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Sos, rischiamo un’estinzione di massa: la sesta, sulla Terra
Si avvicina il rischio di un’estinzione di massa, la sesta nella storia della Terra. Lo affermano Daniele Conversi e Luis Moreno, commentando una recentissima ricerca statunitense: secondo la prestigiosa Pnas, “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, per la sesta volta, saremmo nell’imminenza di un evento chiamato “biological annihilation”, annientamento biologico. Miliardi di animali sono stati eliminati negli ultimi decenni, conseguenza diretta e indiretta dell’attività umana. Come se non bastassero gli allarmi che ci giungono da tutti i fronti, le ricerche confermano un’unica tendenza: l’impatto del consumo di massa promosso dal neoliberismo imperante sta alterando la superficie terrestre in maniera irreversibile, fino a cambiare lo stesso suolo su cui poggiamo i piedi. Nel corso dell’ultimo secolo, con l’uso generalizzato dell’automobile, ci si è adagiati sullo sfruttamento dei combustibili fossili attraverso un aumento massiccio dei consumi, promuovendo inoltre una divisione internazionale del lavoro tra regioni destinate all’estrazione e altre destinate all’industrializzazione. Tutto questo, dicono i ricercatori, sta semplicemente portando al collasso l’ecosistema terrestre.Resa popolare dal Nobel per la chimica Paul Crutzen per designare un nuovo periodo geologico separato dall’Olocene (l’ultimo periodo geologico dell’era Quaternaria), la nozione di Antropocene ci richiama all’impatto determinante, permanente e irreversibile del comportamento umano sulla superficie terrestre. Nel suo libro tradotto in italiano come “Benvenuti nell’Antropocene”, Crutzen argomenta che le prove per stabilire l’inizio del nuovo periodo sono già visibili sia nelle rocce (in forma di isotopi nucleari, sedimenti, scorie, particelle di alluminio, cemento, plastica e carbone), sia negli oceani e nelle zone costiere, con l’innalzamento del livello del mare conseguente allo scioglimento dei ghiacci. L’aumento rapido dei gas serra è probabilmente segna l’inizio della nuova era, che si può collocare all’incirca verso la metà del 20º secolo. Negli ultimi decenni, aggiungono Conversi e Moreno in un’analisi su “Micromega”, la crescita abnorme dei consumi di gran parte della popolazione terrestre ha prodotto gravi effetti sul nostro pianeta, con conseguenze potenzialmente catastrofiche per il futuro di tutte le specie viventi.Purtroppo però questa massa di studi fatica a trovare spazio sui grandi media, spesso «ostacolata e contraddetta dalla visibilità istrionica di pseudo-scienziati portavoce, riconosciuti o meno, delle lobbies petrolifere e dei combustibili fossili». Data l’assenza di vere informazioni, «non c’è da sorprendersi che il pubblico sia più orientato a crucciarsi per i prezzi di consumo dell’energia elettrica piuttosto che a chiedersi come ridurre le emissioni». Come ridurre il climate change? Nebbia fitta. «Raggiungendo livelli sempre più alti, l’aumento costante dei gas serra, accoppiato alla diffusione della fratturazione idraulica (fracking), è in grado di produrre un impatto incontrollabile, minacciando la continuità stessa della vita sulla Terra». L’attuale modello iper-consumistico «è stato responsabile non solo di un aumento senza precedenti delle emissioni di CO2, ma anche di un processo a senso unico di omogeneizzazione culturale, a seguito del quale mai prima d’ora così tante persone hanno assunto abitudini di consumo originariamente proprie delle vecchie élites occidentali». Processi che «hanno contribuito ad aumentare i livelli di povertà e di emarginazione sociale, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo».Secondo un noto rapporto di Oxfam, la stragrande maggioranza delle vittime del cambiamento climatico sono proprio coloro che vivono in paesi che contribuiscono di meno al fenomeno. «E per di più, le regioni più vulnerabili ospitano circa la metà più povera della popolazione mondiale: un grafico assai rivelatore dell’ingiustizia climatica, che non lascia dubbi su come la metà più povera della popolazione mondiale produca solo il 10% delle emissioni globali di carbonio, mentre il 10% più ricco del pianeta contribuisce a oltre il 50% delle emissioni», aggiungono Conversi e Moreno. Inoltre, questo sembra dimostrare che, sebbene il problema demografico non debba essere sottovalutato, l’impatto più consistente non è prodotto dai numeri di bocche da sfamare, ma da modelli acquisiti di consumo, sperpero, abitudini e stili di vita insostenibili. Intanto, sempre secondo Oxfam, l’81% dei decessi causati dai disastri ambientali colpisce le aree a reddito basso e medio-basso. Secondo un altro studio, “Carbon and inequality from Kyoto to Paris”, diretto da Lucas Chancel e Thomas Piketty della Paris School of Economics, l’1% delle famiglie statunitensi, singaporesi o saudite a reddito più elevato sono annoverabili tra i maggiori responsabili di inquinamento, con più di 200 tonnellate annuali di emissione di CO2.Di conseguenza, continuano Conversi e Moreno, una visione semplicistica della frattura Est-Ovest o Nord-Sud, appare inadeguata: tra l’1% dei super-emettitori vanno anche incluse le élites dei super-ricchi di Cina, Russia, India e Brasile, per fare un esempio. E un terzo studio, pubblicato di recente (“The Carbon Majors Report” 2017) mostra che circa 100 aziende sono responsabili del 71% delle emissioni globali, cioè un numero significativamente infimo di grandi produttori legati ai combustibili fossili arreca un danno assolutamente sproporzionato rispetto ai guadagni astronomici di pochi. In America Latina, quasi tre quarti dei cittadini – una delle percentuali più alte al mondo – riconoscono fermamente la gravità e la serietà del cambiamento climatico: i paesi latinoamericani e caraibici sono molto vulnerabili al problema del riscaldamento globale. «Un aumento rilevante e sostenuto delle temperature porterebbe in un intervallo non molto lungo a una riduzione drastica dei terreni coltivabili, alla scomparsa di atolli, barriere coralline, isole basse e intere regioni costiere, così come ad una estrema variabilità del tempo».Per Conversi e Moreno, non sarebbe realistico ipotizzare una risposta unica ai difficili e complessi problemi legati al cambio climatico. I punti di vista normativi variano: dall’illusione di “miracoli tecnologici” all’espansione massiccia delle energie rinnovabili (dal 2019 la Volvo produrrà solo auto elettriche o ibride), dalla decrescita volontaria dei consumi alla rivalutazione delle conoscenze ecologiche tradizionali. Si pensa alla protezione delle economie pre-industriali residue, all’economia circolare, al riciclaggio, alla pratica della “sovranità alimentare” (km zero, filiere corte), fino all’opzione estrema della geo-ingegneria, «che implicherebbe la costruzione di dighe per proteggere città o paesi dall’innalzamento delle maree e altre soluzioni provvisorie per tamponare effetti localizzati di un fenomeno che non ha nulla di locale». In ogni caso, aggiungono Conversi e Moreno, sarà vitale «ambire alla massima eterogeneità e creatività in termini di soluzioni, adattamento, conoscenze o tecniche di sopravvivenza».Da parte sua, l’Ue si sta adoperando per trasformare i rifiuti in materiali rinnovabili in una nuova “economia circolare”. Secondo la Commissione Europea, l’Europa produce più di 2,5 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, oltre la metà dei quali (63%) è derivata dal settore minerario e delle costruzioni. Ma spesso l’accento è posto sul cittadino, nonostante solo l’8% dei rifiuti sia di origine domestica. «Così l’Europa perde ogni anno circa 600 milioni di tonnellate di materiali contenuti nei rifiuti che potrebbero essere riciclati o riutilizzati – mentre si ricicla solo il 40% dei rifiuti prodotti dalle famiglie». A livello planetario, i problemi restano di portata incalcolabile. «Questa nuova geografia del cambiamento climatico, accompagnata dall’aumento delle disuguaglianze di reddito e dell’emarginazione sociale, rende più che mai urgente un’azione concertata da parte di tutti i paesi». Unica possibilità di salvezza, trovare i mezzi per «controllare questa ristretta élite, detentrice di un potere economico e mediatico immenso». Ma le cose non stanno andando esattamente così: restano modesti gli obiettivi dei trattati internazionali finora firmati, da Rio (1992) all’accordo di Parigi del 2015, in vigore dal 2016 «in vista della sua piena applicabilità nel 2020», a seguito del Protocollo di Kyoto del 1997.Non mancano ulteriori complicazioni: «Donald Trump ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, in conformità alle promesse elargite durante la campagna elettorale in combutta con le élites dei combustibili fossili». In contrasto con l’allarme che si sta diffondendo in molti paesi, il nuovo protezionismo degli Stati Uniti, accompagnato dalle iperboli della negazione, «indica che ci stiamo avvicinando a passi da gigante verso il suicidio climatico, incoraggiato da un modello economico neoliberista inarrestabile», concludono Conversi e Moreno. «Di fronte al pressoché unanime consenso scientifico sulle origini antropogeniche di un riscaldamento globale indotto da modelli di consumo selvaggio, si erge un revisionismo corporativo militante impostato sulla manipolazione dei mezzi di comunicazione e ostile a ogni possibile mobilitazione sociale volta a salvare il pianeta». Ciò che si profila è un mondo nuovo, un “brave New World”, come annunciava Aldous Huxley, condannato a finire in tempi brevissimi. «Un mondo, insomma, in cui una percentuale irrisoria ma ultra-potente del genere umano sembra pronta a immolare i destini della Terra sull’altare dei propri guadagni mai soddisfatti».Conmversi e Moreno parlano di “classicidio”, vista l’enorme sproporzione numerica tra vittime e carnefici, ancora più accentuata tra i redditi delle vittime e quelli dei carnefici. «Ma nessuno potrà ritenersi al sicuro ed esente dal pericolo di estinzione: se il secolo 20º è stato spesso definito il “secolo del genocidio”, c’è da temere che il secolo 21º potrebbe essere identificato, da un punto di vista terminologico, come il “secolo dell’omnicidio”, dello sterminio potenziale della gran parte delle specie viventi, tra cui bisognerà annoverare gli esseri umani». Ma, onestamente, «piuttosto che di un epilogo casuale, è bene comprendere che si tratta una “cronaca” lungamente preannunciata». Bisognerà quindi «combattere il negazionismo, incarnato successivamente nell’anti-scienza, nella marginalizzazione degli esperti e nell’anarchia informativa della post-verità». Appello inevitabile: «Contro quest’Idra dalle multipli teste, siamo chiamati a mobilitarci. Meglio tardi che mai».Si avvicina il rischio di un’estinzione di massa, la sesta nella storia della Terra. Lo affermano Daniele Conversi e Luis Moreno, commentando una recentissima ricerca statunitense: secondo la prestigiosa Pnas, “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America”, per la sesta volta, saremmo nell’imminenza di un evento chiamato “biological annihilation”, annientamento biologico. Miliardi di animali sono stati eliminati negli ultimi decenni, conseguenza diretta e indiretta dell’attività umana. Come se non bastassero gli allarmi che ci giungono da tutti i fronti, le ricerche confermano un’unica tendenza: l’impatto del consumo di massa promosso dal neoliberismo imperante sta alterando la superficie terrestre in maniera irreversibile, fino a cambiare lo stesso suolo su cui poggiamo i piedi. Nel corso dell’ultimo secolo, con l’uso generalizzato dell’automobile, ci si è adagiati sullo sfruttamento dei combustibili fossili attraverso un aumento massiccio dei consumi, promuovendo inoltre una divisione internazionale del lavoro tra regioni destinate all’estrazione e altre destinate all’industrializzazione. Tutto questo, dicono i ricercatori, sta semplicemente portando al collasso l’ecosistema terrestre.
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Siamo seri, pensate davvero che il futuro sia l’auto elettrica?
Il futuro non è dell’auto elettrica. La questione infatti non è solo con cosa sono alimentate le auto, ma soprattutto quante se ne producono e se ci siano sufficienti materiali, energia e risorse per produrle. Aspetto di sapere chi può rispondere in maniera ovviamente non fantasiosa alla domanda su dove, come e con quale energia si ricaveranno i materiali e le risorse per costruire e alimentare miliardi di automobili elettriche. E la risposta ovviamente non può essere: “Qualcosa ci inventeremo”. Visti anche questi non piccoli problemi di impossibile soluzione, la conclusione è assai facile e veloce a cui giungere, anche perchè il miglior mezzo per muoversi, soprattutto nelle città, non è l’automobile, elettrica o meno. Primo, perché essere imbottigliati nel traffico con una macchina, a benzina o elettrica, è esattamente la stessa cosa; secondo, perché le auto elettriche costano normalmente di più, poi hanno bisogno comunque di elettricità per essere alimentate e bisogna vedere come e dove si troverà questa elettricità che potrebbe anche essere il cavallo di Troia per una riscossa del nucleare. E ci vuole veramente un grande sforzo di fantasia, che sconfina appunto nell’impossibile, a pensare che tutta questa energia verrà prodotta da fonti rinnovabili, perché non solo servirà energia per produrre le automobili, ma anche per tutto il resto.Dove si trova l’energia per costruire ad esempio pannelli solari, che in teoria dovebbero coprire l’intero pianeta per alimentare tutto ciò? E non si tirino fuori assurdità tipo fusione nucleare, energie cosmiche o altre fantasiose storielle e si rimanga nel razionale e fattibile. Non si scappa: per fortuna non si possono eludere i limiti del pianeta e delle risorse, per quanti voli pindarici e illusioni tecnologiche si possano immaginare. L’auto, con tutta l’enfasi data alla presunta libertà che ci permette (poi la realtà è che si è quasi sempre bloccati nel traffico) e al fascino della velocità (che significa migliaia di morti l’anno e centinaia di migliaia di feriti per i quali non si fa nessuna campagna di prevenzione reale e non si strepita certo così come per imporre l’obbligatorietà ai vaccini), è solo una grande occasione di profitto, non risolve affatto la mobilità, casomai la congestiona. Comprare un’automobile nuova è il peggior investimento che chiunque possa fare, anche a rate, poiché si svaluta immediatamente e ha costi di mantenimento esorbitanti. Eppure. in Italia, malgrado la miseria in cui si dice versino milioni di poveri e disoccupati, nonostante la crisi, le automobili aumentano le vendite con percentuali a due cifre.Sono i famosi misteri italiani dove tutti si lamentano, tutti sono poveri ma poi siamo al secondo posto al mondo per numero di automobili ogni mille abitanti, che pascolano nell’immenso garage asfaltato che è diventata la nostra penisola per fare ricchi i Marchionne della situazione. E intanto noi imprechiamo nel traffico, moriamo di inquinamento, di incidenti, e lui e i suoi compari contano i soldi e ridono mentre si spostano in elicottero. Il futuro della mobilità non sarà il trasporto individuale, ma collettivo. E poi sarà un trasporto effettivamente sostenibile e risolutorio, cioè mezzi pubblici e mezzi a trazione muscolare, ovvero la bicicletta nelle sue varie declinazioni. Ci saranno anche delle automobili, ma usate per lo più collettivamente e solo per effettiva necessità, laddove la bicicletta o i mezzi di trasporto pubblici non possano sopperire al bisogno. E anche in questo caso non si possono non citare tutti gli esperti che, sempre innamorati delle magnifiche sorti e progressive per le quali ci saremmo in futuro spostati con astronavi, dicevano e ancora dicono che la bicicletta non si sarebbe diffusa, che è il medioevo, eccetera. Fatto sta che, alla faccia degli esperti, la semplicissima, vetusta e arretrata bicicletta, come vendite nel 2013, ha superato quelle delle automobili in 26 paesi dell’Unione Europea su 28.Mi sa che di vetusto e arretrato c’è solo il cervello dei luminari. E per questi sognatori di mondi in cui ci muoveremo con la macchina di Paperinik ci sono intanto città, capitali di paesi come la Danimarca che hanno così tante biciclette che ormai si hanno ingorghi di biciclette nelle strade poichè superano il numero delle automobili. In Italia in una situazione simile avrebbero proposto di limitare l’uso delle biciclette, là prevedono di diminuire le carreggiate delle macchine e aumentare la larghezza delle strade per le biciclette. In Danimarca, in Germania ormai si costruiscono autostrade per le biciclette che collegano interi paesi, con corsie riservate alle diverse velocità a cui vanno i ciclisti. Questo è il futuro, semplice, geniale e risolutivo – e soprattutto realmente compatibile, ambientalmente, non i voli pindarici di impossibili e costose non-soluzioni. Ma a questo punto arrivano le solite obiezioni degli italiani, che spesso alle soluzioni rispondono con ulteriori problemi e con il famoso: da noi non si può fare. Non si può fare?Vediamo in dettaglio i problemi che ci sono in Danimarca all’utilizzo della bicicletta: vento più o meno forte durante tutto l’anno, essendo uno dei paesi più ventosi d’Europa; piovosità decisamente più alta che in Italia; clima decisamente più rigido che in Italia. Quindi hanno tutti i presupposti contrari all’uso di questo mezzo, e invece lo usano eccome: perché, oltre che le ruote delle biciclette, fanno girare anche altre ruote che ci sono nel cervello e che, se azionate, possono produrre ottimi risultati. Ma l’italico problematico, che non si arrende nemmeno di fronte all’evidenza, ti dirà che da noi ci sono le salite e in Danimarca è tutto piatto. Come se città tipo Milano, Bologna, Napoli, Roma, Palermo, Bari, Torino, Verona e moltissime altre fossero tutte aggrappate a catene montuose. E non sia mai che ogni tanto dovesse spuntare una leggera salitella, ci sono anche le biciclette con pedalata assistita che ovviano al problema. Quindi, se in Danimarca – fra vento, pioggia e freddo – vanno tranquillamente in bicicletta, figuriamoci cosa potremmo fare noi.Tempo fa mi trovavo in Puglia e mi chiedevo come mai, in una regione in gran parte piatta, dove piove assai poco, non fa freddo e tutto l’anno c’è un tempo invidiabile, non girassero tutti in bicicletta. Ma figuriamoci se nel nostro paese, dove la macchina è uno status symbol, si può andare in giro con una sfigata bicicletta. Ma scherziamo? E mica siamo degli scemi come i danesi, noi. Comunque sia, i risultati positivi dall’uso della bicicletta sono molteplici. Aumento delle produzioni di sistemi legati alla bicicletta con relativo indotto, costruzione di carrelli e soluzioni di ogni tipo collegabili alle bici per trasporto di bambini e materiali. In Italia abbiamo una grande tradizione come costruttori di biciclette, basterebbe adeguarla anche a usi diversi da quelle soprattutto da corsa, obiettivo raggiungibile assai facilmente. Aumento dell’occupazione, non solo dalla vendita di biciclette ma dalla miriade di officine, pezzi di ricambio, assistenza che ci sono normalmente lungo tutti i percorsi di piste ciclabili.Diminuzione della congestione del traffico, aumento della qualità della vita all’interno delle città, diminuzioni degli incidenti e relativa paura di essere investiti ad ogni attimo. Diminuzione dell’inquinamento acustico, diminuzione delle emissioni inquinanti e del conseguente effetto serra. Diminuzione dell’utilizzo di risorse non rinnovabili, diminuzione del tempo sprecato nelle code e quindi conseguenti spese. Diminuzione drastica di alcune delle spese più ingenti della famiglia, che sono quelle legate all’automobile, quindi conseguente minor tempo dedicato al lavoro per mantenere l’automobile. Diminuzione dello stress, miglioramento della salute e della forma fisica. Il futuro della mobilita è di chi fa girare le ruote del cervello.(Paolo Ermani, “Il futuro non è dell’auto elettrica”, da “Il Cambiamento” del 28 luglio 2017).Il futuro non è dell’auto elettrica. La questione infatti non è solo con cosa sono alimentate le auto, ma soprattutto quante se ne producono e se ci siano sufficienti materiali, energia e risorse per produrle. Aspetto di sapere chi può rispondere in maniera ovviamente non fantasiosa alla domanda su dove, come e con quale energia si ricaveranno i materiali e le risorse per costruire e alimentare miliardi di automobili elettriche. E la risposta ovviamente non può essere: “Qualcosa ci inventeremo”. Visti anche questi non piccoli problemi di impossibile soluzione, la conclusione è assai facile e veloce a cui giungere, anche perché il miglior mezzo per muoversi, soprattutto nelle città, non è l’automobile, elettrica o meno. Primo, perché essere imbottigliati nel traffico con una macchina, a benzina o elettrica, è esattamente la stessa cosa; secondo, perché le auto elettriche costano normalmente di più, poi hanno bisogno comunque di elettricità per essere alimentate e bisogna vedere come e dove si troverà questa elettricità che potrebbe anche essere il cavallo di Troia per una riscossa del nucleare. E ci vuole veramente un grande sforzo di fantasia, che sconfina appunto nell’impossibile, a pensare che tutta questa energia verrà prodotta da fonti rinnovabili, perché non solo servirà energia per produrre le automobili, ma anche per tutto il resto.
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Germania SpA, smascherata la mafia più onesta d’Europa
La prossima volta che un ministro tedesco farà la lezioncina a qualche altro paese dell’Unione Europea sulla necessità di obbedire alle regole, il malcapitato bersaglio potrà essere perdonato se gli renderà la pariglia. Il paese che tanto ama fustigare gli altri per i danni legati all’azzardo morale, che chiede una rigida disciplina nell’applicare le regole fiscali della Ue e che dipinge i paesi dell’Europa del Sud come endemicamente corrotti, è caduto proprio lui nel pantano. Gli scandali hanno colpito la sua tanto decantata industria automobilistica, il suo più grande settore ingegneristico (Siemens) e la sua maggiore banca (Deutsche Bank) – e c’è più di un sospetto che Berlino abbia chiuso un occhio su tutto questo, per molto tempo. Può essere che la Germania non sia né più sporca né più pulita di qualsiasi altro paese europeo. Ma è certamente più presuntuosa. Ed è per questo che oggi è difficile non essere percorsi da un brivido di gioia maligna quando si leggono i sempre più frequenti resoconti sui comportamenti scorretti – e forse anche illegali – di alcune delle sue maggiori aziende.L’ultimo scandalo che ha macchiato la reputazione di Deutschland Ag – “Germania Spa”, come viene spesso soprannominata la relazione un po’ troppo intima tra mondo degli affari e politica – riguarda più di due decenni di presunte collusioni tra le cinque maggiori case automobilistiche tedesche. Lo riporta “Der Spiegel”. Le autorità tedesche ed europee sull’antitrust stanno investigando per appurare se Mercedes-Benz, proprietario di Daimler, Volskwagen, Bmw, Porsche e Audi abbiano svolto riunioni segrete per concordare gli standard tecnici, le forniture e i prezzi, a scapito dei concorrenti stranieri. Secondo il report è stata Volkswagen, nel disperato tentativo di ripulirsi ed evitare ulteriori problemi legali dopo essere stata scoperta a imbrogliare sistematicamente nei test di emissione di sostanze inquinanti negli Stati Uniti, a informare l’Ufficio federale tedesco per l’antitrust. In seguito, dice l’inchiesta, è risultato che Daimler potrebbe avere preceduto Volkswagen nel fare la soffiata.Le prove sull’esistenza di un presunto cartello sarebbero state poi insabbiate per un anno, fino a che “Der Spiegel” non ha pubblicato il suo report. Bmw ha negato qualsiasi comportamento illegale. Le altre case automobilistiche non hanno commentato, mentre la Vda (associazione tedesca dell’industria automobilistica, ndt) ha dichiarato di non essere coinvolta. Le case automobilistiche confermate colpevoli di violazione delle regole europee sulla concorrenza potrebbero essere multate fino al 10 per cento del loro fatturato totale: ma il sistema prevede che il primo dei partecipanti a denunciare l’esistenza dei comportamenti anticoncorrenziali illeciti sia esentato dal pagamento della multa. Per esempio, due dei maggiori costruttori tedeschi di camion – Man e Daimler – erano tra le cinque aziende coinvolte in un cartello per concordare i prezzi che lo scorso anno è stato sanzionato dalla Commissione Europea con una multa di 2,93 miliardi di euro. Però Man non è stata multata, perché è stata la prima a rivelare l’esistenza del cartello, nel 2011.Ma non è solo la tanto decantata industria automobilistica tedesca ad essersi messa in cattiva luce negli ultimi tempi. Lo scorso anno Deutsche Bank ha patteggiato 7,2 miliardi di dollari con il Dipartimento della Giustizia statunitense per un’indagine sulle modalità scorrette di vendita di titoli garantiti da ipoteca tra il 2005 e il 2007: era risultato che alcuni prestiti fatti a debitori del tutto privi di garanzie venivano reimpacchettati e rivenduti agli investitori come titoli sicuri. Il crollo dei titoli garantiti da ipoteca è stato uno dei maggiori fattori scatenanti della crisi finanziaria globale del 2008 (quella stessa che dato fiato a orde di moralizzatori tedeschi). Ma Deutsche Bank è stata multata anche perché la sua società sussidiaria nel Regno Unito ha manipolato il tasso di interesse Libor e non ha impedito il riciclaggio di 10 miliardi di dollari di denaro sporco proveniente dalla Russia.Nel frattempo il gigante ingegneristico Siemens è stato accusato di avere fornito turbine a gas per alcuni generatori elettrici che permetteranno il funzionamento di due centrali elettriche nella Crimea occupata dalla Russia, e che metteranno fine alla dipendenza energetica della penisola dall’Ucraina, dopo che Mosca ha ripreso possesso della regione nel 2014. La fornitura di apparecchiature elettriche alla Crimea viola le sanzioni stabilite dall’Unione Europea, ma Siemens sostiene che il dirottamento è avvenuto a sua insaputa, a causa di un’azienda statale russa sua cliente, in violazione del contratto e nonostante i passati avvertimenti fatti dall’azienda. All’inizio del mese Siemens aveva negato un report di “Reuters” che affermava che due delle sue turbine erano state inviate in Crimea dalla vicina Russia sud-occidentale. Poi ha affermato che stava compiendo delle indagini. Poi ha ammesso che l’attrezzatura era stata spedita in Crimea ma “contro la sua volontà” e ha dichiarato che avrebbe fatto causa al suo cliente russo, Technopromexport, e alla sua stessa società sussidiaria in Russia, la Siemens Gas Turbine Technologies. Ora dichiara di avere bloccato l’esportazione di qualsiasi tecnologia per la generazione di corrente elettrica destinata alla Russia.Le spiegazioni fornite appaiono nel migliore dei casi ingenue. Come riportato dal sito investigativo ucraino “Euromaidanpress”, era evidente a chiunque che Mosca stava costruendo a gran velocità centrali elettriche calibrate esattamente per le turbine Siemens in Crimea. Mentre i progetti per la costruzione di una centrale elettrica, cui sulla carta le turbine dovevano essere destinate, sull’altra sponda del Mar d’Azov, erano a malapena abbozzati. Recitando il più ovvio dei copioni, Siemens si è autodipinta come vittima di un inganno dei russi e ha rumorosamente chiuso la stalla dopo che i buoi erano già scappati. Tutta la faccenda è una bella ragione di imbarazzo per Berlino, che si era schierata in prima fila nella richiesta delle sanzioni europee contro le aziende e i singoli russi coinvolti nell’occupazione della Crimea da parte di Mosca. La cancelliera Angela Merkel ha perfino affermato che questa vicenda ha infranto un sistema di regole rispettate in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.Un portavoce del governo tedesco ha dichiarato che alti funzionari russi avevano assicurato che le turbine non sarebbero state usate in Crimea, e che Berlino stava studiando le potenziali conseguenze di questa operazione “inaccettabile”. In uno scaricabarile da manuale, il portavoce del governo ha affermato che era compito delle aziende assicurarsi di non violare le sanzioni, e tuttavia non ha minimamente fatto cenno ad alcuna conseguenza per Siemens legata a tutto questo. Un filo comune, in tutta questa serie di scandali aziendali, è che il governo tedesco non è mai stato il primo a far saltare fuori pubblicamente i problemi o svolgere indagini. Al contrario, sono state le autorità degli Stati Uniti (e in misura minore di Bruxelles) a smascherare il comportamento di Deutsche Bank e Volkswagen. Volkswagen ha pagato 2,8 miliardi di dollari di sanzioni penali, più 1,5 miliardi di dollari di sanzioni civili negli Stati Uniti in aprile per avere manipolato in modo truffaldino il software dei suoi veicoli diesel, perché passassero i test sulle emissioni inquinanti imposti dalla legge. È stata l’Agenzia statunitense per la protezione ambientale a scoprire le violazioni, nel 2015.Volkswagen ha dovuto allora richiamare 11 milioni di veicoli, di cui circa 8 milioni erano stati venduti in Europa. Lo scandalo ha messo in luce tutta la debolezza e la frammentarietà del sistema di regolamentazione europeo, nonché l’applicazione estremamente lassista delle regole da parte delle autorità. La casa automobilistica tedesca ha accettato di pagare circa 15 miliardi di euro di risarcimenti agli acquirenti statunitensi, ma ha rifiutato di fare lo stesso verso i propri clienti europei, a causa delle diverse regole per la tutela dei consumatori in Europa. I produttori tedeschi riescono a far pagare cari i propri prodotti, le loro “automobili definitive”, grazie a quello che un tempo era conosciuto in Europa come l’indiscutibile marchio di “Deutsche Qualität” (qualità tedesca). Ma che succede, se la massima avanguardia tecnologica sbandierata negli slogan come “il progresso attraverso la tecnologia” si rivela essere “il progresso attraverso l’imbroglio”, costruito con marchingegni truffaldini e cartelli sui prezzi? Si canterebbe ancora “Oh Signore, comprami una Mercedes-Benz?”.(Paul Taylor, “Quei disonesti dei tedeschi”, dall’edizione europea di “Politico” del 25 luglio 2017, post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).La prossima volta che un ministro tedesco farà la lezioncina a qualche altro paese dell’Unione Europea sulla necessità di obbedire alle regole, il malcapitato bersaglio potrà essere perdonato se gli renderà la pariglia. Il paese che tanto ama fustigare gli altri per i danni legati all’azzardo morale, che chiede una rigida disciplina nell’applicare le regole fiscali della Ue e che dipinge i paesi dell’Europa del Sud come endemicamente corrotti, è caduto proprio lui nel pantano. Gli scandali hanno colpito la sua tanto decantata industria automobilistica, il suo più grande settore ingegneristico (Siemens) e la sua maggiore banca (Deutsche Bank) – e c’è più di un sospetto che Berlino abbia chiuso un occhio su tutto questo, per molto tempo. Può essere che la Germania non sia né più sporca né più pulita di qualsiasi altro paese europeo. Ma è certamente più presuntuosa. Ed è per questo che oggi è difficile non essere percorsi da un brivido di gioia maligna quando si leggono i sempre più frequenti resoconti sui comportamenti scorretti – e forse anche illegali – di alcune delle sue maggiori aziende.
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Scie chimiche: schermare il Sole per “proteggere” la Terra?
Scie chimiche? La meno complottista delle teorie è forse anche la peggiore: irrorare il cielo per creare un velo persistente che attenui l’impatto del sole, scongiurando il cataclisma del surriscaldamento. Un’incognita immensa: nessuno sa che impatto possa avere, questo stratagemma, sull’ecosistema terrestre, continenti e oceani. E’ una riflessione che Giulietto Chiesa ha riproposto di recente, in un dibattito al Senato con politici e scienziati. Del “fenomeno” sappiamo pochissimo, tranne quello che si vede a occhio nudo: i nostri cieli sono ormai gremiti di scie bianche rilasciate dagli aerei. Scie che restano nell’aria per ore, espandendosi, fino a diventare nuvole. Sembra l’applicazione, alla lettera, delle teorie di Edward Teller, il fisico ungherese (naturalizzato statunitense), padre della bomba all’idrogeno e probabile ispiratore del Dottor Stranamore di Stanley Kubrick. Si chiama Solar Radiation Management, l’ipotetico “scudo solare termico” che si andrebbe allestendo, da diversi anni, nel tentativo di ridurre l’effetto della radiazione solare facendola “rimbalzare” su un velo chimico chiaro, riflettente. Un’operazione necessariamente coperta, segreta, gestita da militari, impossibile da divulgare e ammettere.Non abbiamo prove, soltanto indizi: le scie nel cielo sono protette dal silenzio assoluto di qualsiasi istituzione, nonostante il proliferare di voci isolate, denunce, sospetti, qualche ammissione parziale, svariati indizi: Putin che vieta sorvoli di aerei Lufthansa, lo scienziato aerospaziale Douglas Rowland (Nasa) che dichiara che il carburante dei velivoli sarebbe addizionato con il litio, sostanza usata da decenni in ambito psichiatrico. Commentando lo studio dell’Us Air Force, “Owning the weather”, il generale Fabio Mini, già capo della missione Nato in Kosovo, spiega che “possedere il clima” significa utilizzarlo “as a force multiplier”, come moltiplicatore di forza, in ambito militare. Il sottilissimo “fim” creato nella ionosfera sarebbe uno “schermo artificiale” perfetto per ricevere le emissioni radio del sistema Haarp (stazioni in Alaska, Australia e Sicilia, la base Muos di Niscemi) destinate a coordinare in tempo reale le forze armate sparse in tutto il mondo – ma anche, si sospetta, a condizionare il clima di intere regioni del pianeta provocando siccità, inondazioni, forse anche terremoti e tsunami. Complottismo?Se ancora mancano le prove, Giulietto Chiesa si interroga sul possibile movente. Semplicissimo, terribilmente banale: il global warming è una realtà ormai anche scientifica, la Terra si sta velocemente surriscaldando a causa dell’emissione di gas serra provocati dal consumo di carbone e metano, e nessuno – nessun paese, nessun governo – è in grado di fermare le macchine, riducendo l’anidride carbonica e il metano. Per questo, forse, si ricorre alle teorie di Teller: attenuare l’azione del sole, senza però avere la minima idea dell’impatto che questo possa avere sul delicato equilibrio degli ecosistemi. Per questo, se l’operazione è davvero in corso, è impossibile averne conferma: nessuno potrebbe assumersene le responsabilità, ufficialmente. Se il “movente” è innanzitutto ecologico – prima che strategico, militare, geopolitico – allora la situazione è più grave del previsto: significherebbe che si sta tentando, alla cieca, si trovare soluzioni d’emergenza, disperate, a una situazione ormai fuori controllo, che preoccupa l’élite in modo inconfessabile. Ma questi, ribadisce Chiesa, sono soltanto interrogativi: oggi è impossibile pretendere risposte certe dai servizi segreti, perché non esistono forze politiche democratiche capaci di reclamare verità da offrire ai cittadini. Regna il silenzio, mentre il cielo si va riempiendo di scie bianche: domande mute, a cui nessuno vuole rispondere.Scie chimiche? La meno complottista delle teorie è forse anche la peggiore: irrorare il cielo per creare un velo persistente che attenui l’impatto del sole, scongiurando il cataclisma del surriscaldamento. Un’incognita immensa: nessuno sa che impatto possa avere, questo stratagemma, sull’ecosistema terrestre, continenti e oceani. E’ una riflessione che Giulietto Chiesa ha riproposto di recente, in un dibattito al Senato con politici e scienziati. Del “fenomeno” sappiamo pochissimo, tranne quello che si vede a occhio nudo: i nostri cieli sono ormai gremiti di scie bianche rilasciate dagli aerei. Scie che restano nell’aria per ore, espandendosi, fino a diventare nuvole. Sembra l’applicazione, alla lettera, delle teorie di Edward Teller, il fisico ungherese (naturalizzato statunitense), padre della bomba all’idrogeno e probabile ispiratore del Dottor Stranamore di Stanley Kubrick. Si chiama Solar Radiation Management, l’ipotetico “scudo solare termico” che si andrebbe allestendo, da diversi anni, nel tentativo di ridurre l’effetto della radiazione solare facendola “rimbalzare” su un velo chimico chiaro, riflettente. Un’operazione necessariamente coperta, segreta, gestita da militari, impossibile da divulgare e ammettere.
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Sta fondendo l’Antartide: verso cataclismi inimmaginabili
Sta per collassare l’Antartide, e i ghiacci che si credevano “perenni” stanno fondendo alla velocità della luce: lo rivela uno studio che «dovrebbe spaventare a morte chiunque dubiti della solennità e della potenza dietro l’accelerazione del riscaldamento globale», avverte Robert Hunziker su “Counterpunch”, che presenta una ricerca «sconvolgente, dagli sviluppi raccapriccianti». Ovvero: «Se si sciogliesse integralmente l’intera Antartide, provocherebbe un innalzamento del livello del mare di circa 60 metri». Non faremo in tempo a vederlo, nella nostra vita («è troppo grande e richiederebbe decisamente troppo riscaldamento e davvero troppo tempo»), ma – intanto – un collasso della sola Antartide Occidentale, quella finita sotto i riflettori, «ha il potenziale, secondo la nuova ricerca, per sommergere Miami e New York durante le nostre vite attuali». Attenzione: «È la prima volta, questa, in cui delle osservazioni scientifiche giungono ufficialmente alla conclusione che una catastrofe così orrenda sia possibile, così presto». Miami Beach è già costretta a sollevare le strade di mezzo metro a causa delle persistenti inondazioni. «Un mare in crescita è la vendetta del riscaldamento globale per le sconsiderate, arroganti, presuntuosamente eccessive emissioni di CO2 di combustibile fossile, causate dall’uomo».Le nuove «spaventose scoperte», scrive Hunziker in un report tradotto da “Come Don Chisciotte”, includono il ghiacciaio di Pine Island, l’oggetto del lavoro di ricerca di Seongsu Jeong, Ian M. Howat, Jeremy N. Basis, “Accelerated Ice Shelf Rifting and Retreat at Pine Island Glacier, West Antarctica”, studio pubblicato da “Geophysical Research Letters” il 28 novembre 2016. Allarme rosso, già a partire dal titolo: “Accelerazione della frattura di una calotta di ghiaccio e arretramento del ghiacciaio di Pine Island, in Antartide Occidentale”. «Si dà il caso che il ghiacciaio di Pine Island fosse già la più grande massa al mondo di irreversibile scioglimento di ghiaccio». Adesso, con questa nuova analisi, «la tempistica sta assumendo una nuova preoccupante dimensione». Secondo Ian Howat, professore associato di Scienze della Terra presso l’università statale dell’Ohio, «questa sorta di formazione di fratture causa un altro meccanismo di arretramento rapido di questi ghiacciai, aggiungendo la probabilità che si possano vedere collassi significativi nell’Antartide Occidentale durante la nostra esistenza». Questa, sottolinea Huziker, è una minaccia di riscaldamento globale completamente nuova, per le sue impressionanti dimensioni e gli scenari tempistici ormai ravvicinati.Che cosa ha indebolito il centro della calotta antartica? E’ stato «un crepaccio, disciolto al livello di sostrato roccioso da un oceano riscaldato», visto che la base della lastra di ghiaccio dell’Antartide Occidentale si trova sotto il livello del mare. «Un oceano riscaldato appare come la causa di come l’oceano abbia assorbito il 90% del calore della Terra, aiutando a proteggere le creature sulla terraferma, come gli umani, da un reale surriscaldamento dannoso», scrive Hunziker. «Ma si raccoglie ciò che si semina, come è stato dimostrato in Antartide: tutto questo calore mondiale ci si sta ritorcendo contro sotto grandi, grosse lastre di ghiaccio». Qui le differenze rispetto alle ricerche del passato: le fratture si formavano generalmente ai margini delle calotte di ghiaccio, dando vita agli iceberg, ma non in profondità e all’interno, come invece evidenzia questa nuova scoperta. Inoltre, la frattura in questione è all’interno, a circa 32 km (20 miglia). «Il Ghiacciaio di Pine Island (tenendo le dita incrociate) funziona come misura di protezione, trattenendo grandi porzioni di ghiaccio dell’Antartide Occidentale dal riversarsi nel mare». In pratica «è come un portiere di hockey», impegnato a frenare «una parte delle lastre di ghiaccio del Massiccio dell’Antartide Occidentale».Quel grande ghiacchaio è dunque «l’ultima linea di difesa, che previene il collasso parziale delle grandi lastre di ghiaccio, che causerebbero un grande tonfo inimmaginabile, di grandezza inconcepibile». Lo conferma già nel 2015 “Science Magazine”, secondo cui basterebbe «un colpetto» a far collassare le lastre di ghiaccio dell’Antartide Occidentale, con il livello del mare che «si solleva di 3 metri». E’ esplicita, la rivista: «Non serve molto a causare il crollo totale della lastra di ghiaccio dell’Antartide Occidentale, e una volta iniziato non si fermerà». Nell’ultimo anno, aggiunhe Hunziker, «molti articoli hanno evidenziato la vulnerabilità della lastra di ghiaccio che ricopre la parte occidentale del continente, suggerendo che il suo crollo sia inevitabile, e probabilmente già in corso. Adesso, un nuovo modello mostra proprio come questa valanga possa realizzarsi». Una quantità relativamente piccola di scioglimento nel corso di pochi decenni «porterà inesorabilmente alla destabilizzazione dell’intera lastra di ghiaccio e all’aumento del livello del mare». L’ultima ricerca rivela che «le circostanze sembra si stiano accelerando».Con questa nuova scoperta, la tempistica per il collasso della lastra di ghiaccio dell’Antartide Occidentale è del tutto inquietante, sottolinea Hunziker: «In precedenza i ricercatori pensavano a decenni e secoli. Adesso, “all’interno delle nostre vite attuali”». Sperando che non sia già troppo tardi, aggiunge Hunziker pensando a Trump e ai negazionisti del “global warming”, «mai prima d’ora nella storia mondiale è stato importante avere una forte leadership in Usa, per fare qualunque cosa sia necessaria per tamponare un cambio climatico incombente, un cataclisma del riscaldamento globale. È in gioco il nostro stile di vita». In base a queste linee, dice ancora Hunziker, «la scienza che studia il clima è inspiegabilmente simile al rilevamento degli asteroidi vicini alla Terra», che nel corso dei millenni si sono occasionalmente scontrati col nostro pianeta, «annientando ad esempio i poveri e indifesi dinosauri». Se un asteroide vicino alla Terra è «progettato per urtare», forse «un certo tipo di dispiegamento può prevenire il grande schianto dall’annientamento della vita sul pianeta». E quindi: «Quale dispiegamento ferma le lastre di ghiaccio dal collasso?».Sta per collassare l’Antartide, e i ghiacci che si credevano “perenni” stanno fondendo alla velocità della luce: lo rivela uno studio che «dovrebbe spaventare a morte chiunque dubiti della solennità e della potenza dietro l’accelerazione del riscaldamento globale», avverte Robert Hunziker su “Counterpunch”, che presenta una ricerca «sconvolgente, dagli sviluppi raccapriccianti». Ovvero: «Se si sciogliesse integralmente l’intera Antartide, provocherebbe un innalzamento del livello del mare di circa 60 metri». Non faremo in tempo a vederlo, nella nostra vita («è troppo grande e richiederebbe decisamente troppo riscaldamento e davvero troppo tempo»), ma – intanto – un collasso della sola Antartide Occidentale, quella finita sotto i riflettori, «ha il potenziale, secondo la nuova ricerca, per sommergere Miami e New York durante le nostre vite attuali». Attenzione: «È la prima volta, questa, in cui delle osservazioni scientifiche giungono ufficialmente alla conclusione che una catastrofe così orrenda sia possibile, così presto». Miami Beach è già costretta a sollevare le strade di mezzo metro a causa delle persistenti inondazioni. «Un mare in crescita è la vendetta del riscaldamento globale per le sconsiderate, arroganti, presuntuosamente eccessive emissioni di CO2 di combustibile fossile, causate dall’uomo».
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Inferno di fuoco nel Canada devastato dalle trivellazioni
Fort Mc Murray, Canada. L’epicentro delle estrazioni di bitume del paese. La capitale delle Tar Sands dello stato dell’Alberta. La località con maggiore concentrazione di raffinerie e di impianti emissivi di CO2. Fort Mc Murray è vittima del suo stesso trivellare. La città è infatti sommersa da fiamme devastanti che hanno lasciato dietro ceneri, devastazione e paura, dovute principalmente ai cambiamenti climatici. È il cerchio che si chiude. In questo inizio di maggio 2016 a Fort Mc Murray le temperature sono più elevate del normale, la vegetazione è secca, non piove da tanto, e così il numero di incendi aumenta a dismisura. Sono 330 per quest’anno, il doppio del normale. In più, la stagione calda in cui aspettarsi incendi si è allungata di molto, dal 1° maggio di ogni anno, come era nel 1979, al 1° marzo, come è stato quest’anno. Già nel 2015 ci fu una lunga e inaspettata siccità. Lo Stato dovette dichiarare lo stato di “emergenza agricola” perché mancava l’acqua per le irrigazioni.Anche l’inverno in Alberta è stato caldo come non mai, con basse precipitazioni nevose. Al tutto va ad aggiungersi la perturbazione El Nino che ha accentuato l’aridità. Ai primi di maggio la temperatura è stata anche di 33 gradi centigradi, mentre in media è di 14 gradi centigradi. Il professor Mike Flannigan, dell’Università dell’Alberta, conferma che in larga parte gli incendi sono dovuti ai cambiamenti climatici. «This is consistent with what we expect from human-caused climate change affecting our fire regime», ha detto. E non sono falò di poca durata, è una settimana e più che la situazione è fuori controllo. La città di Fort McMurray ha quasi 90.000 abitanti, una superficie di circa 850 chilometri quadrati ed è stata interamente evacutata. La maggior parte dei residenti ha trovato riparo ad Edmonton, la capitale dello stato. Le fiamme si sono propagate in fretta e la gente non ha avuto il tempo di prepararsi per abbandonare la città.A un certo punto anche l’autostrada era avvolta da fiammate, giunte anche ad ottanta metri di altezza. Alcune persone sono state portate via in elicottero. Si teme adesso che le fiamme possano anche arrivare all’infrastruttura petrolifera alla periferita della città. Intanto sono andate distrutte 1.600 case. Interi quartieri sono stati rasi al suolo. La foresta arde. Il cielo è arancione, nero, grigio. Non più azzurro. L’aeroporto è stato messo in salvo solo grazie a una massiccia presenza di vigili del fuoco. Il fuoco ha divorato più di mille chilometri quadrati. I residenti parlano di scene di guerra. Le autorità sanno però che senza l’aiuto di madre natura, le fiamme saranno inarrestabili: semplicemente l’estensione territoriale dell’incendio è troppo grande e i venti troppo forti. Le fiamme continuano a mangiare tutto ciò che trovano, anzi sono riuscite a saltare fiumi, strade e altre barriere. Se non arriva la pioggia ci sarà ben poco da fare: i centocinquanta elicotteri e velivoli usati finora sono assolutamente insufficienti.Non piove da due mesi a Fort Mc Murray. Secondo le autorità ci vorranno mesi per completamente estinguere il fuoco. Intanto la Nasa parla di un marzo 2016 di caldo record, dopo un 2014, un 2015 e un gennaio e febbraio 2016 da caldo record. Che dire. È evidente che è tutto parte della stessa narrativa. Quello che succede a Fort Mc Murray è soltanto l’antipasto di quello che ci aspetta: eventi naturali che diventano estremi a causa dei cambiamenti climatici dovuti principalmente all’uso di fonti fossili. In questo caso sono incendi, ma sono stati e saranno uragani, allagamenti, piogge torrenziali, scioglimenti di ghiacciai. È la natura che segue le sue leggi. Noi le diamo le condizioni iniziali, lei fa quello che deve fare. È solo che qui è ironico perché questa devastazione accade proprio nel cuore del problema: nella culla del petrolio canadese.(Maria Rita D’Orsogna, “L’inferno di Fort Mc Murray”, da “Comune-Info” del 10 maggio 2016).Fort Mc Murray, Canada. L’epicentro delle estrazioni di bitume del paese. La capitale delle Tar Sands dello stato dell’Alberta. La località con maggiore concentrazione di raffinerie e di impianti emissivi di CO2. Fort Mc Murray è vittima del suo stesso trivellare. La città è infatti sommersa da fiamme devastanti che hanno lasciato dietro ceneri, devastazione e paura, dovute principalmente ai cambiamenti climatici. È il cerchio che si chiude. In questo inizio di maggio 2016 a Fort Mc Murray le temperature sono più elevate del normale, la vegetazione è secca, non piove da tanto, e così il numero di incendi aumenta a dismisura. Sono 330 per quest’anno, il doppio del normale. In più, la stagione calda in cui aspettarsi incendi si è allungata di molto, dal 1° maggio di ogni anno, come era nel 1979, al 1° marzo, come è stato quest’anno. Già nel 2015 ci fu una lunga e inaspettata siccità. Lo Stato dovette dichiarare lo stato di “emergenza agricola” perché mancava l’acqua per le irrigazioni.
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Auto elettrica, il boom Tesla beffa il “profeta” Marchionne
Prima ti ignorano, poi ti irridono, poi ti combattono. Poi hai vinto. Il vincitore si chiama Nikola Tesla, geniale scienziato di origine serba. Ma anche Elon Musk, Ceo della statunitense Tesla Motors, produttrice della più rivoluzionaria auto elettrica esistente sul pianeta, emissioni zero e 500 chilometri di autonomia. Il grande sconfitto? Sergio Marchionne. Lo afferma Pietro Cambi, ripercorrendo le “profezie” del boss di Fiat-Chrysler riguardo all’auto del futuro. Una storia che ripropone la nota parabola gandhiana: prima di trionfare, ogni grande innovatore viene inizialmente ignorato, poi canzonato, quindi osteggiato. E dire che Marchionne era stato messo sulla giusta strada persino da un parlamentare Pd, Andrea Lulli, che chiese investimenti per 100 milioni di euro sulla promozione dei veicoli a impatto zero. «Marchionne fece quello che per lui doveva essere un enorme sacrificio: si mise la cravatta. E andò alla Camera a spiegare che il suo piano industriale escludeva i veicoli elettrici». Il confronto con Tesla, per quanto riguarda dedizione e capacità di analisi del futuro, è illuminante, scrive Cambi: «Serve a far comprendere la cecità e ottusità di un management che sta cancellando, è inesorabile, la presenza italiana nel mercato dell’auto».Nel 2010, ricorda Cambi su “Crisis, what crisis”, in Italia sono sono state vendute le prime 50 Tesla “Roadster”. Marchionne: «Gli esperti internazionali concordano sul fatto che la quota di vetture elettriche non potrà superare il 5% del totale neppure tra dieci anni». Motivo: prezzi ancora troppo alti, per via dei bassi numeri di produzione e del costo della batteria. E 12 mesi dopo: «L’anno prossimo lanceremo la 500 elettrica sul mercato americano e perderemo 10.000 dollari ogni auto prodotta e venduta lì. Figuratevi se dovessimo esportarla verso l’Europa», dove – a differenza degli Usa – non esistono incentivi per lo sviluppo di veicoli a emissioni zero. E ancora: «Il costo della tecnologia è altissimo, è inutile illuderci che salvi il mercato dell’auto». Sempre nel 2012: «Si tratta di una tecnologia che non è alla portata delle tasche normali, è una mobilità poco sostenibile in termini di diffusione di massa. Non sto dicendo che sia una tecnologia da abbandonare, tutt’altro, ma indirizzare tutto lo sforzo normativo per promuovere questo tipo di trazione porterebbe solo ad un aumento di costi senza nessun beneficio immediato e concreto. Sembra più saggio concentrarsi su motori tradizionali e carburanti alternativi».Intanto, nel gennaio 2013, sbarca anche in Italia la Tesla “Model S”. Marchionne: «Non sto dicendo che l’auto elettrica sia un progetto da non considerare, in Fiat ci stiamo lavorando seriamente con Chrysler che ha sviluppato grandi competenze. Ma è bene sapere che per ogni 500 elettrica venduta perderemo circa 10.000 dollari, un affare al limite del masochismo». Un anno dopo, nel gennaio 2014, le Tesla vendute in Italia salgono a quota 22.000. In un convegno negli Usa, Marchionne insiste sulla sua tesi. E aggiorna il costo dell’operazione per la 500 elettrica: non ci rimette più solo 10.000 dollari a veicolo, ma 14.000. Poi, finalmente, nel 2015 la diga comincia a vacillare: «Sono rimasto incredibilmente impressionato da quello che è riuscito a fare quel ragazzo», ammette Marchionne, parlando di Elon Musk e della sua Tesla. La frana, intanto, diventa un cataclisma: nel gennaio 2016, le Tesla vendute sono ormai oltre 55.000. Eppure, sull’auto elettrica Marchionne frena ancora: «Dateci tempo di dimostrare il nostro valore, ma quando sarà prodotta e sul mercato, non prima. La verità è che nessuno guadagna con le auto a zero emissioni. Nemmeno Elon Musk, che pure considero il guru del settore».Poi, nell’aprile 2016: «Non mi vergogno di dirlo: se Musk mi dimostrerà che l’auto può essere redditizia a quel prezzo», cioè 35.000 dollari, «copierò la formula, aggiungerò il design italiano e la porterò sul mercato entro un anno». Aggiunge Marchionne: «Le numerose prenotazioni non mi sorprendono, ma poi bisogna vendere le auto e guadagnare:meglio arrivare tardi che essere dispiaciuti». Davvero? Nello stesso mese – aprile 2016 – la nuovissima “Tesla 3” è accolta da qualcosa come 400.000 ordini. E’ un caso senza precedenti nella storia del marketing, osserva Cambi. Oggi, maggio 2016, finalmente Marchionne fa sapere che Fiat-Fca sta cercando un accordo con Google per sviluppare sistemi di guida autonoma, come i dispositivi anti-incidente già montati sulle auto di Elon Musk, che sono in grado di parcheggiare da sole, evitare ostacoli improvvisi, dribblare veicoli. «Non è il futuro. E’ presente. I proprietari di Tesla stanno utilizzando questa tecnologia ORA».Sintesi: «L’auto elettrica ha vinto, il suo Napoleone si chiama Tesla (perché i meriti vanno allargati all’azienda e non solo al suo fondatore)». E gli altri? Fiat, Bmw, Audi, Volkswagen, Volvo e General Motors «inseguono, senza grandi speranze». Attenzione: «La “guerra” continua e continuerà, vedrete, in modi sempre più feroci». Per intanto, vediamo di capirci, conclude Cambi: «Caro Marchionne: sono almeno sette anni che ci spieghi, con molta pazienza e altrettanta ottusa ostinazione, che le auto elettriche non hanno un futuro. Poi ti tocca ammettere, di fronte all’evidenza dei fatti, che questo futuro è qui, è qui per restare. E tu sei stato volutamente fermo, perdendo sette anni. Poi, senza alcun sprezzo del pericolo, immemore delle “proiezioni” sesquipedali di cui hai infarcito i tuoi comunicati per anni, mancandole tutte, dichiari che IN UN ANNO potresti fare una auto in grado di competere con una Tesla? In un anno? Quando da alcuni anni non riesci ad azzeccare un modello che è uno, nemmeno per sbaglio? Senso del pudore, mi pare evidente, non l’hai mai avuto. Senso del ridicolo? No, eh?».Prima ti ignorano, poi ti irridono, poi ti combattono. Poi hai vinto. Il vincitore si chiama Nikola Tesla, geniale scienziato di origine serba. Ma anche Elon Musk, Ceo della statunitense Tesla Motors, produttrice della più rivoluzionaria auto elettrica esistente sul pianeta, emissioni zero e 500 chilometri di autonomia. Il grande sconfitto? Sergio Marchionne. Lo afferma Pietro Cambi, ripercorrendo le “profezie” del boss di Fiat-Chrysler riguardo all’auto del futuro. Una storia che ripropone la nota parabola gandhiana: prima di trionfare, ogni grande innovatore viene inizialmente ignorato, poi canzonato, quindi osteggiato. E dire che Marchionne era stato messo sulla giusta strada persino da un parlamentare Pd, Andrea Lulli, che chiese investimenti per 100 milioni di euro sulla promozione dei veicoli a impatto zero. «Marchionne fece quello che per lui doveva essere un enorme sacrificio: si mise la cravatta. E andò alla Camera a spiegare che il suo piano industriale escludeva i veicoli elettrici». Il confronto con Tesla, per quanto riguarda dedizione e capacità di analisi del futuro, è illuminante, scrive Cambi: «Serve a far comprendere la cecità e ottusità di un management che sta cancellando, è inesorabile, la presenza italiana nel mercato dell’auto».
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Lannes: scie chimiche, ecco le prove. Patto siglato nel 2001
Veleni dal cielo, contro tutti noi, da quasi 15 anni. Le scie chimiche? Verità sempre oscurata, perché aberrante: impossibile ammettere di irrorare i cieli con metalli pericolosi, per manipolare il clima a scopo militare. Inoltre, la colossale operazione-aerosol in corso da lungo tempo viola apertamente svariate disposizioni, che anche l’Italia aveva sottoscritto: una prescrizione europea e persino una convenzione dell’Onu, risalente al lontano 1977, ratificata nel 1980 grazie al presidente Sandro Pertini. Lo afferma un giornalista scomodo come Gianni Lannes, più volte minacciato di morte per le sue scottanti inchieste sulle eco-mafie. Molte delle sue denunce sono contenute nel suo blog, “Su la testa”. Sulle scie chimiche, Lannes sta per ripubblicare, aggiornato, il libro “Scie chimiche, la guerra aerea che avvelena la nostra vita e il pianeta”, già pubblicato da Arianna editrice. Retroscena rivelati e rilanciati anche a “Border Nights”, trasmissione web-radio: l’Italia, afferma Lannes, ha concesso i propri cieli durante l’infelice G8 di Genova del 2001, quando Berlusconi firmò un trattato segreto, con Bush, che trasformava l’Italia in un’area-test per l’irrorazione dell’atmosfera. Dal 2003, l’operazione è scattata. E nessuno ne parla: è top secret. Si chiama “Clear Skies Initiative”.Lannes attinge direttamente a fonti della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato: a differenza dei portali web delle autorità italiane, le pagine istituzionali americane ammettono apertamente che il 19 luglio 2011, a Genova, Bush e Berlusconi impegnarono i loro paesi in un programma di ricerca sul cambiamento climatico e sullo sviluppo di “tecnologie a bassa emissione”. Operazione poi approvata il 22 gennaio 2002 dal ministero italiano dell’ambiente e dal Dipartimento di Stato Usa. Dunque, scrive Lannes nel blog “Su la testa”, cambiamenti climatici indotti e “collaborazione” (si fa per dire) tra Stati Uniti e Italia, con quest’ultima a fare da cavia. «Dalla documentazione delle autorità nordamericane emerge che in questa vasta operazione gestita in prima battuta dal Pentagono, dalla Nasa e dalla Nato, sono coinvolte addirittura le industrie e le multinazionali più inquinanti al mondo: Exxon Mobil, Bp Amoco, Shell, Eni, Solvay, Fiat, Enel. Tutti insieme appassionatamente, compreso il settore scientifico: università italo-americane, Enea, Cnr, Ingv, Arpa e così via. Insomma, controllori e controllati. L’Enac addirittura ha partecipato ad un test “chemtrails” in Italia insieme a Ibm, ministero della difesa, stato maggiore dell’aeronautica e ovviamente Nato».I militari, continua Lannes, «hanno trasformato il Belpaese e l’Europa in una gigantesca camera a gas, grazie alle complicità istituzionali e all’omertà dilagante degli scientisti». In realtà, aggiunge il giornalista, quella delle «operazioni clandestine di aerosol» è una storia che risale addirittura agli anni ‘60, anche se poi ha avuto un incremento decisivo, in Europa, a partire dal 2002. «I primordi dell’operazione di copertura erano insiti nella mente perversa di Edward Teller, inventore della bomba all’idrogeno, che sulla scorta del Memorandum Groves del 1943, consigliò di usare armi nucleari in regioni abitate per fini economici di spopolamento». Teller è stato direttore emerito del Lawrence Livermore National Laboratory, dove furono elaborati i piani per le armi nucleari, biologiche e ad energia diretta. Nell’agosto 1997, Teller inviò un progetto in Italia, in un simposio svoltosi ad Erice sotto l’egida di Antonino Zichichi. «Vale a dire: il suo proposito di usare l’aviazione civile per diffondere nella stratosfera milioni di tonnellate di metalli elettroconduttivi, ufficialmente per ridurre il riscaldamento globale». Teller, poi, «ritenne che anche l’aviazione militare potesse essere usata per nebulizzare a bassa quota queste particelle tossiche nell’aria».Secondo Lannes, il piano-Teller ricompare nel 2001, a seguito del “Piano dettaglio accordo Italia Usa sul clima”. «Si tratta di accordi internazionali, indirizzati a costituire un alibi per le inevitabili violente mutazioni climatiche che la diuturna diffusione di metalli e polimeri in atmosfera ha determinato. Tra questi, un innaturale “effetto atmosfera” indotto proprio dalle cosiddette “scie chimiche” e dalle emissioni elettromagnetiche. La stessa Nasa, pur definendole in modo menzognero “contrails” ovvero “scie di condensazione”, imputa a queste coperture artificiali un riscaldamento anomalo della bassa atmosfera». Non una parola, naturalmente, sui grandi media: «La popolazione viene mantenuta all’oscuro di tutto, mentre si mandano in onda disinformatori sgangherati, pennivendoli prezzolati e negazionisti quotati in tivvù». Eppure, il testo del trattato (allegato 4) parla apertamente di “sviluppo di nuovi sistemi per la realizzazione di esperimenti di manipolazione dell’ecosistema che permettano di esporre la vegetazione a condizioni ambientali simili a quelle attese in scenari di cambiamento globale”.Nel 2001, Italia e Stati Uniti hanno sottoscritto un impegno inquivocabile: testare la “risposta” dell’ambiente a sollecitazioni atmosferiche sperimentali, verificare la “vulnerabilità degli ecosistemi”, il meteo, la disponibilità idrica e le precipitazioni, la reattività della flora, la fertilità dei suoli. Tra le attività programmate, anche “la progettazione di tecnologie per la manipolazione delle condizioni ambientali con particolare riferimento al controllo della temperatura e della concentrazione atmosferica di CO2”. Se non c’è non niente di pericoloso per la salute collettiva, si domanda Lannes, perché nascondere e occultare, fino a negare (in modo ormai ridicolo) la presenza quotidiana, nei nostri cieli, di fittissime striature anomale, spacciate per bizzarre nubi o scie di condensazione? «Forse perché la vasta e complessa operazione va ad intaccare i cicli biologici e compromette la qualità della vita».A livello politico, continua Lannes, in Italia l’operazione è stata gestita dal ministro Altero Matteoli, dal dirigente ministeriale Corrado Clini (poi ministro con Monti), mentre a livello tecnico (Cnr) in prima linea c’era soprattutto Franco Prodi, fratello di Romano Prodi, che su “Terra Nuova” nel 2008 dichiava: «Non mi consta che esistano esperimenti militari con dispersione di aerosol, tanto meno a danno della popolazione». Eppure, aggiunge Lannes, già nel 2003 il ministro della difesa Antonio Martino «ha autorizzato le forze aeree Usaf a sorvolare lo spazio italiano per provvedere alle irrorazioni chimiche, come da accordo Usa-Italia». Tutto torna, conclude Lannes: «Non a caso, il primo atto parlamentare (interrogazione a risposta scritta 4-05922) sull’aerosolterapia bellica in Italia risale al 2 aprile 2003. Ed è stato indirizzato da un deputato dell’allora Pds, ovvero da Italo Sandi, al ministro della Salute. Dopo 11 anni, quell’atto interrogativo non ha ancora avuto una risposta da ben 6 governi tricolore (Berlusconi, Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi)». L’attuale premier, inoltre, è arrivato ad annunciare a “Ballarò” «il trattamento sanitario obbligatorio agli iscritti del Pd che si azzardano a parlare di scie chimiche».Ma le leggi della fisica non sono mere opinioni, aggiunge Lannes: le scie di condensa (peraltro di brevissima durata) si formano notoriamente al di sopra degli 8.000 metri di altitudine, con meno 40 gradi centigradi e umidità inferiore al 70%. Quelle che ingombrano i cieli per intere giornate, evidentemente, non possono esserlo. Lo sospettava anche Katia Belillo, autrice di un’interrogazione presentata nel 2007 al ministro della salute, rimasta senza risposta. Sul caso era intervento anche il Parlamento Europeo già il 14 gennaio 1999, con una delibera contro le sperimentazioni Haarp. Secondo il report 2013 dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, «i popoli europei respirano attualmente misture di veleni tossici, aerosol di dimensioni microniche e submicroniche». Le sostanze tossiche utilizzate per le operazioni di aerosol, continua Lannes, «sono composte da metalli, polimeri, silicati, virus e batteri». Sotto accusa l’alluminio, un fattore determinante nell’Alzheimer: è una sostanza neurotossica che danneggia il sistema nervoso centrale e i processi omeostatici cellulari. «L’intossicazione di metalli, soprattutto il bario, produce un abbassamento delle difese immunitarie. Alluminio e bario modificano il ciclo vegetale ed uccidono la flora batterica dei terreni».«La diffusione in atmosfera di metalli pesanti come bario, alluminio, manganese – scrive ancora Lannes in post pubblicato da “Su la testa” – costituisce il colpo finale all’ambiente e alla salute umana, giacché questi elementi chimici sono neurotossici e perciò inducono patologie neurodegenerative come il Parkinson, l’Alzheimer, la Sla, nonché leucemie, tumori, malattie respiratorie gravi come la bronchiolite costrittiva». L’unico punto ancora da determinare sarebbe il livello di inquinamento e il grado di compromissione della salute collettiva. Che influenza hanno avuto, le operazioni di scie chimiche dal 2003 ad oggi, sulla salute pubblica e sulle singole persone, in particolare a danno dei bambini? Quali malattie infettive dell’apparato respiratorio sono state già provocate dalle scie chimiche? Quali allergie sono state scatenate dall’intossicazione acuta e cronica da metalli pesanti? Impossibile parlarne? Eppure, fa notare Lannes, nel 1977 la Corte Costituzionale ha sancito che «il segreto può trovare legittimazione solo ove si tratti di agire per la salvaguardia di supremi, imprescindibili interessi dello Stato (quali l’indipendenza nazionale, l’unità e indivisibilità dello Stato, la democraticità dell’ordinamento), e quindi «mai il segreto potrebbe essere allegato per impedire l’accertamento di fatti eversivi dell’ordine costituzionale». Per il giornalista, siamo di fronte a un «avvelenamento di massa» perpetrato da oltre 10 anni, in violazione dell’articolo 32 della Costituzione e anche della Convenzione europea di Aarhus del 1998, ratificata dall’Italia nel fatidico 2001, l’anno del patto segreto sull’irrorazione dei cieli.Veleni dal cielo, contro tutti noi, da quasi 15 anni. Le scie chimiche? Verità sempre oscurata, perché aberrante: impossibile ammettere di irrorare i cieli con metalli pericolosi, per manipolare il clima a scopo militare. Inoltre, la colossale operazione-aerosol in corso da lungo tempo viola apertamente svariate disposizioni, che anche l’Italia aveva sottoscritto: una prescrizione europea e persino una convenzione dell’Onu, risalente al lontano 1977, ratificata nel 1980 grazie al presidente Sandro Pertini. Lo afferma un giornalista scomodo come Gianni Lannes, più volte minacciato di morte per le sue scottanti inchieste sulle eco-mafie. Molte delle sue denunce sono contenute nel suo blog, “Su la testa”. Sulle scie chimiche, Lannes sta per ripubblicare, aggiornato, il libro “Scie chimiche, la guerra aerea che avvelena la nostra vita e il pianeta”, già pubblicato da Arianna editrice. Retroscena rivelati e rilanciati anche a “Border Nights”, trasmissione web-radio: l’Italia, afferma Lannes, ha concesso i propri cieli durante l’infelice G8 di Genova del 2001, quando Berlusconi firmò un trattato segreto, con Bush, che trasformava l’Italia in un’area-test per l’irrorazione dell’atmosfera. Dal 2003, l’operazione è scattata. E nessuno ne parla: è top secret. Si chiama “Clear Skies Initiative”.
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Obama, scie chimiche e la folle scienza genocida di Holdren
Scie chimiche ed ecologismo manicomiale, John Holdren e Barack Obama. In America se ne parla liberamente. Ma, nella colonia Italia, bocche rigorosamente cucite. Ne parla persino il consigliere scientifico di Obama. Da 15 anni negli Stati Uniti, ed anche in Italia, colonia degli Usa a tutti i livelli, vengono effettuate nei cieli irrorazioni di sostanze altamente velenose. Mentre questi apprendisti stregoni provano a cambiare il clima, avvelenano e ammalano la gente che vive in superficie. Da dove sono usciti questi assassini? Da sotto terra? Respirano con polmoni o con branchie? Sono del tutto umani coloro che avvelenano il pianeta e non si preoccupano delle conseguenze? John Holdren non è per niente uno stinco di santo. Ma quanto ad autorevolezza non è certo sguarnito. Parliamo dell’uomo scelto da Obama come Director of the White House Office of Science and Tecnhology Policy. In una pubblica intervista del 15 novembre 2011 ha candidamente ammesso, come nulla fosse, che il governo americano da 15 anni sta irrorando i cieli d’America e d’Europa, specie Italia, viste le tante basi aeree, a favore della geoingegneria e della manipolazione climatica.Irrorazioni cariche di danni e di pericoli, con notevoli influenze sulla qualità delle coltivazioni e della nostra salute. La scienza, la meteoreologia e i media di regime fanno passare queste scie come semplici scie di condensa. Spiegazioni strane e assurde visto che le scie di condensa si formano solo nel 2% dei casi e seguono determinate leggi fisiche, riassumibili in 3 condizioni che sono: quote superiori a 8000 metri, umidità relativa non inferiore al 70%, temperatura non inferiore ai -40°C. Le scie chimiche sono molto lunghe e persistenti, a differenze delle scie di condensa, e permangono nell’aria per molte ore. Gli aerei coinvolti non sono di linea e non portano contrassegni, si incrociano nei voli e non vengono segnalati dai radar. Ricercatori, scienziati e singoli cittadini hanno effettuato analisi chimiche dei terreni, delle polveri e delle acque.Si è accertata la presenza in cielo e sul suolo di bario, alluminio, calcio, potassio, torio, magnesio, quarzo, bario, tutte sostanze atte a coadiuvare la geo-ingegneria e le onde elettromagnetiche emesse dal sistema Haarp, le cui funzioni sono molteplici e alquanto discutibili. Temi scomodi che spesso vengono etichettati come teorie complottiste, o meglio come teorie da complottologhi, ignorate del tutto dai nostri media nazionali, mentre paradossalmente nell’America imperialistica autrice dei misfatti se ne parla come si trattasse di una banale partita di rugby. John Holdren, oltre che maggiore consulente scientifico di Obama, è co-autore di un libro del 1977 dove invoca la formazione di un “regime planetario” dotato di una “forza di polizia mondiale” per far rispettare le misure totalitarie di controllo della popolazione, compresi aborti forzati, programmi di sterilizzazione di massa condotti attraverso cibo e acqua, e altre cose aberranti.I concetti illustrati nel libro di Holdren, “Ecoscience”, del 1977, scritto insieme ai colleghi Paul Ehrlich e Anne Ehrlich, sono così sconvolgenti che il rapporto Front Page Magazine del febbraio 2009 sul tema è stato respinto come stravagante e imbarazzante. La faccenda è quanto mai premonitrice perché Holdren e i suoi colleghi sono ora in prima linea negli sforzi volti a combattere il “cambiamento climatico” attraverso programmi altrettanto folli incentrati sulla geoingegneria del pianeta. Holdren ha recentemente sostenuto “progetti di geoingegneria su vasta scala volti a raffreddare la Terra”, come “sparare particelle inquinanti in atmosfera per riflettere i raggi del sole”, che come molti hanno sottolineato sta già avvenendo attraverso le “chemtrails” (scie chimiche, per l’appunto).“Ecoscience” parla di una serie di modi in cui la popolazione mondiale potrebbe essere ridotta per la lotta contro ciò che gli autori vedono come la maggiore minaccia per la specie umana, la sovrappopolazione. In ogni caso, le proposte sono formulate con una sobria retorica accademica, ma la raccapricciante consistenza di quello che Holdren ed i suoi co-autori sostengono è chiara. Tali proposte comprendono: 1) Sterilizzazione forzata della popolazione aggiungendo farmaci al cibo e alle acque, 2) Aborti forzati, 3) Stacco forzato dei figli dalle famiglie irregolari, 4) Applicazione delle regole draconiane tipo cinese con pesanti penalizzazioni verso il secondo figlio, 5) Istituzione di una forza di polizia mondiale a sostegno delle misure appena citate.Holdren e i suoi co-autori ritengono che la crisi demografica sia così grave da “mettere a rischio la società”. Arrivano a sostenere che le madri single dovrebbero vedere i loro bambini portati via dal governo, oppure potrebbero essere costrette ad aborti. Speculano su soluzioni inconcepibilmente draconiane per quella che loro avvertono come una crisi di sovrappopolazione. Ma ciò che è particolarmente preoccupante è che Holdren non si è limitato a fare proposte orripilanti tipo strappare bambini dalle braccia delle loro madri e portarli via, o costringere le donne ad avere aborti, che lo vogliano o no. Quello che più scandalizza è il modo compassato, spigliato ed impudente col quale egli presenta le sue schizofreniche soluzioni.Il mondo si scandalizzò per i giochini erotici di Bill Clinton all’interno dello Studio Ovale con la sua segretaria Monica Lewinsky. Giornali e televisioni ne parlarano per mesi e per anni, scandalizzati per delle cose tutto sommato banali. Niente si dice invece su questi abominevoli piani che trasformano la Casa Bianca non più in un innocente postribolo presidenziale, ma in una casa diabolica dove vengono intessute le più aberranti trame contro l’umanità intera. Altro che Khomeini, altro che Kim Jong e Corea del Nord, altro che Saddam e Gheddafi, giustiziati per cose assai meno infami. John Holdren prevede una società in cui il governo impianti una capsula per la sterilizzazione a lungo termine in tutte le ragazze non appena raggiungono la pubertà, che poi devono chiedere il permesso ufficiale di rimuovere temporaneamente la capsula e avere la possibilità di avere una gravidanza in un momento successivo. In alternativa, vuole una società che sterilizzi tutte le donne che hanno due figli. Che tipo di società infernale ha in testa questo losco individuo?Le persone corrette e dignitose, sarebbero lasciate tranquille, continua Holdren, ma coloro che “contribuiscono al deterioramento della coesione sociale” potrebbero essere “costrette ad esercitare la responsabilità riproduttiva”, che potrebbe significare soltanto una cosa, aborto coatto o involontario, sterilizzazione. Che alternativa sarebbe forzare la gente a non avere figli? Possono essere piazzati monitor governativi nelle camere da letto delle persone irresponsabili per garantire l’uso dei preservativi? Porteremo di nuovo la cintura di castità Ma che follia è mai questa? “Deterioramento sociale”? Holdren sta seriamente suggerendo che alcune persone contribuiscono al degrado sociale, più di altri, e quindi dovrebbero essere sterilizzate o costrette ad abortire, per impedire loro di riprodursi? Non è questa eugenetica, pura e semplice? Qui andiamo oltre alle bestialità del dottor Josef Mengele (1911-1979). Esistono gli estremi per ricoverare il professor Holdren in una clinica psichiatrica, con tanto di camicia di forza.Si è squarciato l’ultimo velo. Ci si aspetta che noi cediamo volontariamente la sovranità nazionale a un regime di tipo militar-sanitario che sarà armato e avrà la capacità di agire come una forza di polizia. Polizia internazionale pronta a far rispettare le nuove leggi con le armi. Vaccinazioni obbligatorie, obbligatorio controllo delle nascite, e controllo furibondo di tutte le attività economiche. Il bello è che Holdren non la mette sul piano delle battute ironiche e provocatorie. Sostiene le sue teorie in modo dannatamente serio. Ed è, non dimentichiamolo per un solo attimo, responsabile della scienza e della tecnologia degli Stati Uniti, il paese che ci manovra e ci dirige a bacchetta. «Siamo di fronte a una catastrofe globale, la sovrappopolazione, che deve essere risolta a tutti i costi entro il 2000». Questo scriveva Holdren nel 1977, pensando che fossimo in bilico sull’orlo di una catastrofe globale, e che fosse necessaria l’attuazione di regole fasciste per evitare l’imminente disastro.È importante sottolineare che John Holdren non ha mai preso pubblicamente le distanze da se stesso, da una qualsiasi di queste posizioni, pur avendo avuto 32 anni a disposizione per farlo, da quando il libro è stato pubblicato per la prima volta. Occorre anche sottolineare che queste non sono solo le opinioni di un essere disumano. Sono opinioni che riecheggiano quelle sostenute da numerose altre personalità di spicco della politica americana, del mondo accademico e del movimento ambientalista da decenni. Si consideri il fatto che gente come David Rockefeller, Ted Turner, e Bill Gates, tre uomini che hanno legami con il movimento eugenetista integralista, di recente si sono incontrati con altri miliardari filantropi a New York per discutere di “come la loro ricchezza potrebbe essere utilizzata per rallentare la crescita della popolazione mondiale”, come riportato dal quotidiano londinese “Times”. Ted Turner ha pubblicamente sostenuto scioccanti programmi per la riduzione della popolazione che dovrebbero abbattere la popolazione umana di uno sconcertante 95%. Ha anche chiesto, in stile comunista, la politica del figlio unico da parte dei governi in Occidente.Naturalmente, Turner non segue affatto il suo stesso regolamento su come tutti gli altri devono vivere la loro vita, avendo cinque figli e possedendo non meno di 2 milioni di acri di terra. Nel terzo mondo, Turner ha contribuito letteralmente alla riduzione di miliardi di individui attraverso i programmi delle Nazioni Unite, aprendo la strada a persone del calibro di Bill Gates, di Melinda Gates e di Warren Buffett. Gates padre, top eugenista, è stato a lungo uno dei principali membri del Consiglio di Amministrazione di Planned Parenthood). Rallentare la crescita della popolazione del mondo e migliorarne la salute sono due concetti inconciliabili per l’élite. Elitari come David Rockefeller non hanno alcun interesse a “rallentare la crescita della popolazione mondiale” con metodi naturali. Il loro ordine del giorno è radicato nella pseudo-scienza eugenetica. Essi puntano a un semplice abbattimento dell’eccedenza di popolazione attraverso mezzi draconiani, con tutti i metodi e in tutte le salse possibili ed immaginabili.L’eredità di David Rockefeller non è derivata da una ben intenzionata “filantropica” voglia di migliorare la salute nei paesi del terzo mondo, ma è nata da una spinta Malthusiana per eliminare i poveri e quelli considerati inferiori dal punto di vista razziale, con la giustificazione del darwinismo sociale. Come documentato nel film “Endgame” di Alex Jones, Rockefeller padre, John D. Rockefeller, ha esportato l’eugenetica in Germania dalla sua origine in Gran Bretagna, finanziando l’Istituto Kaiser Wilhelm che poi sarebbe diventato un pilastro centrale dell’ideologia nazista della super razza del Terzo Reich. Dopo la caduta del nazismo, importanti eugenetisti tedeschi sono stati protetti dagli alleati in modo che la parte vincente potesse beneficiare di più della loro “esperienza” nel mondo del dopoguerra. La motivazione per l’attuazione di misure drastiche di controllo della popolazione è cambiata per soddisfare le mode e le tendenze contemporanee. Ciò che una volta era mascherato come preoccupazione per la sovrappopolazione è tornato sotto le spoglie del cambiamento climatico e del movimento per il riscaldamento globale.Quello che non è cambiato è il fatto che nella sua essenza, questo rappresenta nient’altro che l’arcana pseudo-scienza dell’eugenetica prima costruita dagli Stati Uniti e dall’élite britannica alla fine del 19 ° secolo, e poi abbracciata dal leader nazista Adolf Hitler. Nel 21° secolo, il movimento eugenetista ha cambiato identità ancora una volta. Tutto verte sulle emissioni di carbonio e sull’idea l’idea che avere troppi figli o godere di un certo standard di vita stia distruggendo il pianeta attraverso il riscaldamento globale. Si crea così l’alibi e il pretesto per regolare e controllare in modo dittatoriale e disumano ogni aspetto della nostra vita. Il fatto che il principale consulente scientifico del presidente degli Stati Uniti, un uomo con il dito sul polso della politica ambientale, sostenga la sterilizzazione di massa degli attraverso la catena alimentare e la fornitura di acqua è qualcosa di terrificante, degna di futuristico e fantascientifico film horror. Ideologia diabolica vestita da movimento ecologico ed ambientalista. Ambientalista di nome ma criminoso e manicomiale di fatto.Solo portando alla luce gli sconvolgenti piani di controllo sulla popolazione di Holdren possiamo veramente segnalare alle persone gli orrori che l’élite ha previsto per noi attraverso il controllo della popolazione, la sterilizzazione e i genocidi. Programmi di abbattimento che sono già in corso. Un presidente di Stato si valuta attraverso la scelta dei suoi massimi collaboratori. Obama si è distinto non solo andando a pescare nel torbido questo scienziato pazzoide che da noi, anche col peggior parlamento possibile sarebbe stato mandato in casa di cura, ma anche per altre scelte deliranti, come quella dell’avvocato Michael Taylor alla direzione del Food Safety Working Group (Codex Alimentarius americano), un Azzeccagarbugli legato alla Fda e alla Monsanto, come segnalato nella mia tesina “I magna-magna planetari dell’avvocato Taylor” del 10/5/09.(Valdo Vaccaro, estratti da “Scie chimiche ed ecologismo manicomiale, John Holdren e Barack Obama” dal blog di Vaccaro del 12 agosto 2013).Scie chimiche ed ecologismo manicomiale, John Holdren e Barack Obama. In America se ne parla liberamente. Ma, nella colonia Italia, bocche rigorosamente cucite. Ne parla persino il consigliere scientifico di Obama. Da 15 anni negli Stati Uniti, ed anche in Italia, colonia degli Usa a tutti i livelli, vengono effettuate nei cieli irrorazioni di sostanze altamente velenose. Mentre questi apprendisti stregoni provano a cambiare il clima, avvelenano e ammalano la gente che vive in superficie. Da dove sono usciti questi assassini? Da sotto terra? Respirano con polmoni o con branchie? Sono del tutto umani coloro che avvelenano il pianeta e non si preoccupano delle conseguenze? John Holdren non è per niente uno stinco di santo. Ma quanto ad autorevolezza non è certo sguarnito. Parliamo dell’uomo scelto da Obama come Director of the White House Office of Science and Tecnhology Policy. In una pubblica intervista del 15 novembre 2011 ha candidamente ammesso, come nulla fosse, che il governo americano da 15 anni sta irrorando i cieli d’America e d’Europa, specie Italia, viste le tante basi aeree, a favore della geoingegneria e della manipolazione climatica.
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Münchau: buone notizie, questa orribile Ue sta per rompersi
Mentre entriamo nella seconda metà del secondo decennio di questo secolo, l’Unione Europea si sta spezzando lungo tre linee di faglia. Una divide il prospero Nord dall’indebitato Sud. La seconda divide una periferia euroscettica da un centro eurofilo. La terza divide un Ovest liberale da un Est sempre più autocratico. Questa è la scena della disintegrazione e della frattura dell’Ue. È difficile fare delle previsioni specifiche per il 2016. Ci sono certamente molti rischi noti: il referendum britannico sull’appartenenza all’Ue; il costante flusso dei profughi; l’ampliarsi degli squilibri economici; il tracollo della Grecia; il sistema bancario italiano sull’orlo dell’insolvenza e le incombenti tensioni tra la Germania e i paesi periferici sulla politica fiscale; la crescita del terrorismo jihadista; l’incertezza politica in Spagna e in Portogallo; la crisi in Ucraina, lungi dall’essere risolta; lo scandalo Volkswagen sulle emissioni, che è passato in secondo piano ma minaccia di sconquassare uno degli ultimi pilastri della forza industriale del continente.Con tutte queste crisi che si svolgono nello stesso momento, mi pare più utile guardare alla figura d’insieme – al rischio sistemico che non viene da una singola crisi in particolare, ma dal fatto di doverne affrontare così tante nello stesso momento. Se fate un passo indietro, vi accorgete che la molteplicità delle crisi non è poi così accidentale. Se create un’unione monetaria senza delle istituzioni economiche, delle politiche fiscali e dei sistemi giudiziari condivisi, alla fine siete condannati a schiantarvi contro un muro. Allo stesso modo, una zona dove le persone possono circolare liberamente senza passaporto, ma priva di un controllo condiviso delle frontiere esterne, non può durare a lungo. C’è uno schema comune sottostante a tutto questo. L’Ue ha una tendenza innata ai cattivi compromessi e alle costruzioni adatte solo al bel tempo. Nell’ultimo anno non è cambiato sostanzialmente niente, eccetto il fatto che il problema è diventato evidente a un maggior numero di persone.La rottura, quando verrà, potrebbe ancora scioccarci. Ma offre anche delle opportunità. Penso che la cosa peggiore che l’Ue possa fare sia quella di continuare a procedere nella stessa direzione in cui è andata finora. I grandi cambiamenti è più facile che siano forzati direttamente dagli elettori – tramite un referendum, come quello che presto si terrà nel Regno Unito – che dai politici e dai diplomatici. Il processo dell’Ue ha la tendenza ad evitare disconinuità improvvise. Le cose andranno in frantumi solo quando le pressioni provenienti dai singoli paesi saranno diventate troppo forti. C’è il rischio che ciò spinga verso una disintegrazione incontrollata. Ma c’è anche una buona possibilità che i leader politici europei siano abbastanza avveduti da muoversi in avanti con spirito costruttivo. L’eventuale scelta del Regno Unito di abbadonare l’Ue potrebbe, alla fine, portare ad una più ampia trasformazione dell’Ue stessa, con un gruppo di paesi più interni che perseguono una maggiore integrazione, e un gruppo di paesi più esterni, come il Regno Unito, che potrebbero trovarsi tranquillamente a proprio agio.Una rottura dell’Eurozona, che tuttora mi aspetto presto o tardi di vedere, offrirebbe anch’essa l’opportunità per un più ampio riaggiustamento. Una volta che vedete l’euro come un sistema di tassi di cambio fissi con una moneta condivisa, anziché come un’unione monetaria irreversibile, la nebbia mentale si dipana. Un tale sistema può funzionare solo tra un piccolo gruppi di paesi con economie fortemente convergenti. L’Austria e la Germania mantengono un tasso di cambio quasi fisso fin dagli anni ’70. Perché non potrebbero continuare a farlo per altri 50 anni? La Francia e la Germania hanno mantenuto un tasso di cambio essenzialmente stabile fin dagli anni ’80. Perché dovrebbero finire sui lati opposti di un sistema di tassi di cambio proprio adesso?L’argomento a favore di una maggiore integrazione economica e politica tra Germania e Francia rimane ancora forte – certamente molto più forte dell’argomento a favore di un’integrazione economica e politica in una Ue dove alcuni paesi sono parte dell’Eurozona, e altri non hanno nessuna intenzione di entrarci. Ma non c’è mai stata una base logica convincente nell’argomento secondo il quale un mercato unico avrebbe bisogno di una moneta unica. Piuttosto è vero l’inverso. I paesi con una moneta unica devono avere un’integrazione dei mercati molto più profonda dei paesi che mantengono la propria moneta. Se accettiamo che l’Ue sia un’unione che contiene diverse monete, e lo dobbiamo fare, dobbiamo anche accettare che essa non sia un unico mercato, ma un insieme di mercati.Al di là della frammentazione economica, per l’Europa c’è la divisione politica tra Est e Ovest. Ungheria e Polonia hanno eletto governi euroscettici di destra. Hanno entrambi ridotto l’indipendenza della magistratura e la libertà di stampa. Da tempo ritengo che l’allargamento dell’unione non sia stata una grande opportunità storica, come si dice di solito, ma invece un errore storico. L’allargamento ha solo aggiunto divisione all’interno dell’Europa, e ha reso l’Ue più disfunzionale. Vedo quindi frammentazioni e rotture non come delle minacce da evitare, ma come delle opportunità da cogliere. La mia previsione per il 2016 è che si vedranno ancora più rotture. La mia speranza è che siano gestite bene.(Walter Munchau, “Una rottura dell’Eurozona sarebbe un’opportunità da cogliere”, dal “Financial Times” del 3 gennaio 2016, tradotto da “Voci dall’estero”).Mentre entriamo nella seconda metà del secondo decennio di questo secolo, l’Unione Europea si sta spezzando lungo tre linee di faglia. Una divide il prospero Nord dall’indebitato Sud. La seconda divide una periferia euroscettica da un centro eurofilo. La terza divide un Ovest liberale da un Est sempre più autocratico. Questa è la scena della disintegrazione e della frattura dell’Ue. È difficile fare delle previsioni specifiche per il 2016. Ci sono certamente molti rischi noti: il referendum britannico sull’appartenenza all’Ue; il costante flusso dei profughi; l’ampliarsi degli squilibri economici; il tracollo della Grecia; il sistema bancario italiano sull’orlo dell’insolvenza e le incombenti tensioni tra la Germania e i paesi periferici sulla politica fiscale; la crescita del terrorismo jihadista; l’incertezza politica in Spagna e in Portogallo; la crisi in Ucraina, lungi dall’essere risolta; lo scandalo Volkswagen sulle emissioni, che è passato in secondo piano ma minaccia di sconquassare uno degli ultimi pilastri della forza industriale del continente.
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Il giovane Renzi e l’idea (geniale) del Ponte sullo Stretto
Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.«Tre anni fa il futuro premier bocciava il Ponte sullo Stretto, auspicando che quella montagna di denaro pubblico necessaria – 8 miliardi di euro – fosse indirizzata piuttosto a realizzare nuove scuole e a migliorare quelle esistenti», ricordano Fabio Granata, Anna Donati e Annalisa Corrado, esponenti di “Green Italia”, che in un post ripreso da “Il Cambiamento” condannano questa «spericolata inversione a U», augurandosi che l’uscita di Renzi sia solo «la sua ennesima promessa non mantenuta». Gli italiani, del resto, «credevano che quello del Ponte fosse un capitolo chiuso, perché di fronte ad un paese costantemente piegato dal dissesto idrogeologico, con infrastrutture che collassano per il maltempo e situazioni come quelle di Messina senz’acqua potabile, indegne di un paese civile, anche solo parlare di Ponte sullo Stretto è uno schiaffo alla realtà». Già, la realtà: «E’ quella dei cittadini dell’Aquila ancora sfollati, quelli della Liguria che passano da un’alluvione con smottamenti e morti a un piano-casa tutto cemento, o il popolo inquinato di Taranto e di Crotone». Allegria: «Dopo le trivelle, gli inceneritori, le autostrade, mancava solo il Ponte assurto a ‘nuovo simbolo per l’Italia’ per dimostrare che il premier crede che le ricette da boom economico degli anni ‘60 siano ancora attuali, mentre c’è un mondo che va in un’altra direzione».«Di straordinario – ricorda Leandro Janni, presidente siciliano di Italia Nostra – il ponte sullo Stretto di Messina ha solo il tempo e i soldi sprecati per un’opera insostenibile dal punto di vista tecnico, ambientale ed economico». Il progetto definitivo, elaborato da Eurolink SpA, è considerato talmente lacunoso dalla Commissione di valutazione di impatto ambientale da far avanzare la richiesta, il 10 novembre 2011, di ben 223 integrazioni su tutti gli aspetti nodali (strutturali, trasportistici, economico-finanziari, geologici, idrogeologici, naturalistici, paesaggistici, relativi alle emissioni atmosferiche, ai rumori e alle vibrazioni), a cui Eurolink non è ancora riuscita rispondere esaurientemente. Sconcertante, se si pensa che da oltre 10 anni la cattiva politica – cui ora si associa il “giovane” Renzi – vorrebbe costruire, «in una delle aree a più alto elevato rischio sismico del Mediterraneo, un ponte sospeso, ad unica campata di 3,3 km di lunghezza, sorretto da torri di circa 400 metri di altezza, a doppio impalcato stradale e ferroviario». Oggi il ponte più lungo al mondo, il Minami Bisan-Seto in Giappone, è lungo un terzo di quello progettato per Messina.Si tratta di un’opera che ad oggi verrebbe a costare 8,5 miliardi di euro, continua il “Cambiamento”: oltre mezzo punto di Pil, e senza un piano economico-finanziario che ne dimostri la redditività e l’utilità. Impietoso il dossier dei prestigiosi tecnici italiani ingaggiati dagli ambientalisti per “smontare” il disastroso progetto di Eurolink. Primo problema, il terremoto: viene garantita l’invulnerabilità del manufatto solo per eventi sismici fino a 7,1 Richter, escludendo quindi «in maniera ascientifica» che ci possa essere un sisma di maggiore energia in una zona di rischio molto elevato. Inoltre, nel calcolo dei materiali da scavo viene dimenticato il conteggio di 3,5 milioni di metri cubi di terreno estratto o movimentato. Sos ambiente: non è stata ancora elaborata una valutazione di incidenza credibile sullo Stretto di Messina, area di pregio naturalistico teoricamente a tutela europea. L’ultimo progetto, poi, considera “trascurabili” le modifiche apportate: un incremento di 17 metri dell’altezza delle torri, che arriverebbero a quota 400 metri, per sollevare l’impalcato sino ad 80 metri sul livello del mare. Poi lo spostamento della torre sul lato della Calabria, la variazione del tipo d’acciaio e quindi il peso delle funi e delle strutture portanti, e infine il cambiamento dell’altezza dell’impalcato del viadotto Pantano, lato Sicilia.Non è tutto. «Sono state presentate analisi trasportistiche insufficienti ed elaborati progettuali incompleti – aggiungono gli ambientalisti – da cui emerge che a 25 anni dalla realizzazione dell’opera ponte si registrerebbe un traffico pari a 11,6 milioni di auto all’anno per un’infrastruttura dimensionata per 105 milioni di auto l’anno, con un grado di utilizzo, quindi, dell’11% circa». Mostruoso, super-costoso e super-inutile: bravo Renzi. Non fa che aggiungere malinconia e desolazione l’esame dell’équipe tecnica che ha “fatto le pulci” all’improbabile progetto Eurolink. Tra gli oltre 30 esperti che hanno lavorato con le associazioni ambientaliste, scrive il “Cambiamento”, fra gli specialisti dell’università di Messina troviamo Emilio Di Domenico (oceanografia biologica), Gaetano Gargiulo (botanica), Lucrezia Genovese (Cnr), Salvatore Giacobbe (ecologia). Poi Domenico Gattuso (ingegneria, Reggio Calabria), i geologi Giuseppe Gisotti, Alessandro Guerricchio e Gioacchino Lena.Ci sono tecnici come Piero Polimeni, ingegnere pianificatore, esperto di cooperazione e sviluppo locale; Guido Signorino, professore ordinario del dipartimento economia, statistica e sociologia dell’Università di Messina. E poi Stefano Sylos Labini, ricercatore dell’Enea e geologo come Carlo Tansi (Università della Calabria). Non manca il geologo più famoso d’Italia, il conduttore televisivo Mario Tozzi. E ci sono specialisti come il professor Vincenzo Vacante (agraria, Reggio), l’ingegner Claudio Villari, un urbanista come il professor Alberto Ziparo dell’ateneo di Firenze. «Serve altro?», si domanda “Il Cambiamento”. Sì, certo: tanto per cominciare servirebbe un altro premier, magari regolarmente eletto. E poi un’altra Italia, in cui a nessuno verrebbe in mente di proporre opere demenziali e succulente per il sistema mafioso degli appalti, dalla linea Tav Torino-Lione al suo gemello mediterraneo, l’inaffondabile Ponte sullo Stretto.Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.
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Volkswagen? Robetta: Gm fece sparire i tram dagli Usa
Emissioni truccate e airbag difettosi: negli ultimi 18 mesi, due dei più grandi produttori di auto al mondo sono stati giudicati responsabili di “complotti di morte”. «Le rivelazioni recenti, tuttavia, non possono competere con gli scandali industriali precedenti», avverte lo scrittore canadese Yves Engler, che punta il dito contro gli infiniti atti di pirateria industriale (e corruzione poltica) per soppiantare il trasporto sostenibile, elettrico, a favore del motore a scoppio. A tener banco, ovviamente, oggi è il caso Volkswagen: l’azienda tedesca è stata colta in flagrante per aver equipaggiato milioni di automobili con sistemi taroccati per la misurazione delle emissioni, “pulite” nel corso dei test ma, durante la guida, con un rilascio di ossido d’azoto 40 volte superiore al limite dichiarato. Così, «migliaia di persone saranno colpite da asma, malattie ai polmoni e altri disturbi». Lo scandalo Volkswagen ricorda quello della General Motors, impegnata a «nascondere i difetti nel meccanismo di accensione dell’airbag in milioni dei suoi veicoli». Gli interruttori difettosi fanno in modo che l’airbag si rompa in caso di incidente: «General Motors riconosce che almeno 124 persone sono morte in conseguenza di un’anomalia, della quale i dirigenti della compagnia erano a conoscenza da anni».In uno scandalo di portata più grande, cinquant’anni fa, ricorda Engler in un post su “Counterpunch” tradotto da “Come Come Chisciotte”, erano emerse informazioni che «coinvolgevano le compagnie di automobili in un complotto, con lo scopo di mantenere la popolazione sotto la coltre di una nebbia tossica». Il “complotto dello smog” è stato rivelato nel 1968, quando il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha archiviato un caso di antitrust contro le “tre grandi”, accusate di collusione nel celare l’installazione di marmitte catalitiche e altre tecnologie per ridurre l’inquinamento. A partire dal 1953, disse il Dipartimento di Giustizia, «i difensori e i co-cospiratori sono stati coinvolti in un accordo e complotto irragionevole per la limitazione della suddetta libera concorrenza e commercio nell’equipaggiamento di controllo delle emissioni inquinanti presente nel motore dei veicoli». Per acquietare le critiche montanti sull’inquinamento dell’aria generato dalle automobili, General Motors, Ford e Chrysler (insieme all’Ama, Automobile Manufacturers Association), trovarono un accordo proprio nel 1953 per la ricerca congiunta sulle tecnologie per ridurre le emissioni inquinanti. «I produttori di automobili hanno asserito che la loro alleanza era determinata dall’interesse per la salute pubblica. Non è stato così».Col passare del tempo, continua Engler, è emersa l’evidenza che le Tre Grandi si erano in realtà unite per rinviare l’installazione dei costosi dispositivi anti-inquinamento. Nel libro “Taken for a Ride”, Jack Doyle scrive che «i produttori di automobili, tramite Ama, hanno complottato non per competere nella ricerca, sviluppo, produzione e installazione dei dispositivi» per il controllo dell’inquinamento. In realtà «hanno fatto, congiuntamente, tutto ciò che era in loro potere per ritardare tale ricerca, sviluppo, produzione e installazione», imbrogliando i consumatori. «Ma lo scandalo di portata ancora più grande, nell’ambito delle automobili, è stato di molto peggiore dell’alleanza dello smog», scrive Engler. «È stato un complotto che ha mutato l’aspetto dei paesaggi urbani in tutto il Nord America». Il capo di General Motors, Alfred Sloan, già nel 1922 aveva creato un gruppo di lavoro con l’incarico di «minare e sostituire il tram elettrico». La prima azione del gruppo fu il lancio di una linea di autobus che, a Los Angeles, arrivava un minuto prima della vettura elettrica. Risultato: la linea dei tram è stata ben presto chiusa. «Al tempo vi erano centinaia di linee tramviarie a Los Angeles, così il caso della chiusura di una di esse non si è rivelato particolarmente degno di nota. Ma ciò è stato foriero di cose a venire».All’inizio degli anni ’20 si assisteva al boom dell’industria tramviaria, ricorda lo scrittore canadese. C’erano 1.200 tra compagnie tramviarie e di treni interurbani, con 29.000 miglia di percorso. Negli anni migliori si superavano i 15 miliardi di passeggeri. Più di mille miglia di percorso per i tram si intersecavano nella sola area di Los Angeles, portando ogni giorno al lavoro la maggior parte delle persone. Ma la concorrenza motorizzata stava crescendo: il numero di auto su strada ha raggiuse quota 20 milioni negli anni ’20. In questo periodo così cruciale nella storia del traffico, «General Motors era intenta nell’eliminazione della concorrenza». Offrì ai politici municipali delle Cadillac gratis, «affinché votassero la condotta della compagnia». Fece pressioni anche sulle banche nelle piccole comunità, «in modo tale da mettere alla fame le compagnie locali che finanziavano i tram». E in seguito fu stato reso disponibile un credito agevolato per le compagnie tramviarie che sostituivano i loro percorsi con autobus di General Motors. Nel 1932, l’azienda fondò l’Ucmt, United Cities Motor Transportation, per l’acquisto di compagnie tramviarie in aree urbane e la loro conversione in linee per autobus. Percorsi rivoluzionati, cavi aerei rimossi. A conversione completata, «la Ucmt ha rivenduto le nuove reti di autobus, a condizione che non venissero riconvertite a tram».Nel relativo anonimato di Galesburg nell’Illinois, continua Engler, la stessa Ucmt fece la sua prima acquisizione di controllo nel 1933. «Muovendosi rapidamente, aveva già smantellato le reti tramviarie in tre centri urbani, prima di ricevere il richiamo ufficiale dell’American Transit Association». Dopo il richiamo ufficiale nel 1935, General Motors sciolse la Ucmt. Ma «non ci è voluto molto prima che le sue attività anti-tram venissero ripristinate e raddoppiate». General Motors e soci «hanno sviluppato un network di organizzazioni per il contatto con la clientela». Nel ‘36, Gm si è unita a Greyhound per formare il gruppo National City Lines; nel 1938 ambedue collaborarono con la Standard Oil della California per creare la Pacific City Lines; nel 1939 altre due compagnie, Phillips Petroleum e Mack Truck, si unirono alla National City Lines. Infine, American City Lines è stata creata nel 1943 per focalizzarsi sulle città più grandi. Più difficile la penetrazione di Gm nelle grandi città: «Nelle aree urbane più grandi le linee dei tram erano spesso di proprietà delle compagnie elettriche, le quali con i guadagni della vendita dell’energia elettrica, hanno potenziato le rotaie».Le compagnie elettriche, spiega Engler, beneficiarono di un accantonamento fiscale che permise loro di assorbire i deficit dei tram, tramite tasse più basse. Ma la cosa non sfuggì agli strateghi di Gm, prontissimi come sempre a premere sui politici per promuovere i propri sacri interessi: «Bloccata da quest’accordo di proprietà dell’elettricità per i tram, all’inizio degli ’30 General Motors ha prodotto una quantità di dossier per il Congresso, sottolineando la mancanza di entrate erariali che ne è risultata». Come prevedibile, «la strategia di General Motors si è rivelata un successo». Il Public Utility Holding Company Act del 1935 «ha reso estremamente difficile per le compagnie energetiche possedere le linee dei tram», e così hanno iniziato a venderle. «Diciotto mesi dopo, General Motors ha fatto a pezzi 90 miglia di rete tramviaria a Manhattan. Dopo aver trasformato con successo il sistema tramviario di New York, General Motors e i suoi amici intimi si sono spostati a Tulsa, Philadelphia, Montgomery, Cedar Rapids, El Paso, Baltimora, Chicago e Los Angeles. Detto fatto, un centinaio di reti elettriche di trasporto in 45 città sono state fatte a pezzi, convertite e rivendute». Verso la metà degli anni ’50, quasi il 90% della struttura elettrica dei tram negli Stati Uniti era stata liquidata.«I difensori di General Motors negano che qualsiasi complotto abbia avuto luogo», scrive Engler. Tuttavia i fatti sono schiaccianti: come ha evidenzato Edwin Black nel libro “Internal Combustion”, General Motors fu condannata dal Dipartimento di Giustizia, dal Senato e dai tribunali «per pratiche anti-trust che erano parte di questo complotto internazionale». In una sezione dell’accusa del 1947 si legge che i difensori furono «coinvolti coscienziosamente e di continuo in un accordo sleale e illecito», nonché «in un complotto per l’acquisizione di un reale interesse finanziario in una parte effettiva delle compagnie che forniscono il servizio di trasporto locale in varie città», per «eliminare ed escludere la concorrenza nella vendita degli autobus, dei derivati del petrolio, dei pneumatici e delle camere d’aria alle compagnie locali di trasporto». Il verdetto fu di colpevolezza. «Tuttavia, la punizione per aver complottato per distruggere un modello di traffico di massa è ammontata a una multa di 5.000 dollari: non certo un deterrente, per una compagnia che vale miliardi di dollari».Emissioni truccate e airbag difettosi: negli ultimi 18 mesi, due dei più grandi produttori di auto al mondo sono stati giudicati responsabili di “complotti di morte”. «Le rivelazioni recenti, tuttavia, non possono competere con gli scandali industriali precedenti», avverte lo scrittore canadese Yves Engler, che punta il dito contro gli infiniti atti di pirateria industriale (e corruzione poltica) per soppiantare il trasporto sostenibile, elettrico, a favore del motore a scoppio. A tener banco, ovviamente, oggi è il caso Volkswagen: l’azienda tedesca è stata colta in flagrante per aver equipaggiato milioni di automobili con sistemi taroccati per la misurazione delle emissioni, “pulite” nel corso dei test ma, durante la guida, con un rilascio di ossido d’azoto 40 volte superiore al limite dichiarato. Così, «migliaia di persone saranno colpite da asma, malattie ai polmoni e altri disturbi». Lo scandalo Volkswagen ricorda quello della General Motors, impegnata a «nascondere i difetti nel meccanismo di accensione dell’airbag in milioni dei suoi veicoli». Gli interruttori difettosi fanno in modo che l’airbag si rompa in caso di incidente: «General Motors riconosce che almeno 124 persone sono morte in conseguenza di un’anomalia, della quale i dirigenti della compagnia erano a conoscenza da anni».