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Feltri l’antiromano, delizioso antropofago proto-gialloverde
Se Vittorio Feltri è diventato Vittorio Feltri, lo deve a tante qualità e a qualche suo difetto, ma lo deve sotto sotto a una cosa: non si è mai fatto sedurre, conquistare, tentare dalla Gloriosa Baldracca di nome Roma. È rimasto refrattario al fascino lascivo di lei, incorruttibile, non è mai sceso nella Capitale per dirigere giornali, per trafficare indulgenze e complicità, è sempre stato al di là del Rubicone, anzi nel regno dei Lombardi. Ha considerato i romani perfino peggio dei meridionali, il che per lui è tutto dire. Il viaggio della sua vita è stato da Bergamo a Milano, e lì è il suo sapore e la sua salvezza. Se pensi a tutti i giornali che ha diretto, ha fondato, ha ribattezzato, te li trovi tutti a Milano e paraggi. Non solo i giornali da cui è partito, come è inevitabile per chi viene dalla provincia. Ma anche quelli in cui è cresciuto e si è affermato: dall’“Eco di Bergamo” alla “Notte”, dal “Corriere della Sera” all’“Europeo”, dall’“Indipendente” al “Giornale”, da “Libero” alle altre avventure di passaggio. Perfino l’unico settimanale che ha diretto di passaggio, e che era diventato romano, “Il Borghese”, lui lo fece a nord e poi lo usò come un utero in affitto per partorire “Libero”.A proposito di “Borghese”, è uscito un suo bel libro, autobiografico, nell’inconfondibile stile feltriano, intitolato “Il Borghese” (ed. Mondadori), ma non allude al settimanale di Longanesi e dei Tedeschi (pater et filius), ma a se stesso. E Feltri in effetti può dirsi almeno per metà borghese. Ma a differenza dei borghesi italioti, Feltri ama sì, i costumi borghesi, i perfetti abiti borghesi, lo stile gentleman e alcuni modi di vivere straborghesi, ma è ispido, un po’ selvatico, paleoleghista, capace di fregarsene dei bei modi borghesi. Ama la borghesia del nord, non quella romana, il generone parastatale, vaticanesco e alla vaccinara. Ma quel suo modo di essere, quel suo modo di preferire cavalli e gatti a romani e migranti, lo ha reso quel che è. È forse l’unico personaggio di cui Crozza fa una caricatura perfino più moderata rispetto all’originale. Ma quell’indole, quel bossismo interiore ma con giacche firmate e non in canottiera, lo ha vaccinato dai compromessi col potere romano, col sottobosco della capitale e gli ossequi alla curia. Insomma il contrario di Gianni Letta, che è stato il miglior cerimoniere, il miglior diplomatico, l’unico cardinale prestato dalla curia al giornalismo e alla politica.Nelle sue pagine, Feltri parla dei suoi incontri con alcuni potenti, Fanfani, Andreotti, che collaborò col suo Europeo, Craxi, che egli attaccò come Cinghialone ma poi difese quando finì in esilio e rivalutò da morto. Si capisce che non ha mai trescato con loro. Non è mai sceso a patti col potere, ma non per chissà quale Visione etica e trascendentale, ma per una ragione più semplice e più schietta: il carattere. Allergico ai salamelecchi, ai minuetti, ai cedimenti, pratico, mai contorto. Fu burbero e scontroso anche coi suoi editori, incluso Berlusconi. Non a caso si diceva “Il Giornale di Feltri” e non, come poi si è detto, “il Giornale di Berlusconi”. Posso testimoniare che con lui ho avuto il massimo di libertà di scrivere e pure di criticare il berlusconismo, il centro-destra e paraggi. Se un’opinione non gli piaceva, pensava ai lettori che l’avrebbero condivisa e magari vi opponeva un’opinione in senso contrario. Ma la sua forza è sempre stata il mercato, aveva i numeri dalla parte sua, aveva le copie, e se all’editore non andava giù qualcosa, lui poteva andarsene a fondare un altro giornale.Epica fu la stagione de “L’Indipendente”, gloriosa quella del “Giornale”, nientemeno dopo Montanelli, il suo dio fondatore, che lui raddoppiò nelle vendite. E poi “Libero”. Andò di successo in successo, dando voce a quella metà d’Italia che i potentati giornalistici ignoravano. Posso dire d’aver partecipato a tutte le sue imprese di successo, meno a un paio che successo ne ebbero un po’ meno. Feltri è stato il precursore del berlusconismo in politica, del bossismo, del centro-destra e un po’ anche del Vaffa grillino; ha rappresentato l’altra metà del mondo, ora in maggioranza, i cani sciolti e gli arrabbiati, la borghesia delusa e spaventata. E dev’essere un gran cruccio ora vedere che più di mezza Italia la pensa come lui in molte cose ma i giornali più vicini a quell’area di umori e malumori non sfondano, perché la gente non legge più. Esprime umori, non cerca opinioni. Con Feltri c’incontrammo perché lo invitai a scrivere per “L’Italia Settimanale” nel ’92 e insieme sostenemmo l’alleanza ibrida che poi prese corpo. Ricordo che gli chiesi un commento sul tema “Se cani e gatti si alleassero”, che precorse il Polo delle Libertà. Poi lasciai il “Giornale” di Montanelli per seguirlo all’“Indipendente”, tornai con lui al “Giornale” lasciando la redazione Rai; poi a “Libero”, e ancora al “Giornale”.L’unica parentesi critica fu col “Borghese” – lui direttore e io direttore editoriale – accorpato con un settimanale che dirigevo io, “Lo Stato”. Lui chiuse l’inserto culturale, lo “Stato delle Idee”, gli editori infilarono cassette semi-porno nella rivista, e io nel nome di Longanesi e della dignità me ne andai. Lo reincontrai una volta a Roma al Matriciano ma fingemmo di non vederci. L’incontro fatale fu su un treno Roma-Milano. Stavo andando in bagno, era occupato, si liberò in quel momento e uscì Feltri. Eravamo faccia a faccia. Avevo tutto da perdere nello stringergli la mano perché il 50% degli italiani, bergamaschi inclusi, non si lava le mani dopo la pipì. Ma fu giocoforza. Riuniti per la prostata. Poi riprendemmo il nostro strano sodalizio senza frequentazione, adozione a distanza, ammirazione e forse affetto, ma senza darlo a vedere. Lui nordista io sudista, lui lombardocentrico io romanocentrico, io nazionalista lui padano-individualista, lui liberista io destra-sociale, io per la cultura lui per il giornalismo duro e puro. Ma la divergenza fu il sale della nostra unione, non dirò che fummo precursori della coppia Di Maio-Salvini, ma ci siamo capiti…Feltri ha dato sapore e brio al giornalismo nostrano, ha dato carattere, anche brutto, ha dato inventiva e titoli esagerati ma efficaci. Nel momento in cui cadevano gli dei del giornalismo, Bocca, Biagi, Montanelli, Fallaci – a cui Feltri dedica in queste pagine succosi ritratti- lui è rimasto solo. El Diretur. Se Vittorino da Feltre fu un grande umanista, Vittorione Feltri è un delizioso antropofago che se ne impipa dell’umanità. Il peggior affronto che gli feci, lo riconosco, fu quella volta, vent’anni fa, che lo portai a pranzo dopo una riunione a Roma del “Borghese”. Lo portai ar Pallaro, romanesco che più romano non si può, e lui guardava inorridito il luogo e gli indigeni, come se l’avessi portato in un campo rom o in una baraccopoli africana. Se famo du spaghi dottò? So di avergli fatto passare una brutta ora. Ma non volevo fargli un torto, e neanche la mitica sora Paola der Pallaro lo voleva. È lo spirito sornione della Vecchia Roma che appena sente odore di antiromani li prende in ostaggio, dà il peggio di sé, e se mette a‘ cojonà il suo nemico. Che spettacolo indimenticabile fu Feltri cacio e pepe.(Marcello Veneziani, “Feltri l’antiromano”, da “Il Tempo” del 21 settembre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani. Il libro: Vittorio Feltri, “Il borghese. La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato”, Mondadori, 108 pagine, 17 euro).Se Vittorio Feltri è diventato Vittorio Feltri, lo deve a tante qualità e a qualche suo difetto, ma lo deve sotto sotto a una cosa: non si è mai fatto sedurre, conquistare, tentare dalla Gloriosa Baldracca di nome Roma. È rimasto refrattario al fascino lascivo di lei, incorruttibile, non è mai sceso nella Capitale per dirigere giornali, per trafficare indulgenze e complicità, è sempre stato al di là del Rubicone, anzi nel regno dei Lombardi. Ha considerato i romani perfino peggio dei meridionali, il che per lui è tutto dire. Il viaggio della sua vita è stato da Bergamo a Milano, e lì è il suo sapore e la sua salvezza. Se pensi a tutti i giornali che ha diretto, ha fondato, ha ribattezzato, te li trovi tutti a Milano e paraggi. Non solo i giornali da cui è partito, come è inevitabile per chi viene dalla provincia. Ma anche quelli in cui è cresciuto e si è affermato: dall’“Eco di Bergamo” alla “Notte”, dal “Corriere della Sera” all’“Europeo”, dall’“Indipendente” al “Giornale”, da “Libero” alle altre avventure di passaggio. Perfino l’unico settimanale che ha diretto di passaggio, e che era diventato romano, “Il Borghese”, lui lo fece a nord e poi lo usò come un utero in affitto per partorire “Libero”.
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Il Fenicio: quelli non erano Dei, i sacerdoti ci hanno mentito
L’inganno di cui siamo vittime non è una cosa moderna. Eusebio di Cesarea, padre della Chiesa, vissuto nel III secolo dopo Cristo, ha scritto la sua “Praeparatio Evangelica”. Lui riprende gli studi di Filone di Biblos, il quale a sua volta aveva ripreso gli studi di un certo Sanchuniathon, sacerdote fenicio del 1200 avanti Cristo. Siamo più o meno all’epoca della Guerra di Troia, cioè nel periodo in cui Israele, uscito dall’Egitto, stava conquistando la cosiddetta Terra Promessa, “promessa” da “Dio”. Ovvero: Dio l’onnisciente, l’onnipotente, promette la terra alla sua famiglia (non al popolo, perché non l’ha promessa agli ebrei: l’ha promessa alla famiglia di Giacobbe-Israele, che era una delle centinana di famiglie di ebrei). Sono passati 4.000 anni, dal momento della promessa, e se vogliono quella terra se la devono conquistare e mantenere con i carri armati, i missili, i muri, il filo spinato, le trincee. Quattromila anni: “promessa” di “Dio”. Che cavolo di dio è? Ma chi può pensare, anche solo per un attimo, che quella sia una promessa di Dio? Soltanto una ideologia che è basata sulla falsità. Attenzione: questo non vuol dire “antisemitismo”, vuol dire “anti-sionismo”, che sono due cose diverse (sono moltissimi gli ebrei anti-sionisti).Ma torniamo a Eusebio di Cesarea. Allora, Filone di Biblo, a cavallo tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, riprende gli studi questo Sanchuniathon, e sentite che cosa dice: «Nel corso dell’opera, Sanchunathon riconosce che le “divinità” non sono degli dèi celesti, bensì dei semplici mortali, maschi e femmine; non di costumi talmente incorrotti da dover essere accolti per la loro virtù o imitati per la loro saggezza, ma ricolmi di malvagità e di perversioni di ogni genere». Questa è una bella descrizione dello Yahvè biblico, per esempio. Ma poi, dice Eusebio di Cesarea: dopo avere fatto queste osservazioni, egli (Sanchuniathon) critica aspramente «gli scrittori vissuti nelle epoche successive a quando quei fatti avvenivano», per il fatto che – ascoltate bene – «in modo falso e arbitrario hanno interpretato in maniera allegorica, e fondandosi su spiegazioni e teorie fisiche, e perciò snaturandoli, i racconti riguardanti gli dèi». E aggiunge: «Ma i più recenti scrittori che si sono occupati di storia sacra hanno ripudiato i fatti avvenuti in principio. E dopo aver inventato allegorie e miti, che combinarono in modo tale da ricondurli a fenomeni cosmici, istituirono dei misteri e li avvolsero in una oscurità così densa che non era possibile vedere facilmente i fatti realmente avvenuti».Cioè, Filone di Biblo, tra primo e secondo secolo dopo Cristo, diceva che nel 1200 avanti Cristo c’era già chi aveva denunciato l’inganno, perpetrato dalle classi sacerdotali: che hanno preso dei racconti reali e li hanno trasformati in allegorie e miti – che è quello che ancora oggi continuano a volerci far credere. E ci sono appunto quelli che, ancora oggi, a sostegno di questo, ci raccontano: “No, ma questi sono miti, queste sono allegorie”. E non è mica finita: Filone scrive che Sanchunathon, «imbattutosi in certi libri» (che sono quelli, è scritto prima, di Toth), che erano stati fino ad allora «nascosti nei penetrali del tempio di Amon», si dedicò loro studio «per comprendere tutte quelle cose che non a tutti era dato conoscere». Alla fine, Sanchunathon «riuscì a realizzare il suo progetto e tolse di mezzo i miti e le allegorie in cui erano stati avvolti i tempi primitivi». In seguito, aggiunge Filone, «i sacerdoti che vissero dopo di lui vollero nascondere nuovamente la verità e ritornare al mito». Ed è quello che si sta facendo da millenni, continuamente. Quando c’è qualcuno che dice: “Guardate che forse quei racconti lì sono delle cronache vere, c’è sempre chi interviene e fa in modo di coprirli, trasformandoli in allegorie e miti, perché le cronache vere non si devono conoscere. Ci sono sempre quelli che continuano a “coprire”, perché non si conosca la reale concretezza di ciò che veniva detto all’inizio.In seguito – aggiunge sempre Eusebio, citando Filone – i sacerdoti che vissero dopo Sanchuniathon «vollero nascondere nuovamente la verità e ritornare al mito: da allora ebbero origine i Misteri, che ancora non erano stati introdotti» (e qui sta parlando dei culti misterici greci, eccetera). Poi aggiunge: «Traendo spunto da queste narrazioni, Esiodo e gli altri poeti composero le loro teogonie, gigantomachie e titanomachie, eccetera; portando in giro in ogni luogo queste narrazioni, riuscirono a soffocare la verità». Sembra che parli di noi: «I nostri orecchi, abituati fin dall’infanzia alle loro invenzioni e martellati ormai da tanti secoli da queste fantasie, custodiscono quasi come un deposito la materia favolosa trasmessa da queste favole, che essi hanno appreso così come ho già detto all’inizio». Ancora: «Rafforzate dal tempo, queste invenzioni fantastiche sono diventate un patrimonio di cui assai difficilmente ci si può disfare, tanto che la verità sembra una fantasticheria, mentre i racconti contraffatti sembrano avere tutti i caratteri della verità».Non è stupendo? E’ quello che viviamo noi, tutti i santi giorni. E’ stato scritto nel III secolo dopo Cristo sulla base di un testo del I-II secolo dopo Cristo, che a sua volta riprende un testo del 1200 avanti Cristo. Sembra scritto per noi: le fantasticherie hanno preso il posto della verità. E quando c’è qualcuno che vuole farla emergere, la verità, bisogna “segarlo”: la verità non deve essere conosciuta, perché la verità è quella che farebbe cadere i sistemi di potere. Perché la verità è molto semplice: ed è talmente semplice da essere immensamente più affascinante delle favole che ci hanno ricamato sopra. Uno studioso contemporaneo, il filologo Giovanni Semerano – molto importante ma scomodo, e quindi un po’ ostracizzato – citando sempre Eusebio di Cesarea, dice: «Abbiamo notizia dell’albero genealogico degli dèi. Primo fra tutti sarebbe stato Elyòn», che è quello citato nella Bibbia, «da cui sarebbe nato Baal Shemìn. Da Baal nasce El, che nel secondo millennio sarebbe divenuto il capo del Pantheon fenicio. Ai suoi figli, tra i quali Yahvè, El affida la cura di un popolo». E’ esattamente ciò che ci racconta la Bibbia, nel Deuteronomio. Cioè: ce lo raccontano tutti. Non dobbiamo far altro che fare finta che sia vero, ben sapendo che gli autori biblici non avevano certo tempo da perdere: perché avrebbero dovuto inventare fiabe? E se facciamo finta che sia vero, capiamo tutto. Ma è proprio questo che non deve avvenire.(Mauro Biglino, estratto della conferenza tenuta a Reggio Emilia il 30 giugno 2018, ripresa su YouTube. Già traduttore della Bibbia per le Edizioni San Paolo, Biglino ha reso popolare la traduzione letterale dell’Antico Testamento firmando saggi divulagativi di grande successo, pubblicati da UnoEditori e da Mondadori, nei quali presenta Yahvè e i suoi “colleghi” Elohim non come dèi, ma come misteriosi e potenti dominatori, improvvisamente giunti sulla Terra. Biglino rivela che nella Bibbia – presa alla lettera, nell’ebraico antico rimaneggiato dai Masoreti fino all’epoca di Carlomagno – non esiste traccia di alcun dio: non c’è metafisica né spiritualità. Non esistono neppure i concetti di creazione, eternità, onnipotenza. Gli “dèi” della Bibbia – tanti, corporei e non certo immortali – sarebbero la fotocopia dei futuri “theòi” greci, degli “dèi” romani e di tutte le “divinità” delle civiltà precedenti, a partire da quella sumera. Singolare la denuncia formulata, in questo senso, dall’antico sacerdote fenicio Sanchunathon già nel 1200 avanti Cristo, poi ripresa dallo storico greco Filone Erennio di Biblos e quindi da un autorevole “padre della Chiesa” come, appunto, Eusebio di Cesarea).L’inganno di cui siamo vittime non è una cosa moderna. Eusebio di Cesarea, padre della Chiesa, vissuto nel III secolo dopo Cristo, ha scritto la sua “Praeparatio Evangelica”. Lui riprende gli studi di Filone di Biblos, il quale a sua volta aveva ripreso gli studi di un certo Sanchuniathon, sacerdote fenicio del 1200 avanti Cristo. Siamo più o meno all’epoca della Guerra di Troia, cioè nel periodo in cui Israele, uscito dall’Egitto, stava conquistando la cosiddetta Terra Promessa, “promessa” da “Dio”. Ovvero: Dio l’onnisciente, l’onnipotente, promette la terra alla sua famiglia (non al popolo, perché non l’ha promessa agli ebrei: l’ha promessa alla famiglia di Giacobbe-Israele, che era una delle centinana di famiglie di ebrei). Sono passati 4.000 anni, dal momento della promessa, e se vogliono quella terra se la devono conquistare e mantenere con i carri armati, i missili, i muri, il filo spinato, le trincee. Quattromila anni: “promessa” di “Dio”. Che cavolo di dio è? Ma chi può pensare, anche solo per un attimo, che quella sia una promessa di Dio? Soltanto una ideologia che è basata sulla falsità. Attenzione: questo non vuol dire “antisemitismo”, vuol dire “anti-sionismo”, che sono due cose diverse (sono moltissimi gli ebrei anti-sionisti).
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Barnard: senza scorta Saviano muore (solo come besteller)
La vita di Roberto Saviano è sacra come ogni vita, ma è la saga della sua scorta che è profana. Fate questi due esercizi: 1) Aprite su Google tutte le foto che trovate di Saviano e scorta. Guardatele bene e pensate in quante di esse vi era la piena possibilità che un killer della malavita, un professionista del tiro, lo potesse uccidere a 15-20 metri per poi saltare sul retro di una moto e scomparire. Oppure: che un cecchino potesse fare un lavoro alla Jfk e avere tutto il tempo per dileguarsi (la malavita sa sempre dove sta la vittima, le soffiate sono la regola e i depistaggi anche più sofisticati, alla lunga, non hanno mai salvato nessuno, basta leggere la storia dei grandi attentati in Medioriente dove fior di servizi segreti, anche Usa, hanno fallito). 2) Leggete l’Abc del lavoro delle scorte armate in ogni paese, da quella della Regina d’Inghilterra a quella dei capi di Stato, fino a gente come Saviano. E’ specificato con estrema chiarezza che la scorta non ha alcun mezzo diretto per evitare un assassinio quando il protetto si trovi nelle tante occasioni di esposizione alla strada pubblica. Il lavoro delle scorte in questi casi può essere solo preventivo, con una complessa serie di tecniche e misure che sono solo palliativi di efficacia molto limitata, proprio perché il cosiddetto fattore “sniper” (cecchino) non può essere direttamente contrastato in alcun modo, se non sigillando interi quartieri e sterilizzandoli con immense perquisizioni metro per metro, casa per casa. Questo non accade nel caso delle uscite di Saviano.Pensateci bene un attimo, poi continuate: i due punti sopra ci dicono che se la malavita non ha ancora ucciso Roberto Saviano è perché non ha nessuna intenzione di farlo. Non ci serve neppure ricordare le scorte di Falcone e Borsellino, serve invece ricordarsi che quando organizzazioni come le mafie internazionali decidono di ucciderti, accade, punto. Purtroppo davvero non esiste nulla di fisico che le possa fermare, meno che meno due o tre agenti che fra l’altro, come si evince inequivocabilmente dalle foto di Saviano, sono costretti a esporsi col target in decine di situazioni pubbliche persino affollate. Non è un qualche veleno che me lo fa dire, è l’evidenza sopra esposta che impone di affermare che la scorta per Saviano serve a fargli vendere libri, non a salvargli la vita. E non sto affatto “insultando” la sua presunta perdita di libertà. Sciocchezze, Saviano non è Julian Assange che sta davvero morendo nelle “catene” dell’eroe in condizioni agghiacciati; il nostro Roberto è un super-privilegiato con una libertà di esprimersi, di muoversi, e di godere di gratificazioni un milione di volte superiore a quella di qualsiasi cittadino libero.Le mafie non l’hanno ancora colpito per due ragioni evidenti, sopra a probabilmente altre. Prima, è fin ridicolo sostenere che le indagini dello scrittore – che per misteriosi motivi spiegabili solo dalla fisica quantistica, senza quasi potersi muovere da casa otterrebbe esclusive mondiali sulle cosche per cui sarebbe più in pericolo di vita di molti inquirenti – siano più letali di quelle di decine di eroici giornalisti, magistrati minori e forze dell’ordine anonimi del Sud Italia, o colombiani, venezuelani, pakistani, russi, ceceni, che nessuno conosce e che come scorta hanno solo il cane, se ne hanno uno. Questo è assurdo. Dunque perché ucciderlo e creare un putiferio? Falcone e Borsellino erano un’altra cosa, siamo tristemente seri. Secondo: l’opera di Saviano ha manifestamente offerto una dignità finora sconosciuta alla malavita, quella della celebrità mediatica come mai prima in Italia (CamorraNetflix, è ben il caso di dire oggi). In questo modo la “Saviano Inc.” ha fatto – e lo affermo senza prove documentali che sarebbero impossibili, ma con la prova dei flussi umani che sempre piovono ovunque vi sia celebrità, anche della peggior specie – ha fatto, dicevo, di certo fluire inaspettate adesioni di giovanissimi alle cosche.Esse sono oggi divenute, grazie proprio a Saviano e all’impressionante industria mediatica che lo circonda, parte del crimine “Vippismo hollywoodiano”, molto, ma molto più attraenti di prima per giovanissimi senza arte né parte. Solo lo stolto uccide la gallina dalle uova d’oro. E vi è uno storico, quanto autorevole, antecedente di quanto affermo. Il colossale apparato mediatico del film “Il Padrino” di Francis Ford Coppola attizzò l’ego della mafia di New York al punto che il super-boss Joe Colombo volle una fetta della torta in notorietà, e senza motivi di lucro collaborò col produttore Al Ruddy. E infatti è noto che dopo l’eccezionale successo di pubblico del film, per la prima volta fra i mafiosi di Little Italy comparvero atteggiamenti letteralmente copiati dal set, come i baci guancia-guancia o i giuramenti di fedeltà in stile papale all’anello del Padrino. Effetto Vip, appunto.E per chi sostiene che l’epica “saviana” ha contribuito a puntare i riflettori sulle mafie, ricordo che riflettori di Coppola, o di Scarface, o di Goodfellas, non hanno affatto contribuito a nulla, se non appunto il contrario. Ben altro funziona, come ho scritto in passato. Queste sono alcune osservazioni ragionate per stare al di sopra della “caciara” salviniana e piddina sulla questione, ma che hanno però un valore sostanziale in questa drammatica domanda: quante scorte sono elargite in Italia a insulsi personaggi benedetti dal Vippismo mentre altri eroi sconosciuti sono condannati a una vita di snervante paura? E tornando all’essenza di cosa davvero una scorta può prevenire, cioè un’infinita serie di angherie non letali contro la vittima ma di fatto distruttive, sono proprio questi abbandonati eroi che ne avrebbero più bisogno.(Paolo Barnard, “Senza la scorta Saviano muore… come bestseller”, dal blog di Barnard del 25 giugno 2018).La vita di Roberto Saviano è sacra come ogni vita, ma è la saga della sua scorta che è profana. Fate questi due esercizi: 1) Aprite su Google tutte le foto che trovate di Saviano e scorta. Guardatele bene e pensate in quante di esse vi era la piena possibilità che un killer della malavita, un professionista del tiro, lo potesse uccidere a 15-20 metri per poi saltare sul retro di una moto e scomparire. Oppure: che un cecchino potesse fare un lavoro alla Jfk e avere tutto il tempo per dileguarsi (la malavita sa sempre dove sta la vittima, le soffiate sono la regola e i depistaggi anche più sofisticati, alla lunga, non hanno mai salvato nessuno, basta leggere la storia dei grandi attentati in Medioriente dove fior di servizi segreti, anche Usa, hanno fallito). 2) Leggete l’Abc del lavoro delle scorte armate in ogni paese, da quella della Regina d’Inghilterra a quella dei capi di Stato, fino a gente come Saviano. E’ specificato con estrema chiarezza che la scorta non ha alcun mezzo diretto per evitare un assassinio quando il protetto si trovi nelle tante occasioni di esposizione alla strada pubblica. Il lavoro delle scorte in questi casi può essere solo preventivo, con una complessa serie di tecniche e misure che sono solo palliativi di efficacia molto limitata, proprio perché il cosiddetto fattore “sniper” (cecchino) non può essere direttamente contrastato in alcun modo, se non sigillando interi quartieri e sterilizzandoli con immense perquisizioni metro per metro, casa per casa. Questo non accade nel caso delle uscite di Saviano.
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Addio rondini: clima, il Sahara avanza e ferma i migratori
Vola sulle ali delle rondini il meraviglioso romanzo “Il viaggiatore notturno”, Premio Strega 2005, nel quale il poetico irundologo immaginato da Maurizio Maggiani scommette sulla memoria ancestrale della Terra: vuoi vedere che i piccoli migratori sostano ancora nel deserto algerino, dopo migliaia di anni, perché “si ricordano” che quelle lande bruciate dal sole erano state, un tempo, un vero e proprio paradiso umido, ricco di lagune e insetti? Il problema, oggi, è che la “memoria” delle rondini potrebbe non bastare più, da quando – a causa del surriscaldamento climatico – il Sahara ha preso ad avanzare anche verso Sud, estendendo in modo pericoloso l’habitat proibitivo del deserto: troppi chilometri, senza più la possibilità di rifornirsi di cibo durante l’immensa fatica della migrazione stagionale. Risultato: potremmo dire addio, per sempre, alla presenza delle rondini nei nostri cieli. «Le nostre amate rondini, come anche il balestruccio e il topino, stanno diminuendo a ritmo costante», avverte Marco Gustin, ricercatore della Lipu: «Il deserto Transahariano è la loro casa invernale che, per il riscaldamento globale, si sta allargando verso Sud. Quindi, raggiungere i luoghi dove svernare è sempre più faticoso: le distanze tra Sahara ed Europa aumentano e gli uccelli nel percorso consumano preziose energie. Tanto che molti non sopravvivono, soprattutto le nuove generazioni».E’ sempre più difficile la convivenza tra uomo e natura, ammette Valentina Venturi su “Repubblica”. «Il campanello d’allarme risuona inascoltato per gli uccelli migratori, i grandi viaggiatori della Terra, che di anno in anno diminuiscono, in maniera inesorabile. Vivono letteralmente la fatica di essere migranti». Negli ultimi anni, osservano gli ornitologi, ben 200 specie di volatili nomadi sono state classificate come globalmente minacciate, mentre il 40% delle specie migratrici sono in diminuzione. Le migrazioni sono a ciclo continuo, e le rondini non fanno eccezione: vivono in Africa dalla metà di ottobre alla metà di marzo, mentre nei restanti sei mesi migrano verso l’Europa. Tra le principali cause del flusso migratorio ci sono «la perdita e il degrado dell’habitat, il rischio di collisione con le turbine eoliche e le linee elettriche posizionate in modo sbagliato, l’eccessivo sviluppo non sostenibile delle risorse naturali e ovviamente l’uccisione e la cattura illegale di volatili». Ma il massimo comun denominatore di questa vera e propria ecatombe, aggiunge Venturi, è proprio il riscaldamento globale del pianeta.Un’emergenza ricordata dalla campagna globale di sensibilizzazione e educazione sostenuta dall’Onu per la Giornata mondiale degli uccelli migratori, che pone l’accento sulla necessità di una cooperazione internazionale. «Gli uccelli migratori connettono persone, ecosistemi e nazioni. Sono simboli di pace e di un pianeta unito: i loro epici viaggi ispirano persone di tutte le età, in tutto il mondo», sottolinea il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres. «C’è da dire – conclude Marco Gustin – che il processo è quasi irreversibile: siamo noi uomini la causa di questo dramma ambientale. Occupiamo ogni giorno più spazio fisico, riducendo le zone naturali a disposizione della flora e della fauna. Solo in Italia siamo 60 milioni di persone che volenti o nolenti incidono sull’ambiente. Più cresceremo senza rispettare la natura e più il pianeta ne risentirà». Spariranno un giorno anche le rondini? Nel “Viaggiatore notturno”, sono gli uccelli a “ricordarsi” di com’era la Terra. Verrà un giorno in cui saranno gli uomini a poter solo ricordare gli uccelli migratori, minuscoli ed eroici testimoni di un pianeta verde, estintosi insieme a loro?Vola sulle ali delle rondini il meraviglioso romanzo “Il viaggiatore notturno”, Premio Strega 2005, nel quale il poetico irundologo immaginato da Maurizio Maggiani scommette sulla memoria ancestrale della Terra: vuoi vedere che i piccoli migratori sostano ancora nel deserto algerino, dopo migliaia di anni, perché “si ricordano” che quelle lande bruciate dal sole erano state, un tempo, un vero e proprio paradiso umido, ricco di lagune e insetti? Il problema, oggi, è che la “memoria” delle rondini potrebbe non bastare più, da quando – a causa del surriscaldamento climatico – il Sahara ha preso ad avanzare anche verso Sud, estendendo in modo pericoloso l’habitat proibitivo del deserto: troppi chilometri, senza più la possibilità di rifornirsi di cibo durante l’immensa fatica della migrazione stagionale. Risultato: potremmo dire addio, per sempre, alla presenza delle rondini nei nostri cieli. «Le nostre amate rondini, come anche il balestruccio e il topino, stanno diminuendo a ritmo costante», avverte Marco Gustin, ricercatore della Lipu: «Il deserto Transahariano è la loro casa invernale che, per il riscaldamento globale, si sta allargando verso Sud. Quindi, raggiungere i luoghi dove svernare è sempre più faticoso: le distanze tra Sahara ed Europa aumentano e gli uccelli nel percorso consumano preziose energie. Tanto che molti non sopravvivono, soprattutto le nuove generazioni».
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“Vaccinare” i bambini da una religione che li mette in croce
L’idea di un rapporto sui danni della dottrina cattolica è recente, nella forma di divulgazione popolare. Nella mia attività professionale e clinica ho avuto modo di verificare e raccogliere una serie di connessioni tra modalità formative che tendono a deprimere l’identità psico-affettiva nella costituzione evolutiva della persona e le inevitabili conseguenze nella determinazione del destino individuale e sociale dell’uomo. Il mondo reale è, infatti, una rappresentazione di ciò che è stato impresso nella fase costituente dell’Io. Alice Miller, per esempio, ne “La persecuzione del bambino” cerca con ansia di mettere in guardia gli educatori dagli effetti della pedagogia nera della religione. Ma la stessa razionalità è utile solo se possiamo educare a riconoscere gli stili formativi che producono un accumulo di cattiveria, di distruttività e di infelicità nell’uomo. L’insegnamento cristiano è falsamente improntato all’amore universale: basta guardare il simbolo genetico del cristianesimo, il crocifisso e ciò che esso rappresenta, per capire la componente di ambivalenza sadica e masochista che questo “amore” veicola nell’inconscio dei bambini.Il sacrificio come premessa, l’esordio della vita nella colpa, l’inquietante percezione di un uso distorto dell’autorità del genitore, equiparato a Dio, nell’espropriare il corpo del figlio e nel farne l’oggetto da distruggere per le proprie incarnazioni mistiche. Quale amore ha bisogno di sacrifici umani? Può la salvezza dell’umanità derivare dalla disgrazia procurata a un incolpevole? Si tratta di perversione, di cannibalismo affettivo e domestico! Come può accadere che una tale deviazione della coscienza si affermi in modo così radicale nella cultura dell’Occidente? Perché l’intellettualità europea, salvo poche eccezioni, per lo più originate dall’ambiente di cultura ebraica, non sa rilevare l’evidenza di una tale incongruità con i precetti fondamentali del rispetto umano? Perché ci si ostina a ritenere degne di fede false acquisizioni razionali e a falsificare la storia stessa senza suscitare una opposizione netta tra coloro che si dicono laici? Ho cercato di dare le risposte a questi quesiti in due saggi: “Pinocchio eroe anticristiano. Il codice della nascita nei processi di liberazione” (Edizioni Sapere, Padova, 2000), e “Il furore di Nietzsche. La nascita dell’eroe e della differenza sessuale (Cleup, Padova, 2005).Ora, con l’estendersi dell’interesse su questi temi, al di fuori della tradizionale banalità dell’ateismo che cercava di dimostrare la non esistenza materiale di Dio, il gruppo dell’axteismo si è prefisso di registrare i danni della esistenza di Dio come categoria della mente e dell’educazione di massa. Dov’era Dio, si chiedono in tanti, mentre in Europa imperversavano i roghi crematori della Shoà? Il Dio cristiano e antigiudaico della tradizione era là! Logica conseguenza dell’odio che aveva seminato per secoli e anche, in quegli anni, sulle pagine dell’organo vaticano, la “Civiltà Cristiana”. Era assente solo sui banchi degli imputati a Norimberga, dove si è negata la verità inconfutabile che gli ebrei sono stati perseguitati in quanto tali – ebrei – da una identità culturale altra ed egemone: i cristiani!Mai il cristianesimo ha subito le conseguenze dei suoi insegnamenti ambigui, di un amore sadico, improntato alla sofferenza come valore e all’infelicità dell’esistenza reale. Da Annamaria di Cogne ai giovani assassini di Satana, la cronaca registra le forme del disagio radicato nelle istanze della religione che continua impassibile a rivendicare per sé il diritto all’egemonia sull’etica e sulla morale.E’ invece evidente che la presenza dei valori cristiani (sopportazione, peccato, sangue e demonio) è stata l’unica istituzione sempre garantita nei luoghi del degrado umano ed economico, non solo non riuscendo ad apportare modifiche strutturali alle cause della sofferenza, ma legandosi in modo complementare e ambivalente con le dinamiche stesse dell’ingiustizia e dell’ignoranza. Soluzioni? Al di là di un auspicabile risveglio della ragione di fronte alle palesi deformità introdotte dalla religione cristiana, cattolica in particolare, nelle basilari nozioni di igiene degli affetti e del rispetto umano; al di là delle incredibilmente gravi (e in parte inesplorate) responsabilità storiche che un amore così immaturo ha inculcato nella soggettività dell’Occidente, resta ancora non risolto il nodo centrale della comprensione profonda di questo fenomeno. Non è sufficiente contrapporre il darwinismo al conato del creazionismo nelle tendenze regressive del presente. E’ necessario aprire gli armadi di una conoscenza così gravosa da recepire in termini estesi, da essere rifiutata largamente anche nelle fasce della popolazione “di sinistra” in Italia.Dietro la religione e i suoi dettami di crudeltà oggettiva nei rapporti pedagogici tra generazioni, si legittima il motore stesso dell’alienazione sessuale della donna (quindi dell’intera umanità), la sua esclusione da una completa individuazione e responsabilità sociale. La mistificazione di questo importantissimo tema è tale da riferire l’ambito delle discussioni unicamente al conflitto tra sessi. Niente di più sbagliato. Lo studio dell’esegesi analitica del mito, come accade con lo studio dei sogni e del simbolismo in generale applicato alla letteratura e all’arte, rivela nel racconto cristiano (eucaristia, spirito santo e pos-sesso sulla figlia Maria, negazione del ruolo del padre, incarnazione nel corpo dei figli con le stimmate sessuali femminili del sangue e del dolore) l’estensione in termini socializzati della psicologia della Grande Madre intesa nel senso junghiano (Erich Neumann, “Storia delle origini della coscienza”, Astrolabio).L’alienazione della donna madre, unitamente all’enorme potere neuro-affettivo che il mistero del parto-creazione comunque le conferisce (nella fisiologia dei mammiferi), connota l’identità dell’Eterna Fattrice di una attribuzione divina da sempre riconosciuta nelle culture di ogni epoca, a partire dalle più remote. La religione in genere, in Occidente la religione cristiana, è esattamente l’espressione più coerente della psicologia della Grande Madre. Da qui deriva l’invisibilità e la radicale impunibilità delle istanze anche sadiche (ma ammantate di profonda affettività) del cristianesimo. Da qui l’assoluta incongruenza tra buon senso, ragione e fede. La madre può sbagliare, essere immatura negli affetti, esigere tributi di sangue, e tuttavia conservare intatta la forza del suo potere che le deriva dall’aver “pettinato” i neuroni e l’identità affettiva dei nati da lei, uomini e donne. Dalla natività di un essere destinato al rito di sangue e martirio, al controllo delle istanze sessuali e di generazione, alle perversioni mistiche del corpo martoriato esposte dalla ginecologia religiosa dell’arte sacra, la religione non è solo un’istanza del potere politico o culturale: essa è innanzitutto la realtà di una inveterata e radicata violenza domestica, una affezione profonda perseguita con tenacia anche da chi non si dice praticante e tuttavia, difende il cristianesimo nella sua essenza.Per lo stesso motivo il cristianesimo ha resistito ad ogni critica razionale, anche se riconosciuta valida e dimostrata. Ma non è più lecito tollerare un uso anti-umano del potere degli affetti, diretto specialmente contro i bambini e la loro aspettativa di vita! Alla base di tutto ciò, c’è un paradosso intrinseco alla natura sessuale dell’umanità che evidenzia come solo la figlia, in quanto femmina, può divenire più grande e potente del suo creatore, che è la madre. Unicamente lei, non il maschio vezzeggiato, può procreare e mettere in mora il ruolo di potere generazionale della madre! Solo alla luce di questa premessa si possono comprendere i legami di senso che uniscono riti crudeli contro la giovane donna, che non è ancora madre, come l’infibulazione (rito di ingresso della giovane nel clan delle donne adulte), la cacciata con maledizione e colpa della figlia Eva dalla gratuità domestica per partorire con dolo e dolore, e – peggiore di tutte – lo spossessamento del corpo e della sessualità della figlia Maria da parte della madre spirito-santo, trinità cristiana che già incorpora il sistema intero di padre e figlio.Alcuni lessici del linguaggio comune rivelano la natura matriarcale della Chiesa: “Don” è contrazione di “donna”, è anche il suono del batacchio sotto la gonna-campana, iconologia della madre che in sé trattiene il figlio-fallo, nella fattispecie il prete; “duomo” è la fusione di donna-uomo: i frati recano il cordone ombelicale ancora non reciso alla vita, le suore il velo placentale segno di possesso della madre; il divieto all’uso della sessualità sottolinea la centralità e l’obbedienza all’unico sesso della madre. Nel caso del racconto dei Vangeli, la giovane donna semplicemente viene privata del diritto di succedere alla madre nel potere di una autonoma procreazione; l’infelicità che ne consegue si riverbera nel rapporto con l’uomo, nel masochismo congenito che la lega al persecutore, nella depressione post-partum o sterilità. Maria non ha sesso e non ha un amante, che invece la tradizione ebraica conferisce ad Eva. Lo stesso tema del conflitto tra matrigna e figlia viene trattato, ma risolto (!), nelle fiabe: Cenerentola, la Bella Addormentata, Biancaneve.L’entità unica matriarcale proposta dal modello cristiano imperversa, invece, nell’illusione di vivere due esistenze in una: la sua e quella della figlia che le appartiene per diritto di invidia (individia). Il figlio Cristo, esito nella figlia di questa mancanza di riconoscimento della proprietà sessuale, prodotto di un tale spossessamento, nato per caso inopinato (per virtù dello Spirito Santo e non di una libera scelta), non può che essere un… povero cristo! E tale sarà il suo destino. Sul suo corpo reso femminile con la ferita nel costato (da cui era nata Eva) e dagli attributi di innocenza, passività ed esclusione, convergono le istanze femminili irrisolte dell’infelicità e dell’immaturità affettiva. Lo scarico sul corpo mistico dell’uomo femminilizzato e mestruato (Cristo, Che Guevara o Padre Pio) costituisce il punto di saldatura e di scarico emotivo della innaturale fusione tra madre e donna (ma-donna), sempre a scapito della giovane e del rinnovo di generazione. Ecco che Cristo ha una funzione lenitiva attraverso la rappresentazione della sua morte nel ma-sacro (sacralità materna). In questo modo il cerchio mistico dell’incesto cristiano si alimenta di dolore, perversione e controllo.Guai a toccare questa figura sanguinante, avvolta nel sudario della placenta sindone! Si tollera l’intollerabile pur di non riconoscere il conflitto tra generazioni al femminile! Cosa si può fare per porre rimedio a questa barbarie nella civiltà degli affetti? Provate voi a spiegare alle masse di “credini” (credenti passivi) e “fedenti” (credenti in cattiva fede) quali istanze innaturali e contrarie alla naturale emancipazione della sessualità si riproducono nella formazione pedagogica cristiana. Noi da tempo combattiamo una battaglia impari contro le istituzioni alienate dello sfruttamento che, conseguentemente e coerentemente con la disumanità del credo, si sono stabilizzate in accordo e reciproco sostegno con la religione. Non è forse vero che, in economia, ogni Azienda Madre controlla e possiede le azioni delle sue filiali? Non è forse vero che il nazismo (primato di nascita e madre-patria) e il razzismo fondino le loro ragioni sul diritto di sangue e di appartenenza forzata, che sono attributi del codice materno? E i misfatti sanguinosi delle “nostre cose”, nella tragica epica di Cosa Nostra, non sono forse ascrivibili ad una affiliazione di mafia intorno al corpo centrale del “mammasantissima”?Non è semplice capire fino a che punto si estendano le implicazioni di una sub-cultura matriarcale degli affetti al tempo stesso potente, disumana e incontrollata. Essa confonde uomini e donne in una esistenza crudele e alienata. Chi riporta danni psicologici, in seguito a una certa dottrina, può essere recuperato? Occorre mettere in atto strategie di recupero e di consapevolezza in larghi strati della popolazione. Sempre Alice Miller dimostra la ineluttabile relazione tra formazione affettiva e qualità della vita. Tuttavia in Italia, non una sola ora di educazione alle ragioni della laicità è stata organizzata nei programmi scolastici nazionali! Eppure lo Stato italiano è nato su criteri di latinità pre-cristiana, la scienza (Giordano Bruno, Galilei) si è costituita intorno ad un nucleo anticristiano, il Rinascimento è stato possibile solo grazie alla riscoperta dei classici greci, l’antifascismo e la Liberazione non ha visto il Vaticano attivo contro i regimi, bensì schierato dall’altra parte.Il meglio prodotto in Italia (compresa l’arte sacra, che non era certo frutto di stinchi di santo) è stato ispirato da una visione laica e democratica della vita e del corpo. Proporre la necessaria questione della emarginazione del cristianesimo nel novero delle opzioni del privato incontra oggi una resistenza fortissima, in tutti i settori. Nella migliore delle ipotesi si tende a sminuire il problema e a lasciare intatte le contraddizioni. Non si pensi tuttavia che questa sia una battaglia di retroguardia: è la prima volta che si pone in modo cosciente e radicale la proposta concreta di rendere visibile al largo pubblico le responsabilità, non solo storiche, ma formative e causali del cristianesimo. Il problema è la fede in sé o l’apparato che ogni religione monoteista costruisce intorno al proprio credo? Il credo monoteista sta ad indicare la centralità del ruolo sessuale della madre (anche se incarna corpi maschili) nel costruire la dinamica degli avvenimenti della realtà. Perfino la storia recente dimostra che la religione è più efficace della politica nel determinare gli eventi; per questo è importante che si voglia sapere dei reali contenuti trasmessi.Di per sé la religiosità è un fattore umano compatibile con la civiltà, a patto che si sia consapevoli delle istanze che si veicolano nel racconto di fede che poi diviene prescrizione e istanza morale. Sarebbe altresì necessario che le rappresentazioni religiose e rituali rimanessero tali, ossia distinte dall’imposizione di un credo che confonde il simbolico con il reale. Per esempio, il fatto di celebrare la festa della nascita a dicembre con il rito dei doni da parte di Babbo Natale non deve imporre la necessità dell’inganno sulla reale esistenza di un personaggio della fantasia come se fosse reale! Una cosa è la naturale progressione che i bambini attuano nel distinguere la fantasia dalla realtà, altra cosa è la pelosa e deleteria attitudine degli adulti di vedere realizzate le proprie istanze di insoddisfazione infantile facendo credere per forza l’esistenza del falso. Forse che non si può giocare o godere di un rito gioioso sapendo che è un rito in quanto tale?Le religioni monoteiste non sono uguali negli effetti delle istanze da esse inoculate fin dalla più tenera età. Non sempre è facile riconoscere, nel confronto, il grado di pericolosità; infatti, concorrono altri fattori nelle società a influenzare gli effetti del credo. In Occidente la cultura laica e razionalista ha attenuato enormemente gli effetti già deleteri del cristianesimo; oltre alla secolare reclusione e sterminio degli ebrei, si pensi all’analogo scempio attuato nelle Americhe: è un vizio congenito al cristianesimo, la crudeltà. Nei paesi arabi l’islamismo non si giova di una analoga progressione sociale. L’ebraismo ha invece individuato le corrette radici del problema, proponendosi in termini di patto (Akedà) tra generazioni. Sempre la madre si pone nel ruolo di Dio (l’appartenenza ebraica è matrilineare), ma conferisce il potere della legge terrena (Dio verso Mosè) al ruolo paterno. L’esatto opposto della regressione cristiana, che rimanda il padre nella vacuità dei cieli o nel pleonasmo di un vecchio e sterile sposo. Nell’ebraismo la madre ideale è colei che è disposta a separarsi dal figlio purché egli viva (il giudizio di Salomone); nel cristianesimo la madre è entità globale, indistinta, inglobante e distruttiva, come la Grande Madre del clan o gregge pre-sociale.Ogni religione rimane comunque una opzione implicita della coscienza su temi che invece sono alla portata della comprensione umana. Meglio sarebbe una civiltà fondata sulla capacità di rappresentare, senza obbligo di fede, tutte le istanze dell’animo umano. La tradizione dei Greci in questo è maestra. Dibatterne pubblicamente? Personalmente non esito a rischiare attacchi personali o scomuniche di varia natura, poiché ritengo una battaglia di assoluta civiltà rendere visibili gli effetti dell’ignoranza e della malafede. Bisogna battersi in tutti i campi della società per affermare una civiltà ed una igiene degli affetti. So per certo che è possibile. Se qualcuno vuole reagire con la consueta violenza già riscontrata nella storia di fronte agli avanzamenti della coscienza e della società, è avvisato: noi siamo pronti. Esiste una minoranza numerica di individui che è già maggioranza qualitativa nel distinguere e rendere visibili i fantasmi dell’inconscio retaggio di una aggressività non risolta. Si tratta di individuare i percorsi di una emancipazione ulteriore per adeguare la consapevolezza umana allo sviluppo della tecnologia e all’inedito potere che essa conferisce all’uomo. Le nuove potenzialità richiedono una dilatazione della coscienza per far sì che ciò che abbiamo costruito non sia rivolto contro di noi, ma a vantaggio di una integrazione con la natura, di cui siamo e restiamo una cosciente emanazione.(Sergio Martella, dichiarazioni rilasciate a “Cristianesimo.it” per l’intervista “Tesi sull’oggettiva e palese pericolosità psichica dell’insegnamento cristiano”, ripresa dal blog “La Crepa nel Muro” dell’11 agosto 2014. Psicologo e psicoterapeuta, il professor Martella è docente presso la facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Padova).L’idea di un rapporto sui danni della dottrina cattolica è recente, nella forma di divulgazione popolare. Nella mia attività professionale e clinica ho avuto modo di verificare e raccogliere una serie di connessioni tra modalità formative che tendono a deprimere l’identità psico-affettiva nella costituzione evolutiva della persona e le inevitabili conseguenze nella determinazione del destino individuale e sociale dell’uomo. Il mondo reale è, infatti, una rappresentazione di ciò che è stato impresso nella fase costituente dell’Io. Alice Miller, per esempio, ne “La persecuzione del bambino” cerca con ansia di mettere in guardia gli educatori dagli effetti della pedagogia nera della religione. Ma la stessa razionalità è utile solo se possiamo educare a riconoscere gli stili formativi che producono un accumulo di cattiveria, di distruttività e di infelicità nell’uomo. L’insegnamento cristiano è falsamente improntato all’amore universale: basta guardare il simbolo genetico del cristianesimo, il crocifisso e ciò che esso rappresenta, per capire la componente di ambivalenza sadica e masochista che questo “amore” veicola nell’inconscio dei bambini.
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Dope, squallore tossico: così Pinocchio si trasforma in asino
L’uomo è bravissimo a crearsi l’Inferno. Lo vediamo già nell’intimità del singolo: il suo grado di felicità dipende direttamente dagli influssi che lascia entrare o che lascia crescere nel teatro della mente. Lo percepiamo ancora di più nella collettività: quando stati mentali simili si uniscono vengono create gabbie di concretezza. Il tema “droga” esemplifica appieno quanto stiamo dicendo. Chi l’assume decide consciamente o inconsciamente di scendere nel suo proprio inferno, di perdersi in una degenerazione progressiva. E anche quando confonde l’eccitazione con la lucidità, non fa altro che dileguare il suo senso animico dietro le coltri dell’apparenza, fino a quando la trasformazione asinina non è completa (si torni a leggere Pinocchio). Anche a livello collettivo il teatro-droga genera inferni di cui potremmo tranquillamente fare a meno. Eppure diventano così concreti e pressanti da incidere come uno scalpello nel tessuto di interi popoli, di intere generazioni. E il tutto è un ologramma di cui non ci sarebbe, umanamente, alcuna necessità.“Dope”, Netflix. Un documentario a episodi che andrebbe mostrato nelle scuole: lo squallore del mercato della droga e di chi ne fa uso, la distruzione del tossicodipendente, l’ottusità della polizia, la criminalità del mercato. Il tutto in una guerra che da decenni miete milioni di vittime. Una guerra che potrebbe terminare domani legalizzando e informando. Ma la guerra alla droga è soprattutto teatro, una pantomima che genera i fondi neri indispensabili per i deep state celati dietro i governi ufficiali. L’idea di trasformare in qualcosa di figo l’uso degli stupefacenti è la ciliegina sulla torta che fa leva sulla facile suggestionabilità di ogni essere umano.In “Dope” si sta lontani dalla mitizzazione epica creata da serie come “Breking Bad”, “Narcos” o “The Ozark”. Là non si vedono quasi mai gli effetti, si disquisisce della tenzone, del confronto guerresco tra bande o tra personalità. “Dope” è invece un documentario che mostra i drogati sulle strade, ne mostra l’abbruttimento e la progressiva disumanizzazione. Gli stessi poliziotti ammettono che è una guerra che nessuno potrà vincere. È un gioco che viene tenuto in piedi, c’è chi deve fare la guardia e chi deve fare il ladro, la gente muore, i ruoli vengono interpretati da nuovi attori e tutto procede. Chi tiene al futuro della nostra società dovrebbe fare un unico atto per essere davvero un rivoluzionario: smettere di farsi.(Paolo Mosca, “Dope, lo squallore tossico”, dal blog “Mosquicide”, gennaio 2018).L’uomo è bravissimo a crearsi l’Inferno. Lo vediamo già nell’intimità del singolo: il suo grado di felicità dipende direttamente dagli influssi che lascia entrare o che lascia crescere nel teatro della mente. Lo percepiamo ancora di più nella collettività: quando stati mentali simili si uniscono vengono create gabbie di concretezza. Il tema “droga” esemplifica appieno quanto stiamo dicendo. Chi l’assume decide consciamente o inconsciamente di scendere nel suo proprio inferno, di perdersi in una degenerazione progressiva. E anche quando confonde l’eccitazione con la lucidità, non fa altro che dileguare il suo senso animico dietro le coltri dell’apparenza, fino a quando la trasformazione asinina non è completa (si torni a leggere Pinocchio). Anche a livello collettivo il teatro-droga genera inferni di cui potremmo tranquillamente fare a meno. Eppure diventano così concreti e pressanti da incidere come uno scalpello nel tessuto di interi popoli, di intere generazioni. E il tutto è un ologramma di cui non ci sarebbe, umanamente, alcuna necessità.
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Se Cardini deforma i Catari: quella strage fa ancora paura?
«I catari la crociata… se la sono cercata!». Queste esatte parole sono state pronunciate il 21 novembre, alla televisione, dall’illustre professor Franco Cardini. La cornice era quella della splendida trasmissione “Passato e presente” condotta da Paolo Mieli su Rai3. Il titolo di quella puntata era “L’Inquisizione e l’eresia dei Catari”. Si è parlato dell’Inquisizione, ma di quella spagnola che coi catari non c’entra, si è parlato poi dei Templari, che coi catari non c’entrano per niente. Per quanto riguarda i catari, si è parlato solo della crociata, ma non con le sublimi parole di Simone Weil, bensì per dire, appunto, che «se la sono cercata»… Certo, la ventennale crociata in terra occitana è un episodio di primaria importanza nella storia del catarismo, e proprio perché ha fallito è stata istituita l’Inquisizione. Mi spiego meglio: la crociata è riuscita a distruggere la fiorente economia delle contee del Sud, a spegnere la grandiosa poesia dei trovatori, a conquistare quelle terre che finirono per essere inglobate nel Regno di Francia, ma non è riuscita a debellare l’eresia catara, né a cancellare la lingua d’oc. Durante la trasmissione, a proposito della crociata non è stato nemmeno menzionato quel meraviglioso poema che è la Chanson de la croisade albigeoise, da Simone Weil paragonato nientemeno che all’Iliade.La crociata è stata invece pienamente giustificata, e alle perplessità espresse da Paolo Mieli sul fatto che si trattava di combattere contro dei cristiani, il professor Cardini ha risposto prontamente che i catari erano peggio degli infedeli, dato che – riporto le sue testuali parole: «con la loro azione impediscono ai cristiani di darsi alla guerra contro gli infedeli e quindi sono degli obiettivi alleati degli infedeli, però sono peggiori degli infedeli in quanto sono dei traditori della loro fede». Non si sa se ridere o piangere, tanta è l’insensatezza di quello che dice. L’odio di Cardini per i catari traspare da mille indizi, come quest’altra perla: «Vengono da Oriente, esattamente come la lebbra». Come non pensare qui a quelle splendide parole di Dante, che a proposito del luogo di nascita di San Francesco scrive:“Di questa costa, là dov’ella frange / più sua rattezza, nacque al mondo un sole, / come fa questo talvolta di Gange. / Però chi d’esso loco fa parole, / non dica Ascesi, ché direbbe corto, / ma Oriente, se proprio dir vuole” (Paradiso XI, 49-54). Da Oriente viene la luce, e da un punto di vista spirituale ha un significato simbolico altissimo, basti pensare che anticamente le chiese dovevano essere “orientate”, ovvero costruite in modo che il fedele fosse rivolto verso Oriente. Ma siccome da Oriente vengono i catari – Cardini dice infatti che venivano chiamati «bulgari», cosa che è vera – allora si è sentito in dovere di aggiungere: «come la lebbra».Cardini evidentemente crede alle calunnie che all’epoca venivano diffuse sui catari. Ma è possibile che uno storico non sappia che i vincitori hanno sempre demonizzato e criminalizzato i vinti? Possibile che non sappia che non si possono ritenere affidabili al cento per cento le fonti, quando queste sono solo trattati scritti dagli inquisitori e verbali delle dichiarazioni rilasciate – magari sotto tortura – nei processi? Possibile che non sappia che da vent’anni è in atto una riscrittura di quella storia, con toni molto più amichevoli nei confronti dei catari e del loro cristianesimo aperto al dialogo, libero e gioioso? Cardini tutto questo lo ignora, e giustifica la crociata e l’Inquisizione. Certamente la Chiesa ha il diritto di pretendere l’ortodossia da parte dei fedeli. Ma anche di torturare e uccidere chi la pensa diversamente??? E non è tutto: era una trasmissione sull’eresia dei catari, ma non è stata spesa una parola sul catarismo italiano, che, come riferiscono già le fonti dell’epoca, era assai più consistente che non quello occitano. E allora ci dobbiamo chiedere: lo sa il professor Cardini? Se lo sa, è grave il fatto che non ne abbia parlato. Se non lo sa, è gravissimo.Quella del catarismo italiano è una storia affascinante, che si inserisce nelle lotte tra guelfi e ghibellini, dove nelle città rette dai ghibellini non erano ammessi i tribunali dell’Inquisizione. Contro gli inquisitori ci furono sommosse popolari in quasi tutte le città italiane, e qui l’Inquisizione operò per secoli, fino a tutto il Quattrocento. Poi ci sono gli aspetti macabri, come i processi postumi (famoso quello a Farinata degli Uberti), e le considerazioni sull’impoverimento che tutto ciò ha causato, impoverimento di cui soffriamo ancora oggi. Passato e presente è il nome della trasmissione, quasi a voler suggerire che il passato pesa sul presente. E questa pagina del passato, questa pagina grondante sangue, pesa ancora enormemente, nonostante gli sforzi della Chiesa e dei suoi lacchè per farla dimenticare. Ero talmente indignata e arrabbiata ad ascoltare simili parole in una trasmissione che trovo di alto livello e che seguo da tempo con interesse che ho deciso di scrivere a Paolo Mieli, il conduttore.Non mi aspettavo una risposta: avevo più che altro bisogno di sfogare la mia delusione. E invece ha risposto subito, con una mail molto gentile, scusandosi dei «giudizi sommari» e informandomi che cercheranno «di riparare anche tenendo conto dei suoi lavori e delle sue osservazioni». Vedremo. Sarebbe bello se la televisione pubblica, attraverso quello che è forse il suo programma più raffinato e serio di trasmissione della cultura, facesse luce su questa pagina tragica, dolorosa ma importantissima della nostra storia. E desse voce anche alle tante iniziative che dal Cuneese al Veneto, da Milano a Firenze stanno sorgendo, promosse non solo da professori, ma anche da cittadini che vogliono conoscere e far conoscere la storia del territorio in cui vivono e che, scoprendovi le tracce della presenza degli eretici catari sentono, come è già successo nella Francia del Sud, che non è una macchia da nascondere bensì una realtà di cui andar fieri.(Maria Soresina, “I catari la crociata… se la sono cercata!”, dalla pagina Facebook del progetto “Bogre”, documentario che Fredo Valla sta girando – fra Bulgaria, Italia e Francia – sull’eresia medievale cristiano-dualistica dei bogomili e dei catari, facendo appello anche al crowdfung attraverso il portale “Produzioni dal basso”. Storica milanese, Maria Soresina è consulente del progetto cinematografico; ha pubblicato importanti libri come “Le segrete cose. Dante tra induismo ed eresie medievali” e “Libertà va cercando. Il catarismo nella poesia di Dante”, pubblicati da Moretti & Vitali e favorevolmente recensiti dalla Rai e da giornali come il “Sole 24 Ore”, fino all’“Osservatore Romano”).«I catari la crociata… se la sono cercata!». Queste esatte parole sono state pronunciate il 21 novembre, alla televisione, dall’illustre professor Franco Cardini. La cornice era quella della splendida trasmissione “Passato e presente” condotta da Paolo Mieli su Rai3. Il titolo di quella puntata era “L’Inquisizione e l’eresia dei Catari”. Si è parlato dell’Inquisizione, ma di quella spagnola che coi catari non c’entra, si è parlato poi dei Templari, che coi catari non c’entrano per niente. Per quanto riguarda i catari, si è parlato solo della crociata, ma non con le sublimi parole di Simone Weil, bensì per dire, appunto, che «se la sono cercata»… Certo, la ventennale crociata in terra occitana è un episodio di primaria importanza nella storia del catarismo, e proprio perché ha fallito è stata istituita l’Inquisizione. Mi spiego meglio: la crociata è riuscita a distruggere la fiorente economia delle contee del Sud, a spegnere la grandiosa poesia dei trovatori, a conquistare quelle terre che finirono per essere inglobate nel Regno di Francia, ma non è riuscita a debellare l’eresia catara, né a cancellare la lingua d’oc. Durante la trasmissione, a proposito della crociata non è stato nemmeno menzionato quel meraviglioso poema che è la Chanson de la croisade albigeoise, da Simone Weil paragonato nientemeno che all’Iliade.
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Vale tutto, anche la mafia, tranne la vera storia del disastro
Il culto del lavoro ben fatto è la stella polare dell’operaio Faussone, il protagonista del romanzo “La chiave a stella”. Ma Fassone è un uomo libero: non ha nulla a che vedere col muratore prigioniero di Auschwitz che Primo Levi vide lavorare con zelo, sfinendosi, agli ordini dei kapò. Fino a che punto è un valore, il lavoro? Lo è fino a quando non è sottoposto a una legalità bestiale, come quella delle SS o quella del deposto regime sudafricano dell’apartheid. Anche il massone progressista Nelson Mandela spaccavava pietre, a Robben Island, ma non ne era certo felice. Legalità: maneggiare con cura, evitando di farne per forza un totem. O magari un mestiere, come Roberto Saviano. O una crociata politica, come Antonio Di Pietro. Beninteso: l’illegalità dilagante – mafia, corruzione – imputridisce l’habitat e trasforma una democrazia in un girone dantesco dove regna la paura, insieme alla menzogna. La Sicilia è un vasto cimitero di eroi antimafia: carabinieri, poliziotti, magistrati. Un politico come Pio La Torre, comunista del Pci, non aveva mai pensato di celebrare un’epica dell’antimafia. Si era limitato, per così dire, a fare la guerra alla mafia: creando una legge che avesse finalmente il potere di confiscare i patrimoni dei boss. Non è finito in televisione: è andato a un funerale, il suo.Oggi il presidente del Senato, il palermitano Pietro Grasso, già magistrato antimafia, è invocato da Pierluigi Bersani come possibile salvatore della patria – o meglio, della “ditta”, come Bersani è abituato a chiamare il partito in cui milita. Da capo del Pd non esitò a devastare e amputare la Costituzione “più bella del mondo” sfigurandola con il pareggio di bilancio imposto dai “mandanti” di Monti, salvo poi dare battaglia a Renzi che voleva semplicemente archiviare il Senato elettivo. Ora, Bersani sogna a occhi aperti una candidatura di Grasso, cioè di un simbolo dell’antimafia, come se la mafia – nel 2017 – fosse la vera emergenza nazionale, come lo era ai tempi di Pio La Torre, assassinato nel 1982. Allora, l’Italia aveva già perso buona parte della sua sovranità finanziaria, dopo il divorzio da Bankitalia. Ma non era ancora caduta nella trappola del Britannia, del Trattato di Maastricht e dell’Eurozona, dell’Unione Europea governata dai banchieri privati che dettano legge alla Bce, trasformando in diligenti kapò i governanti di interi paesi. Lo ha ripetuto fino alla noia lo spigoloso Paolo Barnard: prima dell’euro-regime il Pil italiano volava, nonostante la mafia, la corruzione della politica e un’evasione fiscale da record.Dimostrò coraggio, l’allora giovanissimo Saviano, nel denunciare il fenomeno criminale della nuova camorra imprenditrice, la sua insospettabile pervasività, ma poi – esplosa la grande crisi – lo stesso Saviano non ha usato la sua enorme visibilità per aggiornare l’analisi sulle cause del disastro italiano. Si infuria, Di Pietro, se qualcuno gli fa notare che il pool Mani Pulite ha azzerato una casta corrotta ma non così prona ai grandi poteri anti-italiani come quella che ne ha preso il posto, offrendo il collo dell’Italia a una sorta di sacrificio rituale da milioni di vittime e decine di migliaia di aziende chiuse. Analisi estranee alla narrativa politica di Di Pietro ma anche a quella di Grasso e della sua collega della Camera, Laura Boldrini, sempre severissima con i teppisti del web ma insensibile alla catastrofe socio-economica di un paese che ha smesso di andare a votare, nauseato dallo spettacolo elettorale. La scelta è solo apparente, ancora e sempre teatrale: la recita giovanilista di Renzi, il copione dei grillini duri e puri (ma senza un programma per l’Italia) e l’ennesima reincarnazione di nonno Silvio, altro grande attore, lieto di constatare quanto sia ancora valida, numeri alla mano, la sua sceneggiatura di cartapesta. Era già decrepita nel 1994 la rivoluzione para-neoliberista del Cavaliere: se oggi tiene ancora banco, significa che i suoi ipotetici antagonisti sono ancora peggio di nonno Silvio, perlomeno come attori.Il culto del lavoro ben fatto è la stella polare dell’operaio Faussone, il protagonista del romanzo “La chiave a stella”. Ma Faussone è un uomo libero: non ha nulla a che vedere col muratore prigioniero di Auschwitz che Primo Levi vide lavorare con zelo, sfinendosi, agli ordini dei kapò. Fino a che punto è un valore, il lavoro? Lo è fino a quando non è sottoposto a una legalità bestiale, come quella delle SS o quella del deposto regime sudafricano dell’apartheid. Anche il massone progressista Nelson Mandela spaccava pietre, a Robben Island, ma non ne era certo felice. Legalità: maneggiare con cura, evitando di farne per forza un totem. O magari un mestiere, come Roberto Saviano. O una crociata politica, come Antonio Di Pietro. Beninteso: l’illegalità dilagante – mafia, corruzione – imputridisce l’habitat e trasforma una democrazia in un girone dantesco dove regna la paura, insieme alla menzogna. La Sicilia è un vasto cimitero di eroi antimafia: carabinieri, poliziotti, magistrati. Un politico come Pio La Torre, comunista del Pci, non aveva mai pensato di celebrare un’epica dell’antimafia. Si era limitato, per così dire, a fare la guerra alla mafia: creando una legge che avesse finalmente il potere di confiscare i patrimoni dei boss. Non è finito in televisione: è andato a un funerale, il suo.
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Elezioni irrilevanti: dopo, avremo il solito Governo dei Proci
Prepariamoci: non cambierà niente, in Italia, dopo le elezioni. L’ultima volta s’è votato nell’ormai remoto 2013. Un match concluso con la “non vittoria” di Bersani, la flessione del Cavaliere (bombardato dalla filiera mediatica Nato-Ue) e la squillante ma pletorica affermazione dei 5 Stelle. Risultato: governicchi di compromesso (da Letta a Gentiloni) intervallati dalla meteora Renzi, il finto rivoluzionario rottamatore, ben attento a non disturbare il vero manovratore finanziario, atlantico, europeo. Ora siamo alla parità perfetta di tre blocchi elettorali, ma sempre in assenza in proposta politica: nessuno si candida a sbloccare la situazione di crisi, innanzitutto economica e democratica. «Dato che abbiamo tre poli politici – Pd, M5S, Centrodestra – ciascuno vicino al 30%, consegue che, probabilmente, col sistema elettorale attuale (e non vi è impegno di mutarlo), frutto del lavoro della Corte Costituzionale su leggi elettorali incostituzionali, dopo le imminenti elezioni politiche semplicemente non ci potrà essere una maggioranza uscita dalle urne, un governo che sia espressione democratica», scrive l’avvocato e saggista Marco Della Luna, che teme l’avvento del “governo dei Proci”, i saccheggiatori di Itaca.«Un governo dovrà però esser formato in ogni caso, perché lo esigono i “mercati”(=lobby bancaria) come condizione per continuare a comperare i buoni del Tesoro», scrive Della Luna sul suo blog. Quindi, aggiunge, questo nuovo governo post-elettorale «lo si formerà grazie all’intervento dei soliti “responsabili” – forse mediante un’alleanza tra Berlusconi e Pd (=lobby bancaria), col sostegno di Mattarella, dell’“Europa” (=lobby bancaria), dell’Eurogruppo (=lobby bancaria), del Fmi (=lobby bancaria)». Morale: «E’ il trionfo dei Proci, che saccheggiano Itaca e il palazzo di Odisseo approfittando della sua assenza e tramando affinché non tornasse più sul trono». Tradotto: sarebbe «la cuccagna della partitocrazia italiana, di questi partiti consistenti in coalizioni di comitati di affari per il saccheggio delle risorse pubbliche». Mano libera, ai “Proci”, grazie a «due leggi elettorali incostituzionali di fila», nonché «un Parlamento eletto incostituzionalmente». Fattori che «garantiscono che il popolo non possa scegliere chi governa». E così, «la partitocrazia si ritrova in una situazione che neutralizza gli elettori e lascia pertanto le segreterie partitocratiche (=coordinamenti dei comitati di affari) padrone di negoziare tra loro stesse le più opportune e redditizie lottizzazioni».Tutto questo, aggiunge Della Luna, avverrà «sopra la testa della gente, creando governi servili agli interessi non-italiani dominanti in Europa e in generale in Occidente». Interessi, dice, a cui la palude italiana «continuerà ad appoggiarsi», per ottenere «sostegno e legittimazione», aspetti necessari a «portare avanti le sue pratiche ladresche e di svendita degli interessi nazionali». Se Della Luna non usa toni diplomatici, è difficile non convenire sulla serietà dei rischi che paventa: la Germania è alle prese con i primi incubi (il malessere incarnato da Afd per un’economia asimmetrica, votata all’export e basata sulla compressione di salari e consumi) ma per ora continua a dormire tra due guanciali, la Cdu e l’Spd, così come la Francia che – dopo il sedativo Hollande, strattonato dal super-potere oligarchico – ha scelto direttamente l’originale: Macron è un prodotto fabbricato in vitro e orgogliosamente rivendicato come tale dal suo padrino Jacques Attali, eminente supermassone reazionario, tra i massimi guru ispiratori dell’architettura neo-artistocratica, antipopolare e antidemocratica chiamata Unione Europea. E in questa situazione, con l’economia appesa ai diktat della Bce e della Bundesbank, l’Italia schiera Di Maio e Berlusconi, Salvini e Renzi, Bersani e D’Alema. Chi di loro arriverà a Palazzo Chigi? Non importa, è del tutto indifferente, sostiene Della Luna: per l’Italia non cambierà niente.Prepariamoci: non cambierà niente, in Italia, dopo le elezioni. L’ultima volta s’è votato nell’ormai remoto 2013. Un match concluso con la “non vittoria” di Bersani, la flessione del Cavaliere (bombardato dalla filiera mediatica Nato-Ue) e la squillante ma pletorica affermazione dei 5 Stelle. Risultato: governicchi di compromesso (da Letta a Gentiloni) intervallati dalla meteora Renzi, il finto rivoluzionario rottamatore, ben attento a non disturbare il vero manovratore finanziario, atlantico, europeo. Ora siamo alla parità perfetta di tre blocchi elettorali, ma sempre in assenza in proposta politica: nessuno si candida a sbloccare la situazione di crisi, innanzitutto economica e democratica. «Dato che abbiamo tre poli politici – Pd, M5S, Centrodestra – ciascuno vicino al 30%, consegue che, probabilmente, col sistema elettorale attuale (e non vi è impegno di mutarlo), frutto del lavoro della Corte Costituzionale su leggi elettorali incostituzionali, dopo le imminenti elezioni politiche semplicemente non ci potrà essere una maggioranza uscita dalle urne, un governo che sia espressione democratica», scrive l’avvocato e saggista Marco Della Luna, che teme l’avvento del “governo dei Proci”, i saccheggiatori di Itaca.
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Un mondo migliore? No, grazie. Così la letteratura è morta
Il romanzo di Vladimir Dudintsev “Non di solo pane” è stato pubblicato nel 1956. E’ stato un grande successo nell’Unione Sovietica con la sua critica dei modi sovietici stagnati ed inefficienti. Insieme ad altri autori russi, come Vasily Grossman e Aleksandr Solzhenitsyn, Dudintsev è stato parte di un’ondata di scrittori che hanno cercato di usare la letteratura per cambiare la società. Quel tipo di approccio sembra essere sfiorito, sia nei paesi dell’ex Unione Sovietica, sia in occidente. Ad un certo punto, fra il secondo e il terzo secolo D.C., la letteratura latina dell’Impero Romano è morta. Non che le persone abbiano smesso di scrivere, al contrario, il tardo Impero Romano d’Occidente ha visto una piccola rinascita della letteratura latina, soltanto che non sembra che avessero più niente di interessante da dire. Se consideriamo i tempi d’oro dell’Impero, intorno al primo secolo A.C., è probabile che molti di noi siano in grado pensare ad almeno qualche nome di letterati di quel tempo: poeti come Virgilio ed Orazio, filosofi come Seneca, storici come Tacito. Ma se ci spostiamo agli ultimi secoli dell’Impero d’Occidente, è probabile di non essere in grado di pensare a nessun nome, a meno che non si legga Gibbon e ci si ricordi che cita il poeta del IV secolo Ausonio per evidenziare il cattivo gusto del tempo.Sembra che l’Impero Romano avesse perso la sua anima molto prima di scomparire come organizzazione politica. Spesso, ho l’impressione che stiamo seguendo la stessa strada verso il collasso seguita dall’Impero Romano, ma più rapidamente. Fatevi questa domanda: riesco a citare un pezzo letterario recente (intendo, diciamo, di 10 o 20 anni) che penso che i posteri ricorderanno? (E non come esempio di cattivo gusto). Personalmente non ci riesco. E penso che si possa dire che la letteratura nel mondo occidentale abbia declinato a partire degli anni 70, più o meno, e che oggi non sia più una forma d’arte vitale. Naturalmente, le percezioni in questo campo potrebbero essere molto diverse, ma posso citare un sacco di grandi romanzi pubblicati durante la prima metà del XX secolo, racconti che hanno cambiato il modo in cui le persone guardavano il mondo. Pensate alla grande stagione degli scrittori americani a Parigi degli anni 20 e 30, pensate a Hemingway, a Fitzgerald, a Gertrude Stein e a molti altri. E a come la letteratura americana ha continuato a produrre capolavori, da John Steinbeck a Jack Kerouac ed altri. Ora, siete in grado di citare uno scrittore americano equivalente successivo?Pensate a grandi scrittori come John Gardner, che scriveva negli anni 70 ed oggi è stato in gran parte dimenticato. Qualcosa di simile sembra essere successo dall’altra parte della Cortina di Ferro, dove diversi scrittori sovietici dotati (Dudintsev, Grossman, Solzhenitsyn ed altri) hanno prodotto un corpus letterario negli anni 50 e 60 che ha fortemente cambiato l’ortodossia sovietica ed ha giocato un ruolo nel crollo dell’Unione Sovietica. Ma non sembra che esista più nulla di paragonabile nei paesi dell’Europa dell’est che si possa paragonare a quei romanzi. Non è solo una questione di letteratura scritta, le arti visuali sembrano aver attraversato lo stesso processo di appassimento: pensate a Guernica di Picasso (1937) come ad un esempio. Riuscite a pensare a qualcosa dipinta negli ultimi decenni con un impatto lontanamente comparabile? Riguardo ai film, quale è stato davvero originale o ha cambiato la percezione del mondo? Forse coi film stiamo facendo meglio che con la letteratura scritta, perlomeno alcuni film non passano inosservati, anche se i loro meriti letterari sono discutibili.Pensate a “La notte dei morti viventi” di George Romero, che risale al 1968 e che ha generato uno tsunami di imitazioni. Pensate a “Guerre Stellari” (1977), che ha plasmato un intero piano strategico dei militari statunitensi. Ma durante l’ultimo decennio, più o meno, l’industria cinematografica non sembra essere stata in grado di fare meglio che lanciare legioni di zombi e mostri assortiti contro gli spettatori. Non che non abbiamo più bestseller, proprio come abbiamo film da blockbuster. Ma siamo in grado di produrre qualcosa di originale e rilevante? Sembra che abbiamo ripercorso i passi dell’Impero Romano: non siamo più in grado di produrre un Virgilio, al massimo un equivalente di Ausonio. E c’è una ragione per questo. La letteratura, quella grande, ha a che fare col cambiare la visione del mondo del lettore. Un grande romanzo, un grande poema, non sono solo una trama interessante o delle belle immagini. La buona letteratura porta avanti un sogno: il sogno di un mondo diverso. E quel sogno cambia il lettore, lo rende diverso. Ma per svolgere questa azione, il lettore deve essere in grado di sognare un cambiamento. Deve vivere in una società dove sia possibile, almeno teoricamente, mettere in pratica i sogni. Ma non è sempre così.Nell’Impero Romano del IV e V secolo D.C., il sogno era scomparso. I Romani si erano ritirati dietro le loro fortificazioni ed avevano sacrificato tutto – compresa la loro libertà – in nome della sicurezza. La poesia era diventata semplicemente una lode al governante di turno, la filosofia una compilazione dei lavori precedenti e la storia una mera cronaca. Una cosa del genere sta capitando a noi oggi: dove sono finiti i nostri sogni? Ma è anche vero l’uomo non vive di solo pane. Ci servono i sogni come ci serve il cibo. E i sogni sono qualcosa che l’arte ci può portare; sotto forma di letteratura o altro, non importa. E’ il potere dei sogni che non può mai scomparire. Se la letteratura romana era scomparsa come fonte originale di sogni, poteva ancora funzionare come veicolo di sogni provenienti dall’esterno dell’impero. Dal Confine Orientale dell’Impero, i culti di Mitra e di Cristo avrebbero fatto incursioni profonde nelle menti romane.All’inizio del V secolo, in una città di provincia meridionale assediata dai barbari, Agostino, il vescovo di Ippona, ha completato “La Città di Dio”, un libro che leggiamo ancora oggi e che ha cambiato per sempre il concetto di narrativa; è stato forse il primo romanzo – in senso moderno – mai scritto. Pochi secoli dopo, quando l’Impero non era niente di più che una memoria spettrale, un poeta sconosciuto ha composto il Beowulf e, ancora più tardi, è apparsa la saga dei Nibelunghi. Durante questo periodo, sono cominciate ad apparire le storie sul signore della guerra della Britannia che poi sarebbero confluite nel Ciclo Arturiano, forse il cuore della nostra visione moderna della letteratura epica. Così, il sogno non è morto. Da qualche parte, ai margini dell’impero, o forse al di fuori di esso, qualcuno sta sognando un bel sogno. Forse lo scriverà in una lingua lontana o forse userà il linguaggio dell’Impero. Forse userà un mezzo diverso dalla parola scritta, non possiamo dirlo. Ciò che possiamo dire è che, un giorno, questo nuovo sogno cambierà il mondo.(Ugo Bardi, “Dove sono finiti tutti i nostri sogni? La morte della letteratura occidentale”, dal blog di Bardi del 21 gennaio 2015).Il romanzo di Vladimir Dudintsev “Non di solo pane” è stato pubblicato nel 1956. E’ stato un grande successo nell’Unione Sovietica con la sua critica dei modi sovietici stagnati ed inefficienti. Insieme ad altri autori russi, come Vasily Grossman e Aleksandr Solzhenitsyn, Dudintsev è stato parte di un’ondata di scrittori che hanno cercato di usare la letteratura per cambiare la società. Quel tipo di approccio sembra essere sfiorito, sia nei paesi dell’ex Unione Sovietica, sia in occidente. Ad un certo punto, fra il secondo e il terzo secolo D.C., la letteratura latina dell’Impero Romano è morta. Non che le persone abbiano smesso di scrivere, al contrario, il tardo Impero Romano d’Occidente ha visto una piccola rinascita della letteratura latina, soltanto che non sembra che avessero più niente di interessante da dire. Se consideriamo i tempi d’oro dell’Impero, intorno al primo secolo A.C., è probabile che molti di noi siano in grado pensare ad almeno qualche nome di letterati di quel tempo: poeti come Virgilio ed Orazio, filosofi come Seneca, storici come Tacito. Ma se ci spostiamo agli ultimi secoli dell’Impero d’Occidente, è probabile di non essere in grado di pensare a nessun nome, a meno che non si legga Gibbon e ci si ricordi che cita il poeta del IV secolo Ausonio per evidenziare il cattivo gusto del tempo.
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Barnard: è in arrivo l’inferno. Saremo Tech-Gleba, schiavi
Non mangiano più “libri di cibernetica, insalate di matematica”, ma divorano volumi di Cartesio, Galileo, Newton. Sono i nuovi stregoni della meccanica quantistica, a metà strada tra scienza e metafisica. Sono stati assoldati dall’élite planetaria, quella che ormai ha compreso che il capitalismo è storicamente finito. Al suo posto, avanza quella che Paolo Barnard chiama tech-gleba. O meglio: “Tech-Gleba Senza Alternative”, sottoposta al cyber-potere del computer “quantico”, fantascienza in mano a pochissimi. Una super-macchina “pensante”, in grado di far sparire ogni lavoratore dalla faccia della terra, sostituendolo con robot, droni e androidi cobots, i cui servizi i neo-schiavi ridotti all’apatia saranno costretti a “noleggiare”. «Questo non è un fumetto, è il futuro vicino, vicinissimo, ed è tutto già pronto. Solo che nessuno di noi se ne sta accorgendo», perché i cittadini più “svegli”, che stanno in guardia contro minacce visibili (mafie, corruzione, Eurozona, migrazioni, “climate change”) non vedono «un mostro immensamente peggiore», che ormai «è dietro la porta di casa». L’umanità retrocessa alla servitù della gleba (tecnologica). E’ l’incubo al quale Barnard dedica svariate pagine sul suo blog, lo stesso che nel 2011 ospitò il profetico saggio “Il più grande crimine”, sulla genesi politico-finanziaria dell’Eurozona – riletta, appunto, in chiave criminologica: puro dominio, fraudolento, dell’uomo sull’uomo.«La schiavitù, letteralmente, è già pronta per 10 miliardi di esseri umani», premette Barnard, citando lo storico precedente della guerra civile americana, a metà dell’800. «I libri ci raccontano che il paese si spaccò in due, col Nord nazionalista che combatté una guerra sanguinaria contro i secessionisti del Sud per 4 anni. I primi fra le altre cose ambivano all’abolizione della schiavitù, i secondi la difendevano a spada tratta». Ma in realtà l’America «era spaccata in tre, e la terza forza in campo non era armata, era la Rivoluzione Industriale del paese». L’allora presidente Abraham Lincoln «era un uomo di un’intelligenza incredibile». Mentre combatteva la guerra civile «si era già reso conto che un mostro immensamente più micidiale della spaccatura della nazione e della schiavitù dei negri era dietro la porta di casa: era la schiavitù del lavoro salariato su scala industriale e agricola». Per i repubblicani di allora, il lavoro salariato era «una forma transitoria di schiavitù che andava abolita tanto quanto la schiavitù dei negri». Essere operai stipendiati nelle grandi industrie o nei campi era «un attacco inaccettabile all’integrità personale». I repubblicani «disprezzavano il sistema industriale che si stava allora sviluppando perché costringeva l’umano a essere sottoposto a un padrone, tanto quanto lo schiavo del Sud, anzi peggio».Per dirla semplice: «Chi ti possiede avendoti comprato ti tratta meglio di chi ti “noleggia”». E qui Lincoln aveva visto lunghissimo, dice Barnard: oltre la mostruosità della schiavitù dei neri d’America, aveva avvistato «il mostro immane della schiavitù del lavoro salariato su scala industriale e agricola». E’ storia: studiando le Rivoluzioni Industriali dal 1700 in poi, si scopre che le sofferenze di centinaia di milioni di operai e contadini salariati, cioè “noleggiati”, furono per più di due secoli assai più atroci di quelle sofferte dagli schiavi delle piantagioni Usa. «Abbiamo tutti nella memoria immagini delle frustate agli schiavi, i ceppi ai piedi e al collo, tutto vero. Ma il numero di manovali salariati, cioè “noleggiati”, picchiati a morte dai “caporali”, morti di stenti e malattie sul lavoro o trucidati dal lavoro stesso per, appunto, almeno due secoli, è infinitamente maggiore. Si pensi che durante la sola costruzione del Canale di Suez nel 1869 morirono come sorci 150.000 operai. La costruzione del Canale di Panama nel 1914 ammazzò l’esatta metà di tutti coloro che ci lavorarono, cioè 31.000 operai. Ancora di recente, nel 1943, il progetto della Burma-Siam Railway trucidò di fame, letteralmente di fame 106.000 disgraziati pagati centesimi a settimana».In Europa, ricorda Barnard, fu questa agghiacciante realtà schiavistica ad animare la lotta di Rosa Luxemburg o Anton Pannekoek. Lincoln, per primo, «aveva spiato il sorgere del nuovo mostro mondiale che avrebbe sputato olocausti dopo olocausti: ma fu ignorato, e la schiavitù del lavoro salariato s’impadronì del mondo mentre solo un microscopico nugolo di pensatori se ne stava accorgendo». Inutile sperare nei sindacati: non hanno mai combattuto il lavoro salariato come neo-schiavitù, hanno solo lottato per migliorare salari e condizioni di lavoro. «Il solito immenso George Orwell, che visse volontariamente fra i diseredati salariati d’Europa negli anni ’30, predisse ciò che ancora oggi abbiamo: masse moderne immani, di fatto schiave del lavoro per quasi tutta la vita». La fuga da questa schiavitù, scrisse Orwell, «è in pratica solo possibile per malattia, licenziamento, incarcerazione, e infine la morte». Oggi, in Ue, sono crollati tutti gli standard di ieri: siamo al ricatto della disoccupazione, ai pensionati costretti a cercasi un lavoro. In altre parole: Lincoln aveva visto giusto. Ed eccoci alla “Tech Gleba Senza Alternative”, «la ‘visione’ che nessuno di noi ha, ma che ci divorerà».Insiste Barnard: «Dovete capire che il capitalismo non esiste più come progetto, è già stato cestinato». Aveva bisogno di tre elementi: gli sfruttati, la classe consumatrice, l’élite che accumula il profitto, al vertice. «Era così nei primi decenni del XX secolo con qualsiasi prodotto, è così oggi con un qualsiasi gadget digitale, fatto da poveracci in Thailandia, comprato dagli occidentali e dagli ‘emergenti’, e i trilioni vanno alla Apple o Samsung». Ma, secondo Barnard, anche questo schema sta tramontando. Perché? «Per due motivi sostanziali. Il primo è che il Vero Potere ha da molto tempo compreso che non sarà assolutamente più possibile contenere miliardi di diseredati affamati sfruttati (la condizione A- del capitalismo); essi o migreranno in masse colossali, oppure – come in India e Cina – inizieranno a pretendere condizioni economiche migliori e nessuno potrà fermarli. Da ciò l’invitabile destino della crescita esponenziale dei costi di produzione di qualsiasi bene, a livelli di prezzi finali impossibili anche per un occidentale. Poi il Vero Potere ha compreso anche che neppure l’alternativa della robotizzazione degli impianti (per licenziare, abbattere quindi i costi e competere) funziona, è un’illusione immensa, perché le masse licenziate sia qui che in paesi emergenti non avranno reddito, e di nuovo non potranno acquistare prodotti sofisticati».Sicché: crollo profitti (Marx docet). E quindi: chi venderà a chi? «Secondo: Il Vero Potere ha da molto tempo capito che la classica struttura della competizione del mercato, in un mondo appunto con popolazione in crescita ma anche costi di produzione impossibili, non può più funzionare. Alla fine, detta in parole semplici, centinaia di milioni di corporations che producono in una gara disperata oceani di cose e servizi, a chi poi le venderanno nelle economie prospettate sopra? E’ un imbuto che si auto-strangola senza rimedi. Quindi il capitalismo è morto e consegnato alla storia, e “loro” lo sanno da anni». Ma ovviamente «il Vero Potere non sta a dormire», ha già strutturato la risposta «in una forma totalmente nuova di economia, mostruosamente nuova», la “Tech-Gleba Senza Alternative”. Ecco come l’hanno pensata: 10 miliardi di umani elevati a classe medio-bassa ma schiavi delle tecnologie, costretti a togliersi la pelle per consumare beni e servizi essenziali hi-tech. A monte, l’oligarchia «accumula quello che mai fu accumulato da élite nei 40 secoli prima». Scomparirà la sperequazione sociale di oggi, dove il pianeta Terra è frammentato da centinaia di stratificazioni, attraverso centinaia di fasce di reddito. «Si vogliono livellare 10 miliardi di umani a più o meno lo stesso livello economico».Un futuro orwelliano: «Ci sarà il condominio con acqua, bagni, elettricità, connessioni digitali, poi strade, scuole, negozi e servizi anche nei buchi neri del mondo di oggi, come Fadwa nel sud del Sudan, o a Udkuda in India». Morto il capitalismo, sparisce anche «la necessità/possibilità di avere miliardi di poveri di qua, benestanti di là, ricconi al top». Secondo Barnard, al nuovo progetto della “Tech-Gleba Senza Alternative” serve che l’intera massa vivente sia omogeneizzata nello standard di vita, e che consumi ma in modo totalmente diverso, mai visto prima nella storia. Un esempio? L’automobile. Come altri giganti come Google, Apple e Tesla, la Volkswagen «sta investendo miliardi di dollari nelle cosiddette ‘driverless cars’, cioè automobili che si autoguidano, che rispondono a comandi orali del passeggero, talmente zeppe di Artificial Intelligence da far impallidire la parola fantascienza». E la casa tedesca non lo sta facendo da poco: ha iniziato 12 anni fa in collaborazione con la Stanford University e il dipartimento della difesa Usa nel suo laboratorio futuristico chiamato Darpa. «Oggi tutto gira attorno a Silicon Valley, Google-Alphabet e alla Cina. Stanno investendo come pazzi». Una startup cinese di nome Mobvoi che fa “intelligenza artificiale” per l’auto del futuro è passata dal valere nulla al valore di 1 miliardo di dollari in un anno. Una corsa frenetica: anche Fca, l’ex Fiat di Marchionne, «sta rovesciando miliardi in ’ste auto-robot assieme a Wymo di Alphabet-Google».In particolare, continua Barnard, la gara si gioca a chi per primo elaborerà i super-computer, oggi impensabili, che sapranno elaborare trilioni di impulsi e dati ad ogni micro-secondo, per far girare miliardi di auto senza autista ma tutte coordinate, “a colloquio” fra di loro per non creare disastri. «La mole di dati che dovranno essere elaborati dal computer di bordo di ogni singolo veicolo in questo scenario è pari a quella di una spedizione spaziale dello Space Shuttle ogni secondo, tutto però gestito da un computerino sul cruscotto grande come una scatola di caramelle». E allora «giù valanghe di miliardi d’investimenti per arrivare primi». La Volkswagen oggi lavora con D-Wave Systems, «un’azienda di computer che sta ribaltando l’universo, perché applica la fisica quantistica ai software: una roba da far esplodere il cervello, perché la fisica quantistica – se applicata con successo alle tecnologie digitali di oggi – le sparerebbe nell’iperspazio, moltiplicando per miliardi di volte il potere di elaborazione dati del più potente computer del mondo». Insomma, «siamo a una viaggio lisergico digitale allo stato puro, ma dietro ci sono i miliardi veri e concreti. Perché?».Ecco la risposta: «Perché questa è gente che pensa 200 anni avanti, e sa benissimo che, col capitalismo morto – quindi con la sparizione di chi ti fa componenti auto pagato 1 dollaro al giorno, e con l’inevitabile innalzamento delle pretese di vita di miliardi di poveracci di oggi verso classi medio-basse – costruire un’auto con quei costi di manodopera costerà una pazzia e i prezzi si centuplicheranno». In altre parole: «Sanno che le auto non si venderanno più nei prossimi duecento anni perché costerebbero oro, e il 98% della gente del pianeta non se le potrebbe più permettere». Sanno anche che l’alternativa della robotizzazione per tagliare i costi (salari) non funziona, è un’immensa illusione, «perché le masse licenziate non avranno reddito, e di nuovo non potranno acquistare l’auto». Ed ecco allora l’avvento della “Tech-Gleba Senza Alternative”, cioè «10 miliardi di umani economicamente omogeneizzati, ma a un livello appena possibile di classe mondiale medio-bassa». E si badi bene: «Là dove questa “Tech-Gleba Senza Alternative” non potrà arrivare coi propri mediocrissimi redditi, dovrà sopperire lo Stato con un Reddito di Cittadinanza, come già detto dal mega-sindacalista Usa Andy Stern e riportato dal “Wall Street Journal”».Queste masse, aggiunge Barnard, saranno saranno obbligate a spostarsi. «E allora l’auto deve diventare un robot che nessuna casa vende, se non in numeri microscopici». Un robot «che quasi nessuno possiede, ma che tutti possono noleggiare per pochi soldi in qualsiasi istante digitando un codice: un’auto-robot arriva e ti porta, un’altra ti riporta, oppure la mandi a prendere la spesa senza muoverti da casa, o rincasi dal lavoro con 6 colleghi chiacchierando comodamente seduto in un van-robot che riporta tutti a domicilio, e se un’ora dopo vuoi andare a cena fuori digiti un altro codice et voilà». Basta moltiplicare questi “noleggi” anche a pochi spiccioli per 10 miliardi di esseri umani, per 10-20 volte al giorno, per 365 giorni all’anno, «e non è difficile capire che il profitto dalla casa produttrice dalla Driverless Car diventa cosmico, rispetto al preistorico sistema della vendita dell’auto al singolo». E già sanno, pare, che l’intera impresa delle Driverless Cars sarà «destinata poi a essere soffocata e rimpiazzata dalle Auto-Drones, letteralmente i Drones iper-tech di oggi trasformati un mezzi di trasporto che ti atterrano davanti a casa», sicché «l’intero traffico mondiale non sarà più su strada ma a circa 500 metri d’altezza sulle città», come in “Blade Runner”. «Ribadisco: queste masse però saranno obbligate (“senza alternative”) a noleggiare questa tecnologia: saranno prigioniere di quelle spese, anche a costo di altri sacrifici».Ma attenti, aggiunge Barnard, perché in questo progetto c’è altro: in questo modo, l’élite si prepara ad accumulare denaro e potere come mai prima, nella storia dell’umanità. Soprattutto perché il progetto «prevede, alla lettera, la distruzione d’interi comparti industriali (i tradizionali Re dell’industria) a favore dell’esistenza sul pianeta degli Imperatori del Business». Parola di Jeff Bezos, di Amazon: «Tutto questo sbriciolerà interi comparti industriali. Da queste fratture escono morti i tradizionali Re del business, ed escono gli Imperatori». E Bezos è uno che «ha sbriciolato tutto il comparto industriale a cui apparteneva, ha azzerato sei comparti in un colpo solo, e ora l’Imperatore è Amazon». State capendo? Non muore solo il capitalismo, secondo il progetto Tech-Gleba, ma anche la moltitudine delle industrie a favore di colossali monopoli (gli “Imperatori”) come mai visti nella storia, già chiamati col nome di “piattaforme”. Ne immaginate i profitti? Ancora: «Con lo Strumento per Pianificare l’Offerta, i Pensatori Critici e i nuovi software, l’Imperatore possiederà una o più Piattaforme. Le Piattaforme dovranno però interagire nel pianeta, tutto si gioca in questo, nelle Piattaforme… Useremo i software per sbriciolare comparti industriali con prodotti o soluzioni che nessuno ancora possiede». Di nuovo, immaginate i profitti dei pochi Imperatori-élite nelle loro Piattaforme?Chi parla così? Dei lunatici deliranti? Tutt’altro: sono Lloyd Blankfein (Goldman Sachs), Robert Smith (Vista Equity Partners), e Jeff Immelt (General Electric), a un meeting riservato. Ma, «prima che il progetto arrivi a distruggere i milioni di Re a favore degli Imperatori, gente come Amazon di Jeff Bezos con la sua iper-Tech digitale si sta divorando la piccola-media distribuzione, come uno squalo bianco divorerebbe un milione di pesci rossi in una vasca». Se cambia l’universo-automotive, «10 miliardi di viventi saranno “prigionieri” della necessità (Captive Demand) di “noleggiare” tecnologia oggi considerata cosmica per solo spostarsi». Costretti, prigionieri. «Basta solo capire che quasi tutto il resto sarà esattamente così, per quasi ogni prodotto e per quasi ogni servizio esistente. Cioè: 10 miliardi di “Tech-Gleba Senza Alternative”», obbligati a «usare per sopravvivere tecnologie di cui loro non hanno nessun controllo, ma assoluta necessità, e che stanno tutte nelle mani di pochi Imperatori che già oggi le posseggono perché ci stanno investendo cifre incalcolabili e cervelli inimmaginabili».Amazon e Google-Alphabet, Intel, Samsung, Microsoft, Apple, D-Wave Systems e tutti i labs di ricerca in “A.I.” dei colossi come General Electric, Bosch, Mit di Boston, più le migliaia di startup come la cinese Mobvoi. Monopolio totale della conoscenza applicata, in ogni campo: «Potrebbero sparire tutti i tecnici Enel, idrici, progettisti d’auto o medici operativi oggi, che in poco tempo sarebbero sostituiti da altri già esistenti o in formazione. Ma quando invece solo il fatto che tu abbia una connessione senza cui letteralmente non sopravvivi in Terra, o che tu abbia un trasporto da A a B, o un Cobot che ti curi il taglio post-operatorio, quando queste cose essenziali sono in mano a una élite ristrettissima di fisici quantistici, software code-makers da viaggio su Marte, e maghi visionari della A.I., i cui brevetti saranno più segreti dei codici nucleari di Stato… tu sei fottuto, perché nessuno fra i tecnici delle normali formazioni universitarie anche ad altissimo livello ci capirà mai nulla di quella incredibile fanta-vera-scienza. I primi saranno i padroni unici della vita stessa sul pianeta, punto. State capendo?».Trasporti, sanità, acqua, energia, informazione, servizi essenziali, pagamenti, cibo: tutto in mano a pochissimi, il cui sapere non è alla portata dei normali scienziati non-quantistici. Ci sono materiali “magici” come il Graphene, «che è un singolo strato di materiale con proprietà mai esistite in nessun altro materiale al mondo: è più forte dell’acciaio, conduce meglio del rame, è sottile come un singolo atomo, da semiconduttore è praticamente trasparente e ha applicazioni ovunque, dalla chirurgia all’ingegneristica alla purificazione delle acque ai sistemi elettrici di intere nazioni». E ci sono gli Oleds, «che sono tecnologie visive, che trasformeranno le tv e gli smartphone in applicazioni molto più flessibili, intercambiabili, permetteranno a una televisione di casa di essere ripiegata in un tablet e poi anche in uno smartphone». E ci sono i possibili super-computer «di capacità inimmaginabili, oggi nascenti dalla fisica quantistica di D-Wave Systems».La massima incarnazione di tutto ciò si chiama Sergey Brin, il guru di Google-Alphabet. Tutto il potere inimmaginabile che Google ha e avrà nasce da questo concetto partorito da Brin: «Non c’interessa fare prodotti, c’interessa sfondare i limiti dell’inimmaginabile». Brin, continua Barnard, ha dato ordine di sviluppare decine di innovazioni chiamate Ecosystem, da lì il progetto di eliminare tutti i trasporti su ruote o ferrovie del pianeta, e sostituirli con immensi Dirigibili Drones con neppure un umano impiegato a bordo, spostando tutto ciò che si sposta al mondo – dalla Cina all’Argentina e dal Canada a Singapore – da una stanza con una ventina di addetti». Il lettore, aggiunge Barnard, deve comprendere come lavorano i cervelli di questi “alieni umani”. «Per essere semplici: se il 99% degli scienziati stanno lavorando come pazzi per mandare l’uomo su Marte, Sergey Brin riunisce i suoi per trovare le tecnologie per mandare l’uomo su Giove… comprendete? Col Deep Learning di Google, Brin considera oggi come già superata l’Intelligenza Artificiale (A.I.) che ancora deve venire». Con i colleghi Greg Corrado e Jeff Dean, Brin «ha chiuso gli occhi e immaginato livelli di astrazione». Che significa? «Loro sanno che nella sfera dell’Intelligenza Artificiale il problema dei problemi è che i computer lavorano a metodo lineare, e non riescono ad elaborare molti livelli di astrazione. E oggi loro hanno portato l’Intelligenza Artificiale con il loro Deep Learning a saper elaborare almeno 30 livelli di astrazione, dando quindi la capacità ai computer d’imparare ormai allo stesso livello degli umani».Poi c’è David Ferrucci, che fu il guru della A.I. all’Ibm col progetto Watson. Ferrucci lasciò Ibm per passare alla corte di Ray Dalio, il boss dell’hedge fund Bridgewater. «Un altro essenziale transfugo dall’Ibm che è andato a lavorare sulla A.I. in Inghilterra alla Benevolenti A.I. che si occupa di sanità, è Jerome Pesenti: e qui avremo moltissima “Tech-Gleba Senza Alternative”, perché gli ammalati esisteranno sempre e già oggi in Giappone, dove nel 2025 gli anziani sopra i 70 anni saranno quasi il doppio di quelli in Ue o negli Usa, si stanno costruendo gli infermieri robotizzati chiamati Cobots». Continua Barnard: «Adam Coates viene da Stanford e oggi porta il suo genio “demoniaco” alla Cina, dove dirige i progetti di A.I. per la mega-corporation Baidu focalizzandosi su apprendimento, percezione e visione nella A.I». Al colosso Ibm non mancano i rimpiazzamenti: David Kenny che sviluppa proprio la tecnologia per le piattaforme e per i carichi cognitivi. Poi, l’arcinota Uber ha Gary Marcus che lavora sulla A.I. per le Driverless Cars e sul Dynamic Ride Scheduling. «L’uomo che forse più sa di Networking Neuronale al mondo è Jonathan Ross: lavorava a Google con Brin». In Amazon, invece, «Raju Gulabani ha pionierizzato la rete da decine di miliardi di dollari che sostiene la corporation di Jeff Bezos, cioè la Aws Database and Analytics, assieme ai primi mattoni di A.I». E ci sono personaggi Russ Salakhutdinov, di Apple, «anche se l’ex impresa di Steve Jobs è davvero arrivata tardi in questa fanta-vera-scienza».Qualche esempio di cosa inizieremo a vedere? La classica scampagnata: oggi prendi la bici e scorrazzi tra i campi, tra l’odore di fieno, il rombo della trebbiatrice «e quella sensazione di essere nella natura lontano da semafori, antenne o il wi-fi: il casolare del contadino, i contadini magari seduti fuori dal bar di Mezzolara al sabato pomeriggio a giocare a carte». Nella scampagnata in “Tech-Gleba Senza Alternative”, invece, «i contadini scompaiono, letteralmente non ne esiste più uno». Si chiamerà: Agricoltura di Precisione. «Il casolare, se rimane, è ristrutturato in una centrale operativa di Agriscienza. Antenne ovunque. Nessun rombo di trattore, ronzii di decine di Drones di dimensioni che vanno dai 12 centimetri a 10 metri che sorvolano i campi e trasmettono miliardi di dati (100 o 500 per ogni singolo stelo di grano, per ogni singola cipolla) alle centrali. Poi i software dalle centrali diranno ai Drones Seminatori dove piazzare il singolo seme a seconda di una dettagliata analisi chimica del singolo centimetro quadrato di terreno, il tutto in tempi di microsecondi. Welcome la Semina di Precisione. Stessa operazione ai Drones Fertilizzanti. Vi lascio immaginare il resto: meglio che ne approfittiate finché il contadino sta ancora là, oggi».Nel campo industriale, continua Barnard, si aggiungono gli Ecosistemi Virtuali, là dove il prodotto viene razionalizzato da sistemi di A.I. per ridurre i passaggi produttivi di venti volte o più. Una produzione annuale di 40 milioni di di pezzi sarà gestita dai Cobots, cioè sistemi robotizzati che letteralmente “parlano” con un singolo operatore umano, che «non schiaccia più tasti, ma parla e basta», mentre «mostruosi impianti rispondono, obiettano, suggeriscono soluzioni, segnalano problemi». Così per tutto: intrattenimento, qualsiasi attività esterna a casa, istruzione, social media, attivismo, politica. «Qui i primi ad arrivare per cambiare, come mai, il tuo mondo saranno la Virtual Reality (Vr) e la Augmented Reality (Ar) del conglomerato Facebook-Oculus». Il concetto è questo: «Per entrare in contatto con chiunque, e per fare praticamente qualsiasi cosa, non sarà più necessaria la tua presenza fisica, basta quella virtuale. Un bel Rift Head-set di Oculus, o anche solo quegli strani occhiali con cui si fece fotografare Sergey Brin di Google, e il gioco è fatto. Il networking globale in 3d ti permetterà, stando immobile sul divano, di cercar casa visitando decine di appartamenti, dialogare con gli agenti e l’amministratore, stare in classe ma “vedersi” seduti alla Lectio Magistralis del Prof. X all’università di Yale in Usa, o visitare, sempre immobile dalla classe, le distese di Agribusiness in Sudan, partecipare a workshop di A.I. a Cupertino, a Mosca, a New Delhi». E magari «testimoniare la guerra ad Aleppo, ma senza il “disturbo” degli odori dei poveri, dei fetori di sangue rappreso, e con una visione totalmente pilotata dalle autorità occidentali».Poi, i social media «ti permetteranno, dal divano di casa, di essere fra amici a una cena virtuale, o di corteggiare una persona per capire chi è, prima ancora di muovere un passo da casa. O di non muovere neppure più un passo da casa, e avere un orgasmo, toccare un petto o un seno virtuali, e uscirne totalmente soddisfatti». Peggio: «Il progetto provinciale di Casaleggio diverrà devastante nelle dimensioni. L’attivismo politico sarà tutto immobilismo dai divani di casa, nessun corpo umano visibile da nessuna parte, tutti in cortei virtuali, Consigli comunali virtuali, comizi virtuali, dialoghi coi parlamentari virtuali, videogames di scontri di piazza, cioè aria fritta, e apatia di masse immense nel trionfo globale dell’Attivismo di Tastiera». Il denaro? Blockchain e Ledgers sono già realtà oggi: «Sparirà ogni forma di denaro, le Cryptovalute diverranno padrone (oggi abbiamo solo Bitcoins ed Ethereum, ne verranno centinaia). Ogni singola transazione, dai 70 centesimi dell’anziana pensionata alle centinaia di miliardi delle corporations, sarà registrata attraverso la tecnologia Blockchain in registri mondiali chiamati Ledgers che saranno visibili da chiunque al mondo abbia i software per accedere».I pagamenti saranno quindi istantanei e istantaneamente verificati dagli algoritmi matematici di tutta la catena di Blockchain. «Spariranno dunque milioni di posti di lavoro legati alla contabilità, all’avvocatura, nelle banche, con lo strascico di impiegati/e. Ma molto peggio: i maghi dell’informatica dei servizi americani, perché saranno loro ad avere le chiavi di questa allucinazione, passeranno miliardi di dati privati – sui pagamenti degli umani visibili sui Ledgers, quindi sugli stili di vita, sulle abitudini, sulle tendenze di consumo, sullo stato di salute delle persone, su come lavorano, sul business mega-medio-micro». Dati ce finiranno alla Nga, la National Geospatial Intelligence Agency degli Stati Uniti. «La Nga è la più grande intelligence al mondo per raccolta e analisi di immagini e dati; e lo sarà in futuro per capire chi sei tu, o tu azienda, cosa fai ogni 30 secondi della tua vita, cioè se compri gratta&vinci o se hai fatto un’ecografia all’utero, o se hai donato a Greenpeace, ai sovranisti… o per spiare i pacchetti ordini per sapere su quali aziende speculare, o per sapere se davvero come dice “Bloomberg” il rame del Cile ancora tira, o se è meglio dire agli investitori di andare altrove». La Nga «lo farà grazie alla Blockchain e ai Ledgers: sarà la più immane perdita di privacy della storia umana, con la “Tech-Gleba Senza Alternative” del tutto impotente, ma le piattaforme globali in posizione di ovvio favore».E sempre in materia di privacy disintegrata, continua Barnard, saremo il benvenuto al mondo dei Psychoimaging Sofware, a braccetto coi Drones. «E’ noto che i gadget digitali più venduti già oggi sono pronti ad ospitare software che ti leggono impronte digitali, o la mimica dei muscoli facciali, o a registrarti mentre sei a letto col cellulare spento. Ma è anche vero che i dati sulla tua persona che verrebbero trasmessi in questo modo rischiano di essere molto frammentari perché non viviamo sempre incollati ai cellulari, pc o tablets». I droni, invece, come già oggi sperimentato dal Darpa del dipartimento alla difesa Usa, «possono essere ridotti alle dimensioni di un insetto, ed essere su di te in qualsiasi momento, ovunque, e trasmettere i dati a software di Psychoimaging, cioè software che compileranno schede su chi sei, che carattere tendi ad avere, come ti si può convincere meglio e a che ore del giorno, o se sei una minaccia per il sistema, cosa ti potrebbe sospingere a una ribellione, come i media impattano la tua personalità, come formi i tuoi figli». Peggio ancora: «I Drones possono leggere il labiale, quindi avere un accesso ancora più diretto a qualsiasi cosa tu esprimi o intenda fare in ambito sia privato che di business».Per il pessimista Barnard non avremo scampo: «Saremo “Tech-Gleba Senza Alternative”, cioè prigionieri, precisamente perché quando tutto il pianeta funzionerà così, chi si può permettersi di dire “No, non ci sto”?». E il «mostruoso mondo Tech» non è una fantasia, «è già alle porte». Ma a cambiare, sottolinea Barnard, è solo il “come”, lo spaventoso potenziale tecnologico, non il paradigma. Quello è immutato: «Il gran gioco della razza umana dal primo minuto della civiltà è sempre stato identico: fu, e rimane oggi, una guerra spietata fra il desiderio delle élite di dominare, e i tentativi dell’umanità di prendersi invece ciò che gli spetta. I tentativi hanno avuto sempre e solo un nome: le rivoluzioni», considerate dall’élite «fastidiosi incidenti di percorso». Potevano essere represse nel sangue, o tollerate per qualche tempo e poi «dirottate dall’interno verso nuove forme di sanguinario dispotismo di altre élite». E’ il caso della Rivoluzione Francese finita nel Terrore, o della Rivoluzione Russa «che Lenin devastò appena poté». Ma con l’incalzare della modernità, aggiunge Barnard, per le élite divenne sempre più difficile controllare le masse. La prima sperimentazione in grande stile? Negli Usa, tra fine ‘800 e inizio ‘900.«Pochissimi sanno che la parte d’Occidente più “marxista” in assoluto, a cavallo fra il XIX e il XX secolo, fu il nord-est degli Stati Uniti d’America, e in parte l’Irlanda». Negli Usa, il fermento dei lavoratori «impropriamente chiamato socialista», in realtà «anarco-sindacalista, libertario nel vero, storico senso del termine» era tale che, di routine, «venivano stampati quasi 900 quotidiani rivoluzionari, che venivano davvero letti nelle comuni di lavoratori e lavoratrici». Ora, aggiunge Barnard, si può immaginare come l’élite del capitale americano si organizzò per soffocare tutto questo. E di certo, a pochi decenni da una guerra civile costata quasi 800.000 morti, «le élite non potevano reprimere tutto nel sangue. Ci voleva altro per soffocare quella rivoluzione». Ma cosa? Da quell’epoca in poi, «il Vero Potere comprese qualcosa di letteralmente mostruoso – ripeto, mostruoso – per silenziare, sedare, le masse ribelli: l’Apatia del Benessere Minimo». Che significa? «Mantenere miliardi in povertà e disperazione è non solo intenibile, perché si ribelleranno, ma controproducente (fine capitalismo, “Tech-Gleba”)». Furono due intellettuali americani a immaginare la soluzione: Edward Bernays e Walter Lippmann. «Le élite avrebbero dovuto sedare le masse – in quel caso americane – con l’avvento dell’industria mediatica, cinematografica, pubblicitaria e consumistica che ne manipolasse il consenso verso il desiderio di possedere un benessere minimo a qualsiasi costo».E vinsero, perché «chi inizia ad assaggiare l’individualismo del proprio piccolo, modesto progresso edonistico nei consumi e nel piccolo agio», poi ovviamente «abbandona i sacrifici, il coraggio e il pensiero per la lotta sociale». Chiaro: «Vuole avere di più. Per non parlare poi di quando diviene vera classe media». La prima grande ondata di “apatizzazione” delle masse potenzialmente pericolose per le élite «sfondò i popoli negli Stati Uniti fra gli anni ’20 e ’40 del XX secolo», continua Barnard. Celebre l’opinione che Bernays e Lippmann avevano del popolo: «Sono solo degli outsider rompicoglioni», da “domare” verso la docilità. Poi vennero la Seconda Guerra Mondiale, il dilagare del socialismo, il comunismo e la Rivoluzione d’Ottobre, la nascita del Welfare State in Gran Bretagna, «la magica (seppure breve) influenza dell’economista John Maynard Keynes sull’economia per la piena occupazione», fino al ’68 e alle lotte operaie europee. «All’alba degli anni ’70 le élite si resero conto che il piano Bernays-Lippmann di apatizzazione era decaduto, ne occorreva un altro ben più potente»: il Memorandum Powell.Barnard ne ha parlato nel saggio “Il più grande crimine”, citando le gesta dei protagonisti della «seconda grande ondata di apatizzazione delle masse». Lì i compiti furono divisi fra Stati Uniti, Europa e Giappone. «S’inizia con una mattina dell’estate del 1971, quando Eugene Sydnor Jr. della Camera di Commercio degli Stati Uniti chiamò l’avvocato Lewis Powell e gli chiese un progetto di apatizzazione delle masse occidentali in sollevazione». Powell scrisse un Memorandum di sole 11 pagine. Vi si legge: «La forza sta nell’organizzazione, in una pianificazione attenta e di lungo respiro, nella coerenza dell’azione per un periodo indefinito di anni, in finanziamenti disponibili solo attraverso uno sforzo unificato, e nel potere politico ottenibile solo con un fronte unito e organizzazioni (di élite) nazionali». Poi arriva la Commissione Trilaterale, composta appunto dai vertici di Stati Uniti, Europa e Giappone. Chiamano tre influenti intellettuali, Samuel P. Huntington, Michel J. Crozier e Joji Watanuki. Nelle 227 pagine del loro “The Crisis of Democracy” daranno la ricetta letale per l’apatizzazione. Basta leggere questi passaggi: «Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che hanno permesso alla democrazia di funzionare bene».«La storia del successo della democrazia – continuano i tre – sta nell’assimilazione di grosse fette della popolazione all’interno dei valori, atteggiamenti e modelli di consumo della classe media». Cosa vuol dire? «Significa che, se si vuole uccidere la democrazia partecipativa dei cittadini mantenendo in vita l’involucro della democrazia funzionale alle élites, bisogna farci diventare tutti consumatori, spettatori, piccoli investitori, tutti orde di classe medio-bassa appunto. Apatici». Il risultato, conclude Barnard, è storia contemporanea: «Trionfo dei consumi assurdi, dell’edonismo idiota di Tv e mode, crollo dalla partecipazione alle lotte in strada, apatia di praticamente tutti anche a fronte di fatti gravissimi che distruggono democrazia, lavoro, diritti, Costituzioni. Con l’avvento poi di Internet il tripudio del progetto della Trilaterale raggiunse l’orgasmo». Barnard fui il primo in Italia a coniare il dispregiativo “attivisti di tastiera”, ignaro che negli Usa si parlava di “clicktivism”. «Altra forma di apatia che infettò persino quel 2% dei cittadini che ancora non erano stati divorati da Playstation, Formula 1, Belen, Il Grande Fratello, la Champions, il red carpet di Cannes, il gratta e vinci, il Carrefour, la ‘notte rosa’ al mare». La grande apatia di massa del Duemila.«Le élite protagoniste di tutta questa storia – insiste Barnard – vedono sempre chiaro almeno 50 anni avanti, più spesso 200 anni». I segnali di un nuovo sommovimento delle masse? Divennero chiari, per loro, quasi vent’anni fa. Allora, «i salari reali del paese più potente del mondo, gli Usa, erano stagnanti dal 1973: malcontento diffuso». Inoltre, le bolle speculative (immobiliari e finanziarie, specialmente incoraggiate da Clinton) davano un segnale chiarissimo: le élite sapevano già che sarebbero tutte esplose (net-economy, subprime, crack di Wall Street). Risultato: di nuovo, milioni di occidentali “indignati”. Niente di buono neppure a Est: «La mano del Libero Mercato di quel criminale di Jeffrey Sachs nell’est europeo post-comunista e in Russia stava decimando quei popoli, col tasso di mortalità media in Russia crollato a 56 anni per gli uomini, migrazioni di massa a ovest delle donne, corruzione epica ovunque, di nuovo pericolo di sollevazioni». Poi il disegno dell’Eurozona: «Appena nato, era già stato sancito come una catastrofe sociale dalle Federal Reserve Banks degli Stati Uniti, e quindi dai maggiori “investment bankers” del pianeta, per cui già allora si aspettavano un’Europa di ribellioni populiste, caos politico, e Brexit». Chiarissimo, poi, era il pericolo di conflitto nucleare futuro, con rischi anche per le stesse élites: conflitto «non Usa-Russia, ma Usa-Cina, cioè due progetti imperiali inconciliabili a morte». Infine il “climate change” che già stava divorando il pianeta, con «masse immani di disperati» che si sarebbero mosse «letteralmente per bere, e avrebbero invaso l’Occidente: 500.000 indiani rischiano di non bere più fra meno di un decennio».Attorno al 2.000, «l’elite comprese che una terza, immensa ondata di apatizzazione sarebbe stata vitale, per tenere questo mondo di nuovo in ribellione sotto controllo per i prossimi mille anni». Ed ecco Rift Head-set, Virtual Reality, Blockchain, Drones, Artificial Intelligence e 10 miliardi di umani in “Tech-Gleba Senza Alternative”, «decerebrati del tutto da Facebook-Oculus e altri come loro». Visione deprimente: «Saremo un’umanità omogeneizzata, senza più immensi scarti di redditi ma totalmente nelle mani, per letteralmente sopravvivere, di élite private che possiedono tutte le Tech-chiavi per la vita stessa della specie umana». E naturalmente «non potremo mai più ribellarci, né dare l’assalto alla Bastiglia, perché anche se ci impossessassimo di quelle chiavi non sapremmo né usarle né sostenerle. Saremo prigionieri di consumi High-Tech irrinunciabili, senza nessuna via di fuga, e in più totalmente apatizzati dall’immobilismo del mondo Virtual-Drones, con gli Oleds, la Vr con Ad, e le infinite forme di A.I.». Detto alla buona: «Se oggi è un dramma convincere un cittadino a uscire di casa per contestare il proprio Comune, immaginate in questo futuro, che è già pronto, quando il tizio con la maschera-occhiali contesterà il Comune in Virtual 3D fra un amplesso Virtual 3D e l’altro». Con 10 miliardi di umani conciati così, ed élites «padrone di un potere sull’economia e sulla vita stessa impensato fino a oggi», per Barnard si può davvero decretare la fine della storia. «L’Eurozona è un sogno, in confronto; la mafia è un sogno, in confronto, il lavoro di oggi anche. Ricordate Lincoln e come seppe vedere ‘oltre’. Non fate figli, vi prego».Non mangiano più “libri di cibernetica, insalate di matematica”, ma divorano volumi di Cartesio, Galileo, Newton. Sono i nuovi stregoni della meccanica quantistica, a metà strada tra scienza e metafisica. Sono stati assoldati dall’élite planetaria, quella che ormai ha compreso che il capitalismo è storicamente finito. Al suo posto, avanza quella che Paolo Barnard chiama tech-gleba. O meglio: “Tech-Gleba Senza Alternative”, sottoposta al cyber-potere del computer “quantico”, fantascienza in mano a pochissimi. Una super-macchina “pensante”, in grado di far sparire ogni lavoratore dalla faccia della terra, sostituendolo con robot, droni e androidi cobots, i cui servizi i neo-schiavi ridotti all’apatia saranno costretti a “noleggiare”. «Questo non è un fumetto, è il futuro vicino, vicinissimo, ed è tutto già pronto. Solo che nessuno di noi se ne sta accorgendo», perché i cittadini più “svegli”, che stanno in guardia contro minacce visibili (mafie, corruzione, Eurozona, migrazioni, “climate change”) non vedono «un mostro immensamente peggiore», che ormai «è dietro la porta di casa». L’umanità retrocessa alla servitù della gleba (tecnologica). E’ l’incubo al quale Barnard dedica svariate pagine sul suo blog, lo stesso che nel 2011 ospitò il profetico saggio “Il più grande crimine”, sulla genesi politico-finanziaria dell’Eurozona – riletta, appunto, in chiave criminologica: puro dominio, fraudolento, dell’uomo sull’uomo.
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Tino Aime, il timido maestro che ha fatto parlare l’invisibile
Quando un maestro trasloca, tace il rumore e l’aria si popola di parole sospese, che restano lì e non se ne andranno. Tino Aime, riconosciuto caposcuola ed elegantissimo incisore, cresciuto nella Torino del dopoguerra, quella di Casorati, fu iniziato alla Libera Accademia sotto la guida di Idro Colombi. Era nato a Cuneo 86 anni fa. Discendeva da una stirpe di pastori annidata sulle impervie alture di Roaschia, valle Gesso, zona Nuto Revelli. Memorabile il primo incontro tra i due, in alta val Maira: lo scrittore a caccia di sopravvissuti in carne e ossa, il pittore in cerca di altre sopravvivenze, ancora più impalpabili. Nuto Revelli e poi anche Davide Lajolo, Nico Orengo, Massimo Mila, finissimi cantori come Francesco Biamonti. Tutti innamorati del segno inimitabile dell’ex ragazzo di Roaschia. Fino al grande Mario Rigoni Stern, vera e propria anima gemella, accomunato dallo stesso amore per i silenzi del bosco, la montagna scabra e nuda, la lingua nitida e sincera della neve. Il vero nome di Aime, Battista, rivela quasi una vocazione: un battesimo della luce, fatto di nuovi occhi per scrutare l’orizzonte e scoprire che, volendo, la meraviglia abita ovunque.Chi l’ha conosciuto ha potuto constatare la perfetta coincidenza tra l’opera e la vita: stessa capacità di dire tutto, con pochissimo, senza parlare quasi mai. Arte figurativa, in apparenza, ma con dentro le stimmate del vasto Novecento, il codice cifrato dei Sironi, dei Morandi. Le tele degli esordi raccontano periferie desolate, urbane, travolte dall’industria. Lo spirito del tempo: un carotaggio nel dolore, tra le macerie della guerra appena spentasi – tanto più vivo nell’artista giovanissimo, scampato con terrore (per due volte, da bambino) alle bombe degli alleati. Poi, però, Tino ha lasciato la città. Ha scelto la montagna, seguendo l’istinto: il ritorno alla terra magra degli antenati. E non ne ha fatto un’elegia, ma un cantico, riuscendo sempre a far vibrare l’aria. Schivo e ritroso, timidissimo, si è avventurato nel sua homeland che non ha confini, ha per frontiera solo il cielo. Niente alpinismo, nessuna cartolina. Terra vissuta, scura e primordiale, dentro un’archeologia di case diroccate, un’antropologia di assenze. Un viaggio nel silenzio, rischiarato dalla luna. Un’armonia di essenze indecifrabili e misteri, oltre il fraseggio elementare della geografia, dell’apparenza.Vedere quello che non c’è. Mostrare quel che c’è, ma non si vede. Una missione: condotta fino in fondo, per tutta la vita, come un dovere segreto, una promessa impossibile da estinguere. Tutto nasce da una strana confidenza, che avvicina all’invisibile. Narrazioni sottili, la finezza laconica dell’haiku. Ovunque espressa: nella solarità mediterranea del Ponente ligure, nei deserti spagnoli dell’Estremadura, nel bianco abbacinante dell’Andalusia. E tra le lande dell’amatissima Provenza dove Tino, ancora giovane, fu scelto – per elezione – dalla chiassosa banda dei gitani, il favoloso popolo migrante, alle prese coi festeggiamenti della loro regina, sulla spiaggia che ricorda il leggendario sbarco delle Marie venute dal mare, appena dopo il supplizio del Calvario. Tra i misteri di Tino Aime, il Battista cuneese, la passione con la quale – da laico irriducibile – ha offerto la sua arte alla simbologia spirituale, religiosa, con Cristi crocefissi – plastici, inteneriti – che adornano abbazie, chiese, cappelle di montagna.Si è spinto in Romania, tra le selve dei germani, nella laguna di Venezia – ricamando l’intarsio dei palazzi che si specchiano in un cielo d’acqua. Ma la sua vera casa è stata soprattutto la montagna piemontese, dalle natìe vallate d’Occitania fino alla patria di più recente acquisizione, la tormentata val di Susa, esplorata in profondità e fatta parlare in modo insospettabile, sciorinando storie e lingue sconosciute. Un’epica silente, che ricorda le cadenze di Neruda, l’attitudine domestica alla gioia, là dove non l’aspetti. Compaiono giganti, ma sono solo pettirossi, merli, ortensie. E tutto è misteriosamente sacro, in Tino Aime. Le sue notti incantate, i suoi inverni. L’impenetrabile splendore delle cose, recitato col cuore, rispondendo a una chiamata antica.Era anche amaro, a volte, il vecchio Tino. Scoraggiato, dalla barbarie incorreggibile del mondo. Siate onesti, ha mandato a dire – di recente – a una scolaresca di artisti in erba. E state in guardia: non fidatevi di quel che vi raccontano. Tino ha ascoltato tutti, ma poi ha sempre scelto in solitudine. Sapeva cosa fare, dove andare. Che verità evocare, sapendole tacere. Usava specchi, per incidere le lastre. Come Leonardo, conosceva l’arte del contrario – certo che il tutto, poi, si rivelasse alla distanza, senza strappi. Niente e nessuno in prima fila, mai, nel suo mosaico: parti dell’armonia, l’insieme risuonante. Amava lavorare a suon di musica, spesso sceglieva Bach. Ha frequentato – in buona compagnia, la sua – il gran paese da cui scendono silenzi e sogni. Quelli rimasti qui non svaniranno, grazie a lui.Quando un maestro trasloca, tace il rumore e l’aria si popola di parole sospese, che restano lì e non se ne andranno. Tino Aime, riconosciuto caposcuola ed elegantissimo incisore, cresciuto nella Torino del dopoguerra, quella di Casorati, fu iniziato alla Libera Accademia sotto la guida di Idro Colombi. Era nato a Cuneo 86 anni fa. Discendeva da una stirpe di pastori annidata sulle impervie alture di Roaschia, valle Gesso, zona Nuto Revelli. Memorabile il primo incontro tra i due, in alta val Maira: lo scrittore a caccia di sopravvissuti in carne e ossa, il pittore in cerca di altre sopravvivenze, ancora più impalpabili. Nuto Revelli e poi anche Davide Lajolo, Nico Orengo, Massimo Mila, finissimi cantori come Francesco Biamonti. Tutti innamorati del segno inimitabile dell’ex ragazzo di Roaschia. Fino al grande Mario Rigoni Stern, vera e propria anima gemella, accomunato dallo stesso amore per i silenzi del bosco, la montagna scabra e nuda, la lingua nitida e sincera della neve. Il vero nome di Aime, Battista, rivela quasi una vocazione: un battesimo della luce, fatto di nuovi occhi per scrutare l’orizzonte e scoprire che, volendo, la meraviglia abita ovunque.