Archivio del Tag ‘Eliseo’
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Ma il povero renziano Baricco non può capire Houllebecq
Nella repubblica delle lettere ha prodotto qualche trapestio la stroncatura di “Sottomissione”, l’ultimo discusso libro di Michel Houellebecq, a opera di Alessandro Baricco. Con tutto il rispetto, che Baricco stronchi Houllebecq è l’ultimo dei problemi: è come se un barboncino tentasse di azzannare un lupo. Solo, non vorrei che domani, in qualche cartoleria francese, Houellebecq trovasse, immediatamente tradotta, la stroncatura di Baricco, e – cattivo com’è – ci massacrasse definitivamente il nostro maggiore scrittore renziano. Anche per questo, e non solo perché “Sottomissione” merita davvero di essere preso maggiormente sul serio, provvedo personalmente a un massacro preventivo di Baricco. Voglio dire, molto meglio che lo faccia io, che sono infinitamente meno cattivo di Houellebecq. “Sottomissione” è uscito in Francia mercoledì 7 gennaio, preceduto da un infernale battage pubblicitario; l’anno scorso, d’altronde, Houellebecq ha avuto una sovraesposizione mediatica senza precedenti, soprattutto dopo che il premio Goncourt 2010, assegnatogli per il suo libro meno acre, “La carta e il territorio”, aveva fatto pensare che gli sarebbe bastato rabbonirsi un po’ per puntare addirittura al Nobel.Per fortuna, invece, Houellebecq ha scritto “Sottomissione”, che rinvia sin dal titolo al film del regista olandese Theo van Gogh, assassinato da un islamista nel 2004: roba forte, dunque, anche senza il successivo macello di “Charlie Hebdo”. La traduzione italiana, uscita a tambur battente, ha esaurito subito la prima edizione, e la stroncatura di Baricco, intitolata “L’inutile lezione del professore”, è uscita su “Repubblica” il 20 gennaio, quand’era già tardi per impedire il successo del libro, per giunta perfidamente accostata alla recensione di un libro di Giuliano Amato. È inutile girarci attorno: di “Sottomissione”, Baricco non ha capito nulla. Del resto, potrebbe mai un intellettuale da salotto capire quel che passa per la testa di un predatore? L’esordio è solenne: «Se ancora esiste una pratica che si chiama letteratura – scandisce Baricco – non sono poi molti gli scrittori che vi si dedicano con risultati memorabili: per quel che ne capisco io, uno è Houellebecq». Con queste poche righe trasudanti ammirazione, però, l’inventore di “Holden – Scuola di Storytelling & Performing Arts”, il più costoso Dams italiano – prende due granchi con una sola frase.Primo granchio: c’è un fottio di buona letteratura in giro, persino i libri di Baricco non sono poi così male, a parte titoli come “Castelli di rabbia” (1991) che produrrebbe rabbia vera se non producesse costernazione. Ma la gran parte è letteratura d’intrattenimento, questo è il problema, e Houllebecq è tutt’altra cosa. Secondo granchio: Baricco pensa ancora alla Letteratura con la elle maiuscola, al Grande Romanzo Ottocentesco. Subito dopo, infatti, scrive che “Sottomissione” non attinge a quei livelli, limitandosi a cucire insieme «un romanzetto di fantapolitica, un racconto dedicato al mesto declino umano di un accademico parigino e un saggio su J. K Huysmans». Ora, come spiegare a uno scrittore d’intrattenimento che la letteratura più viva di quest’inizio millennio è proprio quella à la Houellebecq, che contamina romanzo, saggistica, reportage, dossier scientifico, e molte altre cose ancora? È, per citare i primi due titoli che mi vengono in mente, “Limonov” (2012) di Emmanuel Carrère, o il “Progetto Kraus” (2014) di Jonathan Franzen.Lo stesso Baricco, in “Castelli di rabbia”, cerca di fare qualcosa del genere, senza riuscirci. “Sottomissione”, invece, ci riesce perfettamente, direi con disinvoltura: vogliamo trattarlo come un «romanzetto di fantapolitica» solo per questo? Il terzo granchio è aver perso completamente di vista, a differenza dei critici d’Oltralpe, il tono satirico, paradossale, di tutta l’operazione. Come può essere sfuggito a uno scrittore, benché da salotto, che “Sottomissione” è un capolavoro dell’humour nero, nel solco di André Breton, autore che oltretutto cita? Come si fa a non capire che tutta la storia dell’islamizzazione della Francia, lungi dall’essere «una boutade buona per ravvivare una cena con dei colleghi», come crede Baricco, è un apologo sulla perdita d’identità francese ed europea, perdita che rende disponibili a votare il “Front National” o a convertirsi all’islamismo, indifferentemente, pur di ridarsi un’anima conservando il confort? Lo scrive Philippe Lançon su “Libération” del 3-4 gennaio: «L’humour è buona educazione per disperati – o maleducazione, come più vi piace».Nel libro c’è una tale quantità di battute politicamente scorrette, soprattutto sulle donne, che mi limito a citarne una, quasi inevitabile, sul presidente francese in carica. A proposito di François Hollande, “Sottomissione” si esprime con la seguente tranquilla ferocia: «Alla fine di due quinquennati catastrofici, con una rielezione dovuta solo alla strategia miserabile di favorire l’ascesa del Fronte nazionale, il presidente uscente aveva praticamente rinunciato a esprimersi, e la maggior parte dei media sembrava averne addirittura dimenticato l’esistenza. Quando, sulla soglia dell’Eliseo, davanti a una sparuta dozzina di giornalisti, si presentò come “l’ultimo baluardo dell’ordine repubblicano”, ci fu qualche risata, breve ma inequivocabile» (p. 101). Ve l’immaginate Baricco che scrive una cosa così, non dico del suo idolo Renzi, ma di Graziano Delrio?Houellebecq qualifica il politico francese di centrosinistra François Bayrou come «l’uomo politico ideale per incarnare l’umanesimo», incontrando «una certa popolarità nell’elettorato cattolico, che si sente rassicurato dalla sua idiozia» (p. 131). A proposito di umanesimo, la sua bestia nera, Houellebecq scrive che la sola parola «mi metteva una leggera voglia di vomitare» (p. 213). Ora, cosa può capire di tutto questo Baricco, che confonde l’ironia con la propria, finta, trasandatezza subalpina, a base di «robe», «quella cosa lì», «per quel che ne capisco io»? Ma sì, quella specie di understatement che tanto impressiona gli aspiranti romanzieri di “Holden”, lasciandogli credere che il loro guru, da un momento all’altro, potrebbe stupirli con effetti speciali. Io ho consultato persino Wikiquote, e mi permetto di disilluderli: gli effetti speciali non arrivano mai.Il quarto granchio di Baricco, sul quale il titolista di “Repubblica” ha fatto il titolo, riguarda «quello che sembra essere […] il vero nervo centrale del libro e in definitiva la sua ragion d’essere: il racconto dello strisciante declino, grottesco e rancoroso, di un cattedratico di mezza età». Senza accorgersi che il protagonista si chiama François, come se uno, in Italia, si chiamasse Italiano, lo stroncatore conclude che «difficilmente [un protagonista del genere] può assurgere a personaggio memorabile». Il granchio è condiviso con Bifo Berardi, il quale però, in una lunga recensione pubblicata online, molto più acutamente suggerisce: «Il dolore di cui [Houllebecq] parla in tutti i suoi romanzi non è solo il suo personale dolore, ma la chiave attraverso cui raccontare un’epoca». Ovvio: i traumi esibiti, la depressione, la paura della morte, sono solo le lenti attraverso cui Houellebecq guarda il meticoloso naufragio di una civiltà.Quinto e ultimo granchio – per ora: ma si attendono repliche – la totale ignoranza da parte di Baricco della metafisica di Houellebecq: che è poi ciò che rende i suoi libri così spiazzanti, così sgradevoli per le anime belle, ma anche così contagiosamente umoristici. Sulla base delle proprie esperienze personali, chirurgicamente raccontate nel suo libro migliore, “Le particelle elementari” (1998), Houellebecq ritiene questo nostro universo, retto dalle leggi darwiniane della selezione naturale, lo scherzo di un creatore malvagio, o mostruosamente stupido: una di quelle divinità dementi che affollano gli incubi di Howard Philip Lovecraft, uno dei suoi autori di culto. La vita degli umani segue le leggi dettate da questo semidio gnostico: soffrire, riprodursi e, appunto, sottomettersi alla necessità.Di sottomissione Houllebecq parla già in una delle pagine più hard delle “Particelle elementari”, dove descrive le angherie subite da ragazzo nel collegio, o piuttosto nella fossa dei serpenti, dove lo avevano parcheggiato i genitori dopo la loro separazione. Tutte le società animali, scriveva allora, compresa la società umana, «si reggono su un sistema di dominazione basato sulla forza relativa dei loro membri». Nel suo solito modo puntuale e disturbante, dunque, Houllebecq concludeva già allora che «l’animale più debole ha la possibilità di evitare il combattimento adottando una posizione di sottomissione (assunzione di stazione supina, esposizione dell’ano)» (p. 47 della trad. it., corsivo nel testo).Bene, anzi male, ma fatto sta che “Sottomissione” applica questa metafisica, desolante però esatta, alla situazione odierna della Francia, ma si potrebbe pure dire, contraddicendo anche qui Baricco, dell’Europa, se non della cultura occidentale in genere. Perché non ditemi che l’Italia è messa meglio della Francia, o che la nostra università pubblica non rischia, prima o poi, di essere rasa al suolo come quella francese nella finzione letteraria, o che le nostre povere vite sono molto più esaltanti della vita dell’accademico François. Chiaro che il protagonista di “Sottomissione”, alla fine, sia ridotto a convertirsi all’Islam: e neppure per ridare senso alla propria vita – espressione che a Houllebecq non produrrebbe neppure un sorriso di compatimento, ma il vomito, direttamente – bensì per avere una moglie, anzi tre, che finalmente lo accudiscano, come non avrebbe mai fatto, a credergli, la sua mamma snaturata.Ma tutto questo potrebbe sembrare semplicemente penoso, o palloso, come direbbe lo stesso Houllebecq, e non renderebbe giustizia all’assoluta godibilità del libro: che fa proprio ridere, da scompisciarsi, se solo uno sa coglierne l’ironia paradossale, e qua e là abissale, come sarebbe stato troppo pretendere dal malcapitato Baricco. Già che ci sono, anzi, mi permetto di rinviare al capolavoro di Houellebecq, “Le particelle elementari”, per suggerire un’interpretazione psicologica, sociologica, oserei dire antropologica, dell’incomprensione di Baricco. Il libro del 1998, come ho già detto, ha pagine autobiografiche tremende, che se fossero scritte da un altro lo farebbero semplicemente chiudere per non riaprirlo mai più. Eppure, o forse proprio per questo – se vi siete annotati la definizione dell’humour come buona o cattiva educazione per disperati – ha anche, nel capitolo terzo della parte seconda, alcune delle pagine più esilaranti della letteratura contemporanea.Succede che il co-protagonista delle “Particelle elementari”, Bruno, praticamente un maniaco sessuale, fa una disperata vacanza in un campeggio alternativo, sempre con il chiodo fisso di rimorchiare, ma con l’alibi, fornito dai sagaci gestori, di fare esperienze culturali estreme, dal massaggio erotico a tutte le varianti dello yoga sino alle più sofisticate forme di misticismo. In questa sorta di Disneyland dell’immaginario tipico della sinistra anni Settanta, che ha in realtà sdoganato l’individualismo e l’edonismo reaganiano degli Ottanta, per non parlare degli sputtanamenti ancora successivi, il nostro co-protagonista sceglie, fra i tanti a disposizione, anche un corso di scrittura creativa, tipo “Holden”. Solo che, trattandosi pur sempre di un alter ego di Houellebecq, non riesce a resistere dallo sfornare, su richiesta, questo distico indimenticabile: “I tassisti sono proprio dei froci / non ce n’è uno che si fermi agli incroci”.Ora, ditemi pure che Houellebecq e io, indifferentemente, siamo degli irresponsabili, dei goliardi, degli psicolabili: ma io non riesco a smettere di ridere, convulsamente, da quando ho letto questi versi la prima volta. E siccome penso che il riso, come ci hanno insegnato quelli di “Charlie Hebdo”, sia la sola religione per la quale vale la pena di vivere, e persino di morire, aggiungo solo una minuscola considerazione conclusiva. Altro che scrittura creativa e letteratura d’intrattenimento: se finalmente la gente si abitua alla buona letteratura, quella che fa semplicemente ridere e piangere, una risata le seppellirà.(Mauro Barberis, “Massacro preventivo, su Baricco critico di Houllebecq”, da “Micromega” dell’11 febbraio 2015. Il libro: Michel Houllebecq, “Sottomissione”, Bompiani, 252 pagine, euro 17,50).Nella repubblica delle lettere ha prodotto qualche trapestio la stroncatura di “Sottomissione”, l’ultimo discusso libro di Michel Houellebecq, a opera di Alessandro Baricco. Con tutto il rispetto, che Baricco stronchi Houllebecq è l’ultimo dei problemi: è come se un barboncino tentasse di azzannare un lupo. Solo, non vorrei che domani, in qualche cartoleria francese, Houellebecq trovasse, immediatamente tradotta, la stroncatura di Baricco, e – cattivo com’è – ci massacrasse definitivamente il nostro maggiore scrittore renziano. Anche per questo, e non solo perché “Sottomissione” merita davvero di essere preso maggiormente sul serio, provvedo personalmente a un massacro preventivo di Baricco. Voglio dire, molto meglio che lo faccia io, che sono infinitamente meno cattivo di Houellebecq. “Sottomissione” è uscito in Francia mercoledì 7 gennaio, preceduto da un infernale battage pubblicitario; l’anno scorso, d’altronde, Houellebecq ha avuto una sovraesposizione mediatica senza precedenti, soprattutto dopo che il premio Goncourt 2010, assegnatogli per il suo libro meno acre, “La carta e il territorio”, aveva fatto pensare che gli sarebbe bastato rabbonirsi un po’ per puntare addirittura al Nobel.
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Francesi coi terroristi in Siria, segreto che inchioda Hollande
Nel 2012 la città di Baba Amr, nel distretto di Homs, venne riconquistata dall’Esercito Arabo Siriano dopo circa un anno di assedio e bombardamenti. Baba Amr era una roccaforte dei ribelli. La sua capitolazione avvenne in poche ore. C’è un fatto che nessuno ha mai potuto raccontare e che oggi, all’indomani dell’attacco terroristico alla redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi, acquista un nuovo significato, anche alla luce delle dichiarazioni del presidente Hollande che ha ribadito la sua volontà di combattere il terrorismo «in ogni sua forma» e «dovunque». Quello che l’Eliseo non può raccontare è che all’interno della roccaforte, assieme ai ribelli, molti dei quali jihadisti, c’erano anche ufficiali della Francia, dell’Arabia Saudita e del Qatar. Quella notizia è stata tenuta nascosta per anni. Una notizia che non poteva essere rivelata all’opinione pubblica per non mettere in imbarazzo il presidente Hollande, responsabile di aver armato in Siria gruppi armati che nulla avevano a che fare con la democrazia.Oggi, grazie alle nostre fonti presenti sul posto, possiamo dire come sono avvenute le cose in quelle ore: Baba Amr è stata letteralmente consegnata all’Esercito di Damasco in cambio del silenzio. Quegli ufficiali, tra i quali molti francesi, hanno abbandonato la Siria in dieci bus, nascosti alla vista di tutti grazie ai finestrini oscurati. Per garantire l’anonimato vennero perfino montate delle tende all’interno dei mezzi. Nessuno doveva sapere che in mezzo ai terroristi erano presenti anche gli ufficiali e i militari francesi. Nessuno doveva vedere.Quel convoglio di dieci bus lasciò la Siria attraversando il confine con la Turchia. Poi si persero le tracce. Quello che è successo a Parigi è terribile. Ma non sfugge a nessuno come la Francia sia responsabile di aver armato e addestrato questi finti rivoluzionari. Alcuni di questi sono partiti da Parigi alla volta della Siria per far cadere un governo che fino a quel momento aveva vissuto in pace con chiunque. Mai in alcun modo Bashar al Assad aveva attentato alla sicurezza nazionale dell’Europa, degli Stati Uniti, dei paesi del Golfo. Mai.Il presidente siriano era rispettato a livello internazionale e considerato come uno dei più importanti attori per la stabilità del Medio Oriente. Di questa opinione era, ad esempio, l’attuale sottosegretario di Stato americano John Kerry. Chi ha ucciso le 12 persone a Parigi non può essere considerato un “terrorista” in patria e, allo stesso tempo, un “ribelle democratico” in Siria. Bisogna essere onesti e avere il coraggio di dire che questa sporca guerra voluta dall’Occidente ha molte mani insanguinate. Quelle dei terroristi. E anche quelle di Hollande. Il peggior presidente della storia della repubblica francese. Lunga vita a “Charlie Hebdo”. Lunga vita soprattutto a quei giornalisti che in Siria sono morti per raccontare le atrocità commesse dai terroristi, nel silenzio assoluto dei media nazionali che solo oggi parlano di libertà di stampa e di espressione. Per loro mai una copertina e neppure un titolo sul giornale.(Alessandro Aramu, “Quegli ufficiali francesi nella roccaforte dei terroristi a Baba Amr in Siria”, da “Sponda Sud” dell’8 gennaio 2015. Giornalista, Aramu è autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas, Messico, e sul movimento Hezbollah in Libano, ed è co-autore dei volumi “Syria. Quello che i media non dicono” e “Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria”, entrambi editi da Arkadia).Nel 2012 la città di Baba Amr, nel distretto di Homs, venne riconquistata dall’Esercito Arabo Siriano dopo circa un anno di assedio e bombardamenti. Baba Amr era una roccaforte dei ribelli. La sua capitolazione avvenne in poche ore. C’è un fatto che nessuno ha mai potuto raccontare e che oggi, all’indomani dell’attacco terroristico alla redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi, acquista un nuovo significato, anche alla luce delle dichiarazioni del presidente Hollande che ha ribadito la sua volontà di combattere il terrorismo «in ogni sua forma» e «dovunque». Quello che l’Eliseo non può raccontare è che all’interno della roccaforte, assieme ai ribelli, molti dei quali jihadisti, c’erano anche ufficiali della Francia, dell’Arabia Saudita e del Qatar. Quella notizia è stata tenuta nascosta per anni. Una notizia che non poteva essere rivelata all’opinione pubblica per non mettere in imbarazzo il presidente Hollande, responsabile di aver armato in Siria gruppi armati che nulla avevano a che fare con la democrazia.
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DeLong: l’euro è un disastro, l’Ue non impara dalla storia
Non abbiamo imparato nessuna delle quattro grandi lezioni impartiteci dalla storia nel periodo compreso tra le due guerre mondiali: la competizione economica pura, senza compensazioni da parte dello Stato, conduce al conflitto e alla rovina. Lo sostiene Bradford DeLong, economista dell’università californiana di Berkeley. Prima lezione: affinché l’economia mondiale possa essere prospera, l’aggiustamento degli squilibri macroeconomici deve essere effettuato sia dalle economie in “surplus” che da quelle in “deficit”, e non da queste ultime soltanto. Seconda lezione: per evitare o limitare le crisi, è necessario che il sistema bancario globale abbia un regolatore e supervisore bancario a sua volta globale. Terza verità: perché una crisi possa essere gestita con successo, il “prestatore di ultima istanza” deve essere veramente tale, in qualsiasi quantità il mercato possa richiedere. Quarto punto: perché una qualsiasi unione monetaria (cambi fissi) possa sopravvivere, è necessario che nel suo ambito si facciano trasferimenti fiscali su larga scala, per compensare le mancate oscillazioni dei tassi di cambio, proibite dagli accordi interregionali.«Nel mio piccolo – scrive DeLong in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” – pensavo che tutti (o quanto meno tutti quelli che contavano qualcosa nel governo dell’economia mondiale) avessero imparato queste quattro lezioni che la storia (1919-1939) ci aveva così crudelmente impartito». E invece, i boss dell’Eurozona e i loro consulenti «guardavano fuori dalla finestra e spettegolavano su Facebook», scrive DeLong, evidentemente convinto che la causa della catastrofe europea sia imputabile a semplici, madornali errori, anziché a un calcolo cinico e lucido: costruire la crisi per contrarre lavoro e diritti, far esplodere i profitti dell’élite a spese del 99% della popolazione, far sparire lo Stato per privatizzare tutto, a cominciare dai servizi vitali. DeLong si limita a domande tecniche, chiedendosi «come si è arrivati a tanto». Ovvero: «Perché Maastricht non ha istituito un unico regolatore/supervisore bancario», per poter «allineare la politica finanziaria con quella monetaria?». Maastricht, inoltre, non ha previsto un sistema per trasferire i fondi necessari a quei paesi «che avrebbero potuto entrare in recessione (come inevitabilmente accade), quando gli altri paesi sono in grande espansione».Maastricht, poi, «ha lasciato un bel pezzo delle sue prerogative di “prestatore di ultima istanza” nelle mani dei governi nazionali, che non possono stampare denaro (e quindi ottemperare al ruolo), invece di mettere il tutto nelle mani della Banca Centrale Europea, che invece potrebbe». Inoltre, «visto che le esportazioni di un paese sono nient’altro che le importazioni di un altro», come mai «non scattano automaticamente quelle politiche idonee a che i paesi in deficit possano ridurre le loro importazioni ed aumentare le loro esportazioni?». Già, perché? «E perché, viceversa, non si adottano automaticamente le politiche idonee a che i paesi in surplus aumentino le loro importazioni e riducano le loro esportazioni?». DeLong sembra non “vedere” il disegno criminale, l’organizzazione del disastro: preferisce pensare a eurocrati imbranati, banchieri sprovveduti, tecnocrati dilettanti? L’economista francese Alain Parguez, già consulente dell’Eliseo ai tempi di Mitterrand, riferisce che Jacques Attali, uno dei massimi padri dell’euro, avrebbe pronunciato testualmente le seguenti parole: «Ma cosa crede, la plebaglia europea, che la moneta unica l’abbiamo creata per la loro felicità?».DeLong, invece, propende per l’ipotesi dell’ingenuità che avrebbe pesato sulle decisioni dei fondatori dell’Ue, certi che il tempo avrebbe corretto le imperfezioni iniziali. «In alcuni – scrive – c’era la convinzione che alcuni specifici dettagli, se posti nel Trattato Maastricht, avrebbero rimandato questo progetto per anni, o addirittura per decenni, mentre la logica degli eventi avrebbe inevitabilmente portato sia ad una crescita organica che allo sviluppo dei pezzi mancanti del Trattato». Secondo questa logica, continua DeLong, alla prima grande recessione l’unione monetaria avrebbe senz’altro istituito un sistema per i trasferimenti fiscali. E ancora, alla prima importante crisi bancaria, la Bce avrebbe senz’altro adottato le funzioni di “prestatore di ultima istanza” (e a seguire, si sarebbe velocemente realizzata l’Unione Bancaria). Gli altri paesi europei, continua l’economista, «avevano considerato il Trattato di Maastricht come un rinnovo dell’impegno politico tedesco in favore di una più stretta integrazione europea». Per questo l’Europa si è fidata, incautamente, della riunificazione tedesca? Sì, risponde DeLong: gli europei non-tedeschi erano convinti che «se si fosse scoperto che c’era qualcosa da pagare per le conseguenze non palesemente previste del Trattato di Maastricht, la Germania lo avrebbe fatto».Non abbiamo imparato nessuna delle quattro grandi lezioni impartiteci dalla storia nel periodo compreso tra le due guerre mondiali: la competizione economica pura, senza compensazioni da parte dello Stato, conduce al conflitto e alla rovina. Lo sostiene Bradford DeLong, economista dell’università californiana di Berkeley. Prima lezione: affinché l’economia mondiale possa essere prospera, l’aggiustamento degli squilibri macroeconomici deve essere effettuato sia dalle economie in “surplus” che da quelle in “deficit”, e non da queste ultime soltanto. Seconda lezione: per evitare o limitare le crisi, è necessario che il sistema bancario globale abbia un regolatore e supervisore bancario a sua volta globale. Terza verità: perché una crisi possa essere gestita con successo, il “prestatore di ultima istanza” deve essere veramente tale, in qualsiasi quantità il mercato possa richiedere. Quarto punto: perché una qualsiasi unione monetaria (cambi fissi) possa sopravvivere, è necessario che nel suo ambito si facciano trasferimenti fiscali su larga scala, per compensare le mancate oscillazioni dei tassi di cambio, proibite dagli accordi interregionali.
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Hollande molla la Merkel solo per vendere la Francia al Ttip
Hollande in rotta di collisione con l’austerity della Merkel? Per certi versi, avverte Piero Pagliani, è la riesumazione di alcune delle idee con le quali il socialista francese approdò all’Eliseo nel 2012. «All’epoca erano più o meno confezionate così: nei vincoli europei non deve essere conteggiata quella parte di deficit che serve a rilanciare lo sviluppo». Un programma «tenuto in sonno per due anni, nonostante la situazione economica in Francia peggiorasse in termini esponenziali». Ora, evidentemente, qualcosa è cambiato: «Gli Usa stanno stringendo i tempi della deglobalizzazione conflittuale. Il golpe nazista a Kiev ha contribuito a isolare la Ue, e in primis la Germania, dalla Russia». La Francia? «Interpreta con fedeltà la politica statunitense: i tempi di De Gaulle ormai appartengono ad altre epoche geologiche». Sicché, François Hollande «si è lanciato con entusiasmo nella tragica messa in scena della guerra all’Isis». E tutte le cancellerie europee sanno che «sta iniziando una nuova fase della crisi mondiale, che sarà condotta con feroci attacchi militari alla Siria (quindi alla Russia) con la scusa dell’Isis».Lo ha appena ammesso anche il principe Saud bin Faysal, ministro degli esteri saudita. Si attendono anche «atti di destabilizzazione in territorio russo», mentre quelli in Cina «sono già iniziati a tenaglia». Era difficile prevederlo? Proprio per nulla, scrive Pagliani su “Megachip”, ricordando il suo romanzo “Il punto fisso” (Mimesis), che prevedeva «l’inizio della deglobalizzazione». Dunque Hollande si agita e la Merkel sta a guardare perplessa e preoccupata? «La Germania è entrata in difficoltà e fa fatica a mantenere la barra europea di una politica di austerity. Dapprima le risultava vantaggiosa, ma ha infine iniziato a segare l’albero su cui era seduta, come era facilmente prevedibile». Lezione: «La sua strategia di resistere ai piani imperial-finanziari anglosassoni per via economico-finanziaria era destinata a fallire dopo aver procurato disastri politici, economici, sociali e umani impressionanti». Infine, «ci sono le difficoltà, più che ovvie, di tutti i governanti europei, che straparlano di nuovo sviluppo e di “riforme” (leggi “massacri sociali”)». In realtà «cercano, letteralmente, di barcamenarsi per non finire troppo presto nella pattumiera della storia, loro inevitabile destinazione».Di fronte alle nuove insofferenze di Hollande, secondo Pagliani, le «basi missilistiche finanziarie di New York» reagiranno «solo quanto basta per estorcere le “riforme”», dopodiché «Renzi seguirà Hollande e infine Draghi porterà gli affondi finali contro la Germania». Vero obiettivo? Confluire, docili, sotto l’ala del Ttip, il Trattato Transatlantico negoziato in segreto dalle multinazionali Usa per riscrivere le regole del business con l’Europa secondo gli interessi atlantici. «Lo “Sblocca Italia” anticipa le richieste del Ttip». Esito inevitabile, «a meno che intervengano i Brics con mosse finanziarie oggi difficili da prevedere». Da Monti in poi, passando per Draghi, Hollande e Obama, secondo Pagliani è stata condotta una “fronda” anti-tedesca «paradossalmente sotto la bandiera dell’austerity stessa». Infatti, quel conflitto «non escludeva l’utilizzo della crisi per “normalizzare” la società (una strategia che a Monti è sempre stata a cuore), cioè appiattirla in vista del disperato e disperante tentativo di estrarre tutto il plusvalore possibile e saccheggiare i beni comuni».Ora la sinistra esulta per la “ribellione” all’austerità e indica il “socialista” Hollande come esempio positivo, colui che ha avuto il coraggio di dire di no? Sarà solo «una vera e propria “rivoluzione colorata” anti-austerity e anti-tedesca, quel tipo di rivoluzione che più eccita le sinistre, incuranti dei “forti” che stanno dietro di esse». E il resto del mondo – cioè i sei miliardi su sette? «I paesi Brics, al contrario della Germania, hanno invece capito che possono parlare di Nuova Banca di Sviluppo e magari di Bancor (la soluzione per la moneta internazionale proposta da Keynes a Bretton Woods e rifiutata per questioni di potenza dagli Usa) solo se si è muniti adeguatamente di forze armate e di bombe atomiche. Questa è l’orrenda verità». D’altra, continua Pagliani, parte il “gold dollar standard” era nato da una guerra mondiale ed è stato confermato da due città incenerite dalle bombe atomiche, «che del gold-dollar standard sono state l’ostia della prima comunione: poi c’è chi crede che l’economia sia l’unica cosa che conti nel capitalismo!». Sempre secondo Pagliani, «l’imbelle rivoluzione colorata contro l’austerity imposta dalla Germania ha come scopo non unico, ma principale, quello di passare da un parziale a un totale infeudamento della Ue nelle politiche neoimperiali e di deglobalizzazione statunitensi».Le politiche di austerità sono un disastro? Certo, «ma è anche un disastro pensare che politiche “keynesiane” sic et simpliciter riportino all’age d’or del Dopoguerra». Non sarà così: «La Bce che compra titoli di Stato non è la Banca d’Italia degli anni Cinquanta che compra il debito italiano. E neppure se lo facesse oggi una rinata Banca d’Italia. Nemmeno lontanamente. Non sarebbe più una politica monetaria dopo un conflitto mondiale, all’ombra di una stabilità imperiale, in una fase di enorme espansione in presenza di un fortissimo movimento operaio. Sarebbe – ammesso che si possa realizzare – una politica obbligata da uno stato incipiente di guerra e nel pieno di una crisi e di un caos sistemici. Una politica dovuta al fatto che i mercati stanno dividendosi in aree geopolitico-economiche contrapposte». I profitti di una volta? «Semplicemente non ci sono più», perché ormai la coperta si è accorciata. La Germania? «E’ contraria alle linee di Draghi. Ma fino a quando si potrà opporre se sarà costretta ad adeguarsi agli embarghi e le sanzioni contro l’Est che le imporrà la Superpotenza che la occupa con 179 basi militari? Senza mercati di sbocco, che fine farà il suo famoso e famigerato mercantilismo?».Il timore di Pagliani è che la politica keynesiana, «che in molti, con speranza, vedono profilarsi all’orizzonte», di fatto «non sarà capace di riportare indietro le lancette della storia». Ovvero: «Non sarà in grado né di fermare l’impoverimento della società né di indurre un ribilanciamento della ricchezza». Dalla tragedia dell’euro, per esempio, ci si può affrancare «solo in una cornice politica nazionale e internazionale totalmente nuova». Previsioni: crisi nera, ancora e sempre, magari intrerrotta da «ripresine a singhiozzo», incapaci di invertire la rotta. «Se nuovo sviluppo capitalistico ci sarà in Occidente, ci sarà solo dopo una fase conclamata di guerra mondiale che inevitabilmente ne preparerà una quarta, a meno che non riduca fin da subito la Terra all’età della pietra», conclude Pagliani. «Oppure bisognerà cambiare registro, a livello internazionale: sul modo sociale ed ecologico di produrre e di consumare e quindi – e soprattutto – sui rapporti di potere, internazionali e nazionali».Hollande in rotta di collisione con l’austerity della Merkel? Per certi versi, avverte Piero Pagliani, è la riesumazione di alcune delle idee con le quali il socialista francese approdò all’Eliseo nel 2012. «All’epoca erano più o meno confezionate così: nei vincoli europei non deve essere conteggiata quella parte di deficit che serve a rilanciare lo sviluppo». Un programma «tenuto in sonno per due anni, nonostante la situazione economica in Francia peggiorasse in termini esponenziali». Ora, evidentemente, qualcosa è cambiato: «Gli Usa stanno stringendo i tempi della deglobalizzazione conflittuale. Il golpe nazista a Kiev ha contribuito a isolare la Ue, e in primis la Germania, dalla Russia». La Francia? «Interpreta con fedeltà la politica statunitense: i tempi di De Gaulle ormai appartengono ad altre epoche geologiche». Sicché, François Hollande «si è lanciato con entusiasmo nella tragica messa in scena della guerra all’Isis». E tutte le cancellerie europee sanno che «sta iniziando una nuova fase della crisi mondiale, che sarà condotta con feroci attacchi militari alla Siria (quindi alla Russia) con la scusa dell’Isis».
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Nato e Ue, due guinzagli per lo stesso padrone: gli Usa
Se al summit di Praga nel 2002 si tratta si accogliere l’Est Europa verso ovest, lo storico vertice di Newport si incarica di impedire alla Cina e alla Russia di svilupparsi. Lo sostiene Thierry Meyssan, secondo cui l’appuntamento gallese della Nato è stato pianificato per impedire a Mosca e Pechino di rivaleggiare con gli Stati Uniti. Politica estera a mano armata: è nella natura della Nato fin dal 1949. La prassi: «Manipolare i fatti per presentarsi come un’alleanza difensiva di fronte all’espansionismo sovietico». Era vero l’opposto: ad avere funzione di difesa era semmai il Patto di Varsavia, creato infatti sei anni dopo, nel 1955, per cercare di limitare l’imperialismo anglosassone. La Nato, poi, «non è un’alleanza fra uguali, ma la vassallizzazione degli eserciti partner da parte degli Stati Uniti e del Regno Unito», mentre «il servizio segreto della Nato, la “Gladio”, sotto l’autorità congiunta di Washington e Londra, veglia affinché gli anti-imperialisti non possano mai arrivare al potere negli altri Stati membri. Per fare questo, la Nato non ha lesinato né sugli omicidi politici, e nemmeno sui colpi di Stato: in Francia, in Italia, in Grecia, a Cipro e in Turchia».Questa vassallizzazione, continua Meyssan in un’analisi tradotta da “Megachip”, contravviene ai principi dell’Onu, in quanto gli Stati membri perdono l’indipendenza della loro politica estera e di difesa. Il diktat atlantico fu contestato prima dall’Urss e poi dal presidente francese Charles De Gaulle che, «dopo aver affrontato una quarantina di tentativi di assassinio» da parte dell’Oas, l’organizzazione estremista «finanziata dalla Nato» ed essere riuscito a farsi rieleggere, «annunciò il ritiro immediato della Francia dal comando integrato e la riconsegna di 64.000 soldati e impiegati della Nato fuori dal territorio francese». Una pagina di indipendenza che cessò con l’elezione di Jacques Chirac: pochi mesi dopo il suo arrivo all’Eliseo, il nuovo presidente «reintegrò la Francia in seno al Consiglio dei ministri e al Comitato militare dell’Alleanza». Capitolo definitivamente archiviato «con il ritorno delle forze armate francesi sotto il comando statunitense, deciso da Nicolas Sarkozy nel 2009».Infine, aggiunge Meyssan, «la vassallizzazione degli Stati membri è proseguita con la creazione di numerose istituzioni civili, di cui la principale e la più efficace è l’Unione Europea». Lo dice in modo netto, il giornalista francese: «Contrariamente a un diffuso luogo comune, l’attuale Unione non ha avuto tanto a che fare con l’ideale dell’unità europea, quanto con la vocazione di fissare i membri della Nato fuori dall’influenza sovietica, poi russa, in conformità con le clausole segrete del Piano Marshall». Si trattava quindi di mantenere l’Europa saldamente divisa in due blocchi: la Russia da una parte, tutti gli altri con l’America. «Non è un dunque un caso che gli uffici della Nato e quelli dell’esecutivo europeo siano principalmente situati a Bruxelles e secondariamente in Lussemburgo. Ed è per consentire il controllo dell’Unione da parte degli anglosassoni, che questa si è dotata di una strana Commissione, la cui attività principale è quella di presentare “proposte”, economiche o politiche, tutte predefinite dalla Nato».Si ignora spesso che l’Alleanza non è semplicemente un patto militare. La Nato infatti «interviene nel dominio dell’economia», di fatto «è il primo cliente dell’industria della difesa in Europa». Attualmente, tre quarti del bilancio euroatlantico sono assicurati dai soli Stati Uniti, i quali «stanno progettando un confronto con la Cina» sin dall’11 Settembre, che Meyssan chiama «il colpo di stato del 2001». E spiega: il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle, mentre il mondo era ipnotizzato dagli attentati, «il presidente George W. Bush fu illegalmente rimosso dalle sue funzioni in virtù del programma di “continuità del governo”». Funzioni presidenziali che ritrovò «solo alla fine della giornata, dopo che il suo paese aveva cambiato radicalmente la sua politica estera e di difesa». Durante quella giornata, aggiunge Meyssan, «tutti i membri del Congresso e i loro staff furono collocati dalle autorità militari in domicilio sorvegliato, presso il complesso Greenbrier (West Virginia) e presso il Mount Weather (Virginia)». E’ da allora, dice Meyssan, che il vero obiettivo è la Cina. E, proprio in questa prospettiva, Obama ha annunciato il riposizionamento delle sue forze armate in Estremo Oriente. Problema: «Questo programma è stato perturbato dalla ripresa economica, politica e militare della Russia, che si è mostrata capace nel 2008 di difendere l’Ossetia del Sud attaccata dalla Georgia e, nel 2014 la Crimea minacciata dai golpisti di Kiev».La resurrezione della Russia di Putin ha inoltre indotto gli Usa ad abbandonare lo “scudo anti-missile” dell’Est Europa, presentato come un sistema di protezione contro i missili dell’Iran ma in realtà progettato per accerchiare la Russia e paralizzarla: i missili da fermare erano quelli che Mosca avrebbe potuto scagliare verso ovest, se attaccata. Ma perché concentrarsi sull’Europa orientale? Per colpire l’Ameirca, dice Meyssam, il percorso più breve è il Polo Nord. «Dopo aver minato per oltre un decennio le relazioni tra Washington e Mosca, il progetto viene abbandonato perché risulta tecnicamente impossibile distruggere in volo i missili russi intercontinentali di ultima generazione. Quindi è il principio stesso di “deterrenza nucleare” che viene abbandonato di fronte alla Russia, anche se rimane pertinente per gli altri Stati». Da Mosca a Pechino: «Washington ha esacerbato le tensioni tra la Cina e i suoi vicini, in particolare il Giappone. La Nato, che storicamente rende l’Europa vassalla del Nord America, si è dunque aperta a dei partner asiatici e dell’Oceania, tra cui Australia e Giappone, attraverso contratti di associazione. Nel frattempo, ha ampliato il suo campo d’azione a tutto il mondo».In questo periodo di restrizioni di bilancio, l’Alleanza, che a quanto pare non conosce crisi, sta costruendo una nuova sede a Bruxelles, per la somma sbalorditiva di un miliardo di euro: dovrebbe essere consegnata all’inizio del 2017. Nel frattempo si prevede di associare anche il Montenegro, mentre si invitano gli europei ad aumentare le spese militari. Intanto, a imporsi è sempre il Medio Oriente: «Nella preoccupazione di evitare che la Cina e la Russia controllino abbastanza materie prime da essere capaci di rivaleggiare con gli Stati Uniti», la Nato «si è aggiunta nel corso dell’estate la questione dell’Emirato islamico», il famoso Califfato. «Un’intensa campagna mediatica ha demonizzato l’organizzazione jihadista, i cui crimini non sono affatto nuovi, ma che deve solo attaccare il popolo iracheno». L’Isis è una cretatura occidentale. E, nonostante le apparenze, «la sua azione in Iraq è del tutto coerente con il piano Usa di dividere il paese in tre Stati separati», per sunniti, sciiti e curdi. «Per realizzare un progetto che costituisce un crimine contro l’umanità, perché presuppone la pulizia etnica, Washington ha fatto ricorso a un esercito privato che le spetta condannare pubblicamente intanto che però lo sostiene sottobanco». In realtà, infatti, i “tagliatori di teste” obbediscono agli ordini. Il Califfato è destinato a durare, assicura Meyssan: «Sebbene attualmente agisca soprattutto in Siria e in Iraq, è stato progettato per mettere a ferro e a fuoco a lungo termine la Russia, l’India e la Cina».La questione dell’Emirato islamico non doveva pertanto essere aggiunta all’ordine del giorno anti-russo e anti-cinese di Newport, perché ne faceva già parte. Inoltre, non volendo rischiare di vedere un qualche Stato membro esprimere i propri dubbi su questa mascherata, Washington ha spostato il dibattito a margine del vertice. Obama ha riunito altri otto altri Stati, più l’Australia (che non è membro Nato, ma solo associata) per «mettere a punto il suo piano di guerra». Così, è stato deciso di associare anche la Giordania a questo dispositivo. In appena una mattinata, il vertice del Galles ha poi sbrigato la questione della lunga presenza occidentale in Afghanistan: «Certo, la Nato ritirerà le sue truppe da combattimento, come previsto, entro la fine dell’anno, ma manterrà il controllo dell’esercito afghano e della sicurezza del paese», ipotecando inoltre le prossime elezioni presidenziali. Quanto all’Est Europa, il vertice ha accettato di estendere il controllo Nato anche sull’Ucraina, «solo per vedere quale sarà la reazione russa», ma non è andato oltre: «L’Atto costitutivo sulle relazioni Nato-Russia non è stato revocato e l’Ucraina non è stata incorporata nell’Alleanza. Ognuno ha preferito evocare un possibile cessate-il-fuoco tra Kiev e il Donbass».Molto rumore per nulla, dunque? In apparenza, sì: «A meno che le cose importanti non siano state decise a porte chiuse, in occasione della riunione dei capi di Stato di venerdì 5 settembre, non sembra che le guerre segrete siano state discusse al vertice, ma solo a margine del vertice e solo con alcuni alleati». Già nel 2011, ricorda Meyssan, la Nato aveva violato le sue regole istitutive, non riunendo il Consiglio Atlantico prima di bombardare Tripoli. «Sembrava in effetti impossibile che tutti accettassero di perpetrare un tale massacro». Per questo, «in gran segreto», Usa e Regno Unito riunirono a Napoli la Francia, l’Italia e la Turchia, «per pianificare un attacco che ha causato almeno 40.000 morti civili in una settimana». Cinicamente, il report del vertice gallese «afferma che l’Alleanza ha protetto il popolo libico», citando le risoluzioni 1970 e 1973 delle Nazioni Unite, in realtà utilizzate «per cambiare il regime uccidendo 160.000 libici e facendo precipitare il paese nel caos». In ultima analisi, conclude Meyssan, negli ultimi anni la Nato ha raggiunto i suoi obiettivi in Afghanistan, Iraq, Libia e nel nord-est della Siria, «cioè solo ed esclusivamente in paesi o regioni organizzate in società tribali: non sembra dunque in grado di entrare in conflitto diretto con la Russia e la Cina».Se al summit di Praga nel 2002 si tratta si accogliere l’Est Europa verso ovest, lo storico vertice di Newport si incarica di impedire alla Cina e alla Russia di svilupparsi. Lo sostiene Thierry Meyssan, secondo cui l’appuntamento gallese della Nato è stato pianificato per impedire a Mosca e Pechino di rivaleggiare con gli Stati Uniti. Politica estera a mano armata: è nella natura della Nato fin dal 1949. La prassi: «Manipolare i fatti per presentarsi come un’alleanza difensiva di fronte all’espansionismo sovietico». Era vero l’opposto: ad avere funzione di difesa era semmai il Patto di Varsavia, creato infatti sei anni dopo, nel 1955, per cercare di limitare l’imperialismo anglosassone. La Nato, poi, «non è un’alleanza fra uguali, ma la vassallizzazione degli eserciti partner da parte degli Stati Uniti e del Regno Unito», mentre «il servizio segreto della Nato, la “Gladio”, sotto l’autorità congiunta di Washington e Londra, veglia affinché gli anti-imperialisti non possano mai arrivare al potere negli altri Stati membri. Per fare questo, la Nato non ha lesinato né sugli omicidi politici, e nemmeno sui colpi di Stato: in Francia, in Italia, in Grecia, a Cipro e in Turchia».
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Usciremo dall’euro e da questa Ue, il problema è come
Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.Lo sostiene tra i tanti il professor Alain Parguez, insider all’Eliseo all’epoca in cui il “monarca” Mitterrand si circondava di personaggi come Jacques Delors, futuro primo presidente della Commissione Europea, e di super-consiglieri come Jacques Attali, ben consci che l’euro non fosse certo nato «per la felicità della plebaglia europea». Una moneta senza Stato, per Stati senza più moneta, non funzionerà mai, disse Giorgio La Malfa a Tommaso Padoa Schioppa, il quale rispose: «E credi che non lo sappiamo?». Nino Galloni, per anni alto dirigente del Tesoro, sintetizza: il futuro centrosinistra italiano – ben conscio che l’euro avrebbe rovinato l’Italia – decise ugualmente di lavorare per la cessione della sovranità nazionale senza vere contropartite, pur di liberarsi per sempre della classe dirigente della Prima Repubblica, quella dei tangentocrati indagati da Mani Pulite. Che l’euro non potesse “funzionare” non è mai stato un mistero per nessun potente: e l’apparente fallimento messo in luce dall’attuale spaventosa recessione, in realtà, corrisponde a un successo fino a ieri impensabile per l’oligarchia economico-finanziaria, che ha visto schizzare in cielo il proprio potere e la propria ricchezza a spese della maggioranza della popolazione, su cui si è scaricato interamente il costo della cosiddetta crisi.Dal canto suo, Giannuli si limita a constatare che l’unificazione politica europea «è una leggenda persa nelle brume di un futuro vaghissimo», visto che «da sette anni infuria una crisi senza precedenti dal 1929» e che «le economie nazionali europee divergono più che mai e diversi paesi sono sull’orlo del default». In queste condizioni politiche e finanziarie, conclude Giannuli, «il rischio di un crollo dell’euro è più che una semplice possibilità teorica». Se dovessero cedere una serie di paesi come Grecia, Portogallo e Irlanda, «la sopravvivenza della moneta unica diverrebbe assai problematica». Se poi il default dovesse riguardare Italia o Spagna, «non si vede come la costruzione possa restare in piedi». Ma attenzione: «Anche sviluppi imprevisti della crisi Ucraina potrebbero innescare dinamiche divaricanti nella Ue tali da mettere a rischio la moneta». Senza calcolare che, a un certo punto, «i costi di mantenimento dell’unione monetaria potrebbero rivelarsi tali da rendere inevitabile l’uscita di alcuni partner, con l’effetto di un “rompete le righe” generalizzato».Questa, per Giannuli, è esattamente la prospettiva più probabile: «E non è detto che a iniziare debbano essere i paesi deboli come Grecia o Portogallo, potrebbe iniziare uno scollamento anche di uno dei paesi forti e persino la Germania non è esente da queste tentazioni». E se la cosa non sarà stata preparata e dovesse avvenire con un improvviso crack – poco importa se finanziario o politico – allora finiremmo dentro una tempesta devastante. «E qui si capisce cosa non funziona nel ragionamento degli “euristi ad oltranza”: non prevedere il rischio di un crollo improvviso della moneta e non capire che dalla moneta unica si può uscire in modo scarsamente traumatico, a condizione che questo avvenga nei modi e nei tempi opportuni». Paradossalmente, continua Giannuli, «i fautori di “euro o muerte” ragionano allo stesso modo della Lega e dei populisti che tanto disprezzano». Due facce della stessa medaglia: «I populisti più estremi prospettano un’uscita dalla moneta unica, con ritorno alla moneta nazionale, con una decisione semplice ed immediata: hic et nuc! E gli “euromani” ragionano solo su questo scenario. Ma dall’euro non si può uscire come da una festa fra amici: “Scusate, dobbiamo andare: abbiamo lasciato i bambini soli a casa”».Secondo Giannuli, non è che – una volta liberi «dall’orrenda moneta» – tutto ricomincia a girare per il verso giusto, con l’economia che rifiorisce d’incanto: l’euro è una micidiale camicia di forza, certo, ed è il principale “mandante” della devastante politica di austerità, però – intorno a noi – c’è anche una gigantesca crisi planetaria del modello produttivo globalizzato, che richiede «un ripensamento complessivo dell’ordinamento neoliberista dell’economia mondiale». Meglio allora le soluzioni intermedie: lasciare l’euro come unità di conto (com’era l’Ecu) cui agganciare le monete nazionali, con bande di oscillazione prestabilite, «in modo da dare il tempo di far riprendere la bilancia dei pagamenti dei paesi del sud Europa». Oppure, adottare per un certo periodo «un regime di doppia circolazione, con retribuzioni date in parte con una moneta e in parte con l’altra». Complesso, certo. «Ma neppure il passaggio all’euro è avvenuto in due minuti: da Maastricht all’entrata in funzione della moneta unica sono passati ben 10 anni».Il problema sembra economico, ma è eminentemente politico – lo stesso euro, del resto, è uno strumento politico che verticalizza il potere e fa sparire la democrazia, con le sue imposizioni tassative. «Non è detto che la Ue debba restare questo mostro onnivoro che è oggi», si augura Giannuli. «Di fatto, questa fusione delle tre Europe (del nord, del sud e dell’est) non ha molto funzionato né politicamente (e si pensi al fianco est), né economicamente (e si pensi al fianco Sud). Forse l’ipotesi di una unificazione politica potrebbe essere più facilmente realizzata fra paesi più omogenei, con tre federazioni a sua volta alleate fra loro. Tre federazioni europee (del nord, del sud, dell’est) sembrano una soluzione più praticabile di un’improbabilissima unione politica di tutto il continente. E la questione della moneta potrebbe trovare uno scioglimento in questo ordinamento a tre». Conclude Giannuli: «La Storia non è finita, come pensava quell’imbecille di Francis Fukuyama, e l’esistente è solo il presente. Non l’eternità».Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.
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Suicidare la Francia: i veri obiettivi di Hollande e Valls
François Hollande ha ricevuto all’Eliseo Peter Hartz, l’ex consigliere del cancelliere tedesco Gerhard Schröder: «L’ex direttore del personale della Volkswagen era stato condannato a due anni di prigione per aver corrotto i sindacalisti della sua impresa pagandoli con 2,6 milioni di euro in prostitute e viaggi esotici», scrive Thierry Meyssan. «Non è precisato se il presidente Hollande desideri seguire l’esempio di Peter Hartz fino alla sua quarta riforma, che limita a tre mesi la durata delle assicurazioni contro la disoccupazione». Per Meyssan, comunque, anche l’incontro con Hartz – insieme al nuovo governo di Manuel Valls, creato con l’alibi della débacle elettorale alle comunali – testimonia la volontà dell’Eliseo di puntare su un nuovo colonialismo per facilitare le grandi aziende francesi, sull’esempio del suo “maestro” Jules Ferry, che già a fine ‘800 difese gli interessi del grande capitale francese mentre sviluppava il colonialismo, forgiando gli insegnanti perché «formassero i giovani in modo che diventassero i soldati dell’espansione coloniale e della Prima Guerra Mondiale».Non a caso, osserva Meyssan in un’analisi ripresa da “Megachip”, la prima parte del mandato di Hollande è stata caratterizzata dal rilancio della guerra in Siria e dagli interventi militari in Mali e nella Repubblica Centrafricana, tutte «avventure» che sarebbero state «coordinate presso l’Eliseo – sovente contro il parere dello stato maggiore e del ministro della difesa – dal capo di gabinetto militare, il generale tradizionalista Benoît Puga». La seconda parte del quinquennio di Hollande – annunciata già il 14 gennaio, ben prima delle elezioni comunali – si vuole “socialdemocratica”, nel senso dell’Agenda 2010 del cancelliere Schröder: reindirizzare la produzione, agevolando le grandi aziende. «Intrapresa un decennio fa, questa politica facilitò il governo federale, rese più competitive le imprese esportatrici ma aumentò considerevolmente le disparità sociali e la povertà».L’opinione pubblica francese, intanto, ha accolto con scetticismo l’avvicendamento alla guida del governo. «Mai, nella storia della Francia – scrive Meyssan – le elezioni comunali erano sfociate in un cambio di governo: sembrava infatti impossibile trarre conclusioni nazionali da elezioni esclusivamente locali». Tuttavia, se consideriamo i 788 Comuni con più di 50.000 abitanti (che corrispondono al 23% della popolazione), si osserva «un record di astensionismo, soprattutto tra gli elettori che avevano votato due anni prima per François Hollande». L’estensione della sfiducia è stata tale, aggiunge Meyssan, che numerosi Comuni tradizionalmente ancorati a sinistra sono passati alla destra, a favore dell’Ump. Da qui la mossa di Hollande: l’incarico a Valls per formare un nuovo governo «coeso, coerente e saldo», in realtà votato alla realizzazione dei grandi obiettivi annuciati il 14 gennaio, ad oltre due mesi da voto.«Il presidente – continua Meyssan – pensa così di seguire le orme di François Mitterrand che, nel luglio 1984, congedò il suo primo ministro operaista Pierre Mauroy, abbandonò le sue 101 proposte e designò un esponente dell’alta borghesia, Laurent Fabius, affinché conducesse una politica più “realistica”». E’ il “vizietto” storico della sinistra europeista: assorbire e neutralizzare le istanze popolari, per meglio imporre le politiche neoliberiste della destra economica e tecnocratica. Non tutti appreazzano, naturalmente: «Così come i comunisti si rifiutarono di partecipare al governo Fabius accusato di liquidare le promesse sociali dell’elezione presidenziale, anche i Verdi si ritirano dal governo Valls, rifiutando di condividere il suo prevedibile fallimento».Per Meyssan, «così come Mitterrand aveva scelto un primo ministro ebreo e sionista per placare l’ostilità di Israele, allo stesso modo François Hollande ha scelto una delle persone più impegnate in favore della colonizzazione della Palestina». E se Fabius era un primo ministro «troppo giovane e inesperto per imporsi dopo il machiavellico Mitterrand», anche Manuel Valls «non ha avuto la capacità di formare da solo il suo governo e ha dovuto adeguarsi ai suggerimenti presidenziali». Tuttavia, mentre Mitterrand aveva operato un vero cambio di politica e di uomini nel 1984, Hollande intende proseguire la politica avviata nel primo anno di mandato. Così il nuovo governo comprende le stesse persone del precedente, con due eccezioni: Ségolène Royal, la madre dei figli di Hollande, e il suo vecchio amico François Rebsamen. «Possiamo da ciò concludere che il suo obiettivo non sia quello di abbandonare la scia di Jules Ferry, ma di aggiungervi l’esempio delle relazioni con il grande capitale di Gerhard Schröder».Valls si è attenuto alle direttive presidenziali: “patto di responsabilità” con il Medef, la Confindustria francese, “transizione energetica” per compiacere i Verdi e “patto sociale” per le classi popolari. «Ma i bisogni della Francia sono facili da stabilire: da molti anni lo Stato rinuncia ai suoi mezzi d’intervento, abbandonando la sua moneta per esempio, aumentando gli strati amministrativi, le sue leggi e i suoi regolamenti. Alla fine, il potere si è impigliato nella propria burocrazia e ha perduto ogni efficacia». Uno status quo deludente, che «pochi pensano di cambiare davvero». Il grande suggeritore, aggiunge Meyssan, è la superpotenza Usa: smarcare Parigi da Washington «richiederebbe una grave crisi politica internazionale, come quella aperta nel 1966 da Charles De Gaulle quando improvvisamente espulse la Nato dalla Francia». Se ne guardano bene Hollande e Valls, che annunciano una colossare riforma per tagliare gli enti locali, dimezzare il numero delle Regioni e accorpare i piccoli Comuni.«Se tutti sono d’accordo nel considerare che questa “millefoglie” era indigesta e costosa – sostiene Meyssan – la scelta degli strati da sopprimere non corrisponde alla storia politica francese, bensì al progetto di transizione dagli Stati-nazione all’Unione Europea». Questo progetto, «instillato dagli Stati Uniti durante il Piano Marshall», sostituirebbe gli attuali Stati-nazione con delle macroregioni, trasferendo i poteri sovrani a un’entità burocratica come la Commissione Europea: l’esatto contrario del progetto gollista di regionalizzazione del 1969. «Risulta perlomeno sorprendente vedere questa riforma trattata dal primo ministro come una semplice variabile di aggiustamento economico, mentre il suo obiettivo finale è la scomparsa dello Stato francese, e quindi della Repubblica francese, a vantaggio della burocrazia di Bruxelles (Unione Europea e Nato)», scrive Meyssan. Di fatto, «il cambio di governo non risponde al voto dei francesi», ma alle mire neo-coloniali dell’industria. «Questa politica ha una sua logica: in tempi di crisi, è impossibile aumentare lo sfruttamento della classe operaia, occorre cercarsi dei super-profitti all’estero, presso popoli che non hanno i mezzi per difendersi». Così, «il sangue continua a scorrere in Siria e in Africa, mentre la povertà continuerà a espandersi in Francia».François Hollande ha ricevuto all’Eliseo Peter Hartz, l’ex consigliere del cancelliere tedesco Gerhard Schröder: «L’ex direttore del personale della Volkswagen era stato condannato a due anni di prigione per aver corrotto i sindacalisti della sua impresa pagandoli con 2,6 milioni di euro in prostitute e viaggi esotici», scrive Thierry Meyssan. «Non è precisato se il presidente Hollande desideri seguire l’esempio di Peter Hartz fino alla sua quarta riforma, che limita a tre mesi la durata delle assicurazioni contro la disoccupazione». Per Meyssan, comunque, anche l’incontro con Hartz – insieme al nuovo governo di Manuel Valls, creato con l’alibi della débacle elettorale alle comunali – testimonia la volontà dell’Eliseo di puntare su un nuovo colonialismo per facilitare le grandi aziende francesi, sull’esempio del suo “maestro” Jules Ferry, che già a fine ‘800 difese gli interessi del grande capitale francese mentre sviluppava il colonialismo, forgiando gli insegnanti perché «formassero i giovani in modo che diventassero i soldati dell’espansione coloniale e della Prima Guerra Mondiale».
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Col Dottor Stranamore, l’austerity estesa fino al Don
Se la Germania impone anche all’Ucraina la super-austerità della Troika, la guerra con la Russia sarebbe alle porte: il malessere sociale infatti farebbe letteralmente esplodere le regioni russofone dell’est, come quella di Donetsk, le più avanzate e industrializzate, popolate da milioni di russi. Lo afferma l’economista Joseph Halevi, allarmato per le dichiarazioni di un super-falco come il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, secondo cui il programma di rigore che ha ucciso la Grecia dev’essere esteso all’Ucraina. Una pazzia da Dottor Stranamore, dice Halevi: la politica di Schäuble, che vuole «estendere l’austerità fino al Don», di fatto «implica una guerra con la Russia», perché «l’ultra-catastrofe economica» provocherebbe sofferenze che «verrebbero imputate a Mosca, con estrema virulenza, dal governo di Kiev appoggiato da Usa, Nato e Ue». Tutto questo, mentre la Bank of England ha appena demolito la teoria del rigore, “ammettendo” che le banche creano moneta dal nulla, «cioè non la scavano da qualche miniera, né la pompano da qualche giacimento».Non esistono dunque vincoli monetari, sottolinea Halevi: «Scuole, ospedali, ferrovie, pensioni, università e ricerca possono essere finanziate senza vincoli di bilancio». La banca centrale può sempre convalidare qualsiasi richiesta da parte del Tesoro, emettendo moneta per sostenere debito e deficit pubblici. Gli unici vincoli? Quelli reali, che dipendono dalle capacità produttive esistenti e utilizzabili. Ma senza più totem come quello del 3%. E’ ovvio, continua Halevi, che se alla banca centrale – in questo caso la Bce – viene impedito di alimentare i necessari flussi monetari, il circuito economico va in crisi. Verità notissime e persino banali, eppure fino a ieri taciute, un po’ come accadeva «durante l’età di Galileo Galilei, quando per la navigazione oceanica verso le Americhe la Chiesa permetteva l’uso da parte della Spagna della concezione copernicana della Terra, mentre in Europa, in Italia in particolare, imponeva la visione tolemaica, bruciando chi la confutava pubblicamente». Le ammissioni ufficiali della Banca d’Inghilterra sono dunque «un’ulteriore ragione per non dare alcun credito all’Ue», quando impone di tagliare la spesa perché “non ci sono soldi”.Il dramma, osserva Halevi, è che l’Unione Europea è una struttura burocratica non responsabile, non elettiva, non democratica. Bisognerebbe «cambiarne le fondamenta», il che implicherebbe «demolire e rifare la costruzione che su queste poggia». Peccato si vada nella direzione opposta: già prima di Mitterrand, sostiene Halevi, la Francia «ha preceduto Bruxelles di parecchi anni», con un turbo-presidenzialismo che ora, con Hollande, ha sottratto all’Assemblea Nazionale il controllo parlamentare della finanza pubblica, demandato all’Alta Autorità sulla spesa pubblica e il debito, creata dall’Eliseo. Elezioni sempre più inutili anche in Italia, dove «la dimensione extra-parlamentare del sistema di governo cresce a vista d’occhio». Il paese europeo che meglio riesce a difendere il suo ordinamento democratico è proprio la Germania: la sua politica potrà non piacere, ma certo rispetta – al contrario dell’Ue – la volontà popolare.Il guaio è che a Berlino oggi siedono ministri come Schäuble, sostenuti da ultra-conservatori che sognano una “moneta fissa” (ancora più rigida dell’oro) e influenti economisti come Werner Sinn, secondo cui l’export tedesco è «un sacrificio», anziché una fonte colossale di profitto per il grande capitale tedesco. Il conservatorismo economico, conclude Halevi, produce un pericoloso cortocircuito – sia il rigore che Schäuble impone all’Europa attraverso la Troika, sia la concezione del surplus di Sinn. «Ne consegue – scrive Halevi – che è estremamente importante assorbire ciò che hanno scritto gli economisti della Bank of England», i quali «non partono da una visione normativa, bensì analizzano come effettivamente funzionano la moneta e il sistema bancario, arrivando ad affermare cose che in Italia si trovavano già in Augusto Graziani», il grande economista napoletano, maestro di Emiliano Brancaccio. Se non altro, ora «la verità è venuta a galla», come ha affermato il “Guardian”: «A galla per il pubblico», certo, «ed è ciò che conta». Il testo della Banca d’Inghilterra «costituisce un’importante base di partenza per pensare se e – eventualmente – come rifare le fondamenta» dell’Unione Europea. Prima che i “Dottor Stranamore” – di Berlino e della Nato – arrivino davvero sulle rive del Don.Se la Germania impone anche all’Ucraina la super-austerità della Troika, la guerra con la Russia sarebbe alle porte: il malessere sociale infatti farebbe letteralmente esplodere le regioni russofone dell’est, come quella di Donetsk, le più avanzate e industrializzate, popolate da milioni di russi. Lo afferma l’economista Joseph Halevi, allarmato per le dichiarazioni di un super-falco come il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, secondo cui il programma di rigore che ha ucciso la Grecia dev’essere esteso all’Ucraina. Una pazzia da Dottor Stranamore, dice Halevi: la politica di Schäuble, che vuole «estendere l’austerità fino al Don», di fatto «implica una guerra con la Russia», perché «l’ultra-catastrofe economica» provocherebbe sofferenze che «verrebbero imputate a Mosca, con estrema virulenza, dal governo di Kiev appoggiato da Usa, Nato e Ue». Tutto questo, mentre la Bank of England ha appena demolito la teoria del rigore, “ammettendo” che le banche creano moneta dal nulla, «cioè non la scavano da qualche miniera, né la pompano da qualche giacimento».
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Generazione decrescente: la crisi e la formica utopista
Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.Certo, l’attuale modello di sviluppo ha avvelenato la Terra e prodotto solitudine e depressione. E ora che s’è inceppato, abbandona al suo destino la prima “generazione decrescente” della storia occidentale moderna, quella che sa di non poter avere quello che ebbero tutte le generazioni precedenti: la legittima speranza di crescere ancora. Il che però non significa, di per sé, precipitare nell’abisso: ci si può attrezzare per vivere meglio, comunque, a prescindere dall’ecatombe del Pil. E’ la tesi di Andrea Bertaglio, classe 1979, espressa nella sua ultima dolente ricognizione editoriale presentata da Maurizio Pallante, di cui è stretto collaboratore. Il libro si affaccia con angoscia sul panorama desolante dei coetanei, traditi dalle false promesse dello sviluppo illimitato e condannati all’esilio o al call center, in precaria alternativa alla disoccupazione perenne, mentre intorno si sfasciano, giorno per giorno, tutte le certezze del sistema Italia. Sta franando, il nostro paese, che pure militava nel G7 – settima potenza industriale del mondo – e che l’Eurozona dell’austerity ha letteralmente declassato, stroncato, ridotto a mendicare clemenza dai potenti signori di Bruxelles, che peraltro nessuno ha mai eletto.Tutto questo accade, sostengono ormai molti analisti, perché l’élite mondiale non tollera di dover “dividere la torta” con ormai 7 miliardi di esseri umani e le loro inevitabili aspirazioni di consumo. Cibo e terre, acqua, energia, tecnologia, merci. Il risveglio dell’ex terzo mondo, oggi guidato dai Brics, dopo la caduta dell’Urss ha fatto esplodere il business della globalizzazione selvaggia, le delocalizzazioni, il lavoro schiavistico. L’industria? Sempre meno conveniente, per gli antichi “padroni”: meglio la pura speculazione finanziaria. A una condizione, essenziale: sbaraccare l’ostacolo della politica democratica, il welfare, la sovranità degli Stati, le leggi a tutela del cittadino, i diritti del lavoro. Per teorici intransigenti come Paolo Barnard – che cita economisti come il francese Alain Parguez, già insider all’Eliseo – basta dare un’occhiata alle biografie dei padri fondatori dell’Unione Europea (l’autoritario Mitterrand, “monarchico” come il suo guru Jacques Attali, e il primo presidente della Commissione Europea, Jacques Delors, definito “uomo dell’Opus Dei”) per capire che razza di progetto – a vocazione feudale – sia quello dell’Ue, di cui l’euro rappresenza il braccio armato, con un unico grande obiettivo: radere al suolo la sovranità finanziaria degli Stati membri, e quindi la loro residua capacità di proteggere le rispettive comunità nazionali.Il tracollo è ovvio, perfettamente voluto. Se privatizzi la moneta crolla tutto, a cascata: credito, spesa pubblica, settore privato dell’economia, occupazione, risparmi delle famiglie. “Masters of the Universe”, li chiama Noam Chomsky. Sono l’élite planetaria, erede dell’oligarchia occidentale che per due secoli, e in particolare nella seconda metà del ‘900, ha subito come un affronto la nascita della democrazia moderna, l’avvento dello Stato come erogatore di benessere materiale per i propri cittadini, grazie alla libera creazione di moneta. Oggi? Si stanno semplicemente riprendendo tutto, abolendo di fatto la democrazia. E lo fanno in un mondo sovrappopolato e minacciato da più crisi, concomitanti e tutte potenzialmente letali: energia, clima, economia, acqua, cibo, ambiente. Per Giulietto Chiesa, autore del saggio “Invece della Catastrofe” che parte dalle drammatiche profezie del Club di Roma sui raggiunti limiti dello sviluppo del capitalismo coloniale e mercantile, ci sono tutte le condizioni geopolitiche per temere l’avvento di una Terza Guerra Mondiale.Dopo l’11 Settembre la storia s’è rimessa a correre: Iraq e Afghanistan, Libia e Siria, ora Ucraina. Evidente il tentativo degli Usa di coinvolgere l’Europa in una drammatica sfida con la Russia. Obiettivo: fermare l’avanzata della Cina, sfruttando l’unico vero vantaggio di cui gli Stati Uniti ancora dispongono, cioè la supremazia tecnologico-militare. Il guaio, avverte uno storico medievista come Franco Cardini, è che ormai a decidere non sono più i governi eletti dal Parlamento, perché tutte le maggiori istituzioni nazionali e soprattutto internazionali – politiche, diplomatiche, economiche, finanziarie – sono capillarmente infiltrate dalle lobby dell’élite, che tende a militarizzare il mondo impiegando missili-fantasma, droni-killer, milizie private, eserciti mercenari. Si preparano soluzioni sbrigative, repressioni, abolizioni di diritti sociali. Un incubo, che aiuta a comprendere lo scenario nel quale sono paracadutati i trentenni di oggi, a cui anche in Germania viene spiegato che i mini-job da 500 euro al mese sono un lusso, dati i tempi che corrono. C’è una guerra in corso, appunto. Ma ancora si stenta a riconoscerla.Di recente, in un incontro coi ragazzi torinesi del Movimento per la Decrescita Felice, un intellettuale ultra-indipendente come Guido Ceronetti ha ammesso la propria nostalgia per il socialismo, cioè un sistema in cui lo Stato garantisca pari opportunità per tutti. Lo Stato è il grande assente dei nostri giorni: privandolo della sua sovranità fisiologica, i trattati-capestro di Bruxelles lo costringono a trasformarsi in spietato esattore, non avendo più altra fonte finanziaria che quella fiscale. Un libero pensatore come Alex Langer, profeta europeo dell’ambientalismo politico, si battè già negli anni ‘80 per il grande cambiamento oggi invocato dagli ecologisti: sapeva benissimo che solo il governo, investendo denaro sovrano attraverso la spesa pubblica e quindi il debito, può imprimere una forte eccelerazione a qualsiasi politica di ricoversione sostenibile dell’economia. Bertaglio lo cita in un passaggio del suo libro: «La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile». E’ esattamente il crinale – innanzitutto culturale – su cui si impegnano i promotori della decrescita intelligente, da Pallante a Latouche.E’ anche il cuore dell’indagine che Andrea Bertaglio conduce con voce disarmata, partendo dalla propria esperienza personale, a confronto con quella di suo padre e, prima ancora, di suo nonno. E’ crollato un mondo, il loro. E questo di oggi, popolato di giovani spaesati e costretti a farsi mantenere dai genitori, rinunciando all’idea di metter su casa, è qualcosa che – per la prima volta – fa davvero paura. Quella della decrescita (s’intende: decrescita del Pil, degli sprechi, dei veleni) è una sorta di bussola: se lavori come un pazzo e spendi tutto quello che guadagni, finisci col non sapere neppure più cosa stai facendo, e perché. A cosa serve il lavoro che attualmente – quando c’è – ci dà da vivere? Riconversione: di certo, un lavoro socialmente utile fa vivere meglio, anche se magari fa calare il Pil perché comporta meno consumi, meno spostamenti, meno spese. E’ la filosofia della filiera corta, dei territori sostenibili, del “meno e meglio”. La strada imboccata da Roberto, che ha mollato il lavoro d’ufficio a Cagliari e si è messo a fare l’orticoltore in un paesino della provincia. O quella – spettacolare – dei ragazzi di Pescomaggiore, l’ecovillaggio fatto di case di paglia.I pionieri dell’economia sostenibile sembrano scansare il dilemma politico dei rapporti di forza, quelli cioè che – attraverso le elezioni – possono far vincere un’idea, trasformandola in azione pubblica regolarmente finanziata. Si diffida, purtroppo (ma comprensibilmente) delle organizzazioni politiche, preferendo l’azione diretta, promossa dal basso. Come quella del Comitato Rifiuti Zero che, ricorda Bertaglio, ha imposto «la vittoria del popolo valdostano contro l’affarismo», che voleva il solito inceneritore. Leader del comitato di lotta, il giovane medico Jean-Luis Aillon, dirigente Mdf. Un ragazzo di 29 anni, che ha scelto di lavorare meno – come guardia medica – per avere più tempo per l’orto e la produzione di formaggi destinati all’autoconsumo. «Se lavorassi soltanto per diventare ricco e famoso, sarei presto molto depresso».L’ennesimo ingenuo utopista? «La selezione naturale ha prescelto l’istinto utopista», risponde il dottor Aillon. «Sperare in un mondo migliore, mettere in crisi il reale, lottare per i propri sogni, è qualcosa che è stato iscritto nel nostro parimonio genetico. Perché favorisce la sopravvivenza della specie». Utopia, maneggiare con cura: quello che può apparire debolezza, è esattamente il suo contrario. Nel libro di Bertaglio, Jean-Luis ricorre a una parabola: «Se paragoniamo il nostro cinquantenne medio, disilluso e senza speranze, e una specie di formiche utopista, che sogna e si batte per un mondo diverso, possiamo vedere che quest’ultima è molto più forte e sopravvive». Inutile negarlo: «Noi abbiamo dentro questo patrimonio genetico, che la cultura odierna cerca di spegnere. L’ingenuo, semmai, è chi non lo riconosce». Farà in tempo, la “formica utopista”, a fermare i carri armati neoliberisti di Harvard, quelli che suggeriscono all’euro-totalitarismo la dottrina dell’austerity espansiva che uccide come mosche i bambini di Atene e avvicina alla Grecia anche il nostro paese?(Il libro: Andrea Bertaglio, “Generazione decrescente”, riflessione autobiografica sul mondo che è – e che potrebbe essere, con prefazione di Maurizio Pallante, Edizioni Età dell’Acquario, 103 pagine, 14 euro).Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.
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Potere massonico: Silvio e Giorgio, affinità e fratellanza?
«Berlusconi ha avuto molto, in passato, in termini di supporto e relazioni significative, dall’ambiente libero-muratorio. Per converso, sono stati proprio alcuni circuiti massonici sovranazionali a pretendere e a determinare la caduta politica del “fratello Silvio” nell’autunno del 2011, imponendo il collocamento del “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi». Un’affermazione forte, che il leader del “Grande Oriente Democratico” Gioele Magaldi ha rilasciato in un’intervista a Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara, autori del saggio “I panni sporchi della sinistra” (Chiarelettere). Ma l’obiettivo dei due autori non è tanto il Cavaliere, la cui militanza massonica è arcinota, quanto l’uomo del Colle: «Il complesso rapporto creatosi nel corso degli anni tra Berlusconi e Napolitano – scrivono – suggerisce sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico».Se di Berlusconi si ricorda l’iscrizione alla Loggia P2 di Licio Gelli nel 1978, da cui poi proseguì «il suo percorso massonico alla corte del Gran maestro Armando Corona dal 1982 al 1990», con accanto Marcello Dell’Utri – sempre secondo Magaldi – per tessere la rete di relazioni alla base di Forza Italia, per Pinotti e Santachiara è «molto più complesso il discorso che riguarda Napolitano», come affermano nel loro libro, di cui “Affari Italiani” pubblica un’anticipazione. «È possibile che le sintonie con Berlusconi siano state facilitate da comuni vicinanze su questo terreno? Secondo Magaldi – che lo ha affermato in numerose interviste – non vi sono dubbi sul fatto che il presidente della Repubblica sia un “fratello”». Dichiarazioni certamente insufficienti, ammettono i due giornalisti, intenzionati ad “approfondire” il tema con «un’autorevole fonte», che però «ha chiesto di rimanere anonima». Si tratta di «un avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti». L’avvocato sarebbe «figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Secondo il legale, già il padre di Napolitano è stato «una delle figure più in vista della massoneria partenopea».Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (notoriamente legatissimo al padre, che ammirava profondamente) non solo l’amore per i codici ma anche quello per la “fratellanza”? «A rafforzare la connotazione “muratoria” dell’ambiente in cui è nato Giorgio Napoletano c’è un altro massone, amico fraterno del padre: Giovanni Amendola, padre di Giorgio, storico dirigente del Pci e figura fondamentale per la crescita intellettuale e politica dell’attuale presidente della Repubblica», scrivono Pinotti e Santachiara. «Va detto che l’appartenenza alla massoneria non è un reato, anzi, molto spesso figure a essa legate sono diventate protagoniste di rivoluzioni innovatrici e progressiste». Certo, il legame massonico «rappresenta una modalità di gestione del potere di cui poco si conosce». Modalità che «è spesso determinante per capire i fatti più recenti della politica italiana e internazionale». Per molti aspetti, sostiene la “fonte” dei due reporter, «Napolitano è assimilabile a Mitterrand, che era anche lui massone», ed è stato il politico più decisivo nell’imporre in Europa sia il regime dell’euro che l’asfissia del rigore come “virtù” neoliberista, oggi simboleggiata dal tetto del 3% deficit-Pil per la spesa pubblica. Un vincolo fatale, che sta mettendo in croce le democrazie europee e demolendo il nostro tessuto socio-economico.Sempre secondo l’anonimo avvocato napoletano citato da Pinotti e Santachiara, la visione di Napolitano è identica a quella della “république” incarnata da Mitterrand, «un monarchico travestito da socialista» secondo un ex consulente dell’Eliseo come l’economista Alain Parguez, nemico giurato dell’euro-regime di Bruxelles. «L’appartenenza massonica di Napolitano è molto diversa da quella di Ciampi, fa riferimento a mondi molto più ampi», continua “l’avvocato”. «Ciampi inoltre è un cattolico. Napolitano si muove in un contesto più vasto». La massoneria italiana, dal canto suo, ha sempre espresso grande simpatia verso l’attuale presidente della Repubblica, sostengono i due autori del libro. «Il Gran maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), avvocato Gustavo Raffi, si è rivolto più volte pubblicamente a Napolitano, esprimendo simpatia e deferenza». Il 10 maggio 2006, dopo la prima elezione alla presidenza della Repubblica, Raffi esultava indicando la scelta di Napolitano come «uno dei momenti più alti nella vita democratica del paese», ed esprimeva felicitazioni «a nome dei liberi muratori del Grande Oriente d’Italia».Stesso entusiasmo nel marzo del 2010, per la rielezione di Napolitano al Quirinale, di fronte all’agonia del Parlamento tramortito dall’exploit di Grillo dopo la micidiale “cura dimagrante” affidata a Monti e Fornero. E il 13 giugno 2010, lo stesso Raffi si è spinto «sino alla soglia di pesanti rivelazioni, rispondendo a una domanda non casuale di Lucia Annunziata», nella trasmissione Rai “In mezz’ora”. Domanda: «Napolitano potrebbe essere un massone sotto il profilo dei valori?». Netta la risposta di Raffi: «A mio avviso sì, per umanità, distacco, intelligenza, per avere levigato la pietra, per averla sgrezzata, lo dico in linguaggio muratorio, in questo senso sì». Anche nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, aggiungono Pinotti e Santachiara, si registrano convergenze tra la spinta celebrativa del Colle e i momenti pubblici organizzati dalla massoneria italiana, artefice forte del Risorgimento. Il 7 gennaio 2011 Raffi apre le danze dichiarando: «Come ci ricorda con il suo esempio altissimo il capo dello Stato Giorgio Napolitano, abbiamo il compito di ritrovare fiducia, unità e coesione nazionale, capacità di risolvere i problemi, insieme a progetti che indichino la strada al di là di ogni polemica di parte e del cortile degli interessi».«Berlusconi ha avuto molto, in passato, in termini di supporto e relazioni significative, dall’ambiente libero-muratorio. Per converso, sono stati proprio alcuni circuiti massonici sovranazionali a pretendere e a determinare la caduta politica del “fratello Silvio” nell’autunno del 2011, imponendo il collocamento del “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi». Un’affermazione forte, che il leader del “Grande Oriente Democratico” Gioele Magaldi ha rilasciato in un’intervista a Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara, autori del saggio “I panni sporchi della sinistra” (Chiarelettere). Ma l’obiettivo dei due autori non è tanto il Cavaliere, la cui militanza massonica è arcinota, quanto l’uomo del Colle: «Il complesso rapporto creatosi nel corso degli anni tra Berlusconi e Napolitano – scrivono – suggerisce sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico».
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Krugman: complotto contro Hollande, che sfida la Troika
Un piano per stroncare Hollande, che avrebbe osato tener testa alla Troika. Il killer incaricato: l’agenzia di rating “Standard & Poor’s”, pronta a declassare la Francia nonostante abbia i bilanci in ordine. Certo, il presidente socialista non si è spinto fino al punto da denunciare Bruxelles, contestando il Fiscal Compact e il meccanismo oligarchico del tritacarne europeo (tagli per tutti, tranne che per i super-ricchi). Ma a irritare gli eurocrati è bastato che Parigi scegliesse di “interpretare” il rigore in modo meno feroce, puntando a proteggere i francesi. Lo rivela un peso massimo dell’economia mondiale, Paul Krugman, sceso in campo dalle pagine del “New York Times” in favore del capo dell’Eliseo: proprio mentre i sondaggi bocciano Hollande e lanciano Marine Le Pen, che minaccia l’uscita dall’euro e addirittura dall’Ue, il Premio Nobel vicino ad Obama sostiene che il livello di intolleranza della Troika è tale da mettere al bando, ricorrendo addirittura a un complotto, l’unico governante europeo che abbia osato anche solo negoziare l’adozione dell’austerity.Per Krugman, il declassamento della solvibilità francese è una «manovra politica destabilizzante»: Wall Street punisce Hollande per aver “osato” salvaguardare il welfare francese. «E’ la prima volta che un economista di punta americano, nonché consulente della Casa Bianca, professore e maestro di colei che andrà a guidare la Federal Reserve Usa, sbugiarda i rating americani denunciandone l’uso politico», scrive Sergio Di Cori Modigliani nel suo blog. Per il “maestro” di Janet Yellen, erede di Benanke alla Fed, «la Repubblica di Francia e monsieur Hollande sono vittime di un complotto del mondo della finanza e delle oligarchie politiche europee perché la Francia è l’unica nazione d’Europa che sta diminuendo il proprio disavanzo pubblico, sta migliorando i propri conti, è perfettamente in linea con i parametri europei, ma ha un difetto grave che nessuno gli perdona: ha salvato, sta salvando e intende salvare lo Stato Sociale della sua nazione».Black out totale, in Italia, sulle enormi ripercussioni dello scontro: da noi, scrive Di Cori Modigliani, si è sorvolato sull’incontro tra Hollande e la Troika nel corso del quale il presidente francese ha chiesto (e ottenuto) il permesso di sforare il tetto del 3% della spesa pubblica «fino alla cifra che riterremo opportuna per gli interessi della Francia», rimandando il pareggio di bilancio al 2015. «L’ha fatto Hollande, lo potevano fare Mario Monti ed Enrico Letta: sarebbe stato sufficiente convocare la Troika, un mese fa – invece che farsi convocare – pretendere di rimandare la scadenza europea al 2015 avvalendosi del precedente francese e sostenere “o ci date una deroga e ci consentite quindi di investire 100 miliardi di euro per pagare i debiti alle piccole e medie imprese immediatamente oppure noi usciamo dall’euro domattina”». Per il blogger, «la Troika si sarebbe arresa». Ma, ovviamente, sarebbero stati necessari «attributi solidi, non quelli di plastica di cui è fornita la nostra classe dirigente», in realtà perfettamente organica (Bilderberg, Goldman Sachs) al “cerchio magico” del super-potere mondiale.In un incontro pubblico all’università di New York, lo stesso Krugman ha rivelato con dovizia di particolari i retroscena del «tragico incontro» che, circa due mesi fa, François Hollande ha avuto con Herman Van Rompuy e Olli Rehn, due sbiaditi politici europei (Belgio, Finlandia) trasformati in “serial killer politici” dal potere non-democratico di Bruxelles. La Francia aveva appena presentato i propri conti alla famigerata Commissione Europea: erano tutti a posto e in linea con le richieste. Ma sia Van Rompuy che Olli Rehn, rispettivamente presidente del Consiglio d’Europa e super-commissario all’economia Ue, contestarono le misure “per come erano state fatte”. Perché Hollande, dice Modigliani, «aveva alzato le tasse ai super-ricchi e quelle sulle rendite finanziarie, aveva dimezzato i costi della politica, aveva aggredito (decurtandoli) gli stipendi dei grossi manager pubblici». E il risparmio così ottenuto, «invece di investirlo per rifinanziare le proprie banche lo aveva dirottato nell’istruzione pubblica, nella ricerca scientifica, nella salvaguardia e cura del patrimonio artistico nazionale, avviando un piano di recupero del territorio e di sostegno per la disoccupazione intellettuale, quest’ultima (per la Francia) una priorità assoluta di cui occuparsi». Attenzione alla perversa sottigliezza della Troika: «Non vennero contestati i conti, che erano a posto, ma venne contestato il principio sulle modalità usate per ottenere il beneplacito della Commissione Europea».Per la Troika «non era accettabile l’idea che lo stato sociale venisse salvaguardato, addirittura implementato». Quindi, non c’entra lo stato di salute del bilancio: quello che davvero importa è che i conti siano a posto «solo e soltanto se contemporaneamente aumenta la disoccupazione e le risorse non vengono investite nei campi dell’istruzione pubblica, della sanità pubblica, della ricerca scientifica». In Italia il Movimento 5 Stelle spiega come e dove trovare in soldi per i 600 euro mensili del “reddito di cittadinanza”? Una proposta sicuramente indigesta, per figuri come Rehn e Van Rompuy: ecco perché Letta & colleghi non la prendono nemmeno in considerazione. «La vera guerra in corso – conclude Modigliani – è tra gli oligarchi del privilegio e la cittadinanza che lavora: il mondo ormai si divide tra chi fa la guerra contro i poveri e chi fa la guerra contro la povertà». Hollande sa che i francesi non accetterebbero di veder cancellato il proprio welfare? E allora la Troika lo fa “bastonare” dalle agenzie di rating. Ora lo difende Krugman, ben sapendo che in panchina si sta già scaldando madame Le Pen: in viste delle europee, il Front National annuncia che, di questo passo, per rimettere piede in Francia, personaggi come Rehn e Van Rompuy dovranno esibire i loro documenti alla polizia di frontiera.Un piano per stroncare Hollande, che avrebbe osato tener testa alla Troika. Il killer incaricato: l’agenzia di rating “Standard & Poor’s”, pronta a declassare la Francia nonostante abbia i bilanci in ordine. Certo, il presidente socialista non si è spinto fino al punto da denunciare Bruxelles, contestando il Fiscal Compact e il meccanismo oligarchico del tritacarne europeo (tagli per tutti, tranne che per i super-ricchi). Ma a irritare gli eurocrati è bastato che Parigi scegliesse di “interpretare” il rigore in modo meno feroce, puntando a proteggere i francesi. Lo rivela un peso massimo dell’economia mondiale, Paul Krugman, sceso in campo dalle pagine del “New York Times” in favore del capo dell’Eliseo: proprio mentre i sondaggi bocciano Hollande e lanciano Marine Le Pen, che minaccia l’uscita dall’euro e addirittura dall’Ue, il Premio Nobel vicino ad Obama sostiene che il livello di intolleranza della Troika è tale da mettere al bando, ricorrendo addirittura a un complotto, l’unico governante europeo che abbia osato anche solo negoziare l’adozione dell’austerity.
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Pritchard: se resta nell’euro, nel 2014 l’Italia collassa
Enrico Letta aspetta che sia la Merkel a salvare l’Italia? Be’, buonanotte. Secondo Ambrose Evans-Pritchard, l’Italia sta scherzando col fuoco: avanti di questo passo, sotto la sferza dell’euro-rigore, il nostro paese rischia il collasso già nel 2014. Il problema? L’euro, ovviamente. E il regime di Bruxelles, che taglia lo Stato imponendo sacrifici con un unico orizzonte: la catastrofe. «Quello che serve in Europa oggi è uno shock economico sul modello dell’Abenomics», dice il columnist economico del “Telegraph”, indicando come modello il Giappone di Shinzo Abe. Sovranità monetaria e deficit positivo, per risollevare l’economia. «Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, insieme alla Francia devono smettere di fare finta di non avere un interesse in comune da tutelare». Attenzione: «Questi paesi hanno i voti necessari per forzare un cambiamento». In Francia, sarà risolutiva Marine Le Pen: magari non conquisterà l’Eliseo, ma costringerà i grandi partiti a cambiare agenda, imponendo loro di fare finalmente i conti con Bruxelles, Berlino e la Bce.Per l’Italia, il disastro è imminente: «Senza un cambio di strategia forte», si prevede lo tsunami già nel 2014. «Il paese ha un avanzo primario del 2,5% del Pil, e ciononostante il suo debito continua ad aumentare: il dramma dell’Italia non è morale, ma dipende dalla crisi deflattiva cui è costretta per la sua partecipazione alla zona euro», dice Pritchard nell’intervista concessa ad Alessandro Bianchi e ripresa da “Come Don Chisciotte”. «La politica è fatta di scelte e di coraggio. Fino ad oggi non si è agito per impedire che si dissolvesse il consenso politico dell’euro in Germania. Ma oggi c’è una minaccia più grande. E se Berlino non dovesse accettare le nuove politiche, può anche uscire dal sistema». Fuori dall’euro, dunque. «Il ritorno di Spagna, Italia e Francia ad una valuta debole è proprio quello di cui i paesi latini hanno bisogno. Del resto, la minaccia tedesca è un bluff e i paesi dell’Europa meridionale devono smascherarlo. L’ora del confronto è arrivata». E Letta? Non pervenuto. Pritchard l’ha incontrato a Londra. «Alla mia domanda sul perché non si facesse promotore di un cartello con gli altri paesi dell’Europa in difficoltà per forzare questo cambiamento, il premier italiano mi ha risposto che secondo lui sarà Angela Merkel a mutare atteggiamento nel prossimo mandato e venire incontro alle esigenze del sud».Per l’analista inglese, «si tratta di un approccio assolutamente deludente», perché «come anche Hollande in Francia, Letta è un fervente credente del progetto di integrazione europea e non riesce ad accettare che l’attuale situazione sia un completo disastro». Chi agita la paura dell’uscita dall’euro dice che la svalutazione produrrebbe iper-inflazione, e questo metterebbe ko la nostra industria di fronte alla concorrenza della Cina. E’ vero esattamente il contrario, dice Pritchard: Pechino ha gioco facile col super-euro proprio perché mantiene lo yuan sottovalutato. La moneta europea è il nostro vero handicap: «L’euro è un’autentica maledizione per le esportazioni, che dipendono dai prezzi e dal tasso di cambio». Da quando vige la moneta della Bce, l’Europa ha perso rilevanti quote di mercato e l’export italiano è crollato. E a chi sostiene che un’uscita disordinata dall’euro produrrebbe iper-inflazione e impennate nei prezzi, Pritchard risponde che già ora i prezzi sono fuori controllo. Eppure, continuiamo a farci del male: in Italia il rapporto debito-Pil in soli due anni è schizzato dal 120 al 133%. E’ la trappola che sta portando il paese al collasso: «Il problema da combattere oggi è la deflazione, e non l’inflazione».Dalla stessa trappola, ricorda il giornalista del “Telegraph”, la Gran Bretagna uscì due volte – negli anni ’30 del Gold Standard e poi durante la crisi dello Sme nel ’91-92 – con lo stesso strumento: rafforzamento della sovranità monetaria e svalutazione per stimolare la ripresa. Il fantasma-inflazione? Smentito dai fatti: lo stimolo monetario ha prodotto nuova economia, senza alcun “impazzimento” dei prezzi. Per cui, «se dovesse lasciare l’euro, l’Italia dovrebbe optare per un grande stimolo monetario da parte della Banca d’Italia, una svalutazione ed una politica fiscale sotto controllo: questa combinazione garantirebbe al paese una transizione tranquilla e nessuna crisi fuori controllo». Ritorsioni da Berlino? «Niente di più falso», replica Pritchard: «Nel caso di un deprezzamento fuori controllo della lira, ad esempio, il più grande sconfitto sarebbe Berlino: le banche e le assicurazioni tedesche che hanno enormi investimenti in Italia sarebbero a rischio fallimento». Inoltre, «le industrie tedesche non potrebbero più competere con quelle italiane sui mercati globali». Quindi, la Bundesbank correrebbe ad acquisire sui mercati valutari internazionali le lire, i franchi, pesos o dracme per impedirne un crollo.«Si tratta di un punto molto importante da comprendere: nel caso in cui uno dei paesi meridionali dovesse decidere di lasciare il sistema in modo isolato, è nell’interesse dei paesi economici del nord Europa, in primis la Germania, impedire che la sua valuta sia fuori controllo e garantire una transizione lineare. Tutte le storie di terrore su eventuali disastri che leggiamo non hanno alcuna base economica». Lo sanno bene gli economisti di Parigi che ispirano la svolta sovranista di Marine Le Pen, che a partire dalle europee 2014 potrebbe dare la scossa necessaria all’inversione di rotta. «Il programma di Le Pen è chiaro: uscita immediata dall’euro – con il Tesoro francese che proporrà un accordo con i creditori tedeschi: se questi non l’accetteranno, la Francia tornerà lo stesso al franco e le perdite principali saranno per la Germania». Poi c’è la proposta di un referendum sull’Ue sul modello inglese proposto da Cameron. Prima reazione a Bruxelles: gli inglesi sarebbero “stupidi suicidi”. «Argomentazioni ridicole», afferma Pritchard: tutti sanno che, senza Londra (più l’Olanda e la Scandinavia), l’Ue sarebbe finita, e salterebbe anche l’equilibrio tra Francia e Germania. «La decisione inglese è un enorme avviso a Bruxelles: l’integrazione è andata troppo oltre il volere popolare e le popolazioni vogliono indietro alcuni poteri».La Costituzione europea, continua Pritchard, è stata rigettata dai referendum in Francia e in Olanda. Trattati imposti contro la volontà popolare? «Questa fase in cui si procede senza consultare i cittadini è finita. Questo tipo di arroganza è finito». Problema fondamentale: la confisca della politica economica nazionale. A imporre le tasse e i tagli alla spesa non può essere un organismo non eletto democraticamente. «Non è un caso che la guerra civile inglese sia iniziata nel 1640 quando il re ha cercato di togliere questi poteri al Parlamento o che la rivoluzione americana sia scoppiata quando questo potere è stato tolto da Londra a stati come Virginia o il Massachusetts». Quello che sta facendo Bruxelles è «pericoloso e antidemocratico». L’alibi è la salvezza dell’euro? «E’ ridicolo. La federazione deve essere subordinata ai grandi ideali che plasmano una società e non alla salvezza di una moneta. I paesi devono tornare alla realtà sociale al più presto e non devono pensare a strumenti di ingegneria finanziaria per far funzionare qualcosa che non può funzionare».Con buona pace degli eurocrati alla Enrico Letta, l’orizzonte decisivo è quello delle europee 2014, col previsto boom degli euroscettici. «Oggi il pericolo maggiore per i paesi dell’Europa meridionale si chiama crisi deflattiva», cioè: mancanza di liquidità, tagli alla spesa, asfissia dell’economia. La recessione «potrebbe presto trasformarsi in una depressione economica, in grado di rendere fuori controllo la traiettoria debito-Pil: è un potenziale disastro». In questo contesto, per il giornalista inglese, la politica si deve porre l’obiettivo del ritorno di una serie di poteri sovrani delegati a Bruxelles. Le elezioni del maggio prossimo? «Saranno un evento potenzialmente epocale: i partiti scettici dell’attuale architettura istituzionale potrebbero essere i primi in diversi paesi – l’Ukip in Gran Bretagna, il Fronte Nazionale in Francia, il Movimento 5 Stelle in Italia, Syriza in Grecia». Parleranno i popoli: gli elettori potranno «esprimere la loro irritazione e frustrazione contro le scelte da Bruxelles». Così, «un blocco politico importante potrà distruggere questo “mito artificiale” che si è costruito: l’Ue non sarà più la stessa e sarà costretta ad essere meno ambiziosa e comprendere che molte delle sue prerogative devono tornare agli Stati nazionali». In altre parole: «I governi di Italia, Spagna e Francia devono riprendere il pieno controllo delle vite dei loro cittadini e non pensare all’allargamento all’Ucraina o alla Turchia. Si tratta dell’ultima battaglia».Enrico Letta aspetta che sia la Merkel a salvare l’Italia? Be’, buonanotte. Secondo Ambrose Evans-Pritchard, l’Italia sta scherzando col fuoco: avanti di questo passo, sotto la sferza dell’euro-rigore, il nostro paese rischia il collasso già nel 2014. Il problema? L’euro, ovviamente, e il regime di Bruxelles, che taglia lo Stato imponendo sacrifici con un unico orizzonte: la catastrofe. «Quello che serve in Europa oggi è uno shock economico sul modello dell’Abenomics», dice il columnist economico del “Telegraph”, indicando come modello il Giappone di Shinzo Abe. Sovranità monetaria e deficit positivo, per risollevare l’economia. «Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, insieme alla Francia devono smettere di fare finta di non avere un interesse in comune da tutelare». Attenzione: «Questi paesi hanno i voti necessari per forzare un cambiamento». In Francia, sarà risolutiva Marine Le Pen: magari non conquisterà l’Eliseo, ma costringerà i grandi partiti a cambiare agenda, imponendo loro di fare finalmente i conti con Bruxelles, Berlino e la Bce.