Archivio del Tag ‘Enel’
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Austerity: tradimento 5 Stelle, camerieri della Colonia Italia
Se il cameriere, cioè il governo italiano, non si sbriga a tassare i cittadini, allora puntuale arriva la letterina del padrone, dell’Unione Monetaria Europea che tradotta significa più o meno “non ci interessano le vostre faide tra colonizzati; obbedite, poi vi sistemerete nel microscopico spazio di ipocrisia che resta”. Forse sono parole pesanti, ancorché vere, ma credo vi ricordino qualcosa, tipo l’impostazione che un certo MoVimento aveva quando si trattava di Uem, di stagnazione, di politiche degli zero virgola (briciolesimo) e di intrallazzi di palazzo. Certo, la critica che gli muovevo all’epoca era “meno toni strumentalizzabili dai media, più tecnica e decisione nei fatti”, mentre adesso mi indigno per come i giornalisti della carta stampata non denuncino un’evidenza: quel MoVimento è passato dal rifiuto della maggioranza dei cittadini italiani verso certi parametri Uem (inventati, peraltro), al rispetto religioso di essi e perfino all’aggressione di chi non professi altrettanto!!! Avete presente quando un truffatore, di quelli che si presentano ai cancelli delle persone anziane fingendosi dell’Enel, viene sgamato e se ne va ostentando proteste ma trasmettendo imbarazzo e cialtroneria (cioè quel mix tra l’essere disperati e mentecatti)?
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Grillo coi nemici dell’Italia che vogliono Draghi al Quirinale
Mister Europa osserva divertito il massacro politico italiano andato in scena in mondovisione. E’ vomitevole la marmellata di democrazia confezionata grazie al prezioso tritacarne del signor Beppe Grillo, sceso in campo a muso duro – dando ordini ai suoi valletti in Parlamento, terrorizzati all’idea di tonare al voto – per blindare il piccolo potere italiano e restituirlo interamente all’establishment europeo. Grillo obbedisce al vero potere che tiene in pugno il Belpaese dai tempi del Britannia, il grazioso panfilo che lo stesso giorno, il 2 giugno 1993, ospitò a bordo l’allora giovane direttore generale del Tesoro e il comico genovese vicino a De Mita, cacciato dalla Rai nel 1986 per una fatale battutaccia sulle ruberie dei socialisti. Mario e Beppe, due destini che tornano a incrociarsi: è grazie a Grillo se oggi il mitico Super-Mario vede avvicinarsi a grandi passi il Quirinale, quando cioè Mattarella – tra un paio d’anni – vedrà scadere il suo mandato alla presidenza della Repubblica. Sbagliava, chi scorgeva in Draghi un candidato di ferro per Palazzo Chigi dopo Conte: puntando proprio al Colle, il sommo banchiere europeo non ha commesso l’errore di rendersi inevitabilmente impopolare, mettendosi a capo di un governo-vergogna come quello che oggi Renzi e il fantasma di Di Maio si apprestano a sorreggere, calpestando la volontà popolare degli italiani.Si commenta da solo lo sconcio offerto al pubblico, anche internazionale: un governo di nani obbedienti, coalizzati per disperazione e con sprezzo del ridicolo. Missione: emarginare Salvini, come vuole il padrone, e impedire agli elettori di tornare a votare. La classica manovra di palazzo, che comporterà conseguenze spiacevoli per i congiurati: il discredito definitivo del Pd e l’estinzione politica dei 5 Stelle, condannati a essere presi a pesci in faccia dagli elettori di oggi e di domani. Si aprono praterie sconfinate per chiunque ambisca a portarsi a casa i milioni di voti in fuga dall’increscioso e indecente equivoco pentastellato. Ma intanto, al padrone interessa innanzitutto “la roba”: vale a dire le 500 nomine pesanti in arrivo l’anno prossimo, nei posti che contano. Sfrattato l’intruso leghista grazie al signor Beppe e ai suoi diligenti camerieri travestiti da parlamentari, i posti-chiave saranno scelti accuratamente tra Berlino, Parigi e Bruxelles; i nomi saranno comunicati a tempo debito ai prestanome italiani, in quota al Pd e ai 5 Stelle. Dopo il varo dell’impresentabile Conte-bis, quello sarà il secondo step della Lunga Marcia. Il terzo, definitivo, si avrebbe con l’incoronazione del venerabile maestro Mario Draghi, come tredicesimo presidente della Repubblica italiana.La leggenda di Super-Mario? Salvatore dell’euro e santo protettore della sventurata Penisola. Vero il contrario, purtroppo: di formazione progressista e keynesiana, studente cresciuto alla corte dell’insigne ecomomista democratico Federico Caffè (scomparso nel nulla dalla sua abitazione romana nel 1987), Draghi è l’emblema stesso del tradimento: il cattivo allievo, lo ribattezzò Bruno Amoroso, formatosi con Caffè insieme a Nino Galloni. Amoroso e Galloni hanno tenuto alto l’onore dell’antico maestro, tramandandone la lezione. Che è questa: lo Stato non è una famiglia, perché – a differenza delle famiglie e delle aziende – dispone del potere monetario. Può emettere moneta in modo virtualmente illimitato. Ergo: il deficit, in termini di spesa pubblica strategica, è puro ossigeno per i cittadini, le famiglie, le imprese. Viceversa, il suo contrario – il pareggio di bilancio – condanna l’economia. E se migliaia di imprese si arrendono alla crisi, strangolate dalle tasse, il loro business viene letteralmente rastrellato dai grandi gruppi, dotati di elevato potenziale finanziario. L’alleanza storica tra multinazionali, banche d’affari e vertice politico in Europa ha un nome esemplare: Mario Draghi.Per via delle altissime responsabilità rivestite nel disastro sociale europeo, proprio Super-Mario rappresenta al meglio, da grande tecnocrate, il potere oligarchico che ha piegato i governi, confiscato la democrazia, ridotto le elezioni a pura ritualità. Lo si vede anche oggi, ancora una volta, con l’immondo esito della crisi parlamentare italiana. In Europa, la menzogna neoliberista (più tagli, più cresci) è aggravata dalla prassi mercantile dell’ordoliberismo di marca teutonica: all’impoverimento programmato del popolo si aggiuge la sottomissione sociale dei dominati. Dopo la Grecia, l’Italia è scandalosamente in cima alla classifica dello sfruttamento: da moltissimi anni il nostro paese, a cui i tizi come Draghi rimproverano di aver vissuto “al di sopra delle sue possibilità”, è addirittura in avanzo primario. Ovvero: lo Stato spende, per i cittadini, meno di quanto i cittadini versino in tasse. In questo, proprio Draghi – massimo sacerdote dell’austerity (altrui) – incarna il massimo tradimento possibile della dottrina di Keynes e di Caffè, economisti progressisti cui si deve – nel mondo, e anche in Italia – l’archiettura dell’economia statale espansiva che permise ai popoli di risollevarsi, accedendo a stagioni di grande benessere, mobilità sociale, futuro da costruire con fiducia e ottimismo.Tutto questo doveva finire: non per via di leggi economiche, ma a causa di determinazioni politiche, in parte palesi (il neoliberismo di Milton Friedman e soci) e in parte occulte, di matrice iniziatica. Già nell’Ottocento, il medico francese Joseph Alexandre Saint-Yves, marchese d’Alveydre, teorizzò la dottrina della “sinarchia”. In spiccioli: la politica è un affare troppo serio perché sia lasciata al popolo bue. A guidarlo dev’essere un’élite illuminata. Questa élite reazionaria si è nascosta, nel Novecento, dovendo subire l’offensiva delle democrazie sociali, le conquiste dei diritti del lavoro. Poi è rimersa, lentamente, a partire dagli anni Settanta. In Europa, l’Italia era un boccone golosissimo: eravamo il paese del boom, trainato dal maggior conglomerato industriale d’Europa, l’Iri, gestito dallo Stato. Le vaste inefficienze dell’Iri, di origine clientelare, erano largamente compensate dalle enormi ricadute sull’indotto privato. A demolire l’Iri fu chiamato il tecnocrate di turno, l’allora semisconisciuto Romano Prodi, mentre a Draghi – direttore del Tesoro – fu chiesto di oliare lo smembramento privatizzatore gli altri gioielli industriali italiani: Telecom, Eni, Enel, Comit, Credito Italiano.Dal Britannia in poi, Mario Draghi si è fatto apprezzare dai padroni del mondo, che l’hanno ricompensato da par loro. Una marcia trionfale: Goldman Sachs, Bankitalia, Bce. Ora, Draghi ha rifiutato di sostituire Christine Lagarde al vertice del Fmi. Si è tenuto libero per Palazzo Chigi? No: per il Quirinale. Vanta crediti importanti, sulla strada del Colle. D’intesa con Napolitano, nel 2011 disarcionò Berlusconi (ultimo premier eletto dagli italiani, nel 2008: da allora, alla guida del governo si sono succeduti soltanto politici non eletti dai cittadini, da Monti fino a Conte). E’ la declinazione italica della “sinarchia” del marchese Saint-Yves d’Alveydre: guai a lasciare che il popolo si governi da sé. A tener aperta la strada del Quirinale per Mario Draghi è il finto outsider e falso rivoluzionario Beppe Grillo: solo grazie all’inventore dei 5 Stelle il super-banchiere dell’élite può sperare, domani, di raggiungere la meta. Non è solo, ovviamente: oltre a Grillo e al solito servizievole Pd, Draghi può contare sulle potenti superlogge massoniche internazionali in cui milita. E’ affiliato a ben 5 Ur-Lodges di stampo reazionario: si chiamano “Three Eyes” e “Pan-Europa”, “Edmund Burke”, “Der Ring” e “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”. E’ per questi signori che in fondo lavorano Beppe Grillo e il suo figurante sistemato a Palazzo Chigi, il carneade “Giuseppi” Conte, sedicente “avvocato degli italiani”: un piccolo e infido mestierante, di cui oggi i connazionali farebbero volentieri a meno.Mister Europa osserva divertito il massacro politico italiano andato in scena in mondovisione. E’ vomitevole la marmellata di democrazia confezionata grazie al prezioso tritacarne del signor Beppe Grillo, sceso in campo a muso duro – dando ordini ai suoi valletti in Parlamento, terrorizzati all’idea di tonare al voto – per blindare il piccolo potere italiano e restituirlo interamente all’establishment europeo. Grillo obbedisce al vero potere che tiene in pugno il Belpaese dai tempi del Britannia, il grazioso panfilo che lo stesso giorno, il 2 giugno 1993, ospitò a bordo l’allora giovane direttore generale del Tesoro e il comico genovese vicino a De Mita, cacciato dalla Rai nel 1986 per una fatale battutaccia sulle ruberie dei socialisti. Mario e Beppe, due destini che tornano a incrociarsi: è grazie a Grillo se oggi il mitico Super-Mario vede avvicinarsi a grandi passi il Quirinale, quando cioè Mattarella – tra un paio d’anni – vedrà scadere il suo mandato alla presidenza della Repubblica. Sbagliava, chi scorgeva in Draghi un candidato di ferro per Palazzo Chigi dopo Conte: puntando proprio al Colle, il sommo banchiere europeo non ha commesso l’errore di rendersi inevitabilmente impopolare, mettendosi a capo di un governo-vergogna come quello che oggi Renzi e il fantasma di Di Maio si apprestano a sorreggere, calpestando la volontà popolare degli italiani.
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Sapelli: siamo spacciati, a Roma nasce il governo Macron
Un governo fragile destinato a durare 6 mesi? Macché. Il Conte-bis durerà fino all’elezione del prossimo presidente della Repubblica. «E Mattarella potrebbe fare il bis», dice il professor Giulio Sapelli, storico dell’economia, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. Occorre andare in Africa per capire l’orrendo inciucio tra 5 Stelle e Pd, che in realtà è un governo Macron, sostiene Sapelli: nel continente nero la Francia vuole “prendersi tutto” e può contare sull’aiuto (retribuito) delle nostre “compagnie di ventura”, che stavolta permetteranno a Parigi di “finire il lavoro”. «Di fatto, comincia – anzi, riprende – la svendita dell’Italia al capitalismo franco-tedesco», proprio alla vigilia del rinnovo dei vertici delle partecipate italiane, dall’Inps all’Enel, da Leonardo all’Eni. «Il nuovo governo si va formando a tempo di record proprio per questo» afferma Sapelli, che racconta: «Pochi giorni fa ho avuto occasione di vedere il Pireo. È pieno di cinesi coperti d’oro. I greci fanno ormai solo i camerieri, gli autisti e i suonatori. Huawei è dappertutto». Il nostro destino è questo? «Sì, il nostro destino è quello che Einaudi aveva indicato all’inizio del 900: la divisione ricardiana del lavoro affida all’Italia l’agricoltura e il turismo. Oggi ci resterà solo quest’ultimo».L’accenno al “ricardismo” richiama “l’economia del granturco” teorizzata dall’inglese David Ricardo e ripresa oggi – in modo paradossale – dall’economia “neoclassica” che ci domina, attraverso l’oligarchia Ue. Tesi: per poter investire, devi prima risparmiare. Era vero nell’800, oggi fa ridere (da quando c’è la moneta “fiat”, illimitata e a costo zero). Ma è il punto cardinale dell’austerity artificiale imposta da Bruxelles, cui ora l’Italia “giallorossa” sembra pronta a piegarsi in modo sconcertante. Dal canto suo, Sapelli è esplicito: «In Italia si insedia il governo Macron. Del resto lo ha annunciato trionfalmente “Repubblica” nel bel mezzo della crisi di governo, il 21 agosto, con una prima pagina memorabile perché scandalosa: “Con l’estrema destra non funziona mai”. Chiediamoci se una cosa del genere può succedere su “Le Monde”». E che dire del tweet di Trump che benedice Conte? «Qualcuno gli ha chiesto di farlo», risponde Sapelli, che precisa: «Intendo: lo ha chiesto al Dipartimento di Stato. Alcuni amici mi hanno detto che la diplomazia americana non ne sapeva nulla». Sarebbe gravissimo, osserva Ferraù. «Non è da meno il G7 di Biarritz», rincara la dose Sapelli. «Si è mai visto un ministro iraniano (Mohammad Javad Zarif) che arriva di soppiatto? La Francia è sempre stata una potenza di mediazione. Certo sono cambiate le modalità».Nel XVIII secolo, riassume il professor Sapelli, la Francia se n’è andata dall’America del Nord perché non ha potuto frenare gli inglesi, limitandosi ad appoggiare gli insorti. Da allora, dice, si è ritirata in Africa. «Ed è all’Africa che bisogna guardare per capire cosa sta succedendo in Europa». Il 7 luglio a Niamey, in Niger, è stato firmato l’accordo di libero scambio (Afcta) tra gli Stati africani. Che cosa comporta? «È la creazione di un mercato comune africano, e l’unica potenza europea egemone in grado di approfittarne è la Francia». Parigi, spiega Sapelli, «intende dominare il Mediterraneo». Concretamente, «vuol dire impossessarsi delle rotte energetiche e di quelle logistiche». Attenzione: è un controllo «che la Francia dividerà con la Cina». Secondo Sapelli, a essersi realizzato è il vecchio disegno del nazionalista Sun Yat-sen, fondatore del Kuomintang, pre-maoista. «Sun Yat-sen era affiliato alla massoneria francese. Sognava una vocazione occidentale della Cina: un disegno che Mao ha soltanto interrotto». E il Conte-bis? «Il nuovo governo Conte, a benedizione francese, si spiega con il fatto che Parigi deve assolutamente governare l’Italia se vuole realizzare il suo progetto espansionistico. Si tratta di un governo a vocazione geopolitica eterodiretta da parte francese».A questo proposito, Ferraù fa giustamente notare il ruolo di Sandro Gozi: alla vigilia della crisi di governo, l’esponente renziano del Pd è diventato consulente di Macron per gli affari europei. «Un arruolamento volontario, che risponde evidentemente a questo compito». E cioè: tradire l’Italia, a favore della Francia. Quindi chi comanda, adesso, a Roma? «Le nuove compagnie di ventura, i parenti odierni degli Sforza, che si vendevano a tutti». Il Movimento 5 Stelle? «E’ la compagnia di ventura più organica, più malleabile e per questo più funzionale agli obiettivi altrui». Quanto durerà, il Governo del Tradimento? «Sono due gli obiettivi che determineranno la sua durata», risponde Sapelli. «Il primo è l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Perché non un Mattarella-bis? L’altro obiettivo è la trasformazione dell’Italia in una piattaforma logistica per l’entrata della Francia in Africa e la svendita di ciò che resta del nostro apparato industriale a Francia, Germania e Cina». E gli Stati Uniti acconsentono? «Gli americani un po’ non capiscono, un po’ sono divisi», sostiene Sapelli. «Trump è sotto scacco per lo stesso motivo di Salvini, per avere aperto alla Russia. In più sono divisi tra la componente Bush-clintoniana, ispirata dal globalismo finanziario esasperato, e quella del gruppo che sostiene Trump».L’Italia ha chiuso, quindi? Siamo finiti, come paese? «L’unica speranza sono le piccole e medie imprese, però devono capire quello che sta accadendo», dice Sapelli. «Soprattutto devono capire che non possono esistere da sole, anche se da sole hanno fatto miracoli». Bisogna che le piccole imprese italiane «si impegnino per salvare un segmento delle grandi imprese e per cambiare la politica economica europea». Una rappresentanza politica ce l’hanno già: è la Lega. «Non hanno ancora afferrato, però, che in questa guerra non si fanno prigionieri». Il Nord, cioè il bacino elettorale di Salvini, produce l’80% del nostro Pil. Impossibile sperare in una proiezione nazionale? «L’Italia avrebbe dovuto fare come Polonia, Bulgaria, Ungheria», dice ancora Sapelli: «Ognuno di questi paesi ha superato le divisioni politiche interne e ha trattato con l’Europa da paese unito. Noi invece abbiamo mancato tutti gli appuntamenti che potevano aiutarci in questa direzione, dal contrasto al terrorismo alla stagflazione. E abbiamo fallito perché l’Italia continua ad essere un paese di compagnie di ventura».Se i 5 Stelle suscitano raccapriccio per il loro scandaloso voltafaccia, come definire il Pd? «Un insieme di cacicchi l’un contro l’altro armati, con una compagnia di ventura egemone, quella di Renzi». Altri pericoli in vista: «M5S e Pd vanno assimilandosi, perché anche nel Pd la base sociale e quella territoriale si vanno estinguendo», ragiona Sapelli. «Zingaretti, invece di sostenere il nuovo governo, avrebbe potuto dedicarsi a una rifondazione territoriale. Non lo farà: e questo sarà la fine, del Pd e sua». Resta solo la Lega, a quanto pare, a tifare Italia. «L’unica speranza è che oltre alle piccole medie imprese intercetti e rappresenti la borghesia nazionale. Il problema della Lega – aggiunge Sapelli – è che non ha un pensiero politico», almeno per ora. Ma la lettura dello scempio in corso resta incompleta, se non si considera l’azione del Papa: «Il Vaticano ha svolto un ruolo fondamentale, che andrà approfondito», precisa Sapelli. «Abbiamo assistito a un ritorno della religione in politica, dissimulato da preoccupazioni sociali e teologiche. Il mio caro vecchio Péguy si rivolta nella tomba», aggiunge il professore, riferendosi allo scrittore francese Charles Péguy, cattolico ma inviso all’alto clero per la sua opposizione all’ingerenza ecclesiastica nell’attività politica. Per Sapelli, nel concorrere alla caduta di Salvini, Bergoglio ha commesso un azzardo: «La Chiesa deve stare attenta – chiosa il professore – perché l’adesione alla società dei diritti potrebbe esserle fatale».Un governo fragile destinato a durare 6 mesi? Macché. Il Conte-bis durerà fino all’elezione del prossimo presidente della Repubblica. «E Mattarella potrebbe fare il bis», dice il professor Giulio Sapelli, storico dell’economia, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. Occorre andare in Africa per capire l’orrendo inciucio tra 5 Stelle e Pd, che in realtà è un governo Macron, sostiene Sapelli: nel continente nero la Francia vuole “prendersi tutto” e può contare sull’aiuto (retribuito) delle nostre “compagnie di ventura”, che stavolta permetteranno a Parigi di “finire il lavoro”. «Di fatto, comincia – anzi, riprende – la svendita dell’Italia al capitalismo franco-tedesco», proprio alla vigilia del rinnovo dei vertici delle partecipate italiane, dall’Inps all’Enel, da Leonardo all’Eni. «Il nuovo governo si va formando a tempo di record proprio per questo» afferma Sapelli, che racconta: «Pochi giorni fa ho avuto occasione di vedere il Pireo. È pieno di cinesi coperti d’oro. I greci fanno ormai solo i camerieri, gli autisti e i suonatori. Huawei è dappertutto». Il nostro destino è questo? «Sì, il nostro destino è quello che Einaudi aveva indicato all’inizio del 900: la divisione ricardiana del lavoro affida all’Italia l’agricoltura e il turismo. Oggi ci resterà solo quest’ultimo».
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Tav, Governo del Tradimento: sangue e bugie, addio grillini
«Non c’erano e non ci sono governi amici, l’abbiamo sempre saputo». Così il movimento NoTav reagisce al “tradimento” gialloverde sulla Torino-Lione, anticipato da Conte: «Non fare il Tav costerebbe più che farlo». Alberto Airola, parlamentare 5 Stelle, si sente raggirato da Di Maio: «Il suo – dice – è un atteggiamento pilatesco: sa benissimo che in aula saremo gli unici a votare “no”». In una video-intervista al “Fatto Quotidiano”, Airola condanna la decisione di rinunciare al potere dell’esecutivo per bloccare l’opera, ricorrendo alla farsa del voto parlamentare (più che scontato) sul destino del progetto, costosissimo e inutile. «L’ho detto più volte, a Conte: l’opera – che è appena ai preliminari – si può fermare senza danni per l’Italia». Conte però ha finto di non sentire: «E’ stato mal consigliato?», si domanda Airola. Certo, in linea con Conte appare Di Maio, che sposa in pieno la tattica dell’ipocrisia: i 5 Stelle ribadiranno la loro pletorica contrarietà alla super-ferrovia, già sapendo che Lega, Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia voteranno a favore. Un mezzuccio un po’ meschino, per tentare di salvarsi la coscienza. «Credo che il Movimento 5 Stelle abbia deciso di scrivere il proprio testamento politico», sentenzia Nilo Durbiano, sindaco di Venaus, uomo-simbolo dell’opposizione della valle di Susa alla grande opera. Addio 5 Stelle: «La loro avventura è conclusa», dice Durbiano, nel cui Comune i 5 Stelle erano il primo partito.Il cedimento gialloverde emerge anche dalle parole di Beppe Grillo, secondo cui è illusorio «credere che basti essere al governo, in tandem, per bloccare un processo demenziale come questo». Per Grillo, «significa avere dimenticato che non siamo una repubblica presidenziale oppure una dittatura». Ammette il fondatore, che della battaglia NoTav aveva fatto una sua bandiera: «Sono molto scontento della situazione che si è venuta a creare». Ma non aggiunge altro, preparandosi a “digerire” il clamoroso voltafaccia difendendo Toninelli e Conte, che avrebbero reso «meno disastroso» lo scenario, tenendo testa a Macron. Come dire: scusate, ma finora avevamo scherzato. Vi avevamo promesso che ci saremmo messi di traverso, per fermare il Tav? Erano solo parole: come quelle contro l’obbligo vaccinale, il Tap in Puglia e le trivelle nell’Adriatico. Impossibile, sembra dire Grillo tra le righe, che un governo possa fare davvero gli interessi dei cittadini, e non quelli delle lobby che dominano l’Ue. Se non ci fossimo noi – aggiunge l’ex comico – sarebbe pure peggio. Come dire: non siamo colpevoli, e in ogni caso è inutile illudersi che il sistema possa essere cambiato. Ma non era proprio per questo che erano nati, i 5 Stelle? Difatti: non a caso, il loro consenso sta franando. E il “tradimento” sul Tav, come dice Durbiano, sembra davvero l’inizio della fine: tra poco i 5 Stelle potrebbero non esistere più.Dopo la sortita di Conte, affermano i NoTav, ora tutto è finalmente chiaro: «Come abbiamo sempre sostenuto, dalle parti del governo non abbiamo mai avuto amici». Aggiungono i NoTav: «La manfrina di tutti questi mesi giunge alla parola fine, e il cambiamento tanto promesso dal governo getta anche l’ultima maschera, allineandosi a tutti i precedenti». Formule retoriche, che si ripetono dal 2001 a prescindere dal colore politico dell’esecutivo di turno. Il governo Conte? Sembra aver voluto «cambiare tutto per non cambiare niente». Tante chiacchiere, ma poi – al dunque – il governo gialloverde «è sempre stato ambiguo, negli atti concreti, e questo è il risultato». Non fare la Torino-Lione costerebbe più che farla? «E’ solo una scusa per mantenere in piedi il governo e le poltrone degli eletti, sacrificando ancora una volta il futuro di molti sull’altare degli interessi politici di pochi». Lo stesso Conte fino a poco tempo fa si era detto convinto che quest’opera non serviva all’Italia. Ora perché ha cambiato idea? E’ stato «fulminato sulla via di Damasco da promesse di finanziamenti europei o da equilibri politici da mantenere?».Recentissima la richiesta di arresto per il direttore della Cmc di Ravenna, general contractor della Torino-Lione, accusato per una storia di corruzione in Kenya. «Un piccolo esempio di cosa abbia scelto il presidente Conte», sottolineano i NoTav: «Altro che interessi degli italiani!». Del resto, aggiunge il movimento valsusino, «abbiamo sempre definito il sistema Tav il bancomat della politica». Cosa cambia, ora? «Per noi assolutamente nulla, perché sono 30 anni che ogni governo fa esattamente come quello attuale: annuncia il sì all’opera e aumenta il debito degli italiani facendo leva su un fantomatico interesse nazionale – che non c’è, e che nessuno dimostrerà mai». Opera inutile: lo dice anche la commissione speciale istituita da Toninelli e coordinata dal professor Marco Ponti. «Conte e il governo che presiede saranno gli ennesimi responsabili di questo scempio ambientale, politico ed economico: dalla Torino Lione la maggioranza del paese non trarrà nessun vantaggio, ma un danno economico e ambientale, che pagheremo tutti».E i 5 Stelle, da sempre NoTav, ora faranno finta di niente, tirando a campare? Bella sceneggiata, quella di «portare il voto in un Parlamento dove l’esito è già scontato, e dove il Movimento 5 Stelle voterebbe contro, tentando di salvarsi la faccia dicendo “siamo coerenti, abbiamo fatto tutto il possibile”». I NoTav annunciano battaglia: «Proseguiremo la nostra lotta popolare per fermare quest’opera inutile e imposta. Lo faremo come abbiamo sempre fatto, mettendoci di traverso quando serve e portando le nostre ragioni in ogni luogo di questo paese, che siamo convinti, sta con noi». Nel 2005, quando la polizia sgomberò con inaudita violenza i manifestanti dal presidio di Venaus, di colpo l’Italia scoprì che in valle di Susa c’era un problema – non locale, ma nazionale. «Non si possono imporre le opere pubbliche col manganello», disse Di Pietro. Da allora sono passati quasi 15 anni, e il governo in carica – stavolta rappresentato anche dai 5 Stelle – continua a premere per la grande opera senza la minima trasparenza, cioè evitando ancora una volta di dimostrarne l’utilità. Una storia tristemente italiana, di democrazia calpestata. Con un corollario: l’auto-rottamazione del movimento creato da Grillo.Era nell’aria: il Governo del Tradimento si sarebbe apprestato a rimangiarsi anche l’ultima delle sue promesse. Ovvero: non gettare via miliardi in valle di Susa per il Tav Torino-Lione, senza prima averne verificato l’utilità. La verifica – la prima, nella storia – era arrivata nei mesi scorsi dopo decenni di silenzio da parte dei governi romani, per merito del ministro Danilo Toninelli. Verdetto negativo, firmato dal più autorevole trasportista italiano, il professor Marco Ponti, già docente del Politecnico di Milano e consulente della Banca Mondiale: un’opera faraonica e completamente inutile, perfetto doppione della linea Italia-Francia che già attraversa la valle di Susa, collegando Torino e Lione via Traforo del Fréjus, da poco riammodernato al prezzo di quasi mezzo miliardo di euro per consentire il passaggio di treni con a bordo i Tir e i grandi container “navali”. Lo sapevano anche i sassi, peraltro: il traffico Italia-Francia è praticamente estinto. Lo chiarisce la Svizzera, delegata dall’Ue a monitorare i trasporti transalpini: l’attuale linea valsusina Torino-Modane-Lione, ormai semideserta e destinata a restare un binario morto anche nei prossimi decenni, potrebbe aumentare del 900% il suo volume di traffico, se solo esistesse almeno il miraggio di merci da trasportare, un giorno.
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Magaldi: soldi alla Lega? Ma Putin tifa per quest’orrenda Ue
Ma ve lo vedete Vladimir Putin, cioè l’amicone segreto di Angela Merkel, finanziare sottobanco qualcuno che cerca di smontare quest’Europa – orrenda – messa in piedi proprio dalla cancelliera, con cui il presidente russo condivide l’esclusivo salotto massonico sovranazionale della superloggia Golden Eurasia, non certo progressista? E chi sarebbe, il terribile nemico dell’Unione Europea? Quello stesso Matteo Salvini rassegnato a rinunciare a Paolo Savona e poi a ingoiare il misero 2% di deficit concesso al governo gialloverde? Suvvia: si è rimbecillito, Putin, per promettere 65 milioni di dollari a un politico italiano irrilevante nel gioco europeo, che infatti ora assiste impotente all’ennesimo trionfo dell’asse franco-tedesco che impone ai massimi vertici due gran dame della massoneria reazionaria, Christine Lagarde alla Bce e Ursula Von der Leyen alla Commissione Europea? Se la ride, Gioele Magaldi, di fronte all’impazzimento mediatico tutto italico (e forse anche un po’ francese) per la non-notizia del fantomatico soccorso elettorale russo – in realtà mai avvenuto – che ha l’aria di essere più che altro «una polpetta avvelenata per l’Eni, che insieme all’Enel è rimasto l’unico avamposto nazionale a fare un po’ di politica estera per l’Italia, gestendo grandi interessi, vista la latitanza fantasmatica dei ministri succedutisi alla Farnesina, dove con Moavero Milanesi abbiamo toccato il fondo».
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Magaldi: vogliono comprare Tria e Conte per il dopo-Salvini
«E bravo Matteo Renzi, finalmente promosso “cameriere” del Bilderberg». Dall’alto del suo nuovo ossevatorio, l’ex leader Pd dice che il governo gialloverde non ha finora toccato palla su nessuno dei temi dell’agenda-Italia? «Se è per questo neppure il suo governo toccò palla, esattamente come i governi Letta e Gentiloni». Solo ciance, dietro alla rigida obbedienza all’ordoliberismo Ue. Però Renzi ha ragione, ammette Gioele Magaldi: dopo un anno, Lega e 5 Stelle hanno totalizzato lo stesso punteggio del fanfarone fiorentino, cioè zero. La differenza? Al Giglio Magico è subentrato «il Cerchio Tragico, targato Di Maio». E se Salvini non ha ancora trovato il coraggio di mandare a stendere Bruxelles, il pericolo maggiore viene dall’interno. Il primo “imputato” è il ministro Giovanni Tria, che sembra passato armi e bagagli al “partito di Mattarella”, intenzionato a bloccare qualsiasi cambiamento. E il peggio è che ad alzare la diga ora ci si mette pure Giuseppe Conte, con la sua prudenza esasperante. Attenti: è come se Conte e Tria fossero già “in vendita”, disposti a far naufragare l’esecutivo in cambio della promessa di future poltrone. Magaldi si rivolge a Salvini: «Se ora gli impediscono di fare la Flat Tax e di varare i minibot, stacchi la spina al governo: a quel punto saranno gli italiani, alle elezioni, a dire come la pensano».
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Nuovo sgarro all’Italia: Parigi e Berlino bocciano Fincantieri
La Commissione Europea ha accolto la domanda presentata da Francia e Germania, che la invitavano a esaminare – alla luce del regolamento sulle concentrazioni – la proposta di acquisizione di Chantiers de l’Atlantique da parte di Fincantieri. In particolare, scrive Paolo Annoni sul “Sussidiario”, la Germania si è associata alla richiesta di rinvio trasmessa dalla Francia. E questo, nonostante il progetto di acquisizione non raggiunga le soglie di fatturato previste dal regolamento Ue che norma le concentrazioni industriali, per le operazioni che devono essere notificate alla Commissione a causa della loro dimensione europea. La questione è chiara e, secondo Annoni, si può riassumere in questi termini: l’acquisizione strategica di un’azienda francese da parte di una italiana, Fincantieri, verrà con ogni probabilità bloccata dopo due anni di affannosi tentativi perché non c’è più il necessario “supporto politico”. In pratica, la Francia (che aveva dimostrato fin da subito un enorme fastidio per l’operazione, già con Renzi primo ministro) ha ora deciso di volerla “smontare”, come probabilmente accadrà.Di certo, rileva Annoni, l’Italia ha consegnato negli anni alla Francia asset e imprese di grandissimo valore economico e strategico. Una delle ultime (particolarmente fastidiose per il sistema) è stato il risparmio gestito di Unicredit, Pioneer, destinato ad alimentare il campione nazionale francese Amundi. Per Annoni, è l’ennesima espressione di “cupio dissolvi” del nostro sistema-paese. «In tutti questi casi si è usato come “scusa” o l’Europa o il mercato, con una dimostrazione di ipocrisia o dabbenaggine incredibili, perché la Francia presidia i propri campioni con gelosia e in barba a qualsiasi afflato europeo o di mercato». Esempi infiniti: dal settore auto al nucleare, con gli italiani di Enel sbattuti fuori dalla grande partita dell’energia. Nel caso delle trattative per i cantieri navali, oggi l’Eliseo approfitta delle pessime relazioni col governo italiano per mandare a monte l’accordo.«Teniamo presente che noi facevamo affari con un paese che bombardava la Libia, i nostri “impianti” e gli interessi nazionali – scrive Annoni – mentre Dio solo sa cosa vedono e cosa lasciano passare, i militari francesi, dei migranti e dei flussi migratori che arrivano in Italia».Infatti, nonostante gli accordi, «i nostri soldati l’Africa subsahariana non l’hanno potuta vedere neanche con il binocolo». Ma a pesare è anche «il rapporto malato che abbiamo noi italiani con l’Europa», nel senso che «la narrazione sull’Europa che si sente in Italia non ha paragoni al di là delle Alpi». Per tutti gli altri, sottolinea Annoni, l’Ue resta uno strumento che «coincide più o meno chiaramente con i propri interessi o con un ben definito blocco di potere». Noi invece «diciamo Europa, ma in realtà dovremmo dire asse franco-tedesco», con tutte le conseguenze che questa equazione ha sui rapporti tra istituzioni europee. È curioso, aggiunge Annoni, che proprio ora Francia e Germania abbiano annunciato un nuovo incontro per rafforzare la loro alleanza economica. «Non è un caso del destino cinico e baro che più della metà delle banche tedesche non applichi gli stessi standard contabili di quelle italiane. È il frutto di una difesa accorta e persistente dei propri punti deboli».Naturalmente, prosegue l’analista, adesso «qualcuno avrà il coraggio di dirci che il “deal” salta perché in Italia ci sono i populisti, oppure per le dichiarazioni di Di Maio sui Gilet Gialli», quando invece «è chiaro anche ai ciechi che la Francia era due anni che provava a far saltare l’operazione», non gradendo l’ingresso di Fincantieri. «Ma l’aspetto più grottesco è un altro», aggiunge Annoni: «Negli imprevedibili sviluppi della politica, che a volte sfuggono di mano anche ai “grandi fratelli” e alle élites più élite che ci sono, nessuno ci assicura che i populisti francesi o tedeschi di domani saranno migliori di quelli italiani di oggi». Sperarlo, secondo Annoni, è indice di provincialismo italico. «L’unica cosa certa è che i nostri populisti li possiamo eventualmente spegnere noi alle elezioni, mentre quelli francesi o tedeschi no». E in attesa di un’unione politica europea (di cui nessuno sa quando e come potrebbe nascere, «visto che il blocco di potere che dà le carte e ricatta tutti non ha alcun interesse a promuoverla»), l’unica certezza è che gli altri faranno solo i loro interessi. La vera questione, conclude Annoni, è come l’Italia «riesca a uscire dal buco in cui si è infilata e dallo stato di subordinazione e ricatto in cui nei fatti si ritrova».L’austerity, con la sua applicazione arbitraria, è solo un sinonimo di questo stato “coloniale”, mentre «neanche il migliore governo che possiate immaginare può fare molto, rispetto a uno stato di cose che, senza modifiche, è un circolo vizioso». Certo, ammette Annoni, uscirne ha un costo enorme: ma rimanerci? «È un dibattito che noi non possiamo fare, se no lo spread sale, mentre in Germania diventa dibattito tra economisti». I tedeschi sanno che, in questi anni, l’euro è costato carissimo all’Italia. Che fare, adesso? «Bella domanda. Però bisognerebbe porsela e avere bene in testa le alternative, senza edulcorazioni europeiste o sovraniste che siano». Di certo, chiosa Annoni, è davvero surreale farsi “fregare” così incredibilmente dai cugini d’oltralpe, sull’affare-cantieri, proprio mentre «ci rimandano indietro i migranti con le scarpe tagliate, tra il tripudio della grande stampa italiana per le fusioni “europee”».La Commissione Europea ha accolto la domanda presentata da Francia e Germania, che la invitavano a esaminare – alla luce del regolamento sulle concentrazioni – la proposta di acquisizione di Chantiers de l’Atlantique da parte di Fincantieri. In particolare, scrive Paolo Annoni sul “Sussidiario”, la Germania si è associata alla richiesta di rinvio trasmessa dalla Francia. E questo, nonostante il progetto di acquisizione non raggiunga le soglie di fatturato previste dal regolamento Ue che norma le concentrazioni industriali, per le operazioni che devono essere notificate alla Commissione a causa della loro dimensione europea. La questione è chiara e, secondo Annoni, si può riassumere in questi termini: l’acquisizione strategica di un’azienda francese da parte di una italiana – Fincantieri – verrà con ogni probabilità bloccata, dopo due anni di affannosi tentativi, perché non c’è più il necessario “supporto politico”. In pratica, la Francia (che aveva dimostrato fin da subito un enorme fastidio per l’operazione, già con Renzi primo ministro) ha ora deciso di volerla “smontare”, come probabilmente accadrà.
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Tav, la strana guerra contro i palestinesi della val di Susa
Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.Nemmeno l’umorismo iperbolico di Paolo Villaggio, forse, sarebbe riuscito a dipingere il carattere lunare, gaglioffo e cialtrone del fantasma ferroviario che insidia da più di vent’anni l’estremo nord-ovest italiano: un ipotetico super-treno pensato negli anni ’80 del secolo scorso per i passeggeri, surclassato in capo a un decennio dall’avvento dei voli low-cost e infine umiliato anche dal traffico merci, defunto pure quello. La globalizzazione “cinese” sbarca a Genova e punta verso Rotterdam, snobbando il Piemonte e le Alpi del Rodano. Dalla Fortezza Bastiani del Tav, a lungo presidiata dall’ineffabile Pd con la collaborazione del centrodestra (leghisti compresi), ormai si guarda con malinconia ai dati, impietosi, sciorinati ufficialmente anche a Palazzo Chigi: il flusso di merci è crollato, e la ferrovia internazionale che già collega Torino a Lione attraversando l’infelice valle di Susa (via Modane, traforo del Fréjus) potrebbe tranquillamente reggere un incremento di traffico del 900%, se solo ci fossero merci da trasportare. Bel guaio: cosa bisognerà inventare, ancora, per spillare soldi euro-italiani da spalmare su appalti e subappalti? Avverte il giallista Massimo Carlotto, vicino ai NoTav: le grandi opere sono perfette per riciclare denaro, nell’immensa “lavanderia a cielo aperto” chiamata Europa. Business is business: non è che si possa smontare così, su due piedi, un grande affare destinato a pompare milioni (miliardi) in una filiera che include industria e indotto cantieristico, studi e consulenze, progettisti, banche e partiti.Se sento ancora parlare di Tav Torino-Lione, scrisse Giorgio Bocca nel 2005, vado a ripescare il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato alla fine della guerra partigiana. Si era documentato, l’ultimo grande vecchio del giornalismo italiano: aveva capito che i palestinesi inermi le avevano buscate in modo selvaggio, riempiti di botte – uomini e donne, ragazzi e anziani – dai robocop venuti da lontano, in piena notte, per sgomberare il prato di Venaus occupato dalle famiglie impegnate in una sorta di sit-in permanente. Ne seguì una sommossa popolare a carattere insurrezionale: qualcosa che in Italia s’era visto soltanto nei moti di Reggio Calabria del 1970. Un popolo sulle barricate, armato solo di indignazione. Scudi umani, i sindaci in fascia tricolore (e le loro auto, quelle dei vigili urbani, spedite a sbarrare le strade, coi lampeggianti accesi). Due giorni di follia collettiva, dopo il pestaggio notturno, fino alla paralisi della tangenziale di Torino e alla capitolazione del governo: progetto sospeso, ritirato, archiviato. Clamorosa vittoria dei palestinesi, che da quel momento cominciarono a credersi invincibili. O meglio: ritennero invincibile la forza della ragione, la sovranità democratica del cittadino, la legittimità della protesta di una comunità coesa e fasciata di tricolore.Durò anni, l’illusione. Una speranza radicata: il governo centrale si sarebbe deciso a cestinare il dossier – poi bocciato anche da 360 tecnici universitari – per concludere che sì, avevano ragione i palestinesi della valle di Susa: quella ferrovia andava dimenticata, gettata nella spazzatura della storia. Ma le trivelle tornarono, dopo un quinquennio di silenzio. Era il 2010. La tensione emotiva era scemata, molti sindaci erano spariti – non rieletti, o semplicemente rimasti a casa, non più disposti a fare da caschi blu. Fu allora che cominciò l’accerchiamento, lento e inesorabile. Senza più i sindaci in prima fila, i NoTav erano nudi. “Siete finiti”, li avvertì cordialmente il sindaco di Torino, Chiamparino. Risposero in quarantamila, con una marcia sotto la neve. I piani di Roma, intanto, erano cambiati: il cantiere per la prima galleria esplorativa, inizialmente programmato nel prato poi “espugnato” a Venaus nel 2005, sarebbe stato reimpiantato a Chiomonte, sopra le gole della Dora Riparia, in posizione militarmente difendibile. I NoTav risposero asserragliandosi proprio lì, tra le loro Termopili. Nacque la Libera Repubblica della Maddalena, il villaggio di Asterix attrezzato – con barricate – per tentare di resistere all’esercito imperiale. I reparti antisommossa, duemila uomini, si presentarono puntuali all’alba del 27 giugno 2011. Agirono con calma, minimizzando la loro forza d’urto. In cabina di regia il ministro Maroni e il capo della polizia Manganelli. Niente più cariche, solo lacrimogeni.Ci rimasero malissimo, i palestinesi: avevano sperato di ripetere il “miracolo” del 2005, quand’erano riusciti – sciamando in 80.000 attraverso i boschi – a sfrattare la polizia da Venaus. Una settimana dopo lo sgombero della “Libera Repubblica”, il 3 luglio 2011 tentarono di riprendersi Chiomonte. Erano in centomila: un corteo lungo chilometri. Pullman da tutta Italia, decine di migliaia di valsusini. E anche giovani dei centri sociali: quelli che poi, nel pomeriggio, avrebbero contribuito a trasformare la protesta in guerriglia. “Volevano il morto”, dichiarò Maroni. Bilancio ufficiale: 200 feriti per parte. E fine di una lunga, gloriosa anomalia: la lotta popolare esclusivamente nonviolenta, nata e cresciuta in mezzo ai monti, che tanto aveva spaventato la politica. Inammissibile che una comunità di sessantamila valligiani riuscisse a fermare le ruspe. Intollerabile, che lo facesse in modo pacifico. Inaccettabile, che imponesse al governo di lasciarsi ascoltare, e lo costringesse a prender nota del fatto che, secondo tutti gli esperti, la linea Tav Torino-Lione era (ed è) una pazzia completamente inutile, destinata a pesare per decine di miliardi sul debito pubblico dopo aver reso invivibile il territorio, cioè i 50 chilometri che separano Torino dalla Francia. Rocce piene di amianto, montagne dove l’Agip scavò decine di gallerie per estrarre l’uranio al tempo del nucleare italiano. Falde acquifere a rischio, salute in pericolo e addio agricoltura. Dissesto idrogeologico irrimediabile, apocalisse urbanistica, catastrofe idrica incombente sulla stessa area metropolitana torinese. Ma perché, di grazia? A beneficio di chi?“Diteci almeno a cosa servirebbe, tutto questo”. Domanda rimasta sempre inevasa. Lo vuole l’Europa, c’è un impegno con la Francia. Davvero? Sì e no. L’Europa ha cambiato idea: ha archiviato l’originaria, fantascientifica direttrice Kiev-Lisbona, di cui la Torino-Lione sarebbe stata il passante alpino. Quanto alla Francia, varie istituzioni parigine hanno via via intiepidito la loro posizione. Analoga retromarcia tattica dal governo Renzi: è vero, la nuova linea costa troppo; meglio limitarsi al solo traforo, facendo poi passare i treni sull’attuale linea (perfettamente idonea, dunque – percorsa, già oggi, dal Tgv francese). Nel frattempo, sui NoTav si è scatenata una campagna di demonizzazione parossistica, da parte della politica istituzionale e dei grandi media. E il movimento valsusino, senza più la tutela diretta dei sindaci, ha fatto miracoli per arginare il pericolo di infiltrazioni da parte delle frange virtualmente violente (un conto è gestire un corteo, un altro controllare manifestanti in ordine sparso, nei boschi). Anni durissimi, rischiosi, in bilico, ma durante i quali – nonostante tutto – la resistenza dei palestinesi ha conquistato piena cittadinanza in larghi strati del paese, anche grazie al generoso impegno di opinion leader di prima grandezza, scrittori e artisti, cantanti, giuristi, intellettuali. Senza con questo riuscire minimamente a scalfire il muro di omertoso silenzio che ancora protegge, misteriosamente, il progetto della grande opera: un dogma marmoreo, quasi mistico, che sembra imposto da una religione sconosciuta, alla quale gli stessi politici (ministri, premier) appaiono sottomessi.C’è altro, poi, che i valsusini sanno e gli altri italiani per lo più ignorano. E’ una storia complicata, tra loro e il governo. Una storia tormentata e opaca, per molti aspetti, che risale addirittura alla Liberazione, quando molti partigiani – in maggioranza comunisti – rifiutarono di consegnare le armi agli alleati, per poi tirarle fuori, occupando fabbriche, in risposta all’attentato a Togliatti. Ha radici antiche, il ribellismo della valle di Susa, industriale e operaia già alla fine dell’800. Dopo il Sessantotto, mentre i padri issavano bandiere rosse sui cotonifici, decine di figli cedettero alla tentazione della lotta armata. La valle di Susa è stata l’unica area non metropolitana, in tutta Italia, ad allevare una colonna di terroristi, arruolati tra le file di Prima Linea. Poi vennero gli anni ’80, con l’autostrada del Fréjus che la valle non voleva. Le solite mazzette e, a seguire, la relativa Tangentopoli, con arresti eccellenti, mentre la commissione parlamentare antimafia denunciava il radicamento della ‘ndrangheta nell’alta valle, il paradiso sciistico che a Sestriere avrebbe ospitato i Mondiali di sci e poi le Olimpiadi Invernali. Quello di Bardonecchia è stato il primo Consiglio comunale italiano, a nord del Po, a essere disciolto per mafia.L’onorata società tornò a occupare la cronaca della valle di Susa poco dopo gli attentati siciliani costati la vita a Falcone e Borsellino, quando la magistratura di Torino scoprì che erano finite a una cosca calabrese le pistole uscite illegalmente, a centinaia, da un’armeria di Susa. Chi avrebbe dovuto vigilare non l’aveva fatto: emerse l’ombra dei servizi segreti. Gli inquirenti avevano scoperto il traffico di armi grazie a un pentito della ‘ndrangheta, che smise di parlare (di colpo) dopo che gli fu ucciso il fratello, proprio in valle di Susa, da un ex agente del Sismi, reo confesso. Uno stillicidio di notizie inquietanti, che il valsusino medio – non ancora palestinese – apprendeva con sgomento, a metà degli anni ’90. A seguire, cominciarono a esplodere bombe: una dozzina di attentati dinamitardi, notturni e devastanti ma tutti incruenti, colpirono le prime trivelle del futuro Tav ma anche centraline Enel, tralicci telefonici, ripetitori televisivi. I giornali, in coro, parlarono di eco-terrorismo anarco-insurrezionalista. Comparve una sigla, “Lupi Grigi”, con rivendicazioni deliranti contro le grandi opere. Finirono in manette tre giovani anarchici, due dei quali (“Sole e Baleno”) poi trovati morti in stato di detenzione, impiccati. L’accusa: banda armata e associazione sovversiva. Lui, Edoardo Massari, un anarchico piemontese. Lei, Maria Soledad Rosas, argentina, giovanissima, venuta in Europa in vacanza premio, dopo il liceo, e poi rimasta in Italia perché innamoratasi del suo “Edo”. Il pm annunciò di avere “prove granitiche”, contro di loro. Salvo poi ammettere il tragico errore, fuori tempo massimo. Scagionati post mortem, alla fine del processo: non erano stati quei ragazzi, a far saltare in aria mezza valle di Susa. Chi, allora?Aveva in testa anche questi pensieri, il valsusino medio (mediamente colto e informato, mediamente scettico) quando cominciò a diventare un po’ palestinese, trascinando la famiglia nei prati di Venaus dove, nel 2005, si era accampata la polizia, spedita lassù da un governo che sosteneva fosse fondamentale far passare proprio di lì, spianando l’intera vallata, la famosa super-ferrovia miliardaria destinata a collegare il Portogallo all’Ucraina. Non può essere, si dicevano i valligiani: avranno capito male, a Roma. E così studiarono, si documentarono, mobilitarono i migliori specialisti. Non sta né in cielo né in terra, conclusero: è un’opera faraonica e devastante, tragicamente inutile. Ne parlavano anche coi poliziotti infreddoliti, inviati a Venaus a presidiare il prato prescelto per accogliere il primo cantiere. Dai NoTav, una protesta formato famiglia: bambini, polenta, bicchieri di tè caldo offerti agli stessi agenti – non quelli che li avrebbero sgomberati (per l’operazione, il reparto presidiario fu avvicendato). Gli incursori notturni colpirono alla cieca, travolgendo tende e sacchi a pelo. Una gradine di manganellate, al buio. Le ambulanze, le urla, i feriti. L’inizio della saga, già l’indomani: i valsusini, a migliaia, nelle strade. La circolazione paralizzata, i treni fermi. Il ministro dell’interno, Pisanu, scomparso dai radar. Imbarazzo, fra i palazzi romani. I palestinesi in rivolta ospitati per la prima volta in televisione, da Gad Lerner, per poi ricevere i primi rumorosi endorsement a reti unificate: Beppe Grillo, Dario Fo. E quei benedetti sindaci, avvolti nel tricolore, a ripetere che la legalità comincia dal rispetto del cittadino, democraticamente sovrano e tutelato da diritti costituzionali.Era solo il 2005, ma sembrano passati cent’anni. Le famiglie di allora avevano una luce particolare, negli occhi. La crisi era ancora lontana. C’era lavoro per tutti, i negozi non avevano ancora cominciato a chiudere, uffici e fabbriche funzionavano. All’ora dell’aperitivo i bar tracimavano di giovani – tutti palestinesi, naturalmente, tra svolazzi di bandiere NoTav. Un clima festoso, di fiducia. “Capiranno, a Roma. Si decideranno a ragionare”. I valsusini: riscopertisi comunità, proprio grazie allo scampato pericolo. Idee politiche forse rudimentali, antiche: la destra, la sinistra. A dire il vero, nella valle ribelle non s’era visto nessuno dei big: tutti spariti, i grandi partiti. La parte del cattivo era toccata a Berlusconi, ma poi Prodi (frenato dai ministri filo-valsusini Paolo Ferrero e Alfonso Pecoraro Scanio) non aveva comunque mai mostrato entusiasmo, per il fervore democratico dei palestinesi garibaldini, alle prese con quello strano risorgimento alpino, montanaro, periferico ma non provinciale. E’ come se si fosse laureato honoris causa, il valsusino medio, in questi anni grami: si è probabilmente conquistato il suo diploma di cittadino di prima classe, quanto a consapevolezza, mentre buona parte dell’Italia dormiva ancora sugli allori, prima di essere svegliata nel peggiore dei modi dal professor Monti, dalla professoressa Fornero.Si racconta che dal massiccio dell’Ambin, nel quale si è andato scavando il dannato tunnel esplorativo, sia disceso Annibale coi suoi elefanti. In direzione opposta avanzò Giulio Cesare alla conquista delle Gallie, facendo base a Susa, dove poi l’imperatore Costantino assediò Massenzio. Poco più a valle, Carlomagno sbaragliò i Longobardi manzoniani di Adelchi e Desiderio per poter fondare il Sacro Romano Impero, il cui erede Barbarossa mise a soqquadro Susa. Napoleone aprì la strada del Moncenisio, Cavour fece scavare il traforo del Fréjus. Quasi ogni sasso, in valle di Susa, ha molti secoli da raccontare, all’ombra dell’imponente Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte, eretto prima dell’anno Mille. Sul versante opposto, da una roccia emerge il Giove Dolicheno, scolpito dai soldati mediorientali arruolati da Roma nella Legione Siriana, di stanza nella valle conquistata dai Cesari. I valsusini amano le loro montagne, le frequentano con devozione. Le guardano diventare rosse, e poi viola, quando il tramonto illanguidisce nel crepuscolo lungo la cordigliera transalpina, dalla piramide del Rocciamelone alla mole nevosa del Niblè. Prima di altri, a loro spese, hanno imparato che il nuovo impero ha un’unica legge davvero sacra, quella dei soldi. A loro modo, da palestinesi, sono stati tra gli ultimi difensori di una repubblica di cui tutti gli italiani, oggi, hanno nostalgia.(Giorgio Cattaneo, “Tav, la strana guerra contro i palestinesi della valle di Susa”, dal blog “Petali di Loto” dell’11 dicembre 2018).Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.
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Apocalisse maltempo: qualcuno sta bombardando l’Italia?
Siamo stati deliberatamente “bombardati” da nubifragi devastanti, scatenati da perturbazioni artificiali? «Il prossimo che riparla di scie chimiche andrà sottoposto a un Tso», disse a mo’ di battuta Matteo Renzi, scoraggiando ulteriori interrogazioni parlamentari, sul fenomeno, da parte di esponenti del Pd. Oggi però, con il Nord-Est raso al suolo da eventi mai visti a memoria d’uomo, c’è chi torna sul tema in modo più che esplicito: «Bombardamento climatico sull’Italia, un avvertimento al governo?», si domanda il blog “Disquisendo”, secondo cui «nei giorni precedenti al disastro, ci sono state fortissime operazioni di aviodispersione a bassa quota». Tutti hanno visto il cielo sereno “rannuvolarsi”, dopo l’emissione di una rete fittissima di migliaia di scie bianche rilasciate dagli aerei di linea. Follia? Complottismo da strapazzo? L’unica vera certezza è la storica carenza di spiegazioni ufficiali definitive ed esaurienti. Si accumulano invece informazioni parziali, da fonti indipendenti, riguardo al presunto impiego clandestino della geoingegneria, inaugurata da Israele per far piovere sul deserto del Negev. La stessa Cia, oggi, ammette che sono in corso vaste sperimentazioni. Nel saggio “Owning the wheather” (possedere il clima), l’economista canadese Michael Chossudowsky svela che la “guerra climatica” è ormai una realtà.Un silenzio tombale è calato sulle rivoluzionarie scoperte del fisico Nikola Tesla, all’epoca emarginato dalla comunità scientifica, mentre l’ingegnere bresciano Rolando Pelizza ha raccontato a due docenti universitari, Francesco Alessandrini e Roberta Rio, che il geniale Ettore Majorana (ufficialmente scomparso nel 1938 ma in reatà nascosto in Calabria fino al 2005) progettò una “macchina” capace di mutare il clima all’istante. «Dello sviluppo di questa “macchina”, costruita in 50 esemplari su istruzioni dello stesso Majorana – dice ancora Pelizza – fu incaricato direttamente il governo italiano tramite Giulio Andreotti, che poi passò il dossier alla Cia». Un altro italiano, l’imolese Pier Luigi Ighina – assai meno celebre di Majorana, ma notissimo agli appassionati – riprodusse anche per le telecamere di “Report”, su Rai Tre, il suo straordinario esperimento, condotto con mezzi artigianali: Ighina era in grado di far piovere, creando nuvole nel cielo sereno (o a scelta, di far spuntare il sole tra i nuvoloni) semplicemente azionado, da terra, le pale di una sorta di ventilatore gigante, cosparse di alluminio. Il trucco? Cambiare la consistenza elettromagnetica della bassa atmosfera, immettendo vortici di onde.«La manipolazione climatica è realtà», sostiene il sito “Dionidream”, citando estati torride e mezze stagioni scosse da nubifragi e alluvioni di inaudita violenza, come quelli che hanno messo in ginocchio varie aree della Pensiola, a cominciare dal Veneto, dove le trombe d’aria hanno divelto decine di migliaia di alberi, devastando storiche foreste alpine. Fuori dall’Italia, il fenomeno della manipolazione climatica non è esattamente una novità: «Festa in cielo, vietata la pioggia», titolò il Tgcom24 di Mediaset il 23 marzo 2009, parlando di «aerei in cielo per disperdere le nubi» in occasione del settantesimo anniversario della “repubblica popolare” fondata da Mao. «Per impedire che la pioggia rovini i grandiosi festeggiamenti in programma, si ricorrerà a una tecnica senza precedenti», raccontò il telegiornale: «L’aviazione impiegherà 18 apparecchi che disperderanno nell’atmosfera prodotti chimici per impedire che dal cielo sopra Pechino cada la pioggia». Nello stesso anno, a novembre, sempre la Cina s’imbiancò fuori stagione, come raccontò “La Repubblica”: «Una nevicata precoce ha coperto con un’abbondante coltre bianca Pechino. Il tutto ha però ha avuto un aiutino dell’Ufficio Modificazione del Tempo della capitale cinese».I tecnici, riferì tranquillamente l’agenzia “Xinhua”, «hanno riversato in cielo con degli aerei 186 dosi di ioduro d’argento, per approfittare delle nuvole e del brusco calo della temperatura». Questo, scrisse “Repubblica”, «ha generato la nevicata», il cui scopo era «alleviare la persistente siccità». Ammise Zhang Qiang, responsabile dell’ufficio meteorologico: «Non ci facciamo sfuggire occasione per provocare precipitazioni, da quando Pechino registra una persistente condizione di siccità». Due anni dopo, nel 2011, l’allora presidente iraniano Mahmud Ahmedinejad accusò l’Occidente di aver provocato una gravissima siccità per mettere in crisi l’economia agricola del paese. «Secondo rapporti sul clima, accuratamente verificati, le potenze occidentali forzano le nuvole fino a far piovere», dichiarò Ahmedinejad, come confermato dal “Giornale”. «I nostri nemici distruggono le nuvole prima che arrivino sul nostro paese». Ancora la Cina, già nel 2011, è tornata protagonista sul tema, annunciando un investimento da 120 milioni di euro per riuscire, entro il 2015, a far aumentare del 10% le precipitazioni nelle zone più aride.«Un primo esperimento in tal senso era stato già condotto nel febbraio 2009, quando diverse regioni erano state irrorate da una pioggerellina leggera, generata da agenti chimici sparati nell’atmosfera con 2.392 razzi e 409 cannoni, in grado di creare nuvole cariche di pioggia», scrove il sito “Greenews”. «Le nuvole ‘adatte’ alle precipitazioni vengono ‘seminate’ con ioduro d’argento, un agente chimico che favorisce l’aggregazione delle molecole d’acqua per creare grandi gocce abbastanza pesanti da cadere al suolo». La tecnologia in realtà non è nuova, aggiunge “Greenews”: i primi esperimenti risalgono alla Guerra Fredda. «Durante la guerra del Vietnam, gli Stati Uniti lanciarono l’Operazione Popeye per cercare di intensificare i monsoni sul Sentiero di Ho Chi Minh, la rete di strade che andavano dal Vietnam del Nord al Vietnam del Sud passando per Laos e Cambogia, usate dai Vietcong e dai loro sostenitori. Nel 1978, però, gli esperimenti per far piovere artificialmente negli Usa furono interrotti, in seguito a una grave inondazione causata dal bombardamento chimico delle nubi». Dal Sud-Est Asiatico al Medio Oriente: «Israele “stimola” le nuvole dal 1961 e riesce così a rendere fertili e rigogliose terre di per sé aride».«Nel mondo ci sono diversi esperimenti in corso di questo tipo, ma siamo lontani dal poter dire di essere in grado di controllare la pioggia», disse nel 2012 a “Greenews” uno specialista come Sandro Fuzzi, climatologo del Cnr di Bologna, al quale allora sembrava remoto il rischio di gravi effetti collaterali, dato che gli interventi si svolgevano «su scala ridotta, al massimo di qualche decina di chilometri», mentre i fenomeni più distruttivi, come le alluvioni, «riguardano fronti di centinaia e anche migliaia di chilometri». L’ultima frontiera, aggiunge ancora “Greenews”, consiste nel bombardare le nuvole dal basso con dei laser: esperimento condotto nel 2010 in laboratorio e poi «replicato a Berlino da un gruppo di ricercatori dell’università di Ginevra e pubblicato sulla rivista “Nature Photonics”». Con un laser di grande potenza, una specie di “cannone energetico”, i ricercatori hanno colpito ed “eccitato” le molecole di gas presenti nell’aria. «Il risultato è stata la formazione di nuclei di condensazione attorno ai quali si sono create piccole gocce di acqua». Secondo il blog “Shivio news”, già nel 2012 erano oltre 20 i paesi impegnati nella sperimentazione di nuove tecniche per provocare precipitazioni.In vetta classifica primeggiano i soliti cinesi: Pechino, letteralmente, «impiega nel “rainmaking” oltre 37.000 addetti, fra tecnici e ricercatori», mentre «una trentina di aerei, 4.000 rampe per razzi e 7.000 cannoni vengono usati per sparare in cielo nuclei di sostanze intorno alle quali stimolare processi di condensazione di gocce d’acqua o cristalli di ghiaccio». Negli Stati Uniti, gli aerei «gettano nelle nuvole ghiaccio secco e ioduro d’argento». In Sudafrica si usa invece il cloruro di potassio: «I sali vengono diffusi da aerei che volano sotto le nubi in formazione, e servono ad aumentare il numero e la misura delle gocce». Anche il Messico, aggiunge “Shivio”, sta sperimentando la tecnica sudafricana, che «sembra che sia in grado di aumentare di un terzo il volume delle precipitazioni». Qualcuno poi ricorderà la primissima performance, in assoluto, della geoingegneria più spettacolare: il 9 maggio del lontano 2007, in occasione della fastosa celebrazione dell’anniversario della vittoria dell’Urss nella Seconda Guerra Mondiale, il Tg1 riprese lo spettacolo del sole riapparso “miracolosamente” tra le nubi nerissime del cielo di Mosca, grazie a una portentosa miscela a base di azoto, iodio e argento diffusa dagli aerei.Dall’uso civile a quello militare, il passo è breve: «Almeno quattro paesi – Stati Uniti, Russia, Cina e Israele – dispongono delle tecnologie e dell’organizzazione necessaria a modificare regolarmente il meteo e gli eventi geologici per varie operazioni militari ufficiali e segrete, legate a obiettivi secondari, tra cui il controllo demografico, energetico e la gestione delle risorse agricole». Lo disse già nel 2012 l’esperto aerospaziale Matt Andersson, allora in forza alla compagnia hi-tech Booz Allen Hamilton di Chicago. In un’intervista al “Guardian”, Hamilton ha ammesso: il nuovo tipo di guerra non convenzionale «comprende la capacità tecnologica di indurre, spingere o dirigere eventi ciclonici, terremoti e inondazioni, includendo anche l’impiego di agenti virali per mezzo di aerosol polimerizzati e particelle radioattive, trasportate attraverso il sistema climatico globale». Lo stesso Hamilton ha citato una think-tank della galassia neocon, il Bpc (Bipartisan Policy Center, con sede a Washington) e il suo rapporto nel quale chiede agli Usa e agli alleati di accelerare la sperimentazione su larga scala del cambiamento climatico.Secondo il “Guardian”, il gruppo è finanziato da «grandi compagnie petrolifere, farmaceutiche e biotecnologiche», e rappresenta «gli interessi corporativi del mondo militare e scientifico statunitense». Il newsmagazine “Sputnik News”, citando il canadese Chossudovsky, osserva: la geoingegneria ha omai prodotto «sofisticate armi elettromagnetiche». E anche se la cosa non è ammessa ufficialmente, men che meno a livello scientifico, le capacità di manipolare il clima (anche per scopi militari) sono in stato avanzatissimo. La storia di questa disciplina risale addirittura al 1940, quando il matematico americano John Von Newman, al Pentagono, iniziò la sua ricerca per la modifica del clima. Obiettivo: alterare i modelli meteorologici. Una tecnologia sviluppata negli anni ‘90 secondo il programma di ricerca della cosiddetta “alta frequenza aurorale attiva” (Haarp, High Frequency Active Auroral Research Program), come appendice di una iniziativa strategica di difesa, le “Guerre stellari”. Il programma Haarp, installato in Alaska e poi bloccato, sarebbe stato parte di una strategia tuttora attiva: le brusche modifiche del clima possono «estendersi, avviando inondazioni, uragani, siccità e terremoti».Ammissioni ufficiali? Impensabili. Meglio lasciare che certe voci circolino in modo incontrollato (bufale comprese), per poi liquidare il tutto sotto la voce “teoria del complotto”. «E’ naturale che su un tema come il cambiamento climatico la Cia collaborerebbe con gli scienziati per meglio comprendere il fenomeno e le sue implicazioni sulla sicurezza nazionale», ha detto un portavoce dell’intelligence Usa, dopo la diffusione della notizia, da parte del sito legato al periodico statunitense “Mother Jones”, secondo cui proprio la Cia starebbe aiutando con ingenti finanziamenti la Nas, National Academy of Sciences, impegnata in uno studio sull’applicazione della geoingegneria per manipolare il clima. Su “Meteoweb”, Filomena Fotia spiega che “Mother Jones” descrive lo studio come un’inchiesta riguardante «un numero limitato di tecniche di geoingegneria, inclusi esempi di tecniche di gestione delle radiazioni solari (Srm, Solar Radiation Management e rimozione dell’anidride carbonica (Cdr, Carbon Dioxide Removal). Geoingegneria “buona”, per proteggerci dall’attività solare divenuta pericolosa per la Terra?«La manipolazione meteorologica – aggiunge Fotia – è stata riportata in auge da molti commentatori statunitensi in occasione dei devastanti tornado in Oklahoma, o di altri eventi estremi come l’uragano Sandy, che sarebbero stati “generati dal governo” usando la base dell’Haarp in Alaska». Ma, appunto: il tema si presta a speculazioni incontrollate, vista la mancanza di riscontri esaurienti da parte delle autorità, sempre estremamente laconiche, come quelle interpellate nel 2014 da Alessandro Scarpa, allora consigliere comunale di Venezia. “Grandinata anomala e scie chimiche, il maltempo si tinge di mistero”, titolò il 24 settembre il “Gazzettino”, storico quotidiano veneziano, dopo «una grandinata fuori dal normale», sotto un cielo «carico di nubi come mai si era visto». E lassù, «quelle scie bianche nel cielo terso il giorno dopo». Sono bastati questi due fenomeni, scriveva il “Gazzettino” quattro anni fa, a ridestare un quesito: e se questo maltempo eccezionale non fosse il risultato delle bizze atmosferiche, ma di qualcosa di “chimico”?In redazione arrivò una lettera allarmatissima: grondaie intasate da “noci” di ghiaccio persistenti ed enormi: «Come mai questo ghiaccio non si è sciolto? Sembrerebbe di formazione chimica, da laboratorio, e non naturale». Per Alessandro Scarpa, vale la pena di esaminarli, certi fenomeni, «se non altro per capire di cosa si tratta» Ad esempio, «le strane scie chimiche che si vedono nei nostri cieli». Molte le segnalazioni pervenuite al Consiglio comunale, «da parte di cittadini veneziani, preoccupati, che chiedono spiegazioni». Scarpa si è rivolto inutilmente all’Enav, l’ente nazionale di assistenza al volo, che gestisce il controllo del traffico degli aerei civili. Nessun lume neppure dal ministero dell’ambiente di Roma: risposte evasive o bocche cucite. «È quindi opportuno – sottolinea Scarpa – preoccuparsi seriamente per noi e per i nostri figli». E aggiunge, rivolto ai giornalisti disattenti: «Questa mattina, quando il cielo era limpidissimo, si sono viste una quindicina di linee nel cielo veneziano». Quattro anni dopo, la situazione è gravemente peggiorata: non c’è più una giornata serena senza che il cielo non sia “sporcato” dalle scie, di ora in ora, mentre l’Italia sta diventando il bersaglio di violentissime tempeste di tipo tropicale, come quella che ora ha messo in ginocchio il Nord-Est.Lo scorso anno, a gennaio, il colonnello Mario Giuliacci – affabile volto televisivo – sul suo sito ha tentato di sgombrare il campo da ogni illazione, presentando testualmente un comunicato ufficiale dell’aeronautica militare. La spiegazione dei militari è ineccepibile, riguardo alla vistosa presenza di molte delle scie: «Le nuove generazioni di motori che equipaggiano i moderni aeroplani a reazione, per avere un miglior rendimento termodinamico dato dalla differenza di temperatura tra la camera di combustione e l’ambiente esterno, impiegano miscele di acqua e carburante la cui combustione genera le enormi quantità di vapore acqueo che sono all’origine delle scie». Secondo i militari, dunque, sono aumentate in modo esponenziale le scie di condensazione, in gergo “contrails”, destinate poi a scomparire nell’atmosfera. «Per le caratteristiche termodinamiche dei motori, per le quote di volo e per la localizzazione – aggiunge l’aeronautica – la quasi totalità delle scie che si osservano in cielo sono prodotte dai jet di linea degli operatori commerciali. La loro durata è variabile da pochi istanti a minuti e talvolta a ore, in dipendenza dell’umidità, delle temperature e in genere delle condizioni termodinamiche dell’aria circostante».Poi la chiosa: «Per quanto ci compete, l’Aeronautica Militare non possiede aeromobili che generano o emettono scie differenti da quelle prodotte a causa della condensazione di vapore acqueo». Il che – alla lettera – non significa escludere la presenza di altre scie, di ben diversa natura, emesse da velivoli estranei all’aeronautica militare italiana: le famigerate “chemtrails”, appunto. Tra le pagine del blog “Su la testa”, il giornalista investigativo Gianni Lannes (vittima di minacce e attentati per le sue indagini scomode, specie quelle sulla mafia dei rifiuti) sostiene che si è ormai clamorosamente violata la “Convenzione sul divieto dell’uso di tecniche di modifica dell’ambiente”, a fini militari o ad ogni altro scopo ostile, nota anche come Convenzione Enmod: «E’ il trattato internazionale che proibisce l’uso delle tecniche di modifica dell’ambiente». Firmata il 18 maggio 1977 a Ginevra, è entrata in vigore il 5 ottobre 1978, approvata anche dall’Onu. Gli Stati firmatari sono 48, inclusi gli Usa, di cui 16 non hanno ancora ratificato il trattato. In totale, i paesi che vi hanno aderito sono 76. «L’Italia ha firmato la Convenzione a Ginevra il 18 maggio 1977 e l’ha ratificata con la legge numero 962 del 29 novembre 1980, grazie al presidente della Repubblica Sandro Pertini e all’approvazione quasi all’unanimità del Parlamento».Secondo Lannes, questa verità viene regolarmente “oscurata” perché illegale, oltre che aberrante. Ma l’Italia, sostiene Lannes, ha concesso i propri cieli durante l’infelice G8 di Genova del 2001, quando Berlusconi firmò un trattato segreto, con Bush, che trasformava il nostro paese in un’area-test per l’irrorazione dell’atmosfera. Dal 2003, l’operazione è scattata. E nessuno ne parla: è top secret. Si chiama “Clear Skies Initiative”. Lannes attinge direttamente a fonti della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato: le pagine istituzionali americane ammettono apertamente che il 19 luglio 2011, a Genova, Bush e Berlusconi impegnarono i loro paesi in un programma di ricerca sul cambiamento climatico e sullo sviluppo di “tecnologie a bassa emissione”. Operazione poi approvata il 22 gennaio 2002 dal ministero italiano dell’ambiente e dal Dipartimento di Stato Usa. Dunque, scrive Lannes nel blog “Su la testa”, cambiamenti climatici indotti e “collaborazione” (si fa per dire) tra Stati Uniti e Italia, con quest’ultima a fare da cavia. «Dalla documentazione delle autorità nordamericane emerge che in questa vasta operazione gestita in prima battuta dal Pentagono, dalla Nasa e dalla Nato, sono coinvolte addirittura le industrie e le multinazionali più inquinanti al mondo: Exxon Mobil, Bp Amoco, Shell, Eni, Solvay, Fiat, Enel».Tutti insieme appassionatamente, secondo il giornalista, compreso il settore scientifico: università italo-americane, Enea, Cnr, Ingv, Arpa e così via. «Insomma, controllori e controllati. L’Enac addirittura ha partecipato ad un test “chemtrails” in Italia insieme a Ibm, ministero della difesa, stato maggiore dell’aeronautica e ovviamente Nato». Mancano, sempre, le conferme ufficiali. In compenso si scatenato i “debunker” come Paolo Attivissimo: “Scie chimiche, aria fritta con contorno di bufala e grana”. Dopo il disastro aereo del volo Germanwings del 2015, schiantatosi sulle Alpi francesi, anche il “Giornale” si sbizzarrisce: “Airbus, dalle scie chimiche alle ’strane scritte’: complottisti scatenati”. Nel frattempo Enrico Gianini, ex addetto aeroportuale di Malpensa, racconta a “Border Nights”: una volta a terra, gli aerei delle compagnie low-cost perdono liquido inquinato da metalli pesanti, e non lasciano più caricare i bagagli nelle stive di coda, come se fossero ingombre di serbatoi clandestini. «Se mi denunciano, chiederò al tribunale di “smontare” uno di quegli aerei: così scopriranno finalmente cosa trasporta». Ma la notizia resta negli scantinati del web, mentre il finimondo rade al suolo il Veneto e la Cina stipendia i suoi “rainmaker”.Siamo stati deliberatamente “bombardati” da nubifragi devastanti, scatenati da perturbazioni artificiali? «Il prossimo che riparla di scie chimiche andrà sottoposto a un Tso», disse a mo’ di battuta Matteo Renzi, scoraggiando ulteriori interrogazioni parlamentari, sul fenomeno, da parte di esponenti del Pd. Oggi però, con il Nord-Est raso al suolo da eventi mai visti a memoria d’uomo, c’è chi torna sul tema in modo più che esplicito: «Bombardamento climatico sull’Italia, un avvertimento al governo?», si domanda il blog “Disquisendo”, secondo cui «nei giorni precedenti al disastro, ci sono state fortissime operazioni di aviodispersione a bassa quota». Tutti hanno visto il cielo sereno “rannuvolarsi”, dopo l’emissione di una rete fittissima di migliaia di scie bianche rilasciate dagli aerei di linea. Follia? Complottismo da strapazzo? L’unica vera certezza è la storica carenza (in Italia, non all’estero) di spiegazioni ufficiali, definitive ed esaurienti, sulla manipolazione del clima. Si accumulano invece informazioni parziali, da fonti indipendenti, riguardo al presunto impiego clandestino della geoingegneria, inaugurata da Israele per far piovere sul deserto del Negev. La stessa Cia, oggi, ammette che sono in corso vaste sperimentazioni. Nel saggio “Owning the wheather” (possedere il clima), l’economista canadese Michael Chossudowsky svela che la “guerra climatica” è ormai una realtà.
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Tumori: le città Usa contro il wireless 5G, in arrivo in Italia
America dei controsensi: dal 1° ottobre il sistema 5G è regolarmente in funzione a Houston, Indianapolis, Los Angeles e Sacramento, ma c’è pure chi s’è sfilato e ha detto “no”. Se a Doylestown (Pennsylvania) da più d’un anno i funzionari rimbalzano tra le aule dei tribunali statali e federali per opporsi alla massiccia invasione di mini-antenne di quinta generazione, dopo le città di San Anselmo e Ross, anche il Comune di Mill Valley (sempre in California) ha deciso di fermare il 5G: «Troppo inquinamento elettromagnetico, esiste un fondato pericolo per la salute pubblica». Ricevute le protesta dei cittadini, scrive “Terra Nuova”, i municipi hanno infatti bloccato l’installazione del wireless del 5G per salvaguardare «la salute e la sicurezza della comunità». Lo stesso è accaduto a Palm Beach, in Florida, perché – sostengono i maligni – vi risiede nientemeno che il presidente Donald Trump, che pare non gradisca vivere in un groviglio di radiofrequenze. «Fatto sta che, numeri alla mano, solo in fase sperimentale oltre l’Atlantico sono già quattro le città che faranno (volentieri) a meno dei 20 Gigabit al secondo in download». Come ricorda anche l’Agcom, aderire al 5G significa garantire infrastrutture in grado di sostenere fino un milione di dispositivi connessi contemporaneamente per chilometro quadrato.Tradotto: irradiazioni di microonde millimetriche ovunque, non più solo dalle stazioni radio sui tetti dei palazzi (in Italia già 60.000) ma anche dai vecchi pali della luce «riconvertiti in ubiquitari Wi-Fi, uno ogni poche decine di metri, ovunque». Enel X, aggiunge “Terra Nuova”, ne ha annunciati poco meno di 2 milioni, distribuiti nei su 3.300 Comuni italiani. Con quali effetti per la salute? «Le prime evidenze che stanno venendo fuori dalla sperimentazione del 5G sono abbastanza preoccupanti», sostiene Agostino Di Ciaula, presidente di Isde-Italia (Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica, che ha già chiesto al governo Conte – inutilmente – una moratoria, per il nostro paese». Secondo Di Ciaula, «sono state segnalate alterazione dell’espressione genica, effetti sulla cute, effetti sulla proliferazione cellulare, sulla sintesi di proteine, sui processi infiammatori». Dati di fatto «ormai consolidati», secondo Di Ciaula: «Le onde elettromagnetiche ad alta frequenza causano effetti biologici soprattutto in termini di plesso ossidativo, che è alla base di numerose patologie croniche e dello stesso cancro». L’esposizione a onde come quelle fel 5G può danneggiare l’estensione del genoma e causare rischi in termini di fertilità, oltre che conseguenze neurologiche.«Ci sono numerosissime evidenze che documentano danni nello sviluppo, comportamentali, persino danni metabolici», aggiunge Di Ciaula. Sull’ipotesi di revisione da parte dell’Oms sulla “cancerogenesi da elettrosmog”, lo stesso Isde puntializza: «Il cancro è una evenienza che sembra molto probabile, ma è soltanto la vetta dell’iceberg». Secondo “Terra Nuova”, sono troppe le cose non dette, in materia: «Tra l’imbarazzante silenzio di amministratori locali, istituzioni regionali, politica e governo nazionale – non a caso anche mainstream e stampa faticano a informare l’opinione pubblica sullo scontro (titanico) in atto tra i massimi organismi di controllo sanitari del mondo – l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dovrà esprimersi sulla richiesta di revisione nella classificazione della radiofrequenze tra gli agenti cancerogeni». Secondo il newsmagazine ecologista, sarà un “terremoto” per il business 5G se la connessione elettrosmog-salute passerà dall’attuale livello (Classe 2B) alla Classe 2A o addirittura alla Classe 1, venendo cioè elevata da “possibile” a “probabile”, se non addirittura “certo” agente cancerogeno.La partita, aggiunge “Terra Nuova”, s’è riaperta proprio in questi giorni, con i risultati degli studi americani del National Toxicology Program e dell’Istituto Ramazzini di Bologna, bollati però come «non convincenti» dalla Commissione Internazionale per la Tutela dalle Radiazioni non Ionizzanti (Icnirp), che li ha definiti «studi che non forniscono un corpus di prove coerenti, attendibili e generalizzabili che possano essere utilizzate come base per la revisione delle attuali linee guida sull’esposizione umana». Sono davvero necessarie ulteriori ricerche? Non s’è fatta attendere la risposta degli scienziati chiamati in causa, «spartiacque in un’invisibile lotta tra negazionisti e precauzionisti che già in passato s’è macchiata di anomalie, scandali e conflitti d’interesse». Un’ombra che, secondo “Terra Nuova”, ancora oggi grava sulla tesi di quanti – anche davanti l’evidenza negli aggiornamenti e del numero degli “elettrosensibili” in crescita – si ostinano a considerare solo gli effetti termici (escludendo danni biologici da elettrosmog).«I nostri studi sono stati ben eseguiti e senza pregiudizi sui risultati», assicura Fiorella Belpoggi, direttrice della ricerca condotta per il Ramazzini: si tratta dell’indagine attualmente più importante al mondo, non finanziata dalle lobby del wireless né da privati, ma da enti pubblici. Dieci lunghi anni di studi e test, condotti su cavie “uomo-equivalenti”, che hanno permesso di riscontrare «gravi tumori maligni al cervello», oltre che l’insorgenza di infarti cardiaci. Ora, certo, la sanità pubblica dovrà valutare lo studio e trarne le conclusioni: il ruolo degli scienziati “finisce” nel momento in cui alle autorità si forniscono i dati accertati, che in questo caso rivelano la presenza di un rischio concreto e allarmante. «La sottostima delle prove dei biotest sui cancerogeni e i ritardi nella regolamentazione – osserva la dottoressa Belpoggi – hanno già dimostrato molte volte di avere gravi conseguenze, come nel caso dell’amianto, del fumo e del cloruro di vinile». La posizione ultra-prudente dell’Icnirp? Per Fiorella Belpoggi si commenta da sé, visto che sottovaluta gli evidentissimi rischi per la salute dei cittadini.America dei controsensi: dal 1° ottobre il sistema 5G è regolarmente in funzione a Houston, Indianapolis, Los Angeles e Sacramento, ma c’è pure chi s’è sfilato e ha detto “no”. Se a Doylestown (Pennsylvania) da più d’un anno i funzionari rimbalzano tra le aule dei tribunali statali e federali per opporsi alla massiccia invasione di mini-antenne di quinta generazione, dopo le città di San Anselmo e Ross, anche il Comune di Mill Valley (sempre in California) ha deciso di fermare il 5G: «Troppo inquinamento elettromagnetico, esiste un fondato pericolo per la salute pubblica». Ricevute le protesta dei cittadini, scrive “Terra Nuova”, i municipi hanno infatti bloccato l’installazione del wireless del 5G per salvaguardare «la salute e la sicurezza della comunità». Lo stesso è accaduto a Palm Beach, in Florida, perché – sostengono i maligni – vi risiede nientemeno che il presidente Donald Trump, che pare non gradisca vivere in un groviglio di radiofrequenze. «Fatto sta che, numeri alla mano, solo in fase sperimentale oltre l’Atlantico sono già quattro le città che faranno (volentieri) a meno dei 20 Gigabit al secondo in download». Come ricorda anche l’Agcom, aderire al 5G significa garantire infrastrutture in grado di sostenere fino un milione di dispositivi connessi contemporaneamente per chilometro quadrato.
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Il super-ricco Cuban: studiate filosofia, domani varrà oro
Nonostante l’evocativo cognome, Mark Cuban è un miliardario americano da tempo segnalato su “Forbes” come uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti. Agli sportivi è più noto per essere il presidente dei Dallas Mavericks, la squadra texana di basket. Di economia ne capisce parecchio, visto che vanta quasi 4 miliardi di dollari di patrimonio nonostante l’umile famiglia (padre tappezziere) e un cognome originario, Chabenisky, che tradisce l’origine russa, mentre la madre era una casalinga rumena. E’ stato il tipico ragazzo americano povero che si arrangiava con i lavoretti, ma con notevole fiuto per gli affari, se è vero che da studente universitario si è aperto un bar, subito divenuto famoso e frequentatissimo, poi una microsocietà di produzione di software, rivenduta a breve per 6 milioni di dollari. E’ proprietario di una televisione, e si è saputo gestire anche come investitore in campo finanziario. Da uno così non ti aspetteresti il consiglio di studiare filosofia, eppure lo ha fatto in una recente intervista, pure sbilanciandosi in una previsione per certi punti di vista facile, che non posso fare mia solo perché sostengo la medesima cosa già da anni.Il portale “Glassdoor” che si occupa di dare informazioni in ambito di lavoro afferma che i laureati in informatica o ingegneria saranno i più pagati, in futuro, cioè con uno stipendio migliore degli altri rispetto ai laureati in discipline umanistiche. A parte che chi sostiene che la filosofia sia “solo” umanistica non sa di cosa sta parlando, non ci pare che il celebre portale dica una cosa sconosciuta sulle differenze stipendiali tra laureati in storia dell’arte o lettere e quelli in ingegneria meccanica. Nel prendere atto del segreto di Pulcinella svelato da “Glassdoor”, Mark Cuban prevede che le cose cambino. In una intervista rilasciata alla “Abc”, ha sostenuto che tra dieci anni una laurea in filosofia varrà molto di più di una laurea in informatica. Perché? La spiegazione è tecnica ed economica, niente affatto romantica o legata alle preferenze personali di Cuban. Secondo il miliardario americano la tecnologia relativa all’Intelligenza Artificiale (Ai) cambierà completamente il mercato del lavoro, ma non nel senso che ci saranno lavori per i tecnici, bensì nel senso che arriverà ad auto-programmarsi.«Con l’intelligenza artificiale automatizzeremo l’automazione – dice Cuban – e l’Ai non avrà bisogno di me o di voi per farlo, nei prossimi dieci o quindici anni sarà capace di capire da sola come rendere automatici questi processi». Secondo Cuban, paradossalmente, saranno proprio i programmatori a farne le spese, ed è per questo che spinge a studiare discipline che forniscono elasticità e a pensare in grande, come la filosofia. «Saper pensare in modo critico, avere la capacità di valutare in una prospettiva globale – afferma Cuban – per me ha già valore oggi, ma ne avrà molto di più tra dieci anni». Inoltre, aggiungo io, sono molti gli studiosi di filosofia che si sono affermati nel mondo dell’imprenditoria, del management e della finanza, da Marchionne a Turner, fondatore della “Cnn”, ma non mancano severe eccezioni a questa regola, come il nostrano Chicco Testa (o testa di Chicco?) per nostra disgrazia già presidente dell’Enel.(Massimo Bordin, “Il miliardario americano Mark Cuban non ha dubbi: studiate filosofia!”, dal blog “Micidial” del 15 settembre 2018).Nonostante l’evocativo cognome, Mark Cuban è un miliardario americano da tempo segnalato su “Forbes” come uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti. Agli sportivi è più noto per essere il presidente dei Dallas Mavericks, la squadra texana di basket. Di economia ne capisce parecchio, visto che vanta quasi 4 miliardi di dollari di patrimonio nonostante l’umile famiglia (padre tappezziere) e un cognome originario, Chabenisky, che tradisce l’origine russa, mentre la madre era una casalinga rumena. E’ stato il tipico ragazzo americano povero che si arrangiava con i lavoretti, ma con notevole fiuto per gli affari, se è vero che da studente universitario si è aperto un bar, subito divenuto famoso e frequentatissimo, poi una microsocietà di produzione di software, rivenduta a breve per 6 milioni di dollari. E’ proprietario di una televisione, e si è saputo gestire anche come investitore in campo finanziario. Da uno così non ti aspetteresti il consiglio di studiare filosofia, eppure lo ha fatto in una recente intervista, pure sbilanciandosi in una previsione per certi punti di vista facile, che non posso fare mia solo perché sostengo la medesima cosa già da anni.
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Auto elettrica Eni-Enel, l’Italia potrebbe stupire il mondo
Ministro Di Maio, ma perché noi italiani non potremmo sorprendere tutti, per una volta? Disponiamo di due colossi, Eni ed Enel, in grado di trasformarsi in attori mondiali di primo piano nel nuovo business planetario dei veicoli elettrici. «Quello che sta accadendo è lo sbattere assieme di due industrie come non è mai accaduto prima nella storia», assicura Erik Fairbairn di Pod Point Ltd, l’azienda di punta inglese per le stazioni di ricarica degli “electric vehicles” (auto, scooter, camion, bus). Una frase lapidaria, sottolinea Paolo Barnard, che descrive «uno dei fenomeni più impensati ed eclatanti dell’economia globale», ovvero «la forzata fratellanza dei colossi del petrolio con quelli dell’elettricità a fronte della rivoluzione mondiale degli “Ev”, nella consapevolezza che il futuro del motore a combustione è segnato». Infatti, Big Oil e Big Utilities si sono lanciate insieme con acquisizioni miliardarie per non perdere una grossa fetta dell’industria dei trasporti di domani, che sarà sempre più a “carburante” elettrico: un affare globale da trilioni di dollari, euro, yuan e yen. La Royal Dutch Shell, aggiunge Barnard, ha calcolato ormai con certezza che il settore perderà oltre 10 milioni di barili di petrolio al giorno per il consumo nei trasporti entro il 2040, a favore dell’elettricità. Di più: la Cina ha stabilito per legge la più alta quota obbligatoria al mondo di “Ev” sul suo mercato, e nelle aziende, entro il 2030.Il governo del gigante asiatico ha stanziato 50 miliardi di dollari d’incentivi per gli “electric vehicles” per i prossimi due anni: Pechino sarà il maggior mercato di veicoli “Ev” del pianeta entro 12 anni, con una richiesta da far impallidire il resto del mondo. «La Volkswagen l’ha capito da un pezzo e ha sborsato subito un anticipo di 10 miliardi per arrivare per prima in Cina (poi la gente si chiede perché la Germania vince)». Per i prossimi sette anni, prosegue Barnard, aziende come Volkswagen, Bmw, Ford e Toyota hanno investito un totale di 165 miliardi di dollari nei veicoli elettrici, «non solo perché gli idrocarburi stanno distruggendo il clima e saranno man mano banditi, ma anche (più cinicamente) perché la tecnologia ha già oggi superato i due ostacoli maggiori allo sviluppo degli “Ev”, che erano l’autonomia (oggi siamo oltre i 500 km con una carica) e i tempi per le ricariche (le batterie Toshiba ricaricano un’auto in 6 minuti)». E poi, appunto, c’è l’immensa torta del mercato cinese. Per questo, oggi, le stime della maggiori “consultancies” internazionali danno il mercato globale degli “Ev” in crescita a ritmi pazzeschi: si parla dell’8.600% (ottomilaseicento per cento) nei prossimi 22 anni. E qui, scrive Barnard rivolgendosi a Di Maio, l’Italia potrebbe avere un’idea dirompente che la proietterebbe ai primi posti al mondo nella Disruption, la rivoluzione del lavoro indotta dalle nuove tecnologie, rilanciando economia e occupazione.Basterebbe che Eni ed Enel, cioè Big Oil e Big Utility in Italia, si lanciassero in una joint-venture «ben oltre il solito mercato delle stazioni di ricarica per “Ev”». Secondo Barnard potrebbero unire le loro imponenti forze (tecnologie avanzate, risorse e know-how) per sbarcare sul mercato dei produttori di veicoli elettrici, «in diretta competizione coi leader mondiali come Volkswagen, Bmw o Tesla, per anche superarli e divenire protagonisti di quello che è destinato a essere il più ricco mercato globale dei trasporti su terra». Ragiona Barnard: Eni ed Enel sono “sorelle”, insieme al ministero del Tesoro, e quindi – nel giro di neppure vent’anni – le ricadute sarebbero immense, per lo Stato e per l’economia, per il lavoro e per l’ambiente. «Un picco verso l’alto di Pil fra meno di vent’anni non è futurismo», assicura Barnard. Al contrario, sarebbe «l’occupazione e la società dei nostri figli alle elementari o alle medie adesso, ma anche di molti di noi, e con ricadute essenziali sui pensionati per ovvi motivi». Eni ed Enel potrebbero cioè attuare la Disruption del settore auto, senza più Sergio Marchionne e John Elkann. Basterebbe allineare l’Italia alle maggiori potenze economiche, dove i giganti petroliferi si stanno “gemellando” con i giganti delle utilities, mettendo in campo un’arma in più: la capacità competitiva del binomio Eni-Enel.Mentre il fenomeno si concentra sulla distribuzione del nuovo “carburante” elettrico, scrive Barnard, citando joint-ventures «tutte dedicate alle stazioni di ricarica degli “Ev”», non risulta che nessuno dei colossi mondiali abbia ancora pensato di «usare il proprio strapotere economico e tecnologico per entrare nel mercato dei veicoli, non solo rifornirli». E c’è un buon motivo, spiega Barnard: nella quasi totalità dei casi studiati – Usa e Gran Bretagna, Svezia, Giappone, Germania, Francia, Cina – i giganti esteri di petrolio e utilities risiedono in paesi con industrie automobilistiche già in prima linea negli “Ev”. Non l’Italia, però: «La sparpagliata anglo-olandese-italiana Fiat Chrysler Automobiles ha annunciato, con l’evidente riluttanza di Marchionne ben espressa alla “Reuters” nel gennaio 2018, un misero investimento di 9 miliardi di dollari negli “Ev”, che è quasi un decimo di quello della Volkswagen». Ecco il perché della proposta per l’Italia avanzata da Barnard: un marchio automobilistico Eni+Enel+Ev (col Tesoro).«Si tratta di saper vedere avanti, cioè di avere la cosiddetta “vision”», sottolinea il giornalista: «Sono certo che almeno all’Eni esiste una conoscenza approfondita dei mercati cosiddetti South Asia, China and Southeast Asia, e dell’esplosivo potenziale d’acquisto che stanno sviluppando, tale da umiliare tutto l’Occidente fra una manciata d’anni». Quindi, un’impresa come quella delineata non nascerebbe certo senza un mercato, anzi: e domani, quando «le vendite internazionali di “Ev” saranno a 9 zeri e straripanti», è facile prevedere quale indotto di lavoro l’industria automobilistica Eni+Enel+Ev creerebbe in un paese come l’Italia, che – ricorda Barnard – è ancora la prima nazione al mondo «per densità di piccole medie imprese». Praterie sconfinate di occupazione: dall’impiego negli stabilimenti alla costruzione delle infrastrutture sul territorio per le colonne di ricarica. Barnard insiste sul potenziale rivoluzionario della Disruption in atto: Artificial Intelligence e Machine Learning stanno cambiando volto al lavoro sul pianeta, facendo sparire mestieri e creandone di nuovi. Una delle applicazioni più studiate, e su cui sono stati investiti enormi capitali, sono le auto “driverless”: «E’ solo una questione di quando arriveranno, non “se”».E quindi, insiste Barnard, «un’Italia con due colossi tecnologici nazionali, Eni+Enel, già lanciati nel settore automobilistico e dei trasporti con gli “Ev”, diverrebbe anche leader delle “driverless”, con gli sbocchi economici e d’occupazione che si possono immaginare». Cosa stiamo aspettando, se è vero che – per la prima volta nella storia – i giganti del petrolio e quelli delle utilities marciano insieme, mentre l’industria dell’auto sta investendo centinaia di miliardi nei veicoli elettrici? «Non vedo perché il nostro gigante del petrolio, Eni, e il nostro gigante utility, Enel, non possano unire le loro grandi tecnologie per non solo competere nel settore rifornimenti, ma proprio per ridare all’Italia un marchio dell’auto del futuro, per la felicità del Tesoro a Roma, del Pil e dell’occupazione». Scrive Barnard, rivolto a Di Maio: «Ministro, il lavoro per gli italiani non si crea con decreti a mo’ di cerotti occupazionali appiccicati di qua e di là in quello che è un bagno di sangue di disoccupazione a due cifre. Il vero lavoro duraturo, a vita e remunerato bene – aggiunge Barnard – si crea solo con una “vision” di grande respiro». Per una volta, conclude il giornalista, l’Italia potrebbe tornare a stupire tutti, se solo lo volesse.Ministro Di Maio, ma perché noi italiani non potremmo sorprendere tutti, per una volta? Disponiamo di due colossi, Eni ed Enel, in grado di trasformarsi in attori mondiali di primo piano nel nuovo business planetario dei veicoli elettrici. «Quello che sta accadendo è lo sbattere assieme di due industrie come non è mai accaduto prima nella storia», assicura Erik Fairbairn di Pod Point Ltd, l’azienda di punta inglese per le stazioni di ricarica degli “electric vehicles” (auto, scooter, camion, bus). Una frase lapidaria, sottolinea Paolo Barnard, che descrive «uno dei fenomeni più impensati ed eclatanti dell’economia globale», ovvero «la forzata fratellanza dei colossi del petrolio con quelli dell’elettricità a fronte della rivoluzione mondiale degli “Ev”, nella consapevolezza che il futuro del motore a combustione è segnato». Infatti, Big Oil e Big Utilities si sono lanciate insieme con acquisizioni miliardarie per non perdere una grossa fetta dell’industria dei trasporti di domani, che sarà sempre più a “carburante” elettrico: un affare globale da trilioni di dollari, euro, yuan e yen. La Royal Dutch Shell, aggiunge Barnard, ha calcolato ormai con certezza che il settore perderà oltre 10 milioni di barili di petrolio al giorno per il consumo nei trasporti entro il 2040, a favore dell’elettricità. Di più: la Cina ha stabilito per legge la più alta quota obbligatoria al mondo di “Ev” sul suo mercato, e nelle aziende, entro il 2030.