziani, “All’Italia manca un’aristocrazia” dal numero 25/2019 di “Panorama”; articolo ripreso sul blog di Veneziani).

    Prima gli ultimi. No, prima i nostri. No, prima loro, i migranti. No, prima i giovani, le donne, le quote rosa o delle altre categorie discriminate. La battaglia delle priority prosegue senza sosta e senza punto d’incontro. E se, più semplicemente, dicessimo “Prima i primi” ovvero chi ne ha diritto, perché è arrivato primo o per primo, cioè i capaci e i meritevoli, i migliori, chi ha i titoli, l’anzianità e le competenze? E se il problema italiano non fossero le élite ma la loro assenza e il loro mancato ricambio? Andiamo con ordine. Prima gli ultimi, dice Papa Francesco, e sul piano pastorale nulla da dire. Giusto soccorrere chi sta male, aiutare prima chi sta peggio; un cristiano non può eludere la carità. Ma adottare la priorità degli ultimi come criterio sociale di vita pubblica è una catastrofe. In verità il Vangelo di Matteo dice: «Beati i poveri in spirito perché di loro sarà il regno dei cieli»; non promette ai poveri il regno della terra e l’accoglienza ovunque. Tuttavia sul piano religioso la carità come dedizione personale e comunitaria è un grande valore. Ma se diventa criterio distributivo nella vita pubblica e metodo di selezione pubblica, allora le società si deteriorano, degradano verso il peggio. La stessa cosa vale se gli ultimi che diventano i primi sono i migranti e i profughi.

  • Fassina: solo la destra sa che la politica deve proteggerci

    Scritto il 26/6/19 • nella Categoria: idee • (5)

    Penso che il Ddl firmato da 5 Stelle e Lega sulla Banca d’Italia sia parte della ricostruzione del primato della politica sull’economia. La politica monetaria è uno degli strumenti politici più importanti. E ritenere che la politica debba rimanere fuori dalla politica monetaria è stato un errore, frutto di un pensiero unico che si è affermato in modo assolutamente trasversale. Il disegno di legge che hanno presentato i capigruppo di Lega e 5 Stelle al Senato è sostanzialmente un passo avanti; non è che finisca l’indipendenza di Bankitalia, c’è un richiamo esplicito ai trattati europei. Si introduce il meccanismo previsto per la Bundesbank, quindi non una misura nord-coreana. E cioè: il governo nomina presidente e direttore generale, un membro del direttorio (vicepresidente), e altri due membri del direttorio (anch’essi vicepresidenti) vengono nominati uno dalla Camera e l’altro dal Senato. E’ esattamente il modello vigente in Germania. E solo una sinistra che ha completamente smarrito un minimo di autonomia culturale può considerare eversivo e inaccettabile questa proposizione, che a mio avviso invece fa fare un passettino avanti, alla politica, nel governo di uno strumento fondamentale come quello della politica monetaria.

  • Perché l’Iran: Usa e Israele stan perdendo il Medio Oriente

    Scritto il 26/6/19 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Spirano venti di guerra nel Golfo Persico, dove all’inasprimento delle sanzioni economiche contro l’Iran si aggiunge un numero crescente di provocazioni militari: la speranza di Washington è che il regime iraniano imploda sotto il peso delle molteplici pressioni ma, data la solidità di quest’ultimo, non è neppure escludibile un attacco militare diretto, di qui al 2020. Meglio sarebbe, ovviamente, se Teheran cadesse nella trappola di attaccare per primo. Alla base della strategia angloamericana c’è sicuramente la volontà di mantenere la superiorità regionale di Israele, destabilizzando il principale avversario; c’è, però,  anche la volontà di scardinare una potenza terrestre che, a fianco di Russia e Cina, sta “organizzando” il Medio Oriente con importanti infrastrutture. Nella nostra analisi geopolitica per il 2019, “Dal golfo di Biscaglia al Mar cinese”, non ci eravamo ovviamente scordati di menzionare l’Iran che, sin dall’inverno 2017/2018, era stato preso di mira dall’amministrazione Trump. Ai soliti tentativi di rivoluzione colorata, si è aggiunto, nel corso del 2018, un ritorno alle sanzioni, sospese durante l’era Obama: la presidenza democratica, già impegnata nella destabilizzazione della Siria (e nel tentativo di scatenare una guerra turco-iraniana), aveva infatti allentato la morsa sull’Iran, per impedire che questo si gettasse nelle braccia della Russia.
    “Persa la guerra” in Siria, per gli Usa è tornata prioritaria la caduta del regime iraniano, caduta che si spera di facilitare strangolando la sua economia e impedendo l’esportazione di idrocarburi. Inizialmente, gli Usa avevano concesso una “esenzione” di 180 giorni ai principali acquirenti di greggio iraniano, poi non rinnovata nell’aprile scorso: chi avesse continuato a fare affari con Teheran, sarebbe incappato nelle contromisure americane. L’ennesimo round di sanzioni (che, in sostanza, affliggono l’Iran dal 1979), colpisce duro soprattutto i paesi industrializzati o in via di industrializzazione dell’Asia: Turchia, India, Cina, Giappone e Sud Corea. Tokyo, quarta consumatrice mondiale di greggio e decisa a non appiattirsi completamente alla strategia angloamericana, si è fatta protagonista di una singolare iniziativa: benché il suo governo si sia impegnato a tagliare gli acquisti di greggio iraniano, Shinzo Abe è volato a Teheran (la prima visita di un premier giapponese nella Repubblica Islamica!) per stemperare le tensioni e, ovviamente, mettere in sicurezza gli approvvigionamenti energetici del Giappone, che sarebbe duramente colpito da uno choc petrolifero.
    “L’insubordinazione” giapponese, proprio mentre gli angloamericani erano impegnati a fare terra bruciata attorno all’Iran, è stata punita col classico attacco piratesco delle potenze marittime: mentre Shinzo Abe ed il presidente Hassan Rouhani erano a colloquio, due petroliere, di cui una giapponese (la Kokuka Courageous) sono state colpite il 13 giugno nello stretto di Hormuz, davanti alle coste iraniane. Inizialmente si è parlato di siluri, ma i danni sopra la linea di galleggiamento fanno propendere per l’impiego di missili: con un’incredibile sfacciataggine, il segretario di Stato Mike Pompeo ha prontamente accusato l’Iran. Il crescendo di tensioni e provocazioni (tra cui l’invio aggiuntivo di 1.000 soldati in Medio Oriente) è culminato con l’abbattimento, il 21 giugno, di un drone americano sopra i cieli iraniani. Il mondo, ora, aspetta col fiato sospeso gli sviluppi della vicenda: un attacco all’Iran, afferma il presidente russo Vladimir Putin, sarebbe «catastrofico». Il sogno angloamericano sarebbe, ovviamente, che il regime iraniano implodesse sotto il peso delle sanzioni o, perlomeno, attaccasse per primo: è, tuttavia, uno scenario irrealistico, vuoi per la comprovata resilienza del regime alle sanzioni, vuoi per la rinomata prudenza iraniana.
    Un attacco militare angloamericano, magari innescato da qualche “incidente di frontiera”, resta quindi una realistica opzione, di qui al 2020. L’Iran, intanto, ha dichiarato di voler procedere con l’arricchimento dell’uranio dopo il naugrafio degli accordi dell’era Obama. In questa sede, però, ci interessa soprattutto inquadrare lo scontro in un’ottica geopolitica, cioè nel più ampio scontro tra Terra e Mare. È indubbio che l’amministrazione Trump sia sensibilissima alle esigenze di sicurezza di Israele: abbattuto l’Iraq bahatista, fallito il tentativo di impiantare un “Sunnistan” tra Siria e Iran, Teheran è ormai in grado di proiettarsi sino al ridosso di Israele. La distruzione del regime iraniano è una priorità israeliana e, quindi, americana. Tuttavia, non bisogna mai scordare che Israele assolve anche a un’importante funzione per le potenze marittime: quella cioè di mantenere in costante instabilità il Medio Oriente ed impedire che qualche potenza continentale “organizzi” la regione.
    Turchia e Iran, due potenze dell’Heartland in termini mackinderiani, sono gli storici “organizzatori” del Levante e della Mesopotamia: un elemento che sicuramente ha contribuito alla decisione angloamericana di aumentare la pressione sull’Iran è stato, in parallelo al suo rafforzamento militare in Siria, la sua volontà, annunciata lo scorso aprile, di costruire una ferrovia transnazionale dall’altopiano iranico sino al Mediterraneo. Poco importa se su questa ferrovia dovessero viaggiare solo merci o turisti, in ogni caso l’Iran espanderebbe la sua influenza sino al mare, attirando nelle propria orbita i vicini, e, presto o tardi, renderebbe irrilevante Israele (e gli angloamericani). La natura geopolitica dello scontro in atto (dove per “geopolitico” si intende specificatamente la dialettica Terra-Mare) spiega anche la convergenza in atto dell’Iran verso le altre due potenze dell’Heartland per eccellenza, Russia e Cina. Mosca, impegnata nelle operazioni militari in Siria, ha sinora cercato di mantenere un certo equilibrio tra Israele e Iran: tuttavia, non c’è alcun dubbio che, qualora quest’ultimo fosse attaccato, la Russia fornirebbe assistenza militare attraverso il Mar Caspio per sostenere l’urto angloamericano.
    Il fronte meridionale della Russia è ora relativamente “in sicurezza”; lo sarebbe molto meno se il regime iraniano dovesse cadere. Un discorso analogo vale per la Cina: non solo l’Iran è una preziosa fonte di approvvigionamento di petrolio per Pechino, ma è anche un tassello chiave del corridoio centrale della Via della Seta, che dovrebbe portare i treni cinesi fino a Istanbul passando proprio per Teheran. Un attacco all’Iran, con il suo immediato contagio di caos e violenza a tutto il Medio Oriente, rischierebbe di ritardare per anni il corridoio centrale; un’implosione del regime per decenni. Ecco perché anche Pechino ha interesse a sostenere l’Iran in questo difficilissimo momento. Zbigniew Brzezinski aveva già previsto nel 1997, nel suo The Grand Chessbord, la possibile nascita di un’alleanza “anti-egemonica” (ossia anti-angloamericana) tra Russia, Cina e Iran. «Theresult could, at least theoretically, bring together the world’s lead-ing Slavic power, the world’s most militant Islamic power, and theworld’s most populated and powerful Asian power, thereby creating a potent coalition». Quest’alleanza è in nuce, e gli Usa stanno facendo di tutto per spingere verso la guerra il membro più debole del “blocco continentale”: se guerra sarà, Cina e Russia non staranno sicuramente a guardare.
    (Federico Dezzani, “Perché l’Iran”, dal blog di Dezzani del 21 giugno 2019. La traduzione del passo di Brzezinski: «Almeno teoricamente, potrebbero unirsi il principale potere slavo del mondo, la potenza islamica più militante del mondo e il potere asiatico più popoloso e potente del mondo, creando così una potente coalizione»).

    Spirano venti di guerra nel Golfo Persico, dove all’inasprimento delle sanzioni economiche contro l’Iran si aggiunge un numero crescente di provocazioni militari: la speranza di Washington è che il regime iraniano imploda sotto il peso delle molteplici pressioni ma, data la solidità di quest’ultimo, non è neppure escludibile un attacco militare diretto, di qui al 2020. Meglio sarebbe, ovviamente, se Teheran cadesse nella trappola di attaccare per primo. Alla base della strategia angloamericana c’è sicuramente la volontà di mantenere la superiorità regionale di Israele, destabilizzando il principale avversario; c’è, però,  anche la volontà di scardinare una potenza terrestre che, a fianco di Russia e Cina, sta “organizzando” il Medio Oriente con importanti infrastrutture. Nella nostra analisi geopolitica per il 2019, “Dal golfo di Biscaglia al Mar cinese”, non ci eravamo ovviamente scordati di menzionare l’Iran che, sin dall’inverno 2017/2018, era stato preso di mira dall’amministrazione Trump. Ai soliti tentativi di rivoluzione colorata, si è aggiunto, nel corso del 2018, un ritorno alle sanzioni, sospese durante l’era Obama: la presidenza democratica, già impegnata nella destabilizzazione della Siria (e nel tentativo di scatenare una guerra turco-iraniana), aveva infatti allentato la morsa sull’Iran, per impedire che questo si gettasse nelle braccia della Russia.

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