Archivio del Tag ‘embargo’
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Livigni: ci governa la cupola che liquidò Kennedy e Mattei
Vorrei tornare su Enrico Mattei, di cui sono stato uno strettissimo collaboratore, per dire che in Italia è avvenuto qualcosa di orrendo, di sporco. Era stata fatta una inchiesta, quando l’aereo precipitò a Bascapè: un’inchiesta vergognosa, fatta da depistaggi e coperture della verità. Un’altra mezza inchiesta era stata subito chiusa. Nel 1994 ho pubblicato un libro con la Mondatori che si chiama “La grande sfida”, e sono riuscito avere documentazioni top secret dagli archivi della Jfk Library di Boston, dall’Eisenhower Library e, con mia sorpresa, ho scoperto che tra Mattei e Kennedy c’era una corrispondenza molto stretta. Dopo la crisi di Suez, quando Inghilterra e Francia erano state invitate dagli Stati Uniti a ritirarsi durante la Guerra di Suez, perché gli Usa temevano uno shock petrolifero, l’Italia avanzò la proposta di coprire un ruolo di nazione strategica, sul Mediterraneo, in sostituzione di Francia e Inghilterra. Kennedy era d’accordo, però bisognava dare stabilità politica al governo italiano, che cambiava ogni due mesi (c’era stata la crisi del governo Tambroni, che durò un mese e mezzo). Per dare stabilità politica bisognava scegliere un uomo e fare riforme. Kennedy esaminò tutti i possibili interlocutori italiani, e li scartò subito: via Fanfani, via Gronchi. E arrivò a Mattei: di lui, Kennedy era affascinato. E iniziarono delle trattative.Una prima trattativa avvenne all’Hotel Excelsior di Roma, in grandissimo segreto. Mattei non si fece assistere da nessuno. Kennedy chiese alle grandi compagnie americane di mettere Mattei in condizioni di fare affari, di offrirgli contratti migliori di quelli che aveva con l’Unione Sovietica. Dopo lunghe trattative, venne fatto un contratto tra l’Eni e la Esso per la fornitura di 12 milioni di tonnellate l’anno di greggio a condizioni veramente migliori di quelle che Mattei aveva con l’Urss. Dopo l’accordo commerciale, segretissimo, si passò alla trattativa politica. Parteciparono il responsabile della politica estera di Kennedy e il futuro capo della Cia in Italia. Mattei doveva andare a dicembre 1962 a incontrare Kennedy. Non ne parlò con nessuno, neanche con me. Era abbastanza teso, in quei giorni: aveva ricevuto minacce. La cosa che mi colpì è che era stato in Sicilia, il 18 ottobre 1962. C’era stato un incontro a Gela, un Cda della Agip Mineraria. Lui transitò da Palermo, mi chiamò e mi disse: «Ti voglio vedere subito in aeroporto». Arrivò con l’aereo aziendale, mi diede indicazioni su fatti che stavamo svolgendo e io gli dissi: «Presidente, venga entro l’anno, perché abbiamo fatto una realizzazione, a Gela, che voleva lei: un grande deposito costiero per importare dalla raffineria di Gela i prodotti sul mercato». Lui disse: «Non posso venire, ho parecchi impegni, ci vediamo il prossimo anno».Dopo sette giorni ricevo una sua telefonata. Io mi trovo a Palermo, avevo un incarico di “scout man”, l’uomo dei servizi segreti nel petrolio che cerca di sapere cosa fanno le altre compagnie. Mi disse: «Sto partendo per Gela». «Presidente, ma… come mai?». «Poi glielo dico». Arrivai a Gela prima di lui, andai al Motel Agip e mi dissero: «Non atterra qui». L’Agip aveva un aeroporto privato, l’aeroporto di Ponte Olivo, con una pista molto sorvegliata. Ma la sera prima avevano messo una carica di tritolo e rotto la pista per non farlo atterrare, per farlo venire con l’elicottero. E lui dovette atterrare a Catania, arrivò intorno alle 13. Abbiamo parlato di problemi in corso che riguardavano l’Iraq. Nessun libro, dei 300 e rotti pubblicati nel mondo su Mattei, ha mai parlato dell’Iraq. Sapevo che c’era una questione in Iran: non si era riusciti a entrare nel consorzio dopo la caduta di Mossadeq, fatto cadere dagli angloamericani perché aveva nazionalizzato il petrolio (fatto cadere con l’uso dei sicari dell’economia). Mossadeq fu denunziato come se fosse un pazzo, e invece era molto saggio: era presidente del Consiglio del primo governo democratico iraniano, un governo eletto dal popolo.Gli americani tornarono con gli inglesi e riaprirono le compagnie angloamericane, fecero un consorzio e noi siamo stati rifiutati. E Mattei disse: «Andiamoci a prendere il petrolio in Iraq». Che cosa era successo? Io ho conosciuto a Taormina Dino Grandi, ex ministro degli esteri del governo Mussolini, che mi ha informato che nel 1934 l’Agip, fondata nel 1926, era riuscita a ottenere in Iraq il più grande giacimento nell’area di Kirkuk, nell’area curda. Era riuscita per l’abilità di Grandi che venne a patti con gli inglesi, che avevano l’85% del territorio iracheno. Una concessione enorme, con una sessantina di concessioni. L’Iraq è un’invenzione di Churchill, che aveva capito che – tirando una linea, un rettangolo, e unificando sciiti, curdi, sunniti e turcomanni – avrebbe creato un paese in eterno confitto, facilmente governabile e dominabile da un punto di vista coloniale. Dino Grandi diede appoggio all’Inghilterra, perché scadeva il protettorato inglese nel 1934, presso la Società delle Nazioni, la futura Onu. In contropartita, l’Inghilterra accettò che l’Agip rilevasse una piccola società petrolifera, e poi accettò che questa si ingrandisse fino a diventare una concessione importante, che si chiama Mossul Oil Field.E però avvenne che nel 1935 le truppe italiane invadono l’Etiopia, gli inglesi ricattano la Agip, dicono: «Se vuoi che noi interveniamo alla Società delle Nazioni per non fare sanzioni e un embargo petrolifero, ci devi cedere la Mossul Oil Field». Grandi trattò, e alla fine trovarono una soluzione: sarebbe andato a inglesi e americani il 51%, però l’Agip avrebbe mantenuto il 39% e una presenza strategica nella “golden share” della società, cioè avrebbe partecipato alle politiche e alle strategie. Quando Grandi tornò a Roma, Mussolini ebbe paura e disse: «No, cediamo la società, perché gli inglesi poi mi possono giocare un brutto scherzo, e io non posso fermare in Etiopia le truppe con un embargo». Mattei sapeva tutto questo, e dopo che fummo rifiutati dal consorzio iraniano disse: «Andiamoci a prendere il petrolio in Iraq». Si formò un gruppo molto ristretto. Io lavorai con l’équipe che andò in Iraq quando Khassem, nel 1958, abbatté la monarchia irachena di Re Faysal. Khassem venne contattato nel mese di agosto, in una caserma, mentre fuori si sparava. Gli fu portata una credenziale di Mattei, in cui diceva: «Vogliamo fare con voi un contratto paritetico, un partenariato, non un contratto in cui vi vede paese esattore di tasse o di royalty. Facciamolo insieme, facciamo una società paritetica che si occuperà anche di altre cose connesse al petrolio». Lui accettò e disse: «Voglio però prima cacciare via l’Iraq Petroleum Company».E così si iniziò a dare assistenza legale a Khassem esaminando, concessione per concessione, l’Iraq Petroleum Company, per vedere dove questa società aveva mancato. Su 60 e rotti concessioni, la società ne aveva sfruttato solo tre, con un atteggiamento di scorrettezza enorme: si era mantenuta come riserva le altre risorse, privando il popolo iracheno di quelle royalty, ancorché irrisorie. Nel 1962 Khassem revocò le concessioni, queste 57 concessioni, all’Iraq Petroleum Company. Era una bomba! Una delle più grandi compagnie del mondo veniva buttata fuori, perché Khassem avrebbe fatto entrare l’Eni. Seguii da vicino la faccenda, ma non eravamo sicuri di essere sfuggiti ai servizi segreti americani e inglesi, perché in Italia c’era parecchia gente che voleva la fine di Mattei – parecchia. Lui aveva rotto con Fanfani: mandò all’opposizione i fanfaniani siciliani, che non erano gente troppo facile – erano Gioia, Lima. Avevano indirizzato i finanziamenti alla Dc, a Fanfani, a Moro. Era rottura totale, e Fanfani era presidente del Consiglio. Poi c’è la questione Cefis: Mattei lo aveva cacciato fuori, il vicepresidente, che era un uomo dei servizi inglesi.Mattei era isolato, e durante la trattativa ho scoperto, con i documenti avuti, che c’erano stati interventi pesantissimi dell’ambasciata americana e inglese a Roma su Fanfani, per fermare Mattei, e Fanfani ha risposto: «Io Mattei non lo posso fermare, non ho il potere». È una cosa gravissima: «Fermare a ogni costo». Khassem fece una società nazionale per creare poi una società paritetica con noi, fece sapere che voleva dare un annunzio al giornalismo internazionale di questo progetto della costizione della compagnia nazionale: non c’era più influenza esterna. Noi abbiamo detto: «Prendi tempo!». Era il 16 settembre del 1962. E Khassem, per la smania di dimostrare al popolo che stava lavorando per il bene dell’Iraq, rilasciò un’intervista che ci fece gelare. Disse: «Io ho revocato le concessioni all’Iraq Petroleum company e sto realizzando una società paritetica con l’Eni». Ci siamo sentiti persi: era grave, gravissimo. Abbiamo detto a Mattei di stare attento, di non viaggiare più in aereo. E quindi arrivò in Sicilia il giorno 26 ottobre. Eravamo terrorizzati. Io ho detto: «Presidente, non riparta questa sera per Milano. Venga con me, andiamo in campagna, mia moglie ha campagne vicino Palermo. Si riposi, non chiami neanche sua moglie. Un amico andrà a Roma e avviserà sua moglie, ma lo farà in modo privato: per un mese, “faccia finta di…”». Lui disse: «No, devo andare. Devo incontrarmi a Milano con l’onorevole Tremelloni questa sera e poi devo partire, devo fare il contratto con l’Algeria».Era un altro contratto molto osteggiato dagli angloamericani, ma soprattutto da Fanfani perché non voleva che Mattei portasse avanti una politica di rottura nei confronti delle Sette Sorelle (fu Mattei a definirle così, in verità all’inizio voleva dire “sorellastre” ma poi i giornalisti l’hanno modificato). E’ voluto partire lo stesso, Mattei. E quella sera l’aereo è caduto. In Italia abbiamo avuto una porcheria degna di nessun paese al mondo. Quando pubblicai “La grande sfida”, il procuratore Vincenzo Calia di Pavia, zona dove l’aereo è caduto, riaprì l’inchiesta perché la novità era il rapporto Mattei-Kennedy. Indagò con molta serietà, Calia. Ho avuto l’onore di collaborare da vicino con l’avanzamento inchiesta, e si accertò l’avvenuto sabotaggio. Si sono riesumati i corpi di Mattei e Bertuzzi, il pilota, e si sono trovate tracce di esplosivo: Compound 200, un esplosivo molto potente. Si è accertato che l’esplosivo era stato messo sotto i comandi del carrello, e si può fare attraverso il ruotino: si infila la carica con una calamita. La notte tra il 25 e il 26, l’aereo era stato portato dentro l’hangar militare della Nato (quello che vi dico è nell’inchiesta), ed è stato sabotato dai servizi: l’ho scritto. L’aereo, quando il pilota azionò la cloche per scendere, è andato in aria, è esploso.Ebbene, quest’inchiesta, che stava arrivando ai mandanti, già individuati (il magistrato stava acquisendo ulteriori elementi per le prove) è stata archiviata nel 2003. Dicono che Mattei non si sa perché è morto, alcuni dicono in un incidente: è una vergogna che una verità sia stata occultata. Se ammazzano un uomo non succede niente: un paese indegno. (Io ci ho perduto la moglie, nel luglio 2007: una macchina ci ha speronato e mia moglie è morta. Ebbene, chi ci ha speronato – che era ubriaco e drogato – sta passeggiando tranquillo, si diverte, va alle feste. Denunziato per omicidio colposo, ma non succederà niente!). Ritorniamo a Mattei. Archiviata l’inchiesta, io ho fatto un libro in 25 giorni, lavorando notte e giorno, che si chiama “Caso Mattei, un giallo Italiano”. Perché giallo italiano? Perché alla fine è stata gestito da italiani, da uomini per cui l’escalation di Mattei nella politica avrebbe dichiarato la fine politica o manageriale. E poi ho messo in evidenza, da una serie di documenti, un rapporto tra l’assassinio di Kennedy e quello di Mattei. A Catania c’era, quel giorno, Carlos Marcello, che è stato implicato nell’assassinio di Kennedy. Il tutto converge sull’oligarchia britannica – sulla Permidex, controspionaggio inglese.Siamo sempre lì: il centro del mondo nella finanza è Londra, e quindi Mattei ha messo in difficoltà gli inglesi. Kennedy lo stesso, perché ha rotto i rapporti con l’oligarchia britannica della politica a fini finanziari, e ha posto fine alla guerra in Corea senza interpellare gli inglesi. Non ci sono prove, ma c’è un legame comune. Quindi Mattei è stato ucciso, anche se tutti quelli che hanno scritto libri, come Bruno Vespa, dicono è caduto per un incidente aereo. Negli anni ‘90 è accaduto qualcosa di grave, ma i giornali italiani non hanno parlato di nulla perché fanno solo propaganda, poi alla fine le verità vengono negate. E’ successo questo: cade il Muro di Berlino, e il ministro Scotti avverte il capo del governo che manovre strane stavano avvenendo da parte di importanti banche d’affari contro l’economia italiana. Poi ribadisce: me lo ha detto Parisi. Mi ha detto pure che potrebbero avvenire stragi o uccisioni. Nel ‘92 avvenne la strage di Capaci, dove la mafia ha avuto solo un ruolo di supporto militare. Invece è una strage con gruppi di potere più o meno occulto, che prepararono una svolta economica e politica: «Vogliamo sedere in Parlamento, vogliamo governare». Allora l’Italia avvia la svendita dell’economia pubblica.Voglio parlare dell’Eni. Quando finì la guerra si avviò un dibattito tra i cattolici sociali e la sinistra italiana, guidata dai comunisti. Dovevano decidere quale struttura economica si doveva dare lo Stato italiano dopo il fascismo. I cattolici sociali hanno rifiutato il liberismo con una grande intuizione, perché il liberalismo penalizza le classi più deboli e spesso anche la vita della gente. Si creò un compromesso con lo Stato imprenditore che opera con le leggi del mercato in concorrenza, indirizzando in aree depresse anche l’economia privata. Viene privatizzato l’Eni, nel 1994 viene privatizzato l’Iri, altre aziende dello Stato nel campo delle telecomunicazioni. Alla fine di questo scempio, di questa carneficina, si sono divisi tutto. E nessuno ha mai parlato. Un pezzo alla sinistra, un pezzo alla destra: un’operazione scellerata di abbrutimento. L’unica denunzia viene fatta dal movimento civile americano di Lyndon LaRouche, ma Ciampi diventò presidente e tutto fu insabbiato. Tutto il patrimonio immobiliare dell’Eni, stimato in 100.000 miliardi, viene svenduto a un fondo Goldman Sachs. Stranamente, l’uomo che ha condotto questa operazione è stato Mario Draghi, che poi è diventato vicepresidente della Goldman. Non si può accettare, si tratta della logica più miserabile. Io l’ho denunziato, ma non è successo niente.Vorrei tornare su Enrico Mattei, di cui sono stato uno strettissimo collaboratore, per dire che in Italia è avvenuto qualcosa di orrendo, di sporco. Era stata fatta una inchiesta, quando l’aereo precipitò a Bascapè: un’inchiesta vergognosa, fatta da depistaggi e coperture della verità. Un’altra mezza inchiesta era stata subito chiusa. Nel 1994 ho pubblicato un libro con la Mondatori che si chiama “La grande sfida”, e sono riuscito avere documentazioni top secret dagli archivi della Jfk Library di Boston, dall’Eisenhower Library e, con mia sorpresa, ho scoperto che tra Mattei e Kennedy c’era una corrispondenza molto stretta. Dopo la crisi di Suez, quando Inghilterra e Francia erano state invitate dagli Stati Uniti a ritirarsi durante la Guerra di Suez, perché gli Usa temevano uno shock petrolifero, l’Italia avanzò la proposta di coprire un ruolo di nazione strategica, sul Mediterraneo, in sostituzione di Francia e Inghilterra. Kennedy era d’accordo, però bisognava dare stabilità politica al governo italiano, che cambiava ogni due mesi (c’era stata la crisi del governo Tambroni, che durò un mese e mezzo). Per dare stabilità politica bisognava scegliere un uomo e fare riforme. Kennedy esaminò tutti i possibili interlocutori italiani, e li scartò subito: via Fanfani, via Gronchi. E arrivò a Mattei: di lui, Kennedy era affascinato. E iniziarono delle trattative.
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“Chi sbaglia paghi, ma non sparate su giudici e carabinieri”
La condanna definitiva all’ergastolo per Massimo Bossetti, sul caso Yara Gambirasio? Direi che “ingiustizia è fatta”, nel senso che il rifiuto di esaminare certe prove, prima della sentenza di primo grado, la dice lunga sul tipo di qualità di questa risposta processuale. C’è anche il rifiuto di considerare le nuove prove: sono emerse soltanto in sede di appello, e solo per l’imperizia e la superficialità delle indagini. Io non sono convinto della colpevolezza di Bossetti. Tutto questo serve a coprire altre responsabilità? Non sono in grado di certificarlo, ma sicuramente ne ho il sospetto. O meglio, più che di “coperture”, parlerei di depistaggio: probabilmente è stata depistata l’indagine. Continuamente, in questo processo, sono successe cose gravi. Altrettanto grave il tentativo di depistaggio, da parte dei carabinieri, delle indagini sull’uccisione di Stefano Cucchi. Credo che sia un caso esemplare di giustizia depistata. La qualità media dei magistrati italiani, beninteso, è ottima. Poi ci sono casi in cui la qualità non è ottima, e c’è anche un ego, una volontà di protagonismo particolare, per cui il magistrato si presta a cadere in errore, incaponendosi nella sua convinzione – magari in buona fede, senza accorgersi di essere stato depistato. Però la fisiologia dell’errore esiste in tutti i meccamismi umani. L’errore non è un’anomalia: la percentuale di errori è una normalità, una fisiologia.Gli esseri umani sbagliano un certo numero di cose che fanno – che siano avvocati, magistrati, geometri, architetti o cuochi, non cambia. E’ assolutamente normale: la gente non si deve scandalizzare, deve sapere che gli uomini sbagliano. Il problema è quando, dietro l’errore, per una scarsa qualità dell’approccio alla situazione, c’è il fatto di non volersi accorgere (o di non riuscire ad accorgersi) di esser stati anche indotti, in errore. Noi però vogliamo le cose perfette: non accettiamo che l’errore sia anche un aspetto fisiologico delle cose che facciamo. Come diceva Luca Pacioli, nel suo meraviglioso “De Divina Proportione” illustrato da Leonardo: sovente, gli errori sono più importanti delle cose “juste”, perché la maggior parte delle cose “juste” nascono proprio dagli errori. Dato che la maggior parte dei magistrati è un buona fede, anche quando vengono depistati, si deve parlare per lo più di “errore”. Solo che, una volta che sono partiti e sono convinti dell’accusa, non si fermano più. Generalmente, lì prevale l’ego. Quella dei magistrati in cattiva fede è una percentuale irrisoria. Il loro è un lavoro per certi aspetti duro, che ti mette continuamente a confronto con la sofferenza: quindi è uno di quei mestieri che migliorano l’essere umano (non lo peggiorano).Chi li induce in errore, invece, è un altro tipo di persona: è il vero criminale. Non sempre le azioni di despistaggio vedono la complicità di chi svolge le indagini. Le azioni di depistaggio sono sofisticate, e vengono sempre dall’esterno. Fa eccezione il caso Cucchi, dove c’era un’autodifesa corporativistica dell’Arma, che è stata un danno drammatico per l’Arma dei carabinieri stessa. L’Arma deri carabinieri non è un organo d’indagine comune. Ha una storia, una rilevanza sociale e una connessione gerarchica fino a poco tempo fa molto particolare, diversa da quella degli altri organi di polizia e dell’esercito. E questo suo nascere a metà strada tra l’esercito e la polizia, tra funzione interna e funzione esterna, questo suo rispondere direttamente alla presidenza della Repubblica (i carabinieri sono gli unici a giurare fedeltà al presidente della Repubblica, oltre che allo Stato e alla Costituzione), ovviamente può produrre anche difese politiche corporativistiche di quest’Arma, che per noi è un punto d’orgoglio.Nei carabinieri, lo spirito di corpo è qualcosa di particolare. E nel caso Cucchi ha prodotto qualcosa di estremamente negativo, oserei dire quasi criminale, per cui bisognerebbe che l’indagine futura risalisse anche alla catena gerarchica per vedere quanti erano al corrente di quello che si stava facendo, incluso il maresciallo che probabilmente verrà accusato di responsabilità nell’aver fatto sparire la nota di servizio del carabiniere che poi si è ravveduto e ha parlato. E quanti altri, nella catena gerarchica, erano al corrente della sparizione di quella nota? Questo va fatto nell’interesse dei carabinieri, e per l’amore che io personalmente, in quanto italiano, porto all’Arma dei carabinieri. Perché, oltre a essere danneggiato il povero Cucchi, insieme alla sua famiglia (alla quale nessuno di noi può negare solidarietà, unendosi al suo dolore), è molto danneggiata anche l’Arma dei carabinieri – che questo danno non se lo merita. L’accaduto pregiudica la dignità dell’Arma, e noi dobbiamo tutelarla da questo pregiudizio. La stessa Arma dei carabinieri deve fare pulizia, per riscattare il proprio onore.Certo, ci sono anche casi come la morte di Marco Pantani o quella di David Rossi a Siena, nella sede centrale del Monte dei Paschi: la contaminazione della scena del crimine è possibile solo con la complicità di chi svolge le indagini. Ma ci sono manipolazioni e depistaggi che non prevedono la complicità di chi indaga: prevedono solo la “fessaggine” occasionale, da parte degli inquirenti. Le cose umane si ripetono sempre secondo gli stessi schemi. Che succedano nell’Arma dei carabinieri, nella Guardia di Finanza o nei paracadutisti (dove ci sono tanti suicidi) è solo una contingenza. Il meccanismo è sempre lo stesso: puntiamo al dito e non guardiamo la luna. Le cose umane hanno le loro complicazioni e complessità, i loro problemi. Questo lo sappiamo, però diamo la colpa ai contesti, anziché alle persone. Io non do la colpa alla Cgil, se si scopre che un sindacalista ruba. Non do la colpa alla massoneria se si scopre che un massone non fa il massone. Quella è una malattia molto italica, oserei dire “italiota”, che non ho mai condiviso. Sono condanne per schemi, per categorie, che generano odio diffuso. Non le ho mai condivise, nei confronti di nessuno.Quando la gente si è scagliata contro il comunismo, additando i Gulag russi, ho sempre detto: guardate che l’ideale del comunismo non era quello, che semmai era l’effetto di un regime che si è trasformato, deviato a corrotto nei tempi, anche in funzione dell’accerchiamento capitalistico che aveva subito. Le dinamiche sociali e politiche, e anche quelle della giustizia, sono complesse: non possono essere giudicate con l’accetta, separando il bene e il male (che sono connessi, intrecciati). E le situazioni complicate richiedono analisi accurate: non tanto per assolvere qualcuno o condannare qualcun altro, ma per evitare di ripetere sempre gli stessi errori. Come spiegare l’attuale rabbia generalizzata nell’opinione pubblica? Ha avuto successo lo schema del potere, che ti dice questo: tu esisti se hai un nemico. Se non hai un nemico, non esisti. Lo schema del potere ti spinge a impegnare tutte le tue energie, le tue risorse e le tue possibilità a distruggere il nemico, anziché a costruire te stesso o ad aiutare i tuoi amici. In questa maniera, il potere si è evitato di essere combattuto. Perché, in realtà, combattere il potere (nella versione che Francesco Saba Sardi presenta come dominio) non significa distruggere dei nemici. Se tu perdi le tue energie nel cercare di distruggere qualcuno o qualcosa, in realtà quelle energie sono tolte da quello che dovrebbe essere il verbo della nostra vita, che è il costruire.L’esempio classico è la massoneria: dovrebbe essere sempre rivolta al costruire (lo dice il suo stesso nome), e invece – nonostante la sua origine e la sua tradizione – da un certo punto in poi si è impegnata a distruggere. E’ una deviazione profonda, che è dipesa dal fatto che il potere si è difeso da tutte quelle energie positive della società che potessero metterne in discussione il monopolio e la gerarchia, il suo schema generale. Oggi noi abbiamo una restrizione dei diritti civili, non un allargamento. Dato che uno, solo perché arrestato (non importa per quale motivo) viene subito bollato come criminale, tutto viene di conseguenza. In Italia c’è uno scarsissimo rispetto per chi viene privato della libertà, da parte dello Stato. Abbiamo avuto casi eclatanti di detenuti che non hanno potuto ricoversarsi in ospedale, perché la durezza del loro regime carcerario non veniva recepita dalla sensibilità dei giudici, al punto da predisporre le cure. Ci sono alcuni magistrati che hanno agito anche per fini politici o per fini personali, ad esempio per fare carriera, ma è sbagliato dire che la magistratura agisce per fini politici. Commettiamo sempre lo stesso errore. Le responsabilità sono sempre personali. Responsabili sono le persone, non le categorie.La categoria dei magistrati è l’unica che non risponde dei propri errori? Questo è un altro aspetto, ma non risolve il problema dell’errore, che in una certa percentuale è sempre fisiologico. La responsabilità dell’errore non è il problema dell’errore: non è che, se un medico sbaglia e uccide il paziente, col risarcimento si risolve il problema. E’ impensabile abolire la possibilità di errore. Si può invece fare il modo che l’errore sia residuale: una quota talmente minima, che i danni siano sopportabili. Certamente, il meccanismo delle responsabilità sugli errori giudiziari, in Italia, io non lo condivido. Ma questo non vale solo per la magistratura, vale anche per gli organi che indagano, per il modo in cui vengono fatte le indagini. E dato che in un processo poi intervengono dai 16 ai 20 magistrati, nel caso di una sentenza sbagliata non si sa mai chi ha commesso l’errore fondamentale. Perché formalmente mettiamo in piedi delle garanzie, ma in realtà le togliamo. Facciamo tribunali del riesame, tribunali della libertà, e poi non si sa chi sbaglia. Io farei una legge per cui il procuratore della Repubblica può fare quello che vuole: arrestare, intercettare, indagare. Ma se sbaglia, paga. Perché la responsabilità è sua. E se mi mette in galera, deve processarmi entro 60 giorni: devono fare presto, se toccano le libertà costituzionali.Li responsabilizzeri di più, i magistrati, con la deterrenza della sanzione contro di loro, proprio perché sono convinto che la maggior parte di loro rappresenti un orgoglio di questo paese, non una vergogna. Impegnare 16 magistrati per processare una persona mi sembra uno sproprosito: un primo magistrato ti arresta, un giudice istruttore lo autorizza, il Tribunale del Riesame (tre soggetti) valuta il caso, poi c’è il processo di primo grado (altri tre soggetti), poi c’è il processo d’appello (idem). Quanti magistrati intervengono? Tutti personaggi che potrebbero essere tranquillamente recuperati all’efficienza del processo: recuperando 10-12 magistrati alle funzioni dirette del processo, si smaltierebbe tutto l’arretrato in un solo anno. Ovviamente i magistrati devono avere più mezzi. Ho conosciuto magistrati che si pagavano da soli le fotocopie. Quelli di Bari si sono dovuti pagare una serie di cose, perché il loro tribunale è crollante. Noi da un lato li attacchiamo, e dall’altro non gli diamo i mezzi? Non si può ragionare così. E’ come accusare i maestri del crollo delle scuole. Innanzitutto devi mettere la gente in condizione di lavorare bene – cosa che, nei confronti dei magistrati, in Italia non viene fatta. Poi li si vuole criminalizzare quando commettono errori? Ma non funziona così, il mondo.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti nella diretta web-streaning su YouTube “Carpeoro Racconta” del 14 ottobre 2018).Massimo Bossetti all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio? «Ingiustizia è fatta: non sono per niente convinto della colpevolezza di Bossetti», vittima di indagini «superficiali». Per non parlare del caso di Stefano Cucchi, massacrato di botte dai carabinieri che l’avevano arrestato. Uno scandalo, che «pregiudica la dignità dell’Arma, che dobbiamo tutelare da questo pregiudizio». In altre parole: «La stessa Arma dei carabinieri deve fare pulizia, per riscattare il proprio onore». Lo afferma Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Avvocato di lungo corso (vero nome, Pecoraro), Carpeoro – saggista e attento osservatore dell’attualità italiana – insiste però su un punto: guai se ci scandalizziamo se la giustizia sbaglia una sentenza, come sul caso di Yara: errare è umano, l’errore è fisiologico. Idem se criminalizziamo l’intera Arma dei carabinieri per colpa dei militari che hanno picchiato Stefano Cucchi provocandone la morte, come confessato da un commilitone, l’appuntato Riccardo Casamassima, a nove anni di distanza dalla tragedia. Si finisce per condannare ingiustamente l’intera categoria – magistrati, carabinieri – quando invece si dovrebbe pretendere che a pagare per i propri errori siano le singole persone che sbagliano: inclusi i magistrati, «spesso ottimi, ma costretti a lavorare in condizioni difficili».
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Gorbaciov: ho paura. Francesi in Siria con i terroristi Nato
L’ultimo bombardamento sulla Siria, deciso da Donald Trump, «l’ho definito una specie di esercitazione militare in preparazione di qualcosa di molto più serio: è preoccupante». Parola di Mikhail Gorbaciov, al telefono con Giulietto Chiesa. «Adesso arrivano notizie secondo cui un contingente francese sarebbe entrato in territorio siriano, armi e bagagli». Non solo francesi, aggiunge Chiesa, ma anche tedeschi. «Se facciamo la somma, ormai hanno messo piede, e non da ieri, contingenti americani, inglesi, francesi, tedeschi e israeliani». E nel conto, sottolinea Gorbaciov, «bisogna mettere anche gli arabo-sauditi e i turchi, che fanno il loro gioco. Sono tutti là. E ho l’impressione che si stia preparando qualche cosa di grosso, e di molto grave», afferma l’ultimo presidente dell’Urss, Premio Nobel per la Pace. Conseguenze immediate piuttosto allarmanti, come confermato dall’offensiva militare, mediatica e diplomatica di Israele contro l’Iran, impegnato in Siria accanto ai russi e all’esercito di Damasco. L’Occidente e i suoi alleati non accettano che Mosca abbia sconfitto l’Isis e messo fine alla guerra siriana contro i “terroristi” armati dalla Nato. Se ora gli Usa e i loro vassalli scendono in campo direttamente, come si regolerù Putin?«E’ evidente che la sconfitta dello Stato Islamico, ad opera dei russi, e la situazione che si è creata sul terreno, non piace né a Washington, né a Parigi né Londra», dichiara Gorbaciov. «Adesso agiscono in due direzioni: una diplomatica, come si è visto a Bruxelles nella conferenza che hanno chiamato “Aiutare il futuro della Siria e dell’intera regione” e il cui scopo è quello di mettere fine al processo di Astana», la capitale del Kazakhstan che ha ospitato il vertice russo-turco-iraniano. «Là erano solo Mosca, Ankara e Teheran. Ora vogliono sostituirlo con una gestione, formalmente sotto egida Onu, ma sostanzialmente funzionale a una ripresa del controllo americano sulla crisi siriana. Nello stesso tempo – aggiunge Gorbaciov – stanno cercando di cambiare i rapporti di forza militare sul terreno». La situazione è questa: «Adesso l’Isis, di fatto, non esiste più. L’esercito siriano avanza su tutti i fronti, sostenuto dalla presenza russa sia dall’aria che sul terreno. Lo sostituiscono direttamente le truppe occidentali». In altre parole: truppe occidentali stanno prendendo il posto della loro creatura, l’Isis, sconfitta sul campo. Il rischio di scontro diretto Usa-Russia si va facendo altissimo, sostiene l’uomo che ha posto fine alla guerra fredda.«Vladimir Putin si trova di fronte alla domanda delicatissima su come fermarli», spiega Gorbaciov. «Un conto era avere di fronte l’esercito dello Stato Islamico. Era una finzione, perché sappiamo chi lo sosteneva, ma evitava il contatto diretto con le forze occidentali che erano già sul terreno ma invisibili, sotto forma di servizi segreti. Adesso il rischio è di un confronto militare diretto tra Russia e Stati Uniti, Russia e Francia, Russia e Gran Bretagna». Sono tutti eserciti Nato, quindi un eventuale scontro coinvolgerebbe indirettamente anche l’Italia, finora rimasta fuori dalla mischia benché ancora presente con la missione di peacekeeping in Libano, il paese da cui proviene la milizia sciita Hezbollah schierata in Siria con Assad. Come risponderà Putin al drammatico cambio di marcia dell’Occidente? «Non lo so», ammette Gorbaciov. «Mi pare chiaro che non potrà abbandonare la Siria». Tra l’altro, aggiunge, «la Russia è sul campo per diretta richiesta da parte del governo legittimo di Damasco, mentre tutti gli altri stanno occupando il territorio siriano in aperta violazione di tutte le norme internazionali. Nulla li legittima. È una operazione di aggressione».Tira una brutta aria, «e non riguarda solo la Siria», purtroppo. Gorbaciov ricorda la Nato sta premendo per incorporare l’Ucraina e la Georgia, in aperta violazione delle solenni assicurazioni fatte da George Bush all’epoca della distensione, il disarmo missilistico bilaterale: la Casa Bianca aveva promesso che non avrebbe esteso verso Est il perimetro Nato, a ridosso delle frontiere russe. Nel frattempo, le sanzioni economiche contro Mosca «stanno diventando asfissianti, al punto che siamo ormai nella situazione in cui il ministero del Tesoro americano decide della sorte dell’industria russa dell’alluminio». Sempre secondo Gorbaciov, la “ritirata” dell’industriale russo Oleg Deripashka, che ha perduto la maggioranza azionaria della sua impresa a Londra, «è un segnale di preavviso mandato a Vladimir Putin alla vigilia della inaugurazione del suo quarto mandato». In altre parole, «la “guerra ibrida” è in pieno sviluppo». E stavolta Mikhail Gorbaciov teme che la crisi – particolarmente incancrenita in Siria – possa nascondere esiti pericolosi e inimmaginabili. Tutto è precipitato – dal caso Skripal al bombardamento di Trump – dopo l’annuncio di Putin sui missili “imparabili”, ipersonici, di cui dispone la Russia. L’Occidente terrorista sfiderà il Cremlino a impiegarle, le armi-killer in grado di affondare le portaerei?L’ultimo bombardamento sulla Siria, deciso da Donald Trump, «l’ho definito una specie di esercitazione militare in preparazione di qualcosa di molto più serio: è preoccupante». Parola di Mikhail Gorbaciov, al telefono con Giulietto Chiesa. «Adesso arrivano notizie secondo cui un contingente francese sarebbe entrato in territorio siriano, armi e bagagli». Non solo francesi, aggiunge Chiesa, ma anche tedeschi. «Se facciamo la somma, ormai in Siria hanno messo piede, e non da ieri, contingenti americani, inglesi, francesi, tedeschi e israeliani». E nel conto, sottolinea Gorbaciov, «bisogna mettere anche gli arabo-sauditi e i turchi, che fanno il loro gioco. Sono tutti là. E ho l’impressione che si stia preparando qualche cosa di grosso, e di molto grave», afferma l’ultimo presidente dell’Urss, Premio Nobel per la Pace. Conseguenze immediate piuttosto allarmanti, come confermato dall’offensiva militare, mediatica e diplomatica di Israele contro l’Iran, impegnato in Siria accanto ai russi e all’esercito di Damasco. L’Occidente e i suoi alleati non accettano che Mosca abbia sconfitto l’Isis e messo fine alla guerra siriana contro i “terroristi” armati dalla Nato. Se ora gli Usa e i loro vassalli scendono in campo direttamente, come si regolerù Putin?
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Perché la Corea unita fa più paura dell’atomica di Kim
L’ipotesi di una Corea unita è temuta non solo dagli Usa, che hanno le basi nel Sud, ma anche dalla Cina, dalla Russia e dal Giappone. Se crolla il muro del 38° parallelo le grandi potenze e quelle regionali dovranno fare i conti con una nazione potente dal punto di vista economico e militare. Soprattutto se non ci sarà una denuclearizzazione della penisola. È più probabile che nel breve termine assisteremo, se va bene, a una riapertura delle zone economiche speciali tra le due Coree, come Kaesong, e la ripresa a pieno ritmo delle relazioni con Mosca e Pechino. Nervosismo asiatico: la Corea unita fa quasi più paura delle bomba di Kim Jong Un. Saranno intanto, oltre al regime nordcoreano, la Cina e la Russia a tentare di approfittare della stretta di mano tra la sorella del dittatore e il presidente della Corea del Sud. Da poco è stata riaperta la linea rossa tra Pyongyang e Seul interrotto a nel febbraio 2016 dalla Corea del Nord per protesta contro la chiusura per volere di Seul del complesso industriale di Kaesong, gestito congiuntamente dai due paesi. Kaesong, sul 38° parallelo, dal 2002 costituisce il principale strumento di cooperazione economica bilaterale: la linea rossa veniva usata per comunicare alle autorità nordcoreane spostamenti che coinvolgevano cittadini sudcoreani in entrata o uscita dal complesso di Kaesong, situato subito a nord della linea di demarcazione di cessate il fuoco.Non dimentichiamo che i due paesi tecnicamente sono ancora in guerra, l’eredità più duratura della guerra fredda: negli anni Cinquanta su questo fronte morirono più di un milione e mezzo di soldati e oltre un milione di civili. Poi ci sono Pechino e Mosca che attendono di cogliere la loro occasione per tenere sotto pressione gli Stati Uniti nella penisola asiatica più bollente. Anche sotto sanzioni, alla Corea del Nord non è mancato il supporto della Cina e della Russia, come dimostra la vicenda delle forniture petrolifere di Pechino nonostante l’embargo deciso all’Onu. Ancora più interessante è la vicenda della zona economica speciale di Rason, meno conosciuta di quella di Kaesong, ma forse ancora più strategica. A Rason, nella punta nordorientale della Corea del Nord, nella regione di Gwanbuk, il paese di Kim Jong-Un incontra i suoi vicini, i giganti Cina e Russia. Questa è una regione alla legislazione economica speciale, il primo esperimento capitalistico nella storia nordcoreana. Creata sul modello cinese, ha il compito di attrarre gli investimenti dei superpotenze confinanti. Le aziende cinesi e russe hanno investito in questa zona franca in cui è consentito l’uso della valuta straniera.Dal punto di vista geografico, Rason impedisce alle fiorenti regioni nordorientali della Cina l’accesso diretto al mare: l’uso del porto di Rajin permette quindi a Pechino di trasportare il carbone nell’area di Shanghai, con risparmio di tempo e risorse. Inoltre a Rason Russia e Corea del Nord hanno mantenuto ottime relazioni per molti anni. La RasonConTrans, filiale della Russian Railways, è controllata al 30% dal porto di Rason e impiega circa 300 nordcoreani e 110 russi. Ecco alcuno motivi economici e strategici perché la stretta di mano tra Kim Yo Jong, la sorella del numero uno nordcoreano con il presidente sudcoreano Moon inquieta gli Stati Uniti e apre una corsa tra Cina e Russia nella penisola coreana. I cinesi, alleati storici di Pyongyang, e i russi non potendo sfidare la superiorità militare degli americani e il predominio del dollaro come moneta di scambio e di riserva mondiale, hanno utilizzato la Corea del Nord per infastidire gli Usa e i loro alleati coreani e giapponesi. Così, tra un passato di guerre sanguinose, un presente da incubo e nuove speranze nate alla diplomazia olimpica, aspettiamo gli eventi, aggrappati alle notizie dal 38° parallelo, in mano agli umori del giovane Dottor Stranamore nordcoreano.(Alberto Negri, “La Corea unita fa più paura della bomba atomica di Kim Jong Un”, da “Tiscali Notizie” del 12 febbraio 2018).L’ipotesi di una Corea unita è temuta non solo dagli Usa, che hanno le basi nel Sud, ma anche dalla Cina, dalla Russia e dal Giappone. Se crolla il muro del 38° parallelo le grandi potenze e quelle regionali dovranno fare i conti con una nazione potente dal punto di vista economico e militare. Soprattutto se non ci sarà una denuclearizzazione della penisola. È più probabile che nel breve termine assisteremo, se va bene, a una riapertura delle zone economiche speciali tra le due Coree, come Kaesong, e la ripresa a pieno ritmo delle relazioni con Mosca e Pechino. Nervosismo asiatico: la Corea unita fa quasi più paura delle bomba di Kim Jong Un. Saranno intanto, oltre al regime nordcoreano, la Cina e la Russia a tentare di approfittare della stretta di mano tra la sorella del dittatore e il presidente della Corea del Sud. Da poco è stata riaperta la linea rossa tra Pyongyang e Seul interrotto a nel febbraio 2016 dalla Corea del Nord per protesta contro la chiusura per volere di Seul del complesso industriale di Kaesong, gestito congiuntamente dai due paesi. Kaesong, sul 38° parallelo, dal 2002 costituisce il principale strumento di cooperazione economica bilaterale: la linea rossa veniva usata per comunicare alle autorità nordcoreane spostamenti che coinvolgevano cittadini sudcoreani in entrata o uscita dal complesso di Kaesong, situato subito a nord della linea di demarcazione di cessate il fuoco.
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Usa: stop all’auto tedesca, Berlino falsifica i conti dell’export
Embargo contro le auto tedesche? Non proprio, ma quasi: attaccato a Davos da Angela Merkel, che lo accusa di protezionismo, Donald Trump potrebbe imporre un super-dazio per frenare «l’acciaio europeo». Lo afferma Joseph Carey su “Voci dall’Estero”, ricordando i giudizi della Casa Bianca sulla Germania, «molto scorretta riguardo al commercio», specie in relazione ai «milioni di automobili» vendute negli Usa grazie a imposte doganali ultra-leggere. Gary Hufbauer, esperto di commercio dell’istituto Peterson a Washington, sostiene che l’attacco dei repubblicani potrebbe sfruttare i poteri della “sezione 232”, una forma Usa di auto-tutela contro le importazioni, e lanciare una serie di sanzioni per imporre «una qualche forma di quota-automobili». Il problema? La Germania gioca sporco: mentre impone il massimo rigore ai vicini, bara sui propri conti pubblici. Ultima pietra dello scandalo: il surplus commerciale. L’export tedesco supera l’8% del Pil, andando ben oltre il 6% imposto da Maastricht. L’imbroglio? «La Germania sta falsificando i conti, in modo che non si veda che il surplus sta aumentando», afferma il professor Heiner Flassbeck, ex segretario di Stato tedesco alle finanze. Ecco perché Trump starebbe preparando clamorose contromosse commeciali anti-europee, dopo la lezioncina globalista impartitagli dalla Merkel.Attenzione: l’eccesso di export (non registrato onestamente a bilancio) è solo uno dei tanti trucchi con cui la Germania pretende di qualificarsi “virtuosa” di fronte ai competitori europei, con la quale è in guerra: avversari come l’Italia, che sta letteralmemte schiacciando grazie al tasso di cambio marco-euro che svaluta la divisa tedesca favorendo le esportazioni. Primo trucco, la banca pubblica Kwf (Kreditanstalt für Wiederaufbau), simile all’italiana Cassa Depositi e Prestiti. «Ogni anno raccoglie circa 500 miliardi e li reinveste concedendo prestiti a tassi irrisori alle piccole e medie imprese», ricorda “Linkiesta”. Piccola differenza: «I 300 miliardi di debito contratto dalla nostra Cdp, coperto da garanzia statale, entra nel conteggio del debito pubblico italiano. I 500 miliardi di euro della Kfw invece no». Il motivo? Un cavillo: la Germania esclude dal debito di Stato le società pubbliche che si finanziano con pubbliche garanzie ma che coprono la metà dei propri costi con ricavi di mercato e non con versamenti pubblici, tasse e contributi. «Regola alquanto discutibile: la proprietà di Kfw è pubblica, la sua vigilanza non è deputata alla Bundesbank (la banca centrale tedesca), ma al ministero delle finanze. I suoi tassi sono diretta conseguenza di quelli dei Bund e se avesse problemi sarebbe lo Stato a intervenire».Facendo i conti della serva: 500 miliardi di euro sono pari a circa un quarto dei 2080 miliardi complessivi del debito pubblico tedesco. «Se li sommassimo otterremmo un debito pubblico tedesco che dal 78,4% arriverebbe a lambire il 97% del Pil», scrive “L’inkiesta”, enumerando le altre false “virtù” della Germania. Per esempio: il pareggio di bilancio (imposto all’Italia in tempi strettissimi) Berlino lo realizzerà con modo, a rate, tenendo conto dell’autonomia finanziaria dei suoi 16 Lander, che avranno tempo fino al 2020. In più: gli enti locali sono sovra-indebitati, ma il loro bilancio (in rosso) non viene conteggiato nel debito pubblico nazionale. Terzo trucco: lo Stato nelle banche. A parte la Cdp, scrive “Linkiesta”, «in Italia tutte le banche sono in mano a investitori privati, mentre in Germania il 45% del sistema bancario è in mano al settore pubblico». Ancora: se il mercato non compra i bond tedeschi, li acquista direttamente la banca centrale, la Bundesbank (il che è giusto: peccato che Berlino vieti alle banche centrali dei paesi europei di fare altrettanto). Nell’Unione Europea, dove alcuni sono “più uguali” degli altri, i tedeschi sono, orwellianamente, “i più uguali” di tutti: impiccano la Grecia e azzoppano l’Italia imponendo l’austerity, ma poi chiudono un occhio (anzi, due) sui propri conti-vergogna, da nascondere sotto il tappeto.Tutti contenti, in Germania? Nemmeno per idea: «I lavoratori tedeschi si preparano allo sciopero per l’aumento dei salari», scrive “Bloomberg”. Gli operai e i giganti industriali, dalla Siemens a Daimler, stanno affrontando un crescente conflitto con una serie di giornate di sciopero in tutta la Germania, che secondo gli imprenditori starebbero danneggiando seriamente l’attività produttiva, affermano Carolynn Look e Christoph Rauwald, in un articolo tradotto da “Voci dall’Estero”. «I lavoratori sono davvero molto arrabbiati a causa delle tattiche negoziali degli imprenditori», afferma Joerg Koehlinger, leader regionale del sindacato Ig Metall: «Tutti possono vedere quanto sia buona la situazione economica, per cui vogliamo degli aumenti salariali significativi e degli orari di lavoro adeguati alla vita delle persone». La Germania è il paese dei “mini-job” da 450 euro mensili, introdotti da Gerhard Schroeder su ispirazione di Peter Haartz, l’ex ad della Volkswagen condannato per aver corrotto sindacalisti, inducendoli a introdurre contratti-capestro. Le paghe bassissime sono una delle chiavi del super-export su cui si fonda l’aggressiva economia industriale tedesca. Oggi, il tasso di disoccupazione è sceso a un record minimo: 5,4%. «Con livelli di produzione manufatturiera vicini ai massimi da due decenni a questa parte, e con gli ordini che vanno a gonfie vele, qualsiasi rallentamento della produzione potrebbe avere serie ripercussioni», avvertono Look e Rauwald su “Bloomberg”.Una situazione su cui, domani, potrebbe incombere l’ira di Trump, insolentito dalla Merkel davanti alla platea internazionale per il suo presunto protezionismo. Tutto vero? Macché. E’ solo l’ennesima “fake news” su cui si fonda l’egemonia tedesca. «La Germania non è affatto equa riguardo alle auto, perché la Ue adotta una tariffa doganale del 10%, mentre gli Usa hanno una tariffa del 2,5%», spiega il professor Flassbeck. «Il notevole “surplus commerciale bilaterale” preoccupa molto gli Usa, che potrebbero finire col punire l’intera Ue per i flussi commerciali sbilanciati di Berlino». Secondo l’ultimo rapporto del Tesoro Usa, «il surplus commerciale bilaterale della Germania con gli Usa è molto ingente e fonte di preoccupazione». La Germania, «in quanto quarta potenza economica globale», dovrebbe invece avvertire «la responsabilità di contribuire a una crescita della domanda più bilanciata e a flussi commerciali più bilanciati». Dai rapporti risulta che tra l’80 e il 90% del commercio di Berlino sfrutta la domanda estera. E Peter Navarro, consulente commerciale alla Casa Bianca, ricorda che la Merkel mantiene il “marco tedesco” «fortemente svalutato», sfruttando le regole dell’Ue e dell’Eurozona. «E’ una situazione molto iniqua: non riusciamo a esportare i nostri prodotti, mentre loro esportano da noi i propri, con tasse molto basse», dichiara Trump. «Se la Casa Bianca dovesse imporre sanzioni contro le auto e l’acciaio tedesco», avverte Carey su “Voci dall’Estero”, «l’intera Ue verrebbe trascinata nel conflitto».Embargo contro le auto tedesche? Non proprio, ma quasi: attaccato a Davos da Angela Merkel, che lo accusa di protezionismo, Donald Trump potrebbe imporre un super-dazio per frenare «l’acciaio europeo». Lo afferma Joseph Carey su “Voci dall’Estero”, ricordando i giudizi della Casa Bianca sulla Germania, «molto scorretta riguardo al commercio», specie in relazione ai «milioni di automobili» vendute negli Usa grazie a imposte doganali ultra-leggere. Gary Hufbauer, esperto di commercio dell’istituto Peterson a Washington, sostiene che l’attacco dei repubblicani potrebbe sfruttare i poteri della “sezione 232”, una forma Usa di auto-tutela contro le importazioni, e lanciare una serie di sanzioni per imporre «una qualche forma di quota-automobili». Il problema? La Germania gioca sporco: mentre impone il massimo rigore ai vicini, bara sui propri conti pubblici. Ultima pietra dello scandalo: il surplus commerciale. L’export tedesco supera l’8% del Pil, andando ben oltre il 6% imposto da Maastricht. L’imbroglio? «La Germania sta falsificando i conti, in modo che non si veda che il surplus sta aumentando», afferma il professor Heiner Flassbeck, ex segretario di Stato tedesco alle finanze. Ecco perché Trump starebbe preparando clamorose contromosse commeciali anti-europee, dopo la lezioncina globalista impartitagli dalla Merkel.
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Davide Cervia, “sequestro di Stato”: condannato il ministero
Una donna senza più il marito, due figli senza più il padre. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret: guerra elettronica. E’ ancora vivo? Invocano notizie la moglie, la figlia. E’ passato un quarto di secolo, e i militari non parlano. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra. Solo per miracolo la ragazza, Erika, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il migliore, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato la ricerca della verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?«Nemmeno il “Fatto Quotidiano” ha voluto dare la notizia della sentenza: nemmeno Marco Travaglio, a cui ho scritto», dice la moglie di Davide, Marisa Gentile, a colloquio con Stefania Nicoletti e Paolo Franceschetti a “Forme d’Onda”, trasmissione web-radio. «Viviamo un assedio infinito: lettere minatorie, pedinamenti, telefonate mute, anonimi che dicono “sappiamo dov’è tuo marito”. Ogni volta che andiamo a parlare nelle scuole di Velletri, poi ci ritroviamo le gomme dell’auto tagliate. Un funzionario del ministero dell’interno arrivò a offrirmi un miliardo di lire purché lasciassimo perdere. Adesso, il 23 gennaio, il tribunale di Roma ha condannato il ministero della difesa. Il danno, secondo i nostri avvocati, ammontava a 5 milioni di euro. Ma abbiamo preteso solo un risarcimento simbolico: un euro. E comunque l’avvocatura dello Stato ci ha costretto a firmare la rinuncia ad altre cause civili, altrimenti avrebbero chiesto la prescrizione, che sarebbe stata la pietra tombale su questa storia». L’ultima sentenza è decisiva, come quelle su Ustica: sancisce la violazione, da parte dello Stato, del diritto alla verità. Lo sostengono gli avvocati, Alfredo Galasso e Licia D’Amico. L’ammiraglio a riposo Falco Accame, vicino alla famiglia, auspica che il coraggioso verdetto del tribunale di Roma possa rompere il silenzio che oscura le “morti bianche” di tanti militari uccisi dall’uranio impoverito nelle missioni all’estero. Secondo Franceschetti, domani potrebbero “svegliarsi” anche i familiari di altre vittime, quelle delle troppe stragi impunite.Di origine ligure, Davide Cervia si era trasferito a Velletri dopo aver lasciato la marina. E’ scomparso il 12 settembre 1990: assalito mentre rincasava e caricato a forza su un’auto verde. Lo Stato ha impiegato anni, per ammettere che fosse stato rapito: si fece credere che, semplicemente, avesse abbandonato volontariamente la famiglia. Poi la marina militare ha negato a lungo che fosse un tecnico altamente specializzato: il suo vero curriculum è saltato fuori soltanto dopo che i familiari hanno occupato fisicamente il ministero. Adesso, dopo quasi 28 anni, il tribunale romano condanna i militari: hanno ostacolato il diritto alla verità. Quale verità? Non è dato saperlo. Tanti inidizi portano alla Libia, che nel ‘90 era sotto embargo e immaginava di essere minacciata, alla vigilia della prima Guerra del Golfo. Due operai italiani sostengono di aver visto Davide Cervia quattro anni dopo, vivo e vegeto, in una base missilistica vicino a Sebha. Per anni, racconta il giornalista investigativo Gianni Lannes sul blog “Su la testa”, la marina militare negò che Davide Cervia avesse la qualifica di esperto “Ge”, guerra elettronica, fino al giorno in cui, appunto, «la moglie Marisa e il suocero Alberto occuparono, insieme al “Comitato per la verità su Davide Cervia”, gli uffici dall’allora ministro della difesa italiano Martino».Dopo otto ore di trattative serrate e tese, ricorda Lannes, «il vero foglio matricolare venne fuori: la specializzazione che la marina aveva sempre negato era lì, nero su bianco». Non si trattava di un attestato qualsiasi: comprovava «un addestramento di altissimo livello, che poche decine di tecnici avevano». Per la burocrazia della marina, Cervia era un tecnico Elt/Ete/Ge, specializzato nei dispositivi di disturbo dei radar nemici. Quella sigla rendeva l’ex sergente della marina scomparso «un pezzo prezioso che qualcuno aveva “venduto”, includendolo in uno dei sofisticati sistemi d’arma prodotti in Italia». E Davide non era uno qualsiasi, aggiunge Lannes, tanto che sul suo dossier gli ufficiali scrissero: «Ha contribuito in maniera fattiva alla esecuzione delle manutenzioni preventive e correttive sugli apparati “Ge”, facendosi apprezzare per l’elevata preparazione professionale, l’interesse e la dedizione al servizio». Per Gianni Lannes si è trattato di «un sequestro di Stato», sostanzialmente «favorito da agenti del Sismi, allora guidato dall’ammiraglio Fulvio Martini». Lo stesso Sismi che il giornalista considera implicato nella scomparsa dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo (Libano, 1980), nonché nell’eliminazione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (Somalia, 1994), e dei due sottufficiali piloti della Guardia di Finanza, Gianfranco Deriu e Fabrizio Sedda, caduti in Sardegna nel 1994 a bordo dell’elicottero “Volpe 132” (a loro volta, dopo indagini su armi-fantasma?).A quel tempo, ricorda Lannes, il capo di stato maggiore della marina era l’ammiraglio di squadra Filippo Ruggero. «Per la cronaca incombeva in quell’anno il governo Andreotti: alla difesa c’era Martinazzoli, mentre agli esteri figurava De Michelis, con l’apporto di Gava agli interni». Proprio la qualifica di specialista Ete/Ge, dice Lannes, «è la causa del rapimento di Davide Cervia, “venduto” a sua insaputa come tecnico esperto di guerra elettronica, in seguito al divieto delle Nazioni Unite di commerciare armi o addestrare militari nei paesi in guerra». In quel periodo, rammenta il suocero di Davide, Alberto Gentile, era vietato vendere armi alla Libia di Gheddafi. Ma, negli anni ‘80, i libici avevano riammodernato nei cantieri di Genova (su una fregata e due corvette) le stesse apparecchiature di cui era esperto Davide: Otomat, Aspide e Albatros. Nel dicembre del ‘96 la famiglia incontrò il sottosegretario Rino Serri, racconta Alberto Gentile in un’intensa ricostruzione realizzata da Marcello Michelini ed Enrico Chiarioni per “Crescere Informandosi”, trasmessa da “Pandora Tv”. «Davanti a testimoni – afferma il suocero di Davide – Serri raccontò che stavano facendo trattative con la Libia “per poter liberare Davide”, ma disse che non si poteva assolutamente parlare di “rapimento”».Nato a Sanremo nel ‘59, Davide Cervia si era arruolato volotario in marina il 5 settembre 1978, diciannovenne, con ferma di sei anni. A Taranto risultò il migliore del suo corso e venne qualificato specialista Ete/Ge, tecnico elettronico per la guerra hi-tech. All’epoca, tra tutti gli “Elt 78/B” fu l’unico a ottenere quella qualifica, ricorda Lannes. Avviato al Centro Addestramento Aeronavale per la specializzazione pre-imbarco, sempre a Taranto, venne poi inserito nell’equipaggio di quella che all’epoca era la più moderna nave italiana, la fregata Maestrale, «acquisendo una specializzazione preziosissima». Si congedò dalla marina il 1° gennaio 1984 e quattro anni dopo si trasferì a Velletri, dove iniziò a lavorare nella società Enertecnel Sud, con sede presso Ariccia. Davide Cervia, riassume Lannes, era dunque un tecnico della guerra elettronica, specializzato nei sistemi di arma Teseo-Otomat che l’industria militare italiana «aveva venduto fin dagli anni ‘70 ai tanti paesi-canaglia del mondo, Libia compresa». Gli elementi che collegano la sua scomparsa alla Libia sono molteplici: «L’assistenza militare del regime di Gheddafi è sempre stata una nostra specialità», scrive Lannes. Un tecnico come Cervia «era a dir poco preziosissimo», per gestire le attrezzature Teseo-Otomat installate su navi libiche a fine anni ‘80.Secondo il portale giuridico “Altalex”, il verdetto ora emesso dall’autorità giudiziaria romana rappresenta «una sentenza molto importante», perché, «oltre a dar ragione nella sostanza alla famiglia dello scomparso, sul fatto che si tratti di rapimento e non di allontanamento volontario, pone alcuni importanti principi di diritto, già affermati con la sentenza che riguarda il caso Ustica». E cioè: «Il diritto alla verità da parte dei parenti di un soggetto scomparso in circostanze misteriose è un diritto soggettivo, personalissimo e di rango costituzionale, contenuto nell’articolo 21». Diritto che viene leso da ogni attività che, senza un’adeguata giustificazione, «impedisca, limiti o condizioni» l’acquisizione di informazioni. «In questa sentenza c’è una novità assoluta, cioè il riconoscimento del fatto che il ministero della difesa ha violato questo diritto, e per questo viene condannato», dichiara l’avvocato Licia D’Amico a “Osservatore Italia”. «Non so quante altre volte sia accaduto che una istituzione dello Stato, un ministero, sia stato condannato a risarcire un danno ad una famiglia per aver nascosto la verità: insomma, non è poca cosa». Specie se si considera che gli “insabbiatori” hanno insistito fino all’ultimo sull’idea che Cervia – di cui hanno a lungo negato la decisiva specializzazione – avesse abbandonato la famiglia volontariamente. «Pura follia», racconta la figlia, Erika: «Papà era alle prese con grandi preparativi per l’anniversario di matrimonio».Molte cose su Davide, dice la moglie Marisa nel video realizzato da Michelini e Chiaroni, la famiglia le ha apprese solo dopo la sua scomparsa: aveva rivestito incarichi di particolare segretezza, anche svolgendo stage presso aziende belliche. «Tra i documenti di Davide abbiamo trovato persino il Nos, “nulla osta di segretezza Nato”, ammesso dalla marina dopo 6 anni di nostre pressanti richieste». Per la famiglia Cervia, un incubo senza fine: «Rapito Davide, eravamo a Velletri solo da due anni, e io ne avevo appena 28: fecero girare la voce che mio marito era scappato con un’altra». Eppure, i fatti gridavano la peggiore delle verità: la sera di quel maledetto 12 settembre l’anziano vicino di casa, Mario Cavagnero, vide tutto. «Testimoniò con le lacrime agli occhi di aver visto mio padre strattonato da alcune persone che lo aspettavano davanti al cancello di casa», racconta la figlia, Erika. «Immobilizzato, narcotizzato e spinto con la forza in un’auto color verde bottiglia. Mio padre gridò più volte il nome del vicino, nella speranza che lo potesse aiutare». Raccontò l’uomo: «“Mario!” mi chiamava, disperato: ma è stato tutto troppo rapido perché potessi intervenire». Era la prova regina del rapimento: solo che poi, racconta Erika, «dal verbale dei carabinieri emerse che mio padre stesse chiamando Mario per salutarlo, e che Mario (il testimone chiave) fosse un povero vecchio in stato confusionale».Poco dopo, un autista delle autolinee locali (oggi Cotral) sulla tratta Roma-Velletri «incrociò l’auto verde e la Golf bianca di mio padre guidata da un biondino». Un quasi-incidente, all’incrocio tra Colle dei Marmi e l’Appia. «Dovette fare una brusca frenata per evitare le due auto, che non si fermarono allo stop». L’autista del pullman notò sull’auto verde «due persone, sedute dietro, che con le spalle e le braccia coprivano qualcosa, come a voler nascondere qualcuno». E la Golf bianca di Davide Cervia? «I carabinieri “dimenticarono” di idicare nel verbale il numero di targa: per giorni, la polizia non potè cercarla», dice la moglie. Una vettura rimasta “fantasma” per addirittura sei mesi. «Poi, grazie a una lettera anonima indirizzata alla trasmissione “Chi l’ha visto?”, allora condotta da Donatella Raffai, l’auto venne ritrovata a Roma in via Marsala, vicino alla stazione Termini, dove (secondo la lettera) era parcheggiata da 6 mesi. Ma così non era: mio padre, ferroviere, coi suoi colleghi aveva setacciato la zona palmo a palmo», racconta Marisa Gentile. La Golf riapparsa? «Fatta ritrovare lì per far credere a un allontanamento volontario». Intervennero gli ispettori della Digos: «Frugarono dappertutto, ma senza guanti: addio impronte digitali». Prima ancora, l’auto fu aperta con una micro-carica esplosiva, osserva Marisa: «Quella Golf aveva un impianto a gas, e quindi far saltare la serratura con dell’esplosivo poteva essere pericoloso: a meno che non si sapesse che il serbatoio del gas era vuoto?».Nel frattempo, mentre le indagini “dormivano”, arrivò un indizio dalla Francia. Gianluca Cicinelli, autore di due libri sulla vicenda nonché presidente del “Comitato per la Verità su Davide Cervia”, nel ‘95 venne contattato da un ex funzionario dell’Air France, da poco in pensione. Raccontò: tra dicembre ‘90 e gennaio ‘91 era arrivata alla compagnia aerea transalpina una richiesta di verifica, per sapere se ci fosse un biglietto aereo a nome Davide Cervia. «Lo trovò: per il 6 o l’8 gennaio ‘91 (non ricordava bene la data) per la tratta Parigi-Cairo. Biglietto acquistato per un’agenzia che lavora per il ministero francese degli affari pubblici. Nessuno ne aveva mai parlato». Al che, Cicinelli fece denuncia alla Criminalpol, partì l’indagine e si scoprì che quel biglietto effettivamente esisteva. Ma l’Air France non aveva comunicato nulla agli inquirenti perché, secondo loro, apparteneneva a un omonimo di Davide: un militare francese (con nome italiano, in quanto originario della Corsica). Fino ad allora, la procura di Velletri non aveva potuto fare vere indagini «per carenze di organico». Nel ‘98-99, quando la procura di Roma avocò l’inchiesta riaprendo il caso del biglietto aereo, l’Air France cambiò versione: quel biglietto aereo non era più intestato al “Davide Cervia della Corsica”, bensì a una “signorina Cervia”; in più era cambiata la tratta, e “purtroppo” non si poteva più fare nulla perché tutti i documenti erano stati cestinati.Il 5 aprile del 2000, racconta Erika Cervia, il caso fu archiviato come sequestro di persona a opera di ignoti. «Per noi fu una grandissima vittoria, veder sparire la testi dell’allontamento volontario di mio padre. Ma anche una sconfitta: dopo dieci anni, con l’archiviazione, veniva messa una pietra tombale sulla vicenda. Scandaloso: per i primi 8 anni mio padre non fu assolutamente cercato dalla procura di Velletri, quindi si sono persi proprio gli anni fondamentali per la sua ricerca». Poi, nel 2012, la notizia su Ustica: i familiari delle vittime hanno avevano citato a giudizio i ministeri trasporti e difesa, per omissioni, depistaggi, negligenze e violazione del cosiddetto “diritto alla verità”. «Noi abbiamo denunciato il ministero della difesa e quello giustizia. Ma i testi sono stati finalmente ascoltati solo a partire dal 2016, dopo quattro anni di rinvii». Nel frattempo, la famiglia Cervia è stata incessantemente sottoposta al consueto trattamento: minacce e intimidazioni, fino all’esplosione della finestra di casa. «Spesso – rileva Paolo Franceschetti, avvocato – i parenti delle vittime, in casi analoghi, si piegano. I Cervia invece hanno resistito in modo commovente, per amore di Davide, spiazzando i loro persecutori». Oggi brindano: c’è l’immensa soddisfazione morale di una sentenza che condanna lo Stato per aver mentito. Ma all’appello manca ancora il premio più importante: Davide.«Il prossimo passo – annuncia Marisa Gentile – sarà un appello alla politica, appena il nuovo Parlamento sarà insediato, perché ci spieghi come mai alcune strutture dello Stato hanno depistato». Con la speranza, naturalmente, che «chi sa trovi il coraggio di parlare e di raccontarci quanto accaduto», dice la donna a Fabrizio Peronaci del “Corriere della Sera”, l’unico grande giornale che abbia dato la notizia della sentenza romana. «E’ sconcertente il silenzio dei media», dice Marisa, «per non parlare del silenzio del servizio pubblico Rai». Ancora ai giorni nostri il sequestro Cervia è un fatto indicibile, rileva Gianni Lannes, tant’è vero che ad alcuni atti parlamentari il governo Renzi non ha risposto, come nel caso di un’interrogazione del 10 aprile 2014. Perché tacere ancora su questa scottante vicenda, «coperta dall’affaristica ragion di Stato»? Il Sismi, aggiunge Lannes, «si è sempre occupato direttamente della vendita di armi all’estero, compresi i sistemi d’arma ed il personale altamente specializzato. In questa vicenda non bisogna farsi ingannare dai depistaggi istituzionali che hanno messo in atto più volte, per dirottare la famiglia ed eventuali ricercatori indipendenti su piste fantasma. Un classico: omissioni, reticenze e menzogne dell’apparato statale costellano la vicenda, nonché minacce e intimidazioni alla stessa famiglia Cervia, mai protetta dallo Stato».Per dipanare l’aggrovigliata matassa, insiste Lannes, «bisogna partire dal movente e dai mandanti: Cervia aveva forse rifiutato qualche offerta?». Ovvero: è stato rapito dopo essersi rifiutato di trasferirsi, magari in Libia? Nel blog “Su la Testa”, Gianni Lannes esibisce una vastra documentazione: a partire dal 1992, un anno dopo la scomparsa di Davide, su Camera e Senato è piovuta una grandine di richieste per far luce sulla vicenda. Risultato: silenzio di tomba. Domande scomode, che oggi Lannes riassume: «Qual è stato il ruolo svolto nella vicenda dai servizi segreti italiani? Come si spiegano le reticenze e la contraddittorietà degli interventi che emergono dalle risposte rese nel tempo ad alcuni atti di sindacato ispettivo inerenti la vicenda?». E poi: «Sono state condotte ricerche sulla sorte degli altri tecnici italiani che hanno conseguito la stessa specializzazione di Davide Cervia? Quanti sono, quanti di loro risultano in congedo e quanti sono ancora in servizio in Italia o all’estero?». Ancora: «Sono state effettuate ricerche e indagini giudiziarie presso i paesi ai quali gli armamenti in questione (Teseo-Otomat) sono stati venduti? E’ stata accertata l’effettiva destinazione finale delle suddette armi onde verificare che non sia in atto un traffico d’armi “triangolato” e che non vi siano state violazioni delle norme sulle esportazioni di armi verso paesi per i quali fossero in corso embarghi militari?». Se non altro, dopo quasi 28 anni di depistaggi e omissioni, ora c’è almeno un brandello di verità: lo Stato è colpevole. Ma dov’è finito il super-tecnico rapito? «Giustamente si chiede verità per Giulio Regeni», dice Marisa Gentile. «A quando la verità su Davide Cervia?».Una donna che non sa più dove sia il marito, E due figli senza più notizie del padre, specialista in guerra elettronica. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret. E’ ancora vivo? Invocano sue notizie, inutilmente, i familiari. E’ passato un quarto di secolo, e i militari tacciono. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra: solo per miracolo la ragazza, Erika, figlia dello scomparso, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il più bravo, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato il diritto alla verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?
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Omicidi e stragi, la guerra segreta degli inglesi contro l’Italia
“Colonia Italia”. Giornali, radio e tv: così gli inglesi ci controllano. Le prove nei documenti top secret di Londra. Sono cose che dobbiamo sapere. Quando si pensa alle ingerenze dall’estero nei confronti del nostro paese si pensa sempre agli Stati Uniti d’America. Ma basta aprire una cartina geografica e vedere dov’è l’Inghilterra, un’isola del Nord Europa, e dove sono stati per molti decenni – a ancora oggi – i suoi interessi economici, strategici, militari. In Nord Africa, nel Medio Oriente e in Estremo Oriente. E cosa c’è tra la Gran Bretagna e i suoi interessi? C’è il Mediterraneo e, al centro del Mediterraneo, l’Italia. Quindi già dai tempi del Risorgimento, l’Italia per la Gran Bretagna era una postazione di fondamentale importanza, attraverso la quale poteva controllare i suoi domini e le sue rotte marittime. Poi l’Italia perde la Seconda Guerra Mondiale e, tra Gran Bretagna e Stati Uniti, c’è una visione molto conflittuale sul problema Italia: per gli Stati Uniti noi eravamo un paese cobelligerante, cioè che si era autoliberato dal nazifascismo combattendo al fianco degli alleati. Per la Gran Bretagna invece noi eravamo un paese sconfitto tout-court. Punto e basta. Quindi un paese soggetto ai vincoli, imposti attraverso trattati internazionali, dalle potenze vincitrici alle nazioni sconfitte.Questo ha determinato il corso degli eventi della storia successiva, praticamente fino ai giorni nostri. Al tavolo della pace, quando le grandi potenze vincitrici cominciarono a spartirsi il mondo in aree di influenza, all’interno del campo atlantico la Gran Bretagna pretese e ottenne, dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, una sorta di diritto di supervisione sull’Italia. Quindi l’Italia, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, è paese che appartiene all’area di influenza britannica. C’è una differenza importante tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Gli Usa hanno combattuto anche in Italia una guerra contro il comunismo. La Gran Bretagna non ha combattuto solo quella, ma anche una guerra contro l’Italia, in modo particolare contro quella parte della classe dirigente italiana del secondo dopoguerra – penso ai De Gasperi, ai Mattei, ai Fanfani, ai Vanoni fino ad Aldo Moro, sovranista – cioè, che pur nel contesto di un’alleanza internazionale, l’alleanza atlantica, si muoveva con una propria visione sulla base di un proprio interesse nazionale. Era l’Italia del dopoguerra, uscita a pezzi, che però voleva crescere, riprendersi, ricostruire le proprie istituzioni, il proprio sistema economico. E per poterlo fare aveva bisogno di quella materia prima che è il sangue, l’ossigeno per ogni sistema, e cioè il petrolio, l’energia. Questo è stato all’origine di un conflitto con la Gran Bretagna che dura ancora oggi.La Gran Bretagna, che ha esercitato un controllo pressoché assoluto sul nostro sistema di informazione, ha usato la stampa, i giornali, gli opinion leader, gli intellettuali per orientare l’opinione pubblica e tentare di condizionare le scelte politiche dei partiti e dei governi. Una di queste grandi scelte su cui la Gran Bretagna ha tentato di condizionarci è stata la politica mediterranea, la politica energetica e petrolifera dell’Italia. De Gasperi, presidente del Consiglio nel 1953, aveva il mandato britannico di sciogliere l’Agip. Mattei, nel 1953, era stato messo alla presidenza dell’Agip per scioglierla. E invece di sciogliere l’Agip lui fondò l’Eni, grazie anche a un decreto di De Gasperi. E dopo aver fondato l’Eni, Mattei cominciò ad attuare una propria politica. Non era accettata l’Italia di Mattei, dell’Eni, al tavolo delle grandi compagnie internazionali, in modo particolare di quelle britanniche, con pari dignità. Era ammessa a sedersi, tutt’al più, su uno strapuntino, ma Mattei e l’Italia di quegli anni non volevano assolutamente dipendere dal punto di vista energetico dalla Gran Bretagna. Per cui cercarono autonomamente le fonti di approvvigionamento, offrendo ai paesi produttori di petrolio, che erano quasi tutti controllati dalle compagnie britanniche, condizioni più favorevoli.C’era la famosa regola del fifty-fifty: 50% ai produttori, 50% alle compagnie petrolifere straniere. Questa era una regola imposta dalle “sette sorelle”. Mattei cambiò le regole dello scambio, proponendo il 25% alle compagnie e il 75% ai produttori: i paesi produttori trovarono più conveniente fare affari con l’Italia che non con la Gran Bretagna. Questo disturbò parecchio gli inglesi. La rivelazione di questo libro è l’esistenza di una vera e propria macchina della propaganda occulta britannica. E questa macchina venne scagliata contro De Gasperi e contro il suo erede politico Attilio Piccioni, attraverso la macchina del fango. De Gasperi venne coinvolto in uno scandalo, il famoso scandalo Guareschi – De Gasperi delle lettere che poi risultarono false, fabbricate dalla propaganda occulta inglese, e Piccioni venne coinvolto in un altro scandalo, quello famosissimo di Wilma Montesi, la ragazza trovata morta su una spiaggia di Tor Vaianica. Il figlio, Piero Piccioni, venne coinvolto in quello scandalo; e il padre, ministro degli esteri, sodale di De Gasperi e protettore di Enrico Mattei, venne travolto da quell’ondata di fango. Poi lo scandalo si rivelò infondato, perché le responsabilità del figlio di Piccioni non erano quelle che la campagna ispirata dalla macchina occulta britannica gli aveva attribuito, tant’è che Piero Piccioni qualche anno dopo fu prosciolto, risultò innocente.Questo è solo un esempio di come la Gran Bretagna è intervenuta pesantemente nelle nostre vicende interne, e adesso ho citato due episodi che sono collegati alla guerra specifica energetico-petrolifera. L’Iran di Mohammad Mosaddeq, primo ministro, aveva nazionalizzato il petrolio britannico. La Gran Bretagna reagì imponendo l’embargo, e l’Italia dell’Eni e di De Gasperi violò quell’embargo. Winston Churchill, allora premier britannico – nel libro ci sono dei documenti desecretati inglesi – ordinò ai suoi apparati di “dare una lezione” agli italiani, perché avevano osato violare l’embargo imposto dagli inglesi contro l’Iran. Sono emersi nuovi documenti sulla guerra scatenata dalla macchina della propaganda occulta contro Enrico Mattei. Attraverso la sua politica, Mattei emarginò progressivamente le compagnie che curavano gli interessi britannici, in aree che gli inglesi consideravano, per importanza – sto citando testualmente un documento – seconde soltanto alla Gran Bretagna stessa. Aree come la Libia, come l’Egitto, come l’Iran, come l’Iraq che per gli inglesi erano di vitale importanza. Mattei andò a ficcare il naso, con la sua politica, in queste zone, disturbando, anzi addirittura emarginando, nel corso degli anni, la presenza britannica.In questi documenti Mattei venne definito dagli inglesi – cito testualmente – «un pericolo mortale per gli interessi britannici nel mondo». E c’è un altro documento che fa venire la pelle d’oca. E’ del 1962. Gli inglesi dicono che Mattei «è una verruca, è un’escrescenza da rimuovere in ogni modo». Scrivono: «Abbiamo tentato di fermarlo in tutti i modi e non ci siamo riusciti: forse è giunto il momento di passare la pratica alla nostra intelligence». Sei mesi dopo, Enrico Mattei morì in un incidente aereo che oggi sappiamo con certezza, anche sul piano giudiziario, essere stato causato da un atto di sabotaggio. Aldo Moro? La vicenda Moro si colloca esattamente nello stesso contesto della vicenda di Enrico Mattei. Aldo Moro è stato l’erede della politica mediterranea di Mattei. Tra il 1969 e il 1975, Moro è stato l’ispiratore della politica estera italiana. Era ministro degli esteri in diversi governi, e riuscì a mettere a segno ulteriori colpi contro gli interessi inglesi. Certo, non è che gli italiani scherzassero, a loro volta. In Libia, nel 1969, con Moro ministro degli esteri, ci fu un colpo di Stato che rovesciò la monarchia filo-britannica e portò al potere il colonnello Muhammar Gheddafi, addestrato nelle accademie militari italiane. E’ vero che Gheddafi cacciò via gli italiani, ma subito dopo nazionalizzò il petrolio, che era controllato dalle compagnie britanniche, espulse dalla Libia le basi militari britanniche e iniziò un rapporto privilegiato con gli italiani, grazie al quale l’Italia conobbe un periodo di grande benessere economico.E poi, negli anni successivi, ci furono altri colpi messi a segno, come in Iraq, dove il regime nazionalista aveva espropriato, nazionalizzato il petrolio controllato dalle compagnie britanniche. E l’Eni era riuscita a penetrare anche lì, grazie ovviamente ai successori della politica energetica di Mattei, ma soprattutto grazie alla politica estera di Aldo Moro. Tra i documenti di “Colonia Italia“, ce n’è uno che veramente fa venire i brividi, riportato con tutti i suoi riferimenti archivistici, per cui chiunque voglia andare a controllare può farlo. Nel gennaio del 1969, il responsabile della macchina della propaganda occulta a Roma dice: «Attraverso la macchina della propaganda occulta non abbiamo ottenuto grandi risultati contro questa classe dirigente italiana». Quindi invita il suo governo: «Dobbiamo adottare altri metodi». Quali metodi? Questa parte del documento è oscurata ancora oggi. E’ ancora oggi coperta dal segreto. Io chiedo continuamente agli opinionisti, ai direttori dei giornali, alla stampa: ma perché non chiedete al governo britannico la desecretazione di quella parte del documento, in cui sono spiegati gli “altri metodi” da utilizzare contro l’Italia a partire dal 1969?Nel 1969 ci fu la strage di piazza Fontana e iniziò una stagione di sangue, lo stragismo, il terrorismo, che toccò il suo punto più alto con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. E anche qui c’è da dire qualcosa a proposito dell’intervento britannico. Nel 1976 – questo è provato, perché lo dicono gli stessi documenti inglesi desecretati e conservati nell’archivio di Stato di Kew Gardens, a disposizione di tutti – ci fu un tentativo di colpo di Stato organizzato o progettato dagli inglesi nei primi sei mesi del 1976 per bloccare la politica di Aldo Moro. Quel progetto venne sottoposto all’attenzione degli alleati francesi, tedeschi e americani. I francesi aderirono immediatamente, perché l’Italia era un concorrente temibile anche per i francesi, non solo per gli inglesi, mentre americani e tedeschi si mostrarono molto più scettici, e dissero agli inglesi: «Ma voi siete pazzi! Un colpo di Stato in Italia, a parte i contraccolpi negativi nell’opinione pubblica per l’alleanza atlantica, in Italia c’è una sinistra forte, c’è una organizzazione sindacale molto radicata, cioè ci sarebbe una reazione e quindi un bagno di sangue!»Gli inglesi allora misero da parte il progetto di un colpo di Stato vero e proprio, classico. Però c’è un altro documento, pubblicato nel libro. Scrivono: «Visto che non è possibile attuare un colpo di Stato militare classico, per l’opposizione di Germania e Stati Uniti, passiamo al piano-B». Qual era questo piano-B? Purtroppo, anche in questo caso, come nel documento che ho citato prima, c’è soltanto il titolo. E il titolo è agghiacciante. Testualmente: “Appoggio a una diversa azione sovversiva per bloccare Aldo Moro”. Quale poteva essere questa “azione sovversiva” naturalmente io non lo so, perché anche questa parte del documento è ancora oggi secretata, protetta dal segreto. A suo tempo venne oscurata persino agli americani e ai tedeschi. E anche in questo caso non mi trattengo dal chiedere agli opinionisti italiani, alla stampa italiana: siamo in un paese in cui rivendichiamo tutti i giorni verità e giustizia; beh, quando ci troviamo di fronte a documenti di questo tipo, ma che ci vuole a chiedere agli inglesi di desecretare anche questo documento per capire quale poteva essere la “diversa azione sovversiva” contro Moro?Magari non c’entra nulla con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, le cui responsabilità ovviamente ricadono sulle Brigate Rosse italiane. Magari, attraverso la desecretazione di quel documento, scopriamo che la diversa azione sovversiva con cui gli inglesi volevano bloccare Aldo Moro era soltanto una scampagnata della regina Elisabetta in Italia… Ci sono due documenti drammatici, che segnano due fasi drammatiche della nostra storia: piazza Fontana e l’assassinio di Aldo Moro. Entrambi questi documenti sono incompleti. Sono ancora oggi secretati. E visto che la Gran Bretagna è un paese nostro amico, addirittura nostro alleato, sarebbe utile per noi sapere se questo paese amico ha avuto un qualche ruolo, oppure no, nella strage di piazza Fontana e nell’assassinio di Aldo Moro. Allo stato delle nostre ricerche, ho ragione di ritenere che oggi il controllo britannico sul nostro paese sia ancora più forte di prima.(Giovanni Fasanella, dichiarazioni rilasciate a Claudio Messora il 12 novembre 2015 per la video-intervista “I documenti Uk che fanno gelare il sangue, da Enrico Mattei ad Aldo Moro”, pubblicata su “ByoBlu” per presentare il libro “Colonia Italia”, Chiarelettere – 483 pagine, euro 18,90 – che Fasanella ha scritto insieme a Mario José Cereghino. Il possibile ruolo occulto della Gran Bretagna nella “sovragestione” dell’Italia è tornato drammaticamente in primo piano nel febbraio 2016 con l’uccisione al Cairo del giovane Giulio Regeni, ingaggiato in Egitto da una Ong collegata all’università di Cambridge; secondo molte fonti indipendenti, tra cui l’ex inviato di “Panorama” Marco Gregoretti, il lavoro di Regeni sarebbe stato utilizzato dall’Mi6, il controspionaggio inglese. La stessa intelligence britannica, sempre secondo Gregoretti, avrebbe “sacrificato” Regeni, utilizzando killer egiziani, per creare un incidente diplomatico tra Italia ed Egitto in vista di un possibile intervento militare italiano in Libia. E Fulvio Grimaldi, ex giornalista Rai, segnala che l’Italia, tramite l’Eni, ha raggiunto un accordo strategico con l’Egitto per lo sfruttamento di un immenso giacimento di gas, nel Mediterraneo, in acque egiziane, fatto che ha sicuramente irritato e preoccupato gli inglesi).“Colonia Italia”. Giornali, radio e tv: così gli inglesi ci controllano. Le prove nei documenti top secret di Londra. Sono cose che dobbiamo sapere. Quando si pensa alle ingerenze dall’estero nei confronti del nostro paese si pensa sempre agli Stati Uniti d’America. Ma basta aprire una cartina geografica e vedere dov’è l’Inghilterra, un’isola del Nord Europa, e dove sono stati per molti decenni – a ancora oggi – i suoi interessi economici, strategici, militari. In Nord Africa, nel Medio Oriente e in Estremo Oriente. E cosa c’è tra la Gran Bretagna e i suoi interessi? C’è il Mediterraneo e, al centro del Mediterraneo, l’Italia. Quindi già dai tempi del Risorgimento, l’Italia per la Gran Bretagna era una postazione di fondamentale importanza, attraverso la quale poteva controllare i suoi domini e le sue rotte marittime. Poi l’Italia perde la Seconda Guerra Mondiale e, tra Gran Bretagna e Stati Uniti, c’è una visione molto conflittuale sul problema Italia: per gli Stati Uniti noi eravamo un paese cobelligerante, cioè che si era autoliberato dal nazifascismo combattendo al fianco degli alleati. Per la Gran Bretagna invece noi eravamo un paese sconfitto tout-court. Punto e basta. Quindi un paese soggetto ai vincoli, imposti attraverso trattati internazionali, dalle potenze vincitrici alle nazioni sconfitte.
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Folli sanzioni di guerra, imposte a Trump per farlo cadere
È uno scandalo senza precedenti. Il segretario generale della Casa Bianca, Reince Priebus, faceva parte della congiura intesa a destabilizzare il presidente Trump e preparare la sua rimozione. Ha alimentato le fughe di notizie quotidiane che perturbano la vita politica statunitense, tra cui la presunta collusione tra la squadra di Trump e il Cremlino. Nel farlo dimettere, il presidente Trump è entrato in conflitto con l’establishment del Partito Repubblicano, di cui Priebus è l’ex presidente. Osserviamo di passaggio che nessuna di queste soffiate in merito alle agende e ai contatti degli uni e degli altri ha apportato la benché minima prova delle accuse. La riorganizzazione della squadra di Trump che ne è seguita è avvenuta esclusivamente a spese di personalità repubblicane e a vantaggio di militari opposti alla tutela dello Stato profondo. L’alleanza che era stata conclusa facendo buon viso a cattivo gioco dal partito repubblicano con Donald Trump in occasione della convention di investitura, il 21 luglio 2016, è morta. Così ci si ritrova con l’equazione di partenza: da una parte il presidente outsider dell’«America profonda», dall’altro, l’intera classe dirigente di Washington sostenuta dallo Stato profondo (cioè dalla parte dell’amministrazione incaricata della continuità dello Stato al di là delle alternanze politiche). Ovviamente questa coalizione è sostenuta dal Regno Unito e da Israele.Quel che doveva arrivare alla fine è arrivato: i leader democratici e repubblicani si sono intesi nel contrastare la politica estera del presidente Trump e preservare i loro vantaggi imperiali. Per fare questo, hanno approvato al Congresso una legge di 70 pagine che introduce formalmente sanzioni contro la Corea del Nord, contro l’Iran e contro la Russia. Questo testo impone unilateralmente a tutti gli altri Stati del mondo di rispettare questi divieti commerciali. Queste sanzioni quindi valgono tanto per l’Unione Europea e la Cina quanto per gli Stati ufficialmente presi di mira. Solo cinque parlamentari si sono dissociati dalla coalizione e hanno votato contro questa legge: i deputati Justin Amash, Tom Massie e Jimmy Duncan e i senatori Rand Paul e Bernie Sanders. Le disposizioni di questa legge proibiscono grosso modo all’esecutivo di ammorbidire queste interdizioni commerciali sotto qualsiasi forma. Donald Trump è teoricamente legato mani e piedi. Certo, potrebbe opporre il suo veto, ma secondo la Costituzione, al Congresso basterebbe votare di nuovo il testo negli stessi termini per poterlo imporre al presidente. Costui quindi lo promulgherà senza imporsi l’affronto di doversi mettere al passo del Congresso. Nei prossimi giorni inizierà una guerra senza precedenti.I partiti politici Usa intendono cancellare la “dottrina Trump”, secondo cui gli Stati Uniti devono svilupparsi più velocemente degli altri per mantenere la leadership mondiale. Intendono invece ripristinare la “Dottrina Wolfowitz” del 1992, secondo la quale Washington deve conservare il proprio vantaggio sul resto del mondo rallentando lo sviluppo di qualsiasi potenziale concorrente. Paul Wolfowitz è un trotskista messosi al servizio del presidente repubblicano Bush per lottare contro la Russia. Divenne dapprima vicesegretario della difesa, dieci anni più tardi, sotto il figlio di Bush, poi presidente della Banca Mondiale. L’anno scorso ha dato il suo sostegno alla democratica Hillary Clinton. Nel 1992 scrisse che il concorrente più pericoloso degli Stati Uniti era l’Unione Europea e che Washington doveva distruggerla politicamente, cioè economicamente. La legge rimette in questione tutto ciò che Donald Trump ha fatto nel corso degli ultimi sei mesi, compresa la lotta contro i Fratelli Musulmani e le loro organizzazioni jihadiste, la preparazione dell’indipendenza del Donbass (Malorossiya), e il ripristino della Via della Seta.Come prima ritorsione, la Russia ha chiesto a Washington di ridurre il personale della sua ambasciata a Mosca al livello della propria ambasciata a Washington, ossia 455 persone, espellendo 755 diplomatici. Secondo le nostre informazioni, ci sarebbe una pletora di diplomatici statunitensi in Russia, tra 1.100 e 1.500. In questo modo, Mosca intende ricordare che se anche avesse interferito nella politica americana, questo non avrebbe misure paragonabili con l’importanza dell’ingerenza degli Stati Uniti nella propria vita politica. A questo proposito, è stato appena il 27 febbraio scorso che il ministro della Difesa, Sergei Shoigu, annunciava alla Duma che le forze armate russe sono ora in grado anch’esse di organizzare “rivoluzioni colorate”, con 28 anni di ritardo sugli Stati Uniti. Gli europei si rendono conto con stupore che i loro amici di Washington (i democratici Obama e Clinton, i repubblicani McCain e McConnell) hanno appena stoppato ogni speranza di crescita nell’Unione. Lo shock è certamente pesante, ma ancora non hanno ammesso che il presunto “imprevedibile” Donald Trump è in realtà il loro migliore alleato. Completamente storditi da questo voto, sopraggiunto durante le loro vacanze estive, gli europei si sono messi in stand-by.Salvo reazione immediata, le aziende che hanno investito nella soluzione adottata dalla Commissione europea per l’approvvigionamento energetico dell’Ue sono rovinate. Wintershall, E.On Ruhrgas, N.V. Nederlandse Gasunie, e Engie (ex Gdf Suez) si sono impegnate a raddoppiare il gasdotto North Stream, ora vietato dal Congresso. Perdono non solo il diritto di competere in gare d’appalto Usa, ma perfino tutti i loro beni negli Stati Uniti. È loro negato l’accesso alle banche internazionali e non possono continuare le loro attività al di fuori dell’Unione. Per il momento, solo il governo tedesco ha espresso il suo sgomento. Non si sa se riuscirà a convincere i suoi partner europei e a organizzare l’Unione contro la signoria Usa che la sovrasta. Mai una tale crisi si è verificata, e quindi non v’è alcun elemento di riferimento precedente che consenta di anticipare il seguito degli avvenimenti. È probabile che alcuni Stati membri dell’Unione difenderanno gli interessi degli Stati Uniti, così come sono concepiti dal Congresso, contro i loro partner europei.Gli Stati Uniti, come ogni Stato, possono vietare alle loro aziende di commerciare con l’estero e alle società straniere di commerciare con loro. Ma, secondo la Carta delle Nazioni Unite, non possono imporre le proprie scelte in materia ai loro alleati e partner. Eppure questo è ciò che hanno fatto a partire dalle loro sanzioni contro Cuba. A quel tempo, sotto la guida di Fidel Castro – che non era un comunista – il governo rivoluzionario cubano aveva lanciato una riforma agraria alla quale Washington intendeva opporsi. I membri della Nato, che nulla avevano a che fare con questa piccola isola dei Caraibi, ne seguirono l’esempio. A poco a poco, l’Occidente, sempre più pieno di sé, ha considerato cosa normale affamare gli Stati che osavano resistere al suo potente signore. Ecco quindi che – per la prima volta – l’Unione Europea è direttamente toccata da quel sistema che essa stessa ha contribuito a mettere in campo. Più che mai, il conflitto Trump/Establishment prende una forma culturale. Esso oppone i discendenti di immigrati alla ricerca del “sogno americano” a quelli dei puritani del Mayflower. Da qui, per esempio, la denuncia da parte della stampa internazionale del linguaggio volgare del nuovo responsabile della comunicazione della Casa Bianca, Anthony Scaramucci.Fin qui Hollywood si era perfettamente accomodata alle maniere degli uomini d’affari di New York, ma improvvisamente questo linguaggio da carrettieri è presentato come incompatibile con l’esercizio del potere. Solo il presidente Richard Nixon si esprimeva così. Fu costretto a dimettersi da parte dell’Fbi che ha organizzato lo scandalo del Watergate contro di lui. Eppure, tutti sono d’accordo nel riconoscere che è stato un grande presidente, ponendo fine alla guerra del Vietnam e riequilibrando le relazioni internazionali con la Cina Popolare contro l’Unione Sovietica. È sorprendente vedere la stampa della vecchia Europa riprendere l’argomento puritano, religioso, contro il vocabolario di Scaramucci per giudicare la competenza politica della squadra di Trump, e il presidente Trump stesso licenziarlo appena nominato. Dietro quella che può sembrare solo una lotta fra clan, si gioca il futuro del mondo. O rapporti conflittuali e di dominio, o di cooperazione e sviluppo.(Thierry Meyssan, “L’establishment Usa contro il resto del mondo”, da “Megachip” del 31 luglio 2017).È uno scandalo senza precedenti. Il segretario generale della Casa Bianca, Reince Priebus, faceva parte della congiura intesa a destabilizzare il presidente Trump e preparare la sua rimozione. Ha alimentato le fughe di notizie quotidiane che perturbano la vita politica statunitense, tra cui la presunta collusione tra la squadra di Trump e il Cremlino. Nel farlo dimettere, il presidente Trump è entrato in conflitto con l’establishment del Partito Repubblicano, di cui Priebus è l’ex presidente. Osserviamo di passaggio che nessuna di queste soffiate in merito alle agende e ai contatti degli uni e degli altri ha apportato la benché minima prova delle accuse. La riorganizzazione della squadra di Trump che ne è seguita è avvenuta esclusivamente a spese di personalità repubblicane e a vantaggio di militari opposti alla tutela dello Stato profondo. L’alleanza che era stata conclusa facendo buon viso a cattivo gioco dal partito repubblicano con Donald Trump in occasione della convention di investitura, il 21 luglio 2016, è morta. Così ci si ritrova con l’equazione di partenza: da una parte il presidente outsider dell’«America profonda», dall’altro, l’intera classe dirigente di Washington sostenuta dallo Stato profondo (cioè dalla parte dell’amministrazione incaricata della continuità dello Stato al di là delle alternanze politiche). Ovviamente questa coalizione è sostenuta dal Regno Unito e da Israele.
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Per l’Occidente, i criminali sono sempre e soltanto gli altri
Secondo Furio Colombo, in un articolo pubblicato dal “Fatto Quotidiano” dell’8 maggio e intitolato “La follia come politica del mondo”, i leader dei paesi che non rientrano nel circolo buono delle democrazie occidentali propriamente dette, sono dei pazzi o quantomeno dei pericolosi psicolabili. Al primo posto sta, per antonomasia, “a prescindere”, di diritto, il dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un. Al secondo Nicolás Maduro, il presidente del Venezuela, al terzo e al quarto, a scelta, leggermente distaccati, Putin ed Erdogan. Sarò più pazzo di lui, ma Kim Jong-un a me non sembra affatto pazzo. È l’unico a essere rimasto, col suo paese, nel famigerato “Asse del Male”. Saddam Hussein, che abbiamo a lungo utilizzato in funzione anti-iraniana e anti-curda, lo abbiamo fatto fuori quando non ci serviva più; al contrario, l’Iran degli ayatollah è uscito dall’ “Asse” perché, dopo averlo osteggiato per più di trent’anni con uno spietato embargo economico, e militarmente (aiuti a Saddam quando l’Iran stava per vincere una guerra in cui era l’aggredito e non l’aggressore) ora è tornato utile e ci serve nella guerra all’Isis. E stare nell’“Asse del Male” non è proprio tranquillizzante per chi vi è inserito. La Corea del Nord è l’ultimo paese comunista rimasto al mondo. È criminale, oltre che folle, essere comunisti?Per decenni, almeno fino al collasso dell’Urss, pregiati e stimati leader politici occidentali, italiani, francesi, tedeschi, appartenenti all’area della sinistra europea sono stati comunisti – alcuni ancora lo sono – senza che li si considerasse né criminali né folli. La Corea del Nord è circondata da paesi ostili, alcuni nucleari; e anche quelli che nucleari non sono, come la Corea del Sud, è come se lo fossero, perché sono di fatto un protettorato della più grande potenza atomica del mondo. È così strano, così criminale, così folle che la Corea del Nord voglia farsi un armamento nucleare peraltro minimo e ridicolmente inefficiente, come deterrente per non essere spazzata dalla faccia della terra dal primo che abbia la voglia di farlo? Il venezuelano Maduro, eletto democraticamente, è quotidianamente sotto il fuoco incrociato delle democrazie occidentali; non, come si afferma, per i suoi eccessi nella repressione degli oppositori (altri paesi nostri alleati fanno ben di peggio) ma perché è erede dello chavismo che è stato il tentativo, per qualche tempo riuscito, di sottrarre i paesi del Sud America, più efficacemente di quanto non avesse fatto Fidel, al soffocante abbraccio dell’“amico americano”.Putin è un autocrate criminale, responsabile insieme a Eltsin e al molto venerato Gorbačëv del genocidio ceceno; fa sparire in un modo o nell’altro i suoi oppositori, ma non è affatto un folle. La sua politica di appeasement con i Talebani afghani, che l’Isis lo combattono, lo dimostra. Perché se l’Isis sfonda in Afghanistan poi può dilagare in Turkmenistan, Tagikistan, e altri paesi con forti componenti musulmane che potrebbero diventare un serio pericolo per Mosca. Erdogan è effettivamente il peggiore di tutti. Come scrive Colombo, «il numero delle persone arrestate e tuttora detenute è troppo alto per essere compatibile con una pur crudele normalità». Peccato che Erdogan sia un nostro alleato e membro della Nato. Fra gli “imperatori folli” Colombo non inserisce, pudicamente, il generale Abd al-Fattāḥ al-Sīsī, che per giunta – e a differenza di Erdogan – non è stato democraticamente eletto, ma è autore di un colpo di Stato in cui ha messo in galera tutti i dirigenti dei Fratelli Musulmani vincitori delle prime elezioni libere in Egitto, ne ha ammazzati per ora circa 2.500 e ne ha fatti sparire 4.000 di cui ci siamo accorti solo quando è stato ritrovato il cadavere del ricercatore dilettante Giulio Regeni (diciamolo: non si va nell’Egitto di al-Sīsī a fare un’inchiesta sui “sindacati indipendenti”). Ma l’Egitto è da moltissimi anni un alleato degli americani che lo foraggiano e lo armano, e tanto più lo è ora al-Sīsī che l’imprudente Matteo Renzi, con la sua solita impudente leggerezza si è spinto a definire «un grande statista».I leader delle democrazie occidentali non sono folli. Si chiamino Bush padre, Bush figlio, Clinton, Obama, Hollande, Sarkozy, si presentano bene, ingiacchettati e incravattati. Sanno stare in società. Hanno modi gentili. Sono affidabili. Però da vent’anni a questa parte, perlomeno dall’attacco alla Serbia del 1999, si sono resi responsabili di cinque guerre di aggressione (Afghanistan, Iraq, Somalia e Libia più l’intromissione, con i russi e i turchi, nella guerra civile siriana) che hanno causato, direttamente o indirettamente, più di un milione di morti civili e altri ne continuano a causare, insieme a migrazioni bibliche. Non sono folli. Sono semplicemente dei criminali, o se si preferisce, dei terroristi di Stato. È la solita storia. Noi siamo il Bene per definizione; gli altri, di conseguenza, il Male. I nostri sono eserciti regolari, quelli degli altri sono “orde”. I nostri nemici non appartengono mai alla categoria dello iustus hostis, ma sono sempre dei terroristi. Quando li facciamo prigionieri non gli riconosciamo lo status di “prigionieri di guerra” e li trattiamo come criminali (vedi Guantánamo e Abu Ghraib). Forse dovremmo smetterla con questo doppiopesismo ipocrita e un tantino ripugnante. A mio avviso il vero folle è chi considera tutti gli altri “folli”.(Massimo Fini, “Per l’Occidente i criminali sono sempre gli altri”, dal “Fatto Quotidiano” del 15 maggio 2017).Secondo Furio Colombo, in un articolo pubblicato dal “Fatto Quotidiano” dell’8 maggio e intitolato “La follia come politica del mondo”, i leader dei paesi che non rientrano nel circolo buono delle democrazie occidentali propriamente dette, sono dei pazzi o quantomeno dei pericolosi psicolabili. Al primo posto sta, per antonomasia, “a prescindere”, di diritto, il dittatore della Corea del Nord Kim Jong-un. Al secondo Nicolás Maduro, il presidente del Venezuela, al terzo e al quarto, a scelta, leggermente distaccati, Putin ed Erdogan. Sarò più pazzo di lui, ma Kim Jong-un a me non sembra affatto pazzo. È l’unico a essere rimasto, col suo paese, nel famigerato “Asse del Male”. Saddam Hussein, che abbiamo a lungo utilizzato in funzione anti-iraniana e anti-curda, lo abbiamo fatto fuori quando non ci serviva più; al contrario, l’Iran degli ayatollah è uscito dall’ “Asse” perché, dopo averlo osteggiato per più di trent’anni con uno spietato embargo economico, e militarmente (aiuti a Saddam quando l’Iran stava per vincere una guerra in cui era l’aggredito e non l’aggressore) ora è tornato utile e ci serve nella guerra all’Isis. E stare nell’“Asse del Male” non è proprio tranquillizzante per chi vi è inserito. La Corea del Nord è l’ultimo paese comunista rimasto al mondo. È criminale, oltre che folle, essere comunisti?
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Proteste e bombe: Putin va abbattuto, con ogni mezzo
Se il regno di Nicola II era senescente, fragile e malvoluto, quello di Putin appare oggi ancora vitale e ricco di consensi. Zar Vladimir incomincia, però, a pagare il prezzo delle proprie ambizioni. Aver arrestato lo scivolamento dell’Ucraina verso Nato e Unione Europea, aver rimesso piede in un Medio Oriente dove l’influenza degli Usa di Obama era al lumicino, aver gettato le basi per la rinascita della potenza russa e aver ipotizzato un’intesa con Donald Trump ha sicuramente un costo. In quest’ottica il sangue di Pietroburgo e le dimostrazioni di Mosca sono i corrispettivi, da una parte, dell’intervento in Siria e dall’altra della battaglia mediatico-propagandistica condotta per inchiodare Putin allo stereotipo di leader autoritario e antidemocratico. Un leader pericoloso per l’ordine mondiale, per la stabilità del suo paese e persino per quella di un’America dove retroguardie obamiane, intelligence e grande stampa lo dipingono come il burattinaio di Donald Trump. Immaginare un grande complotto anti-russo capace di riunire gruppi jihadisti, potenze wahabite, vecchia intelligence obamiana e multinazionali globalizzate sarebbe una follia. Esiste però un’evidente e manifesta politica di potenza del Cremlino. Una politica di potenza sviluppata all’indomani della vittoria di Putin alle presidenziali del 2012. Una politica che fa della Russia il principale ostacolo alle ambizioni di entità diverse ed eterogenee.Prendiamo gli Stati Uniti del dopo Obama. Qui la grande macchina d’intelligence e media si muove ancora lungo le linee guida definite negli ultimi due quadrienni presidenziali. In quelle “linee guida” vanno contestualizzate le dimostrazioni “anticorruzione” di Mosca guidate da Alexander Navalny. Quelle dimostrazioni sono, probabilmente, la punta d’iceberg degli investimenti messi in campo dalla passata amministrazione per rinverdire il mito delle “rivoluzioni colorate” utilizzate a suo tempo per allentare il controllo russo sulle periferie dell’ex impero sovietico. Non a caso l’oppositore Navalny è stato per anni il referente del “National Endowment for Democracy”, l’organizzazione finanziata dal Congresso Usa accusata di aver progettato sia le “rivoluzioni colorate” sia la “rivolta anti-russa” in Ucraina. Accuse costate all’organizzazione la messa al bando dalla Russia fin dal luglio 2015. L’intervento in Siria, di cui le bombe di Pietroburgo sembrano il riflesso, non va visto semplicemente nel contesto della guerra al terrorismo condotta da Putin in Siria, ma in quello ben più ampio dello scontro con Turchia, Qatar e Arabia Saudita per il controllo del Medio Oriente.Nel momento in cui Mosca si garantisce Damasco, tessera fondamentale del grande risiko, i jihadisti russi, forze d’elite della legione straniera islamista, vengono rimandati a casa per colpire Pietroburgo, ovvero la città natale del nemico Putin. Ma se Pietroburgo e Mosca sono in questo inizio 2017 i contraccolpi più evidenti della guerra condotta in Siria e sull’instabile linea di faglia tra zone d’influenza russe e americane, ancor più preoccupanti rischiano d’essere i contraccolpi delle battaglie condotte sul fronte economico. Su quel fronte zar Putin non ha soltanto disinnescato l’arma del prezzo del petrolio, usata per ridimensionare la potenza russa, ma si è addirittura imposto, come mediatore tra Iran e sauditi, garantendo l’accordo per il rialzo dei prezzi del greggio. E sul fronte asiatico, dove aveva già moltiplicato gli scambi con Pechino, è persino riuscito a metter la sordina al conflitto sulle isole Kurili siglando accordi per due miliardi e mezzo di dollari con un Giappone rimasto per oltre 70 anni partner ed alleato esclusivo degli Stati Uniti. Colpe venute al pettine in questo 2017, dove sono in molti a sognare l’arrivo di un vagone piombato con un novello Lenin pronto a far cadere lo sfrontato zar.(Gian Micalessin, “Le colpe dello zar? Non aver fallito un colpo. E in tanti sognano un Lenin che lo spodesti”, da “Il Giornale” del 4 aprile 2017).Se il regno di Nicola II era senescente, fragile e malvoluto, quello di Putin appare oggi ancora vitale e ricco di consensi. Zar Vladimir incomincia, però, a pagare il prezzo delle proprie ambizioni. Aver arrestato lo scivolamento dell’Ucraina verso Nato e Unione Europea, aver rimesso piede in un Medio Oriente dove l’influenza degli Usa di Obama era al lumicino, aver gettato le basi per la rinascita della potenza russa e aver ipotizzato un’intesa con Donald Trump ha sicuramente un costo. In quest’ottica il sangue di Pietroburgo e le dimostrazioni di Mosca sono i corrispettivi, da una parte, dell’intervento in Siria e dall’altra della battaglia mediatico-propagandistica condotta per inchiodare Putin allo stereotipo di leader autoritario e antidemocratico. Un leader pericoloso per l’ordine mondiale, per la stabilità del suo paese e persino per quella di un’America dove retroguardie obamiane, intelligence e grande stampa lo dipingono come il burattinaio di Donald Trump. Immaginare un grande complotto anti-russo capace di riunire gruppi jihadisti, potenze wahabite, vecchia intelligence obamiana e multinazionali globalizzate sarebbe una follia. Esiste però un’evidente e manifesta politica di potenza del Cremlino. Una politica di potenza sviluppata all’indomani della vittoria di Putin alle presidenziali del 2012. Una politica che fa della Russia il principale ostacolo alle ambizioni di entità diverse ed eterogenee.
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Levin: gli Usa hanno interferito nelle elezioni in 45 paesi
Mentre infuriano le polemiche per le (del tutto presunte) interferenze russe nelle elezioni presidenziali americane, “Vocativ” commenta una recente ricerca in cui si contano almeno 81 casi di interventi americani in 45 paesi, dal dopoguerra ad oggi, volti a condizionare l’esito delle elezioni politiche. E questo, senza contare i colpi di Stato militari promossi e organizzati dalla Casa Bianca. Scrive “Voci dall’Estero”: «Il motivo per cui – fingiamo pure che il fatto sussista – un certo establishment americano sta gridando allo scandalo e rialzando una cortina di ferro, non è altro che quello che lo stesso establishment americano ha sempre fatto verso il resto del mondo». Lo conferma un recentissimo studio, che mostra che l’America ha una lunga storia di ingerenze nelle elezioni in paesi stranieri, sintetizza Shane Dixon Kavanaugh su “Vocative”, prendendo spunto dalla clamorosa propaganda di Obama contro la Russia: 35 diplomatici espulsi e la richiesta di nuove sanzioni, in risposta a ciò che gli Usa ritengono essere una serie di cyber-attacchi condotti da Mosca durante la campagna presidenziale. Peccato che questa specialità – il pilotaggio delle elezioni altrui – sia un talento squisitamente statunitense.Per la Cia, il Cremlino avrebbe tentato di aiutare Donald Trump a conquistare la presidenza? «Eppure, nessuno dei due paesi può dirsi estraneo a tentativi di ingerenza nelle elezioni di altri paesi». Gli Stati Uniti, per di più, vantano record ineguagliati in questo campo: «Hanno una storia lunga e impressionante di tentativi di influenzare le elezioni presidenziali in altri paesi», scrive Shane Dixon Kavanaugh, in un post ripreso da “Voci dall’Estero” in cui si documentano i risultati del recente studio condotto da Dov Levin, ricercatore in scienze politiche dell’Università Carnegie-Mellon di Pittsburgh, Pennsylvania. E’ un fatto: gli Usa hanno «cercato di influenzare le elezioni in altri paesi per ben 81 volte tra il 1946 e il 2000». Spesso lo hanno fatto «agendo sotto copertura», con tentativi che «includono di tutto: da agenti operativi della Cia che hanno portato a termine con successo campagne presidenziali nelle Filippine negli anni ’50, al rilascio di informazioni riservate per danneggiare i marxisti sandinisti e capovolgere le elezioni in Nicaragua nel 1990». Facendo la somma, calcola Levin, gli Usa avrebbero condizionato le elezioni in non meno di 45 paesi in tutto il mondo, durante il periodo considerato. E nel caso di alcuni paesi, come l’Italia e il Giappone, gli Stati Uniti hanno cercato di intervenire «in almeno quattro distinte elezioni».I dati di Levin, aggiunge Shane Dixon Kavanaugh, non includono i golpe militari o i rovesciamenti di regime che hanno seguito l’elezione di candidati contrari agli Stati Uniti, come ad esempio quando la Cia ha contribuito a rovesciare Mohammad Mosaddeq, il primo ministro democraticamente eletto in Iran nel 1953. Il ricercatore definisce l’interferenza elettorale come «un atto che comporta un certo costo ed è volto a stabilire il risultato delle elezioni a favore di una delle due parti». Secondo la sua ricerca, questo includerebbe: diffondere informazioni fuorvianti o propaganda, creare materiale utile alla campagna del partito o del candidato favorito, fornire o ritirare aiuti esteri e fare annunci pubblici per minacciare o favorire un certo candidato. «Spesso questo prevede dei finanziamenti segreti da parte degli Usa, come è avvenuto in alcune elezioni in Giappone, Libano, Italia e altri paesi».Per costruire il suo database, Levin si è basato su documenti declassificati della stessa intelligence americana, come anche su una quantità di report del Congresso sull’attività della Cia. Ha poi esaminato ciò che considera resoconti affidabili della Cia e delle attività americane sotto copertura, nonché ricerche accademiche sull’intelligence statunitense, resoconti di diplomatici della guerra fredda e di ex funzionari sempre della Cia. «Gran parte delle ingerenze americane nei processi elettorali di altri paesi sono ben documentate, come quelle in Cile negli anni ’60 o ad Haiti negli anni ’90», senza contare il caso di Malta nel 1971: secondo lo studio di Levin, gli Usa avrebbero cercato di condizionare la piccola isola mediterranea strozzandone l’economia nei mesi precedenti all’elezione di quell’anno. «I risultati della ricerca suggeriscono che molte delle interferenze elettorali americane sarebbero avvenute durante gli anni della guerra fredda, in risposta all’influenza sovietica che andava espandendosi in altri paesi», sottolinea Shane Dixon Kavanaugh.«Per essere chiari, gli Usa non sarebbero stati gli unici a cercare di determinare le elezioni all’estero. Secondo quanto riportato da Levin lo avrebbe fatto anche la Russia per 36 volte dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla fine del ventesimo secolo. Il numero totale degli interventi da parte di entrambi i paesi sarebbe stato dunque, in quel periodo, pari a 117». Eppure, anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica, avvenuto nel 1991, nonostante venisse a mancare l’alibi della guerra fredda, il grande nemico a Est, gli Stati Uniti «hanno continuato i propri interventi all’estero, prendendo di mira elezioni in Israele, nella ex Cecoslovacchia e nella stessa Russia nel 1996». In altre parole: se la Russia di Putin ha archiviato le attività “imperiali” dell’Urss, l’America ha invece raddoppiato la posta: secondo Levin, dal 2000 a oggi gli Usa hanno pesantemente interferito con le elezioni in Ucraina, Kenya, Libano e Afghanistan, per citarne solo alcuni dei paesi sottoposti alle “attenzioni elettorali” di Washington.Mentre infuriano le polemiche per le (del tutto presunte) interferenze russe nelle elezioni presidenziali americane, “Vocativ” commenta una recente ricerca in cui si contano almeno 81 casi di interventi americani in 45 paesi, dal dopoguerra ad oggi, volti a condizionare l’esito delle elezioni politiche. E questo, senza contare i colpi di Stato militari promossi e organizzati dalla Casa Bianca. Scrive “Voci dall’Estero”: «Il motivo per cui – fingiamo pure che il fatto sussista – un certo establishment americano sta gridando allo scandalo e rialzando una cortina di ferro, non è altro che quello che lo stesso establishment americano ha sempre fatto verso il resto del mondo». Lo conferma un recentissimo studio, che mostra che l’America ha una lunga storia di ingerenze nelle elezioni in paesi stranieri, sintetizza Shane Dixon Kavanaugh su “Vocative”, prendendo spunto dalla clamorosa propaganda di Obama contro la Russia: 35 diplomatici espulsi e la richiesta di nuove sanzioni, in risposta a ciò che gli Usa ritengono essere una serie di cyber-attacchi condotti da Mosca durante la campagna presidenziale. Peccato che questa specialità – il pilotaggio delle elezioni altrui – sia un talento squisitamente statunitense.
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Fidel, 90 anni di resistenza contro i golpe Usa nel mondo
Nella sua Cuba a 90 anni è morto Fidel Castro, l’ultimo comunista. Un uomo simbolo della resistenza antimperialista statunitense, l’unico a non essere riuscito a far invadere culturalmente ed economicamente il proprio paese. Per far ciò ha dovuto instaurare un regime che di certo non è stato un esempio di libertà e democrazia. La pressione esterna era immensa e rafforzare il più possibile le mura del fortino cubano per Fidel Castro è stata l’unica possibilità. La storia non raccontata o mal celata degli organi d’informazione occidentali, evidenzia che la rivoluzione cubana del 1959 portò al rovesciamento di Fulgencio Batista che garantiva immensi introiti alle multinazionali statunitensi che controllavano l’intera economia dell’isola. Allen Dulles, direttore della Cia dal 1953 al 1961, aveva come fine primario quello di eliminare Castro. Dulles era un esperto in rovesciamento di presidenti, fu lui, prima di essere costretto da John Kennedy a lasciare, a svolgere un ruolo determinante a destituire Mossadeq in Iran, Guzman in Guatemala e Lumumba in Congo.Fu sempre lui, insieme ai vertici militari e ai capi di stato maggiore, a fomentare l’ossessione anticomunista usata come pretesto per alimentare l’industria bellica. Questo clima di caccia alle streghe convinse il neo eletto presidente degli Usa Kennedy ad acconsentire controvoglia, al piano d’aggressione alla vicina isola cubana. La colpa di Castro oltre a quella di essere comunista, era stata di aver sequestrato terreni a multinazionali Usa come la United Fruit che quell’aprile contribuì al tentativo di invadere Cuba prestando proprie imbarcazioni. La tesi del direttore Dulles era che durante lo sbarco realizzato da esuli cubani e agenti della Cia, dopo aver bombardato l’aviazione cubana, gli abitanti dell’isola si sarebbero uniti nel cacciare Castro. Ma ciò non avvenne. I cubani restarono fedeli a Casto. A quel punto Dulles e i comandi militari tentarono in tutti i modi di convincere Kennedy d’intraprendere un’azione diretta dell’esercito Usa, ma il presidente si rifiutò. L’invasione della Baia dei Porci fu un totale fallimento e gli agenti della Cia, in tre giorni furono sconfitti.La frattura tra Cia, generali dell’esercito e Kennedy fu profonda. Una rottura che divenne abissale poco dopo, durante la crisi dei missili sovietici portati a Cuba, che spinsero il mondo vicino alla catastrofe nucleare. John e suo fratello Robert addirittura temettero che in quei terribili momenti dove la guerra fredda raggiunse l’apice, i militari stessero per effettuare un colpo di Stato. Kennedy non era quel simpatizzante cubano come alcuni storici l’hanno descritto. Fu proprio lui nel 1961 diede il via all’operazione Mangusta diretta dalla Cia che durò fino al 1975. Nei primi quattordici mesi furono attuate ben 5.780 azioni terroristiche e 716 atti di sabotaggio miranti a danneggiare l’economia cubana. Dopo la crisi dei missili a Cuba del 1961 Kennedy cambiò atteggiamento; la rottura con la Cia fu totale e licenziò il potente presidente Dulles, un uomo che aveva legami economici con la United Fruit. Robert Kennedy, dopo l’attentato mortale del fratello del 22 novembre del 1963, la prima cosa che fece fu di andare alla sede della Cia a Langley in Virginia e chiedere se fossero loro i responsabili.Il merito di Castro è quello di essere riuscito a frenare l’avanzata statunitense che negli anni ’80 con le aggressioni nel Centro America ha destituito Paesi, appoggiando feroci dittature militari come fatto in Cile, Bolivia, El Salvador, Nicaragua, Colombia, Guatemala, Honduras e Panama. L’affronto agli Stati Uniti la popolazione di Cuba l’ha pagato con un embargo durissimo che è durato cinquant’anni. Una crudeltà che gli Usa hanno imposto a tutti i paesi non allineati come l’Iraq di Saddam. Nonostante l’apartheid globale che ha dovuto subire, il paese, anche se con difficoltà, è andato avanti e, attraverso delle politiche sociali, sanità e istruzione hanno raggiunto alti livelli. Fidel Castro muore nel tempo dominato dal pensiero unico neoliberista. I regimi comunisti esistenti sono anch’essi avvinti al dogma mercantile. Castro muore avendo vinto la sua battaglia, ma la guerra contro il capitalismo è persa. Almeno per ora.(Gianluca Ferrara, “Fidel Castro, morto l’uomo che sconfisse gli Usa”, dal blog di Ferrara sul “Fatto Quotidiano” del 26 novembre 2016).Nella sua Cuba a 90 anni è morto Fidel Castro, l’ultimo comunista. Un uomo simbolo della resistenza antimperialista statunitense, l’unico a non essere riuscito a far invadere culturalmente ed economicamente il proprio paese. Per far ciò ha dovuto instaurare un regime che di certo non è stato un esempio di libertà e democrazia. La pressione esterna era immensa e rafforzare il più possibile le mura del fortino cubano per Fidel Castro è stata l’unica possibilità. La storia non raccontata o mal celata degli organi d’informazione occidentali, evidenzia che la rivoluzione cubana del 1959 portò al rovesciamento di Fulgencio Batista che garantiva immensi introiti alle multinazionali statunitensi che controllavano l’intera economia dell’isola. Allen Dulles, direttore della Cia dal 1953 al 1961, aveva come fine primario quello di eliminare Castro. Dulles era un esperto in rovesciamento di presidenti, fu lui, prima di essere costretto da John Kennedy a lasciare, a svolgere un ruolo determinante a destituire Mossadeq in Iran, Guzman in Guatemala e Lumumba in Congo.