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Archivio del Tag ‘eresia’

  • Keynes: piena occupazione, senza valori niente crescita

    Scritto il 01/11/15 • nella Categoria: Recensioni • (1)

    L’asse portante della teoria macroeconomica dell’economista inglese degli anni Trenta John Maynard Keynes, tornato al centro del dibattito politico-economico nel pieno dell’attuale crisi economica e sociale prodotta dalla finanza internazionale libera da ogni vincolo e regola, è eliminare l’instabilità del mercato e le diseguaglianze economiche e sociali per realizzare “una buona vita e una buona società”. Il suo pensiero, basato sul rifiuto di una crescita economica priva di valori umani, della sostenibilità sociale e ambientale, lo portò a dire: «Noi economisti abbiamo la responsabilità non per la civiltà stessa ma per creare le possibilità che una civiltà possa realizzarsi». Ammonimento «accolto da un nucleo ristretto di eretici della sinistra» e poi «debitamente oscurato, quando non stravolto e opportunamente manipolato, da una sinistra attratta dalle sirene del pensiero unico neoliberista, linfa vitale della finanza internazionale», scrive Carlo Patrignani sull’“Huffington Post”, presentando l’ultimo volume che riassume il pensiero del grande economista inglese, archiviato dall’oligarchia planetaria.
    A fare chiarezza sull’opera e la persona di Keynes, «la cui fama e importanza nel XX secolo è stata pari a quella di Carlo Marx nel XIX», è ora Jesper Jesperson, economista dell’università danese di Roskilde, che toglie Keynes «dall’uso contraffatto agito dai tutori del pensiero unico neoliberista». Un libro scorrevole e chiaro, “John Maynard Keynes. Un manifesto per la buona vita e la buona società”, edito da Castelvecchi e curato dall’economista Bruno Amoroso, amico e allievo di Federico Caffè, «uno degli eretici più autorevoli delle sacche di resistenza che negli anni ‘70 con il loro agire, di fatto, si opposero alla manipolazione e occultamento di Keynes nelle università come nei ministeri europei delle finanze e in particolare oggi di Berlino, Londra, Roma, Copenaghen e Bruxelles». Fautore della piena occupazione, «che non coincide con la crescita economica illimitata ma con l’equa ripartizione del lavoro e dei redditi», Keynes è stato ridotto – dice Amoroso – all’assunto che la causa della disoccupazione risiede nella rigidità dei salari monetari.
    «Al contrario è l’assenza e imprevedibilità della domanda, sostiene Keynes, a causare l’instabilità del mercato, il che è in diretta opposizione alla tesi degli economisti neoclassici secondo cui l’offerta genera la sua domanda e il sistema di mercato si autoregola». Per Keynes, la disoccupazione non è solo dovuta alla mancanza di posti di lavoro – per cui, seguendo il suo insegnamento, «è possibile invertire la congiuntura negativa con il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri dell’Ue per creare 20 milioni di posti di lavoro che mancano». Ma i veri valori della società umana «non si ottengono con lunghe ore di lavoro e neanche con gli acquisti di prodotti superflui e di facile invecchiamento», scrive Patrignani. E di fronte alle sfide che l’Europa si trova ad affrontare oggi, Jespersen la vede così: «La filosofia sociale di Keynes, ispirata alla costruzione di un sistema economico internazionale che coniuga regolamentazione del mercato dei capitali e libero commercio, può costituire uno straordinario contributo nella direzione di una politica coordinata e solidale che rispetti le diversità e le situazioni dei singoli paesi».
    (Il libro:  Jesper Jesperson, “John Maynard Keynes. Un manifesto per la buona vita e la buona società”, Castelvecchi, 156 pagine, euro 17,50).

    L’asse portante della teoria macroeconomica dell’economista inglese degli anni Trenta John Maynard Keynes, tornato al centro del dibattito politico-economico nel pieno dell’attuale crisi economica e sociale prodotta dalla finanza internazionale libera da ogni vincolo e regola, è eliminare l’instabilità del mercato e le diseguaglianze economiche e sociali per realizzare “una buona vita e una buona società”. Il suo pensiero, basato sul rifiuto di una crescita economica priva di valori umani, della sostenibilità sociale e ambientale, lo portò a dire: «Noi economisti abbiamo la responsabilità non per la civiltà stessa ma per creare le possibilità che una civiltà possa realizzarsi». Ammonimento «accolto da un nucleo ristretto di eretici della sinistra» e poi «debitamente oscurato, quando non stravolto e opportunamente manipolato, da una sinistra attratta dalle sirene del pensiero unico neoliberista, linfa vitale della finanza internazionale», scrive Carlo Patrignani sull’“Huffington Post”, presentando l’ultimo volume che riassume il pensiero del grande economista inglese, archiviato dall’oligarchia planetaria.

  • La Santa Corruzione nel Paese delle Meraviglie

    Scritto il 11/10/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Nel Paese delle Meraviglie, anche l’ottimismo può sfociare nel patologico, non solo il pessimismo. Il pessimismo diventa depressione, l’ottimismo magari si trasforma nell’euforia tossica del credulone che si esalta nel cibarsi delle spoglie del “mostro” di turno sbattuto in prima pagina, ma ignora che di pagine ce ne sono tante altre. Solo che quelle non gli vengono mostrate. Meglio ancora se il mostro è un personaggio importante, mettiamo il sindaco della capitale d’Italia. In tal modo un sistema marcio riesce nel duplice intento di ristrutturare la propria vacillante impalcatura, e di fare ciò col pieno consenso dei cittadini benché se ne ribaltino le scelte espresse alle urne. Sarebbe anche imbarazzante non porsi neanche un dubbio nel momento in cui all’improvviso tutti i centri di potere locali e nazionali, ivi compreso il partito aspirante (unico?) della nazione, col cappellaio matto in prima fila (indovina chi è), decidono all’unanimità che l’affaire-scontrini è storiella talmente inusitata da reclamare la testa dell’orrendo peccatore. Come se le “cene istituzionali” o presunte tali fossero abitudine esclusiva dell’eresiarca inquilino del Campidoglio.
    Saremo noi oltremodo scettici, ma una vicenda dai contorni così farseschi non può non farci sospettare che quello senza “amici degli amici” alla lunga fosse proprio l’antieroe condominiale in questione, piuttosto che i suoi inquisitori. I quali probabilmente continueranno a gozzovigliare sulle macerie dell’Urbe, magari con un palazzinaro o un uomo d’apparato in grado di garantire quella pax intrallazzista che con ogni evidenza lo sventurato non aveva la stoffa per garantire. Tutti tranne i pentastellati: loro lo fanno gratis, ça va sans dire. Anche se il loro democratico impegno per sbarazzarsi del turista per caso deve averli distratti da una vicenda come l’acquisizione di RCS da parte di Mondadori che la democrazia – almeno quella delle idee – la mette a repentaglio sul serio (dopotutto a distrarsi su questo sono state tutte le forze politiche e le testate, fra i pochissimi ad informarne i cittadini il rooseveltiano Sergio Di Cori Modigliani tramite il suo blog).
    Questo a prescindere dall’opinione che si ha in merito alle politiche, alle appartenenze, e a tutte quelle altre valutazioni che possono essere positive, negative, molto negative, ma rientrano comunque nel campo dell’opinabile. A meno che non si arrivi a credere che per ridurre una città come Roma nello stato impietoso in cui si trova siano sufficienti due miseri anni: in tal caso l’opinabile diventa tutto il reale, come in Alice nel Paese delle Meraviglie, con la differenza che dalla tana del Bianconiglio non se ne esce più.
    (Gianluca Lorefice, “La Santa Corruzione nel Paese delle Meraviglie”, dal blog del Movimento Roosevelt del 10 ottobre 2015).

    Nel Paese delle Meraviglie, anche l’ottimismo può sfociare nel patologico, non solo il pessimismo. Il pessimismo diventa depressione, l’ottimismo magari si trasforma nell’euforia tossica del credulone che si esalta nel cibarsi delle spoglie del “mostro” di turno sbattuto in prima pagina, ma ignora che di pagine ce ne sono tante altre. Solo che quelle non gli vengono mostrate. Meglio ancora se il mostro è un personaggio importante, mettiamo il sindaco della capitale d’Italia. In tal modo un sistema marcio riesce nel duplice intento di ristrutturare la propria vacillante impalcatura, e di fare ciò col pieno consenso dei cittadini benché se ne ribaltino le scelte espresse alle urne. Sarebbe anche imbarazzante non porsi neanche un dubbio nel momento in cui all’improvviso tutti i centri di potere locali e nazionali, ivi compreso il partito aspirante (unico?) della nazione, col cappellaio matto in prima fila (indovina chi è), decidono all’unanimità che l’affaire-scontrini è storiella talmente inusitata da reclamare la testa dell’orrendo peccatore. Come se le “cene istituzionali” o presunte tali fossero abitudine esclusiva dell’eresiarca inquilino del Campidoglio.

  • Rosacroce, la fratellanza del sapere emarginata dal potere

    Scritto il 12/7/15 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    Innanzitutto, loro cominciano a chiamarsi Rosacroce da un certo punto in poi, ma esistevano anche prima. In quegli anni era normale che una confraternita di questo tipo fosse segreta; è oggi che questa segretezza lascia il tempo che trova – e anzi, tutto quello che è segreto, giustamente, desta sospetti. La confraternita dei Rosacroce – a mio avviso, secondo i miei studi – nasce da una precedente e più universale confraternita, che si chiamava Stirpe di David. Gioacchino da Fiore la chiama Radix Davidis. Questo nome, Radix Davidis, lo trovi un po’ dappertutto. Lo trovi, ad esempio, sul simbolo adottato dal diciassettesimo grado della massoneria, che – guarda che combinazione – è il grado precedente a quello di Rosacroce. Io mi sono chiesto a lungo questa Radix Davidis cosa fosse, finché ho scoperto che i presidenti degli Stati Uniti d’America giurano sulla Bibbia aperta in una certa pagina. Giurano lì, perché lì c’è la manifestazione di quello che avrebbe dovuto essere la Stirpe di David. Perché giurano sul Genesi, 49. Giacobbe prende i 12 figli, che poi sono i capi delle 12 tribù di Israele, e ne commenta quello che sarà il ruolo, gli attribuisce una funzione, o un giudizio.
    E, in particolare, a Giuda dedica questi versi: “Giuda, te loderanno i tuoi fratelli, la tua mano sarà sulla cervice dei tuoi nemici, davanti a te si prostreranno i figli di tuo padre. Un giovane leone è Giuda: dalla preda, figlio mio, sei tornato; si è sdraiato, si è accovacciato come un leone, o come una leonessa; chi oserà farlo alzare? Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, vinché verrà colui al quale esso appartiene, e a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli. Egli lega alla vite il suo asinello, e a scelta vite il figlio della sua asina; lava nel vino la veste e nel sangue dell’uva il manto; lucidi ha gli occhi per il vino e bianchi i denti più del latte”. In questi versi ci sono i presupposti di quello che poi sarà il simbolismo dei Rosacroce. Da Giuda discenderà David; David prenderà il trono rispetto a Saul perché ristabilisce la regalità della tribù di Giuda su tutti gli ebrei. E quindi la Stirpe di David è anche la tribù di Giuda, tant’è vero che Matteo l’evangelista, per radicare Gesù Cristo in questa stirpe, e non in altre, fa tutto il genetliaco, fino ad arrivare ai genitori di Cristo, comprovando così che loro sono della tribù di Giuda. Uno dei tanti significati del famoso acrostico “Inri” è “Iesus Nazarenus Rex Judaeorum”.
    Seconda cosa da sottolineare, i colori dei Rosacroce sono il nostro tricolore: rosso, bianco e verde. Il nostro tricolore viene scelto come futura bandiera italiana e come simbolo dell’Ausonia, cioè dell’Italia, in una loggia rosicruciana milanese. Perché bianco, rosso e verde? Perché sono i colori che vengono enunciati in quel passo della Bibbia: la pianta della vite è verde, il vino è rosso, “bianchi i denti come il latte”. Sono i colori dei Rosacroce. Tant’è vero che Beatrice, nella “Divina Commedia” (Dante faceva parte di una setta pre-rosicruciana che si chiamava Fidelis in Amore) è vestitata di bianco, rosso e verde. Molto probabilmente, a livello simbolico, la regalità della Stirpe di Giuda, cioè della Radix Davidis, nasce per ricuperare una condizione perduta. A un certo punto della Bibbia, Abramo va a trovare Melchisedek, e nel momento in cui a va a trovare Melchisedek c’è il sacrificio del pane e del vino: la comunione, così come istituita da Gesù Cristo nel Vangelo, noi la troviamo molto prima. Melchisedek era un re-sacerdote, quindi un’emanazione della divinità, era tutt’uno con la divinità; con Abramo siamo alla venerazione della divinità. C’è stata la separazione dell’uomo da Dio; da quel momento, però, una serie di uomini si devono occupare di ripristinare questo stato: Davide, poi suo figlio Salomone. Il Tempio di Salomone è il simbolo del ricupero della condizione umana come emanazione del divino, non come venerazione del divino.
    Emergono tracce di questa tradizione in tutta una serie di personaggi, negli imperatori romani, nel popolo dei Visigoti, per esempio; nel personaggio di Galla Placidia, quindi nella dinastina dei Flavii. Questa dottrina e questa tradizione riemergono potentemente in Gioacchino da Fiore, che possiamo considerare quasi un loro rifondatore. In Inghilterra c’era stato Ruggero Bacone, un frate francescano che è poi quello che ha ispirato il personaggio del frate ne “Il nome della rosa” di Umberto Eco, che è un esempio tipico di dottrina e di cultura rosicruciana. Quindi, anche depositario di conoscenze incredibili: Ruggero Bacone è colui che nel “De optica”, praticamente, spiega come – 400 anni dopo – costruire un cannocchiale. Si mantiene il nome Radix Davidis fino a Giordano Bruno. In Italia si è chiamata anche Fidelis in Amore. Ne è stato esponente Dante, ma anche – un po’ inquieto e un po’ in opposizione con essa – Federico II. E ci sono stati i Templari. I Templari, quando nascono, nascono con lo stesso obiettivo di Abramo quando va a trovare Melchisedek. Perché il templare che cos’è? E’ un monaco-guerriero, quindi “re” e sacrerdote – è la riunificazione, no? I Templari nascono dopo la Prima Crociata, non prima – perché, avendo già riconquistato Gerusalemme, si poteva riportare questo “tesoro” nel tempio.
    Quindi, i Templari non nascono – come dicono tutti quanti – per cercare qualcosa, o per sottrarlo e custodirlo; nascono per riportarlo, per ricongiungere, per reintegrare il tempio. Per questo, “cavalieri del tempio”. Non nascono con la regola di San Bernardo, non nascono con una vocazione di potere che poi li perderà; nascono con la regola di Sant’Agostino. Dopo, cosa succede? Si omologano, anche loro, al potere dell’epoca, e adottano la regola di San Bernardo. Erano diventati uomini d’affari, e gli uomini d’affari creano le banche. A tal punto perdono il loro scopo primario, che finiscono per perdere Gerusalemme, per un motivo bieco: avevano instaurato a Gerusalemme la regola in base alla quale chiunque visitava Gerusalemme doveva pagare un obolo. Gerusalemme era sacra per tutti, non solo per i cristiani: era sacra per gli ebrei, per gli arabi. A un certo punto, tramite un loro bieco personaggio, che si chiamava Rinaldo di Chatilly, mettono in piedi un piano per conquistare la Mecca, in maniera da far pagare agli arabi l’obolo anche per visitare la Mecca. A quel punto gli arabi, che erano divisi, di fronte a un pericolo così forte si unificano e riconquistano Gerusalemme. Quindi, i Templari “muoiono” cent’anni prima di quando viene distrutto il loro ordine, perché perdono lo scopo: sono Templari senza tempio.
    Viene nominato l’ultimo gran maestro, De Molay, che invece apparteneva alla parte dei Templari non contaminata, che cerca di salvarli, ma purtroppo è tardi: il potere si è già coalizzato contro di loro, e Giacomo De Molay si chiamava Jacobus Burgundus De Molay, il che significava che era un burgundo, cioè un goto. Quindi, come vedete, la Radix Davidis cammina, viene preservata. Poi si estingue l’Ordine del Tempio, ma non si estingue il templarismo. Quindi, i Templari, con le loro conoscenze, vanno in Scozia, vanno a Kilwinning: la parte buona viene ricuperata e gestita dalla confraternita, e sceglie di dirottare tutte le proprie energie nel campo dell’arte. Allora trovare un Trecento, un Quattrocento e un Cinquecento dove i massimi rappresentanti della Radix Davidis sono nel mondo dell’arte. Trovate Leonardo, Botticelli, Raffaello, Tiziano. Pensavano che l’arte fosse il miglior modo per conservare quello che loro volevano conservare – messaggi, ad esempio. In particolare, invece, Leonardo viene utilizzato per depistaggio. Leonardo viene fabbricato, proprio: tenete presente che il nonno di Leonardo fa sparire i veri dati familiari.
    La famiglia di Leonardo piomba nella città di Vinci, ma non c’è nessun dato che dica da dove venga, come si chiami, dove stava prima. Dopodiché il nonno di Leonardo fa un’altra bella operazione: impone al figlio Piero di fare un figlio con una donna che a lui non piace, e che poi ripudierà per sempre, che oggi tutti gli studiosi dicono che era di provenienza mediorientale. Bastava guardare come la chiamava Leonardo per capire da dove venisse: Leonardo, la madre la chiama Catarina – non Caterina – e Catarina viene da Cataro, quindi probabilmente di provenienza mediorientale, quindi sempre di quella cosiddetta Radix Davidis. Leonardo è l’unico artista dei suoi tempi che ha sempre soldi in tasca, che non ha mai problemi economici, ma soprattutto che viene sempre gradito a qualunque potere – finché c’è il Moro è gradito al Moro, e quando arrivano i francesi è gradito ai francesi, che se lo portano in Francia. E in tutte le sue opere “pianta” tutta una serie di messaggi depistanti, che – se uno va a guardare – da Raffaello invece vengono corretti. Cioè, il messaggio depistante del Cenacolo, con l’identità della Maddalena con San Giovanni, viene rettificato da Raffaello in un quadro che si chiama “L’estasi di Santa Cecilia”, dove ci sono sia San Giovanni che la Maddalena. E San Giovanni sempre effeminato viene dipinto, ma perché aveva 17 anni.
    E’ questo, quindi, il ruolo di depistatore di Leonardo, che è servito poi per fabbricare tutta la letteratura su Rennes-Le-Chateau, che spinge tutti quanti a cercare il figlio di Gesù Cristo, sostanzialmente (perché poi questa è la verità, quindi il “Codice da Vinci”, eccetera: cioè, il mondo si divide tra quelli che mettono in dubbio il fatto che Gesù Cristo sia esistito e quelli che cercano il figlio; quelli che si occupano, invece, di quello che c’è stato in mezzo, a tutto questo, non esistono). Nel percorso parallelo, alchemico e artistico – di alchimisti che però erano proto-scienziati, come Michael Sendivogius, Rosacroce e alchimista, che è lo scopritore dell’ossigeno – arriviamo a Giordano Bruno. E’ lui il perno della rinascita rosicruciana; ricuperava tradizioni iniziatiche egizie, mitraiche, con una collocazione nell’ambito di una visione scientifica del mondo: il principale difensore di Galilei fu Giordano Bruno, che riorganizza la confraternita ribattezzandola Giordaniti. Fa questa riunione, in cui arrivano tutti i futuri Rosacroce – quindi: Simon Studion, Michele Mayer, Jacob Andreae (che è il nonno di quel Johan Valentin Andreae che è l’autore de “Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz”, il testo base dei Rosacroce).
    Nel momento in cui in qualche modo circola la notizia che Giordano Bruno ha deciso di portare i Giordaniti alla luce del sole, capisce che tutti i suoi sono in pericolo. E quindi, praticamente si consegna: perché quando lui è a Venezia, già in odore di scomunica, un nobile veneziano gli fa una specie di raccomandazione per andare a Roma; lui, con questa raccomandazione (che non conta nulla) va volontariamente a Roma e si fa imprigionare. E’ chiaro che è andato lì perché, facendosi imprigionare lui, salvava la vita a tutti gli altri – gli risparmiava un’ondata di persecuzioni. Nel 1600 Giordano Bruno viene giustiziano, e nel 1622 ricompaiono i manifesti rosicruciani a Parigi e viene adottato il nome Rosacroce. La rosa e la croce sono state accostate per la prima volta nel Paradiso della “Divina Commedia” di Alighieri. Da un punto di vista politico, la rosa (uno dei simboli di Lutero) simboleggiava una riunificazione del mondo cristiano. Un altro significato è che la rosa era il simbolo della sapienza orientale – attenzione: non la rosa rossa, la rosa gialla (la cosiddetta rosa Tea) – e la croce era il simbolo di quella che sarebbe stata la sapienza occidentale. Tutti questi accostamenti, possibili e immaginabili, sono tipicamente rosicruciani – l’attribuzione di un molteplice significato allo stesso simbolo, cioè la multifunzione.
    Nel momento in cui invece i Rosacroce si manifestarono, si avviarono grandi persecuzioni. L’imperatore, che aveva rappresentato la speranza dei Rosacroce, gli scatena contro una serie di guerre. A questo punto, succede che Valentin Andreae nega che esistano i Rosacroce. Dall’Inghilterra, Robert Fludd (un altro allievo di Giordano Bruno) scrive un’opera, “Silentium post clamores”, che è un messaggio preciso a tutti i confratelli: in realtà, siccome c’era stato molto chiasso, bisognava a essere invisibili, come dovevano essere i Rosacroce. Nel ‘700 avviene un’altra cosa molto importante. Le indicazioni rosicruciane, anche scientifiche, provocano tre conseguenze: la prima è la nascita dell’Illuminismo; il secondo punto è la morte della massoneria antica e la nascita della massoneria moderna. La massoneria antica aveva viaggiano in modo completamente collegato con i Rosacroce, la massoneria moderna no. L’ultimo gran maestro della massoneria antica si chiamava Christopher Wren, era un architetto inglese. Londra brucia; tra le altre cose, brucia anche il tempio della massoneria, con tutti i suoi archivi europei. Christopher Wren viene incaricato di fare il progetto per ricostruire Londra, e ricostruisce tutto meno che il tempio della massoneria (cioè: non rifà la massoneria).
    Nel 1717 si costituisce la cosiddetta massoneria moderna, quella speculativa, a Londra, con quattro logge che si riuniscono e fanno le cosiddette Costituzioni di Anderson. Ma si costituisce un qualcosa di diverso, tant’è vero che al suo interno ci sono ancora dei soggetti rosicruciani, ma sono soggetti che perderanno la loro battaglia. Il problema è che la massoneria moderna nasce come organizzazione diretta alla gestione del potere, punto. La massoneria antica non era così. E soprattutto, nasce una cultura scientifica che si mette a fare la guerra alla radice da cui è nat: i chimici fanno la guerra agli alchimisti, Newton viene buttato fuori dalla Royal Society perché accusato di alchimia, e il suo posto lo prende Robert Boyle, che è massone anche lui ma è questo nuovo massone. In Francia nasce un sentimento anti-cristiano nella massoneria, per cui non si giura più sulla Bibbia e non si parla più di Grande Architetto dell’Universo. Da questa cosa qui nasce poi la deviazione di cricche, che vorrebbero essere Rosacroce ma sono solo rosicruciane, in cricche addirittura sataniche, luciferine, prometeiche. Nascono la Societas Rosicruciana in Anglia, la Golden Dawn; nasce Crowley; nasce quella che Paolo Franceschetti chiama “La Rosa Rossa”: non so e poi si chiami veramente così, ma sicuramente all’80% Franceschetti ha ragione.
    Nel momento in cui viene emarginato completamente tutto un tipo di ricerca spirituale, esoterica e alchimistica, in nome dei “lumi della ragione”, l’unica parte che conviene al potere che sopravviva, di quella ricerca, è quella che rappresenta un buon motivo per diffamarla: al potere convengono i satanisti, convengono le logge deviate, conviene lo sputtanamento – conviene tutto questo, al potere, perché comporta la regressione della parte realmente pericolosa della ricerca spirituale (pericolosa per il potere, perché ne mette in discussione i fondamenti). E’ uno dei motivi per cui i Rosacroce a Yalta decidono di andare ad esaurimento, diciamo – infatti, da Yalta ad oggi non sono mai più emersi dei nuovi Rosacroce. Quando vedevano un artista, una persona particolare, di un certo livello, i Rosacroce tendevano ad accoglierlo, anche se non faceva parte geneticamente della Stirpe di David. Dalla riunione di Yalta, secondo i miei studi, i Rosacroce non hanno più accolto nessuno. Nel momento in cui ci fu Yalta, e poi la costituzione dell’Onu, all’interno del quale avevano degli esponenti, rivendicarono una serie di scelte, che non furono accolte: l’Onu doveva essere diverso, lo Stato di Palestina doveva essere fatto. Certo, c’erano le convenienze degli Stati nazionali, c’erano le lobby economiche che erano nate, c’era tutto un meccanismo di questo tipo: stava già nascendo quello che poi sarebbe diventato il Bilderberg, stavano già nascendo le organizzazioni. L’ultimo gran maestro è stato Salvador Dalì, e quando è morto non hanno fatto dei nuovi gran maestri. Sono andati ad estinguersi.
    (Gianfranco Carpeoro, “I RosaCroce”, intervista editata su YouTube il 23 settembre 2012. Avvocato, pubblicista e scrittore, massone e già “sovrano gran maestro” della Loggia di Piazza del Gesù, di rito scozzese, Carpeoro è uno studioso di Giordano Bruno nonché uno dei massimi esperti di simbologia).

    Innanzitutto, loro cominciano a chiamarsi Rosacroce da un certo punto in poi, ma esistevano anche prima. In quegli anni era normale che una confraternita di questo tipo fosse segreta; è oggi che questa segretezza lascia il tempo che trova – e anzi, tutto quello che è segreto, giustamente, desta sospetti. La confraternita dei Rosacroce – a mio avviso, secondo i miei studi – nasce da una precedente e più universale confraternita, che si chiamava Stirpe di David. Gioacchino da Fiore la chiama Radix Davidis. Questo nome, Radix Davidis, lo trovi un po’ dappertutto. Lo trovi, ad esempio, sul simbolo adottato dal diciassettesimo grado della massoneria, che – guarda che combinazione – è il grado precedente a quello di Rosacroce. Io mi sono chiesto a lungo questa Radix Davidis cosa fosse, finché ho scoperto che i presidenti degli Stati Uniti d’America giurano sulla Bibbia aperta in una certa pagina. Giurano lì, perché lì c’è la manifestazione di quello che avrebbe dovuto essere la Stirpe di David. Perché giurano sul Genesi, 49. Giacobbe prende i 12 figli, che poi sono i capi delle 12 tribù di Israele, e ne commenta quello che sarà il ruolo, gli attribuisce una funzione, o un giudizio.

  • Il potere usa la magia, e a noi fa credere che non esista

    Scritto il 08/7/15 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    La massoneria è una filiazione diretta delle società rosacrociane e templari. Possiamo quindi dire, semplificando le cose, che la massoneria è un’immensa organizzazione magico-esoterica. A questo punto allora non c’è bisogno di “prove” per sapere e convincerci che i personaggi più potenti della terra praticano e conoscono la magia. Se è vero che i reali inglesi sono il vertice ufficiale della massoneria di rito anglosassone mondiale, se è vero che Monti, Berlusconi, Bush, Clinton, e tutti i presidenti degli Usa, erano e sono massoni, ma lo erano anche Lenin, Marx, Gheddafi, e in generale i personaggi più importanti della storia dell’umanità, se è vero che la massoneria conta decine di migliaia di affiliati, tratti dalle classi più colte e agiate della società, delle due l’una: o tutta questa gente ha tempo da perdere con organizzazioni, rituali, e confraternite inutili, oppure c’è un motivo più profondo per cui queste persone sono tutte iniziate agli alti gradi della massoneria, cioè di un’organizzazione che è possibile definire come “organizzazione magico-esoterica”.
    Il motivo per cui tutta questa gente appartiene o è appartenuta alla massoneria è – in realtà – molto semplice. La massoneria detiene le chiavi del potere nel mondo. E detiene queste chiavi grazie agli strumenti magico-esoterici di cui si serve. Scriveva Aleister Crowley al riguardo: «I nostri fratres posseggono le chiavi di tutte le religioni e possono interpretare a loro vantaggio tutti i riti, creare nuove fedi e nuove festività, governando il mondo secondo giustizia e virtù». Scrive al riguardo Eliphas Levi nel suo “Storia della magia”, nel capitolo intitolato, non a caso, “Origini magiche della massoneria”: I massoni hanno «ricevuto i Templari come modello, i Rosacroce come padri e i Giovanniti come antenati». Per capire cosa è la magia cerchiamo di procedere per vari step. Vedremo che la magia ha un ruolo molto più importante di quel che si crede, nei destini dell’umanità e nelle scelte politiche che si fanno ogni giorno, quotidianamente, sulla pelle dei cittadini e delle masse ignoranti.
    La magia è l’arte di modificare la realtà. Israel Regardie scrive che «la magia è l’arte di applicare cause naturali per produrre effetti sorprendenti». Crowley diceva che «lo scopo generale della magia è influenzare il mondo dietro le apparenze, per poter trasformare le apparenze stesse». Robert Canters, nella sua prefazione a “Storia della magia”, scrive che «per mezzo della magia le cose cessano di essere ciò che sono per divenire ciò che noi desideriamo che siano». Il mago non è un tizio vestito in modo strambo che fa uscire un coniglio dal cilindro. Il mago è colui che riesce a modificare la realtà attorno a sé, facendo prendere agli avvenimenti la piega che vuole lui. È magia ad esempio cercare di attirare a sé la persona amata, cercare di attirare ricchezze, ma anche guarire un ammalato (in genere in questi casi si parla di magia bianca) o far ammalare una persona sana (e in genere qui si parla di magia nera). Primo punto fermo è quindi il seguente: la magia è l’arte di modificare la realtà esterna attorno a noi. Come si ottiene la modificazione della realtà? Con l’evocazione di angeli, la recitazione di formule, con la forza di volontà, con procedimenti e riti particolari.
    In realtà il mago non fa né più né meno che quello che fanno quasi tutte le persone, ad eccezione degli atei e dei materialisti convinti: il cattolico si recherà a Lourdes o invocherà Padre Pio, l’induista praticherà forme di meditazione (sono strabilianti i “miracoli” compiuti dagli Yogi orientali), il buddhista reciterà dei mantra, altri ritengono di avere un contatto coi propri defunti, ecc. La differenza è che il mago chiama la sua arte “magia”, appunto, mentre il buddhista parlerà di “legge mistica”, l’induista parlerà di poteri yogici, il cattolico dirà che ha ricevuto la grazia dalla Madonna, San Gennaro, Padre Pio, e spesso discorre di miracolo ritenendo ottusamente che i miracoli li possa fare solo la Madonna, e non sapendo che la produzione di eventi eccezionali è assolutamente normale presso la maggior parte delle comunità etniche nel mondo. Ulteriore differenza è che il mago, oltre alle invocazioni di entità superiori, userà qualsiasi altro strumento, connesso alla forza di volontà e all’arte magica in generale. In definitiva possiamo dire che la differenza di fondo tra magia e religione è che il mago studia questi fenomeni in modo scientifico, mentre il cattolico o il buddhista in linea di massima sono inconsapevoli di quello che fanno, e se gli dici che l’invocazione della Madonna o la recitazione del Daimoku o dell’Om Mani Padme Hum, dell’Om Namah Shivaya, sono atti magici, si offendono pure e pensano che tu stia bestemmiando.
    Il presupposto fondamentale perché la magia funzioni è che il mago modifichi se stesso e cambi internamente. Secondo punto fermo è quindi che la magia, per essere efficace, ha bisogno di un cambiamento interiore del mago. Non per niente, con mia sorpresa, ho potuto constatare che su tutti i testi di magia, da quelli più antichi ai più moderni, si insiste molto sulla meditazione e sulle varie tecniche di miglioramento di se stessi. Scrive Regardie che la via mistica si può raggiungere in due modi: con la meditazione e lo yoga, o con la magia, ma combinando insieme le due tecniche i risultati saranno eccezionali. Addirittura ho trovato in molti testi di magia la recitazione di mantra tipici dell’induismo o del buddhismo (dal classico Om, all’Om Mani Padme Hum del buddhismo tibetano) e tecniche di meditazione yoga prese pari pari dall’Oriente, e praticate da sempre da Templari e Rosacroce, che le avevano apprese in Oriente. Anche nel libro “Magick” di Aleister Crowley si insiste molto sulla meditazione e lo yoga.
    In alcuni libri di magia si fa espresso riferimento agli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola (il fondatore dell’Ordine dei Gesuiti) che sono da molti considerati i più efficaci in ambito magico. Nel suo libro “Esercizi spirituali”, Ignazio di Loyola dà consigli di meditazione e immaginazione che, secondo Franz Hartmann, servono per sviluppare i poteri della mente e dell’anima. Peraltro, con mia somma sorpresa, ho potuto constatare che nei testi di magia di Papus, di Dion Fortune, di Eliphas Levi e in altri, si insiste non solo sulla necessità che il mago pratichi la meditazione, ma che segua un regime alimentare vegetariano, senza alcool, e sano. In altre parole, ad approfondire l’esoterismo e la magia si scopre che quelle che vengono fatte passare per “teorie new age” o per scoperte moderne, erano già ampiamente praticate e consigliate da maghi e alchimisti del 1500, del 1700 e del 1800.
    Infine, un concetto importante da capire è che la magia, per funzionare, deve procedere in accordo con la natura; il mago riesce a provocare un cambiamento nella realtà materiale, solo se questa volontà è in profondo accordo con la natura stessa delle cose da cambiare.
    Il mago, cioè, per operare, deve anche essere un profondo conoscitore della natura, dei suoi ritmi e dei suoi segreti. Ma la natura è il prodotto di Dio, e quindi, per essere in armonia con la natura, occorre essere in armonia con Dio e con il divino. Gesù poteva produrre tutti quei miracoli perché era in assoluta armonia con Dio e la natura. Ma miracoli analoghi a quelli di Gesù erano e sono prodotti anche da Yogi indiani, che da secoli sono maestri nell’arte di entrare in comunione con il divino e con la natura (il termine Yoga infatti significa unione, e in particolare unione col divino, quindi lo scopo dello Yoga è proprio quello di elevare lo spirito per entrare in contatto con Dio).
    Secondo Israel Regardie, lo scopo del teurgo è «l’acquisizione dell’autoconoscenza e l’unione con il divino» (“L’Albero della Vita”, pagina 99). Eliphas Levi diceva che la magia è «la scienza tradizionale dei segreti della natura». Mentre per Eugène Canseliet è «l’arte divina che consiste nel prendere contatto con l’anima universale». La magia, diceva Crowley, non è un modo di vivere, ma IL modo di vivere. Considerando che l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, e che il principio fondamentale della magia è il famoso principio “come in alto così in basso” di Ermete Trismegisto (che è l’equivalente del “come in cielo così in terra” del Padre Nostro cristiano), l’uomo deve conoscere se stesso per poter essere in armonia con Dio, e conoscere Dio per essere in armonia con se stesso. Aleister Crowley diceva di se stesso che era uno strumento di esseri superiori che controllano il destino umano. «Siamo tutti parti di Dio, non semplicemente timbri che riproducono il suo nome, noi siamo poemi ispirati da Dio, i figli generati dalla sua follia amorosa». E altrove, sempre Crowley, disse: «La Grande Opera significa entrare in unione con l’infinito e liberare la divina scintilla di luce imprigionata nel corpo».
    “Amore è l’unica legge, Amore sotto il dominio della Volontà”, era un altro dei motti di Crowley. La stessa cosa che dicono i cristiani, i buddhisti, gli induisti, gli sciamani. La magia – secondo la definizione di Regardie – è quindi una scienza dello spirito, un sistema tecnico di formazione per finalità divine (“L’Albero della Vita”, pagina 133). Il mago quindi è anche un credente, nel senso che crede senz’altro in Dio. Non a caso per entrare in massoneria sono richieste tassativamente tre regole: essere uomo, aver compiuto i 21 anni e credere in un Dio unico. La magia, consistendo nel modificare la realtà, è anche la scienza della volontà. Secondo Dion Fortune, i nostri pensieri non solo ci influenzano, ma formano canali di ingresso e attrazione delle corrispondenti forze nel cosmo. Secondo Regardie, ciò che conta in magia sono il pensiero e la volontà. Gli attrezzi del mago sono solo un rafforzamento di tale volontà. «Tutti i riti, gli interminabili dettagli cerimoniali, le circumambulazioni, gli incantesimi e le suffumicazioni vengono attuate deliberatamente per esaltare l’immaginazione e rafforzare la forza di volontà». Eliphas Levi scrive al proposito: «Se vuoi regnare su te stesso e sugli altri, impara a volere».
    Il pensiero corre immediatamente ai numerosi libri e manuali sul potere della volontà, dai libri di Louise Hay a quelli di Wayne Dyer, ma anche ai numerosi manuali sulle tecniche di vendita che si insegnano in ambito aziendale, nonché ai principi base della maggior parte delle correnti psicologiche, da quelle comportamentali estreme del professor Giorgio Nardone, a quelle della psicologia cognitiva (secondo cui cambiando i nostri pensieri possiamo cambiare le nostre emozioni e dunque essere più felici). Una delle cose che si scoprono approfondendo le varie correnti esoteriche è che esse sono tutte molto simili, quasi come strade che, pur diverse, conducono alla stessa meta. I punti fermi di tutte le dottrine esoteriche, da quelle pitagoriche a quelle egizie, a quelle catare, templari e rosacrociane, nonché degli esoterismi orientali, sono i seguenti: l’anima; la dottrina della reincarnazione; la possibilità di operare trasformazioni della realtà mediante la forza di volontà. Cristo, secondo i Rosacroce e la massoneria, è venuto sulla terra per diffondere le dottrine esoteriche alle masse; in sostanza l’esoterismo di Cristo era un esoterismo semplice, alla portata di tutti, e non più riservato ai soli iniziati delle scuole misteriche.
    Cristo insomma portava in Occidente quell’esoterismo che in Oriente era molto più diffuso, per spiritualizzare la società occidentale. La lotta tra rosacrocianesimo prima, massoneria poi, e Chiesa cattolica, è dunque uno scontro titanico tra due cristianesimi: quello cattolico di Pietro e Paolo e quello di Giovanni. Il cristianesimo stava dunque portando una ventata di rinnovamento nella società occidentale, e tale ventata è stata impedita da due fattori. Il primo è stato la nascita della Chiesa cattolica; a partire dalla morte di Cristo, Roma, fiutando il pericolo insito nella dottrina cristiana, l’ha fatta diventare religione ufficiale dell’Impero al fine di controllarla, ha stravolto l’interpretazione dei Vangeli e ha costruito una religione da cui ha bandito quasi ogni riferimento esoterico (non a caso Roma contiene già nel suo nome la negazione del messaggio di Cristo; se il messaggio del Cristo è infatti l’amore, amor in latino, Roma è proprio il termine amor letto al contrario). Nei secoli la Chiesa ha poi distrutto tutti gli esoterismi che man mano si trovava nel cammino: l’esoterismo gnostico, quello templare con la distruzione dell’Ordine nel 1314, quello cataro con la crociata contro gli Albigesi, quello boemo, e in generale facendo una guerra aperta a qualsiasi esoterismo (basti pensare alla guerra odierna che viene fatta a discipline come lo Yoga, che alcuni sacerdoti considerano una disciplina satanica).
    Atri fattori di distruzione sono stati il materialismo e lo scientismo. I vari rami delle dottrine esoteriche si sono specializzati oltre misura e frammentati in modo da non permettere più la comprensione del tutto. Dall’alchimia è nata la chimica. Dall’astrologia è nata l’astronomia.
    Dalla numerologia è nata la matematica (a coloro – magari docenti di matematica razionali e amanti del pensiero scientifico – che leggeranno con scetticismo questa affermazione, mi basterà ricordare che Pitagora, il cui teorema tutti abbiamo studiato a scuola, era il fondatore di una delle scuole di pensiero esoterico più note, tanto che ancora oggi i membri di molte società segrete, massoni compresi, vengono definiti anche “pitagorici”; mentre Leonardo da Vinci, considerato uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi, era un Rosacroce). Dalle tecniche per modificare la realtà è nata la fisica. La stessa religione nasce dalla scienza esoterica. Qualunque religione organizzata nasce sempre come una branca deviata di una corrente esoterica. L’esoterismo studia tutto ciò che ha a che fare con l’anima e con Dio, religioni comprese; e fa partire dal basso (dalla ricerca di sé) la ricerca dell’unione col divino; la religione invece fa partire dall’alto, imponendo con la forza questa unione, facendo smarrire all’uomo la comprensione di se stesso.
    Scrive Kanters che «la magia è autoritaria; la religione, sua sorella, è umile; la religione prega e spera, la magia costringe e riesce». Scrive Edouard Schuré che «la dottrina esoterica non è solo una scienza, una filosofia, una morale, una religione; essa È la scienza, la filosofia, la morale e la religione, di cui tutte le altre non sono che preparazioni e degenerazioni» (“I grandi iniziati”, pagina 17). Dalle tecniche magiche per migliorare se stessi, si sono dipartite le varie scienze psicologiche e sociologiche; basta leggere i libri di Dion Fortune (esoterista inglese che fu membro della Golden Dawn e che da giovane fu psicologa) per vedere che la sociologia e la psicologia non hanno inventato nulla, ma hanno semplicemente studiato e approfondito una parte della scienza esoterica. Tutti i libri di miglioramento personale – dalla legge dell’attrazione, ai libri di Dale Carnegie (che tra l’altro era un massone di alto grado), ai libri di Wayne Dyer – dicono cose che era possibile trovare in scritti magico-esoterici del 1800, del 1500, ma addirittura nei Vangeli, se interpretati correttamente e non alla lettera come pretenderebbero di fare alcuni cattolici.
    Ciò che oggi dicono le moderne tecniche psicologiche, lo dicevano già gli scritti magici ed esoterici di Cornelio Agrippa nel 1500, di Papus nell’800 e di Dion Fortune ai primi del 1900. In una biografia di Crowley mi sono imbattuto in una tecnica psicologica abbastanza paradossale utilizzata dal grande mago nero inglese per guarire una persona, che mi ha ricordato le moderne tecniche di Nardone e Watzlawick. E tecniche molto particolari di psicoterapia sono contenute nel libro della maga e psicologa Dion Fortune dal titolo “I segreti del dottor Taverner, dottore dell’occulto”, e nel libro “Psicomagia” di Alejandro Jodorowsky, che mi hanno ricordato in alcuni punti ancora una volta le moderne terapie di Nardone. La differenza è che se dici che hai guarito una persona con la terapia di Nardone sei un genio avanti coi tempi; se dici che hai usato la tecnica di Jodorowsky o Fortune sei pazzo, e se poi ti azzardi a dire che hai preso lo spunto da Crowley dicono che sei satanista.
    Gli psicodrammi familiari che vengono utilizzati in alcune moderne tecniche di psicoterapia, poi, sono identici agli psicodrammi che Osho faceva attuare nella sua comune (e che presumo si attuino ancora oggi). Se però lo psicodramma lo hai fatto nell’ashram di Osho sei un arancione fuori di testa; se lo hai fatto in un moderno centro di terapia scucendo centinaia o migliaia di euro sei uno “avanti”.
    In entrambi i casi, poi, se fai notare a chi effettua queste pratiche che hanno semplicemente messo in atto un rito, con degli effetti magici, l’interlocutore non capisce proprio cosa tu stia dicendo, non avendo la gente il minimo concetto del significato dei riti e dei ruoli che il rito riveste per la psiche e per il comportamento umano. Nel campo della psicologia fu Carl Gustav Jung (il cui padre era sicuramente massone, mentre lui era un Rosacroce) che cercò di riportare la psicologia alle sue origini, studiando i rapporti tra psicologia, alchimia ed esoterismo; fu questo il motivo per cui ruppe con Freud, che lui considerava un mistificatore e un ingannatore. Sigmund Freud infatti era un massone appartenente alla potente organizzazione massonica del “B’nai B’rith”, la massoneria ebraica, ed era consapevole del danno che faceva alla parte spirituale dell’uomo con la diffusione della sue teorie e il suo pansessualismo di stampo dionisiaco. Jung (che tra l’altro non solo praticava la magia, ma faceva viaggi astrali e comunicava con entità disincarnate) riteneva, giustamente, che le teorie di Freud avrebbero potuto danneggiare la società e combatté, per quello che poté, questa possibilità.
    Le differenze tra Jung e Freud non erano, come si crede comunemente, differenze di metodo e di teorie; erano differenze di scuole massoniche e indirizzi esoterici: il “B’nai B’rith”, la massoneria che vuole condurre al Nwo assoggettando i popoli per portarli all’oscurità, e i Rosacroce bianchi, che di quei popoli volevano l’illuminazione. Ma gli junghiani successivi, da James Hillman in poi, hanno provveduto a distruggere il lavoro di Jung, troppo pericoloso per la società di allora e di oggi, sì che oggi molti psicanalisti che si definiscono junghiani non sanno nulla di alchimia, magia ed esoterismo, pur essendo la scienza alchemica alla base di molti scritti di Jung. Mentre gli junghiani attuali si guardano bene dall’approfondire il rapporto tra psicologia, alchimia e magia. In particolare, la psicologia tende alla normalizzazione dell’individuo (considerato normale quando rientra nella società e trova un lavoro e una famiglia; cioè considerato normale quando si adegua a una società malata, il che è una contraddizione in termini) senza però offrire risposte spirituali, cioè senza offrire le risposte più importanti ai malesseri esistenziali dell’individuo.
    Scrive la psicanalista Dion Fortune nel suo libro “Magia applicata” che «aiutare un paziente ad adattarsi meglio alla società non significa necessariamente curarlo ma trasmettergli le nevrosi della società stessa». Quanto alla sociologia, scienza che si presupporrebbe “moderna”, in realtà non fa altro che riprendere alcuni studi che erano propri già delle scienze esoteriche, sul potere di influenzare le masse. Il mago quindi, perlomeno se illuminato, dovrebbe essere sia psicologo che sociologo, perché sa penetrare profondamente nell’anima umana e guarisce (se stesso o gli altri) con degli interventi all’anima. Purtroppo, la specializzazione della psicologia e della sociologia, che hanno separato la parte spirituale da quella materiale, ha reso il lavoro dello psicologo molto poco efficace giungendo addirittura ad affermare che il “pensiero magico” è un sintomo di delirio e schizofrenia. E se un paziente dice che fa viaggi astrali, e parla con entità disincarnate (come faceva Jung), lo psichiatra gli fa un Tso.
    (Paolo Franceschetti, estratto da “La magia. Cos’è, perché funziona, e per quale motivo i politici la usano in segreto”, dal blog di Franceschetti del 18 novembre 2012).

    La massoneria è una filiazione diretta delle società rosacrociane e templari. Possiamo quindi dire, semplificando le cose, che la massoneria è un’immensa organizzazione magico-esoterica. A questo punto allora non c’è bisogno di “prove” per sapere e convincerci che i personaggi più potenti della terra praticano e conoscono la magia. Se è vero che i reali inglesi sono il vertice ufficiale della massoneria di rito anglosassone mondiale, se è vero che Monti, Berlusconi, Bush, Clinton, e tutti i presidenti degli Usa, erano e sono massoni, ma lo erano anche Lenin, Marx, Gheddafi, e in generale i personaggi più importanti della storia dell’umanità, se è vero che la massoneria conta decine di migliaia di affiliati, tratti dalle classi più colte e agiate della società, delle due l’una: o tutta questa gente ha tempo da perdere con organizzazioni, rituali, e confraternite inutili, oppure c’è un motivo più profondo per cui queste persone sono tutte iniziate agli alti gradi della massoneria, cioè di un’organizzazione che è possibile definire come “organizzazione magico-esoterica”.

  • Carpeoro: pensiero magico, così il potere ci tiene prigionieri

    Scritto il 26/4/15 • nella Categoria: idee • (20)

    La manipolazione è una diretta conseguenza del potere: non c’è potere senza manipolazione. Ognuno fa quello che vogliono altri, perché è manipolato. L’errore che molti di noi commettono è quello di soffermarsi sulla manipolazione di cui ci accorgiamo, senza capire come nasce il potere. Se non si capisce come funziona il potere, non si può decodificare la manipolazione, che del potere è figlia. Nel libro “Dominio”, Francesco Saba Sardi spiega che il potere nasce quando l’uomo abbandona il nomadismo. L’uomo che non ha bisogno di conquistare, gestire, governare, coltivare e sfruttare la terra non ha neanche bisogno del potere. Quel bisogno nasce quando qualcuno diventa propritario di un territorio. E quel territorio lo governa, lo gestisce, lo difende, lo sfrutta economicamente. E come nasce, il potere? Per un passaggio obbligato: la guerra. Devo fare una guerra per conquistare un territorio, per difenderlo, per conservarlo. Prendermi la terra significa che devo fare la guerra. Per poi coltivarla e sfruttarla, questa terra, che diventa sempre più grande (non posso coltivarmela la solo), devo avere dei servi. E per avere dei servi devo aveve una religione. Alla fine, tutto questo, secondo Saba Sardi, si chiama “dominio”.
    Il dominio è il rapporto tra la terra, la guerra e la religione: alla fine, configurano il potere. E’ chiaro che, per sfruttare gli altri, li devo manipolare: perché mai una persona non manipolata dovrebbe farsi sfruttare da me? Questo meccanismo si chiama pensiero magico. Nel momento in cui io sono uno che conosce, io sono un “magister”. La radice “Mg”, in sanscrito, significa “conoscere”. Nel momento io cui io conosco, per espandere il mio essere e accrescere la mia consapevolezza, io sono un “magister”; nel momento in cui utilizzo questa mia conoscenza non per l’essere ma per il potere, e quindi per cambiare il comportamento degli altri, allora io sono “magus”. Si passa dal “magister” al “magus”: il “magus” è l’elemento che caratterizza il potere, e quindi è l’elemento che manipola. E’ il “magus”, il pensiero magico, la fonte della manipolazione. Il pensiero magico stabilisce un’area all’interno della quale non valgono le regole vere, quelle dell’universo; valgono le regole del “magus”, e quel territorio si chiama “cerchio magico”. Il mago faceva un gesto, tracciava un cerchio, e all’interno di quel cerchio non valevano più le regole del mondo, valevano le regole per cui aveva ragione lui, essendo lui lo strumento del potere – che poteva essere sacerdotale, regale o di qualunque altra natura.
    Noi siamo talmente contaminati e impressi di pensiero magico che ne viviamo fin dalla prima infanzia. Non diciamo a nostro figlio “non fare questa cosa perché è sbagliata”, gli diciamo “non farla perché viene l’Uomo Nero”. Quello è pensiero magico, perché stabiliamo una regola diversa da quella della natura: nella natura non esiste, l’Uomo Nero. Sembra una cosa piccola, ma poi ci segna. Tutti quanti scegliamo le vie magiche: il Superenalotto che ci cambia la vita, la grande vincita, la fortuna, la sfortuna. Tutti quanti preferiamo disegnare itinerari che ci mettono in condizione di essere all’interno di cerchi magici, dove poi siamo manipolati: chi pone le regole di quel cerchio ci fa fare quello che vuole lui, senza che neanche ce ne accorgiamo. Il tonno Rio Mare, “così tenero che si taglia con un grissino”, ha dietro un’operazione magica: trasformare un difetto in una qualità. E’ magia. Un tonno non può essere tenero; se è tenero, è perché lo fanno con le frattaglie pressate. Ma è “così tenero che si taglia con un grissino”, e voi infatti lo comprate. Sono le manipolazioni della pubblicità, e sono operazioni magiche: io vi costringo ad accettare non le regole della natura, che imporrebbero di capire cos’è un tonno, ma le mie regole.
    Quando una certa ditta ha voluto vendere un famoso biscotto, ha detto: sono biscotti che potete comprare perché non c’è l’acido tartarico. Nessuno vi spiega che in nessun biscotto c’è l’acido tartarico. Perché dovrebbe essere una qualità? Avete mai visto vostra nonna che fa i biscotti con l’acido tartarico? Eppure, passa per una qualità. L’operazione magica non è fondata su una realtà; è fondata sulla manipolazione del soggetto passivo, che vede come realtà una cosa che realtà non è. Tecnicamente si chiama: stabilire un dogma. Significa farvi vedere le cose in modo diverso, anche rispetto alla loro effettiva connotazione. Quando la Chiesa disegna l’Immacolata Concezione – la Madonna, vergine nonostante abbia concepito – fa un’operazione magica, perché non vi porta in realtà sul vero problema. Da un punto di vista medico, sappiamo che per una donna è possibile concepire rimanendo vergine; la cosa veramente difficile è rimanere vergini dopo avere partorito. Ma non c’è l’Immacolato Parto. Neanche la Chiesa arriva a mettersi in contrapposizione con regole assolute, per cui rimane il mistero: la Madonna è rimasta vergine anche dopo aver partorito? Questo, tra i dogmi della Chiesa non c’è.
    Il dogma non è credere in qualcosa, è non poter discutere di qualcosa, e non accettare che ne discutano nemmeno gli altri. Nel momento in cui le Chiese sono diventate potere, hanno imposto un meccanismo dogmatico anche a chi non lo voleva. C’è gente che è finita sul rogo, per questo. In Europa, sono morte bruciate 600.000 streghe in trecento anni. Quando l’uomo possiede una fede, trattasi di religione; quando una fede possiede l’uomo, trattasi di setta. Una persona che ha una fede è libera, una persona che ha un dogma no, non è libera. Non è la religione a operare la manipolazione, ma la struttura. Non c’è scritto da nessuna parte che una Chiesa debba essere una struttura, che debba avere un tesoro, degli amministratori, dei beni, debba essere uno Stato, debba avere le Guardie Svizzere. Maometto aveva vietato all’Islam di diventare una Chiesa, aveva vietato di avere gli Imam. Gesù Cristo da nessuna parte ha detto che doveva nascere una Chiesa strutturata. Le strutture, se nascono, nascono per il potere, non per la fede. Alla fede non servono le strutture. Le cose buone le fanno gli fanno gli uomini, gli esseri umani, non le strutture. Le strutture – si chiamino massoneria, Chiesa, Stato – possono fare solo cose negative.
    Sono le strutture a manipolare, e voi trovate mille manipolazioni di questo tipo. Il Credo è una preghiera che nasce da un’operazione politica. Concilio di Nicea, 300 e rotti dopo Cristo, grande scontro tra eresia ariana e versione ortodossa: l’eresia ariana diceva che Gesù Cristo era un uomo, la Chiesa regolare diceva che Cristo era figlio di Dio, quindi era Dio. Siccome i due vescovi che dovevano mettere a posto questo complicato problema erano compagni di merende – si chiamavano Eusebio di Nicomedia e Eusebio di Cesarea – fanno un compromesso: voi oggi recitate una preghiera che è frutto di un compromesso. “Credo in Gesù Cristo, generato, non creato”. Gli uomini generano, Dio crea. Quindi, uomo: generato, non creato. E poi aggiungono: “Della stessa sostanza del padre”, ma non specificano il padre. Cioè fanno un’operazione in base alla quale ognuno può scegliere l’interpretazione più favorevole a sé. Nessuno ve la spiega così, quella preghiera. Ve la fanno dire automaticamente, perché il dogma è importante. Come l’Auditel, che in realtà è fondato su una convenzione.
    Ci sono 150 persone, in tutta Italia, che hanno una macchinetta che rivela i programmi che vedono. Il primo problema è statistico: uno mangia quattro polli, un altro non ne mangia nessuno, quindi ne mangiano due a testa. Così funziona la statistica. E poi: com’è gestita, questa cosa? Chi dovrebbe essere controllato in realtà controlla se stesso. Perché, chi sono i soci dell’Auditel? Le concessionarie. E’ come per le banche. Chi le controlla? I banchieri. In Italia chi controlla i magistrati? Altri magistrati. Da noi funziona tutto così. Il controllore dovrebbe essere avulso da ciò che deve controllare: in Italia, invece, il contollore controlla se stesso – per regola. Mentana, che sa benissimo cos’è l’Auditel, non fa nulla per l’Auditel, perché sa che molte cose sono concordate a monte. E sa anche di avere una professionalità, una simpatia, un appeal che gli consentono di evitare che gli vengano attribuite brutte figure. Il problema è: stabilire a quale cerchio magico risponde qualunque tipo di operazione. Perché nella nostra società non esiste nessuna operazione – di informazione, di finanza, di politica – che non risponda a un pensiero magico.
    Al pensiero magico si contrappone il pensiero simbolico, quello che ti spinge a chiederti “perché”. Il pensiero magico, che è funzionale a una società consumistica, ti spinge a chiederti solo “come”, non perché. Il perché è superato, non te lo devi chiedere. Tutti devono solo chiedersi come. Nessuno si deve chiedere perché comprare qualcosa, ma solo come comprarlo, come sbattersi per mettere insieme i soldi per comprare il modello nuovo sei mesi dopo, e così via. Nei meccanismi di manipolazione, il primo obiettivo è impedire alla gente di chiedersi perché. La manipolazione avviene perché quel gradino ve lo fanno saltare. Voi vi chiedete solo come, non perché. Ed è fondamentale, nel pensiero magico: non ti devi chiedere perché diventare ricco, ma come diventarlo. Non ti devi chiedere perché una donna si dovrebbe innamorare di te: al mago, tu chiedi come una donna si possa innamorare di te. Quel perché lo dovresti chiedere a te stesso, non al mago.
    L’uomo diventerebbe libero, se non ci fosse il pensiero magico, perché farebbe le domande a se stesso. Col pensiero magico non è libero, perché è costretto a fare le domande al mago. Immaginando la magia, siamo ancora legati al tipo col cappello a cono e le stelline, ma la magia è sofisticata. Bin Laden è l’Uomo Nero. Noi disegnamo scenari in base ai quali, per interi decenni, pensiamo che tutto il problema sia legato a una persona. Ci hanno spiegato che il problema dell’Italia era Sindona, poi Sindona è sparito ma i problemi sono rimasti. Poi ci hanno detto che era Gelli, ma – via Gelli – i problemi son rimasti. Poi Craxi, idem. Ma perché? Perché noi siamo costretti a immaginare la logica dell’Uomo Nero, che applichiamo dall’inizio. E’ connaturata in noi, col modo in cui abbiamo costruito questa società, che è costruita sul pensiero magico.
    La nostra società è costruita sul mito secondo cui qualsiasi cittadino americano possa diventare presidente degli Stati Uniti. Ma anche fosse, perché un americano dovrebbe voler fare il presidente? Sarebbe felice? Sulla libertà, abbiamo costruito un dogma del piffero. La libertà non è poter fare tutto quello che vuoi. La libertà è sapere quello che veramente vuoi. Potete pensare una donna meno libera di una che voglia diventare madre? Sicuramente, dopo che fa dei figli, una donna può sembrare meno libera. Ma non è vero che sia meno libera, se l’ha scelto lei. In una democrazia si può essere meno liberi che in una monarchia. Il problema è a monte, ma non si risolve col dogma. Va risolto a livello individuale: sta nel chiedere il perché a stessi, e non il come al mago. Noi concepiamo una società dove calpestare i nostri diritti è normale, è fisiologico, perché siamo permeati di pensiero magico.
    Prima di combattere gli effetti, esaminiamo le cause. La manipolazione non nasce come un fungo in un prato, è il frutto di una costruzione di società: qualcuno decide che può stare meglio se gli altri stanno peggio. Ma nemmeno nel potere c’è libertà. La libertà è nell’essere, nella realizzazione di se stessi, nei modi e coi tempi di ciascuno.
    Abbiamo costruito una società del pensiero magico, basata sulla velocità: se una cosa la capisci dopo, sei ritardato. Ma siamo sicuri che capire subito sia un valore? Siamo certi che chi capisce dopo non capisca meglio? Il nostro concetto di tempo non è legato a cose che abbiamo deciso noi, sono altri che hanno deciso che dobbiamo fare in fretta. E questo, perché noi non dobbiamo avere tempo per pensare, per scegliere. Sono meccanismi assolutamente magici. La prima cosa che ci dev’essere sottratta è il tempo. La seconda è la linearità del desiderio. Nei supermercati, a mezzogiorno diffondono profumo di pane per stimolarci a comprare di più. Fa tutto parte del pensiero magico: stabilisco il cerchio, che è la mia area commerciale, decido che tu devi comprare più roba e quindi utilizzo il meccanismo di manipolazione, che è l’odore del pane. Dobbiamo conoscere, non esistono scorciatoie: può cose uno conosce, più è in grado di capire all’interno di quali cerchi magici si trova, come ne può uscire e come può evitare di entrarne in altri. Ma la conoscenza ha bisogno di tempo. E noi quanto tempo dedichiamo a conoscere?
    Internet può essere una fonte di conoscenza, ma richiede tempo (e ce ne sottrae) perché ormai è diventato talmente vasto da essere dispersivo. In più, Internet elimina la conoscenza casuale. Se da Napoli vai a Milano in auto, Bologna la vedi. Se ci vai in aereo, te la perdi. Voglio il passo del Paradiso dove si parla dell’aquila? Digito, e mi compare direttamente quel passo. Senza Internet, no: te la devi leggere, la Divina Commedia. E intanto che leggi, conosci. Non bisogna fare di niente un valore assoluto. Via i paraocchi: tutto, interpretato in chiave assoluta, ci preclude delle possibilità. Se Internet ci preclude la possibilità di leggere la Divina Commedia, allora non va bene. Ognuno di noi, tanti anni fa, teneva un diario, che conservava per anni. Avete mai provato a scoprire su Facebook cos’avete scritto un anno fa? In pratica, il sistema vi si blocca: pensate a cosa vi toglie, tutto questo. Poi, per conoscere, la seconda cosa che conta, oltre al tempo, qual è? La memoria. Senza memoria non si conosce nulla. Per conoscere, archiviamo dati che poi colleghiamo. Se non archiviamo, non possiamo collegare. Cosa ci ha tolto Facebook? La memoria. Senza accesso al passato, non posso rileggere i fatti oggi ed evitare di commettere gli stessi errori di ieri.
    Facebook è una delle conseguenze dell’11 Settembre. Doveva essere una mega-progetto della Cia per schedare tutti gli americani. Ma costava un sacco di soldi, perché bisognava raccogliere i dati. Al che, un cervello della Cia si è alzato e ha detto: “Ma perché i dati li dobbiamo raccogliere noi? Facciamoceli dare”. E hanno risparmiato non so quanti miliardi di dollari. Hanno trovato un nazistello, Zuckerberg, a cui hanno intestato la cosa e gli hanno detto “fai i quattrini”, e hanno schedato tutto il mondo. Perché spendere miliardi per quei dati? Meglio se faccio in modo che i dati vengano a me. E’ un pensiero magico, no? Il ricercatore è il “magister”, quello a cui piovono le cose nel piatto è il “magus”. Questa società deve vendere: è basata su una produzione posticcia, esigenze posticce, un mercato posticcio. Una società normale, agricola, rurale, non mangiava carne ogni giorno: McDonald’s sarebbe fallito. Ma anche i vegani sono schiavi del pensiero magico: disegnano quello che non si può fare (tutto il mondo che diventa vegano) anziché quello che si può fare (consumi gradualmente più responsabili).
    Chi pensa a soluzioni radicali esprime il pensiero magico: nessuna soluzione può essere radicale, in un cerchio diverso dal cerchio magico. Il radicalismo porta a rimanere dove si è. Se invece usciamo dal recinto, di giorno in giorno possiamo porci degli obbiettivi raggiungibili. Se di ogni cosa che facciamo ci chiediamo il perché, possiamo evitare di essere vittima di un cerchio magico. E’ successo anche alla massoneria, quando ha accettato di diventare un organismo unico e centralizzato. Un progetto di potere: pensiero magico. Non sono gli uomini che fanno progetti di potere. E’ il potere che fa progetti di uomini. Il potere è un meccanismo, non è identificabile con la persona. Nel momento in cui la società è vocata al potere, al pensiero magico, questa società – indipendentemente da Sindona, Gelli o Totò Riina – va avanti così. E’ lo schema, che si riproduce, non le persone. Puoi arrestare Provenzano, ma poi ti ritrovi Messina Denaro: la regola vale per la mafia, per la politica, per la religione, per tutte le aggregazioni umane. Ed è una società che può peggiorare. Ve l’immaginate, cent’anni fa, un camorrista che seppellisce scorie tossiche dove gioca il figlio?
    Nonostante la scelta di essere delinquente, un mafioso non avrebbe mai potuto seppellire scorie nucleari dove giocano i figli. Adesso invece è immaginabile. Perché le scelte di potere sono solo peggiorative, non sono mai un’evoluzione positiva. Il massone del ‘700 è comunque meglio del massone di adesso. Perché il potere peggiora, corrompe. Abbatte valori, limiti, paletti, confini. Questa riflessione, oggi, è l’unico atto rivoluzionario che possiamo fare. La vera rivoluzione che possiamo fare è minare il sistema consumistico dalle sue radici, e le sue radici sono il potere. Nella misura in cui riusciamo a sottrarci al potere – al potere che ci vuol far comprare, al potere che ci toglie il tempo e non ci fa pensare – noi facciamo un’operazione realmente rivoluzionaria, dove non c’è bisogno di spargere del sangue. C’è bisogno però di faticare noi, di fare un percorso di conoscenza e di consapevolezza – faticoso, lento. Ma dobbiamo entrare nell’ottica per la quale tutto deve essere fatto per noi stessi, non per la proiezione che questa società fa di noi stessi.
    La new age oggi vende la “regola dell’attrazione”, che spinge ancora una volta a mettersi al centro del mondo, ma nessuno di noi è il centro del mondo. E’ un’operazione magica, mettersi al centro del mondo – per questo il mago disegna il cerchio: lui è il centro del cerchio. Smettiamo di disegnare cerchi, e cominciamo a pensare che esiste un unico, grande cerchio di cui noi siamo parte. E cominciamo anche a immaginare che la legge vera non è quella dell’attrazione (per cui noi attraiamo o respingiamo le cose) ma è la legge della complementarietà, per cui noi combaciamo con tutto il resto. Vi siete mai guardati allo specchio? Vi mostra come vi vedono gli altri. E se non mettete assieme come vi vedete voi e come vi vedono gli altri, non vedrete mai come siete veramente. Solo portando nell’ambito della conoscenza tutto quello che non conoscete, potere avere la vera dimensione del vostro essere. Siamo tessere di un mosaico (meraviglioso, peraltro) che, se stanno nei loro limiti, ci entrano perfettamente, in quel buchetto. Ed entrando in quel buchetto concorrono a una grande bellezza.
    (Gianfranco Carpeoro, estratti dall’intervento al convegno “La manipolazione dell’informazione e delle coscienze” tenutosi il 20 dicembre 2014 a Ercolano, con relatori come Paolo Franceschetti e Massimo Mazzucco. Giornalista e saggista, già avvocato e pubblicitario, Carpeoro è stato “sovrano gran maestro” della comunione massonica di Piazza del Gesù; studioso di esoterismo, è un grande esperto di storia antica e linguaggio simbolico).

    La manipolazione è una diretta conseguenza del potere: non c’è potere senza manipolazione. Ognuno fa quello che vogliono altri, perché è manipolato. L’errore che molti di noi commettono è quello di soffermarsi sulla manipolazione di cui ci accorgiamo, senza capire come nasce il potere. Se non si capisce come funziona il potere, non si può decodificare la manipolazione, che del potere è figlia. Nel libro “Dominio”, Francesco Saba Sardi spiega che il potere nasce quando l’uomo abbandona il nomadismo. L’uomo che non ha bisogno di conquistare, gestire, governare, coltivare e sfruttare la terra non ha neanche bisogno del potere. Quel bisogno nasce quando qualcuno diventa propritario di un territorio. E quel territorio lo governa, lo gestisce, lo difende, lo sfrutta economicamente. E come nasce, il potere? Per un passaggio obbligato: la guerra. Devo fare una guerra per conquistare un territorio, per difenderlo, per conservarlo. Prendermi la terra significa che devo fare la guerra. Per poi coltivarla e sfruttarla, questa terra, che diventa sempre più grande (non posso coltivarmela la solo), devo avere dei servi. E per avere dei servi devo aveve una religione. Alla fine, tutto questo, secondo Saba Sardi, si chiama “dominio”.

  • Carpeoro: quale riscatto, per un’umanità che ignora Cristo?

    Scritto il 04/4/15 • nella Categoria: idee • (3)

    Un miglioramento generale, grazie alle nuove conoscenze in nostro possesso? Ma no. Se non ha portato sviluppo positivo alla nostra società quello che ha detto Gesù Cristo, cosa volete che possa riuscirci? Non ha portato l’uomo a cambiare completamente il suo approccio con la realtà. E questo, indipendentemente dalle osservazioni storiche: la mia fede personale, da cristiano un po’ eretico, non è fondata su istituzioni o dogmi, non me ne frega niente. A me, che la Madonna fosse vergine o meno, che lui sia risorto o meno, che sia vissuto o meno e che si chiamasse realmente Gesù Cristo, che i Vangeli fossero solo quelli o meno, non me ne frega niente. Io ho recepito, nelle cose che ho letto, un grande messaggio universale, di grande fratellanza. Ho recepito un grande messaggio simbolico, anche di resurrezione – ma non nei termini che noi volgarmente intendiamo, per cui San Tommaso gli deve toccare le piaghe: non è quello. Quando, nel Discorso della Montagna, gli chiedono “ma noi, per ottenere questa riconciliazione, cosa dobbiamo fare?”, lui dice una cosa sola: recita il Padre Nostro.
    Se qualcuno si legge il Padre Nostro, può dire che sia una preghiera che separa, una preghiera di integralismo cristiano cattolico, una preghiera esclusiva? Il Padre Nostro lo può recitare chiunque: in Oriente, in Occidente, in Medio Oriente, nell’Islam. E’ una preghiera universale. Tant’è vero che Voltaire, che non era l’ultimo arrivato (e si diceva fosse ateo), quando fu iniziato alla massoneria si inventò una preghiera assolutamente coincidente col Padre Nostro, che si chiama “preghiera al creatore di tutti gli esseri viventi”. Diceva le stesse cose del Padre Nostro, in una forma diversa. Perché se devi andare a pensare a un modo universale per parlare con Dio, c’è solo quello. “Padre nostro, che sei nei cieli”: ditemi dov’è l’identificazione con Jahvè, con Geova, con Allah. Non c’è un’identificazione. “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”. C’è qualcosa di specificamente territoriale, etnico, integralista o strutturale, in questa preghiera?
    Quindi, il messaggio di Cristo è: solo facendo questo, voi siete (tra virgolette) cristiani – non nel senso separatistico del termine, ma nel senso universale. Ama il prossimo tuo, questo basta. Si legga il Discorso della Montagna sul Vangelo di Matteo, che tra l’altro è il Vangelo più credibile per la Chiesa cristiana. Giacomo, quello che dicono fosse il fratello di Gesù Cristo, gli dice: ma noi, dopo che siamo stati in giro per il mondo insieme a te, cosa dobbiamo fare? E lui dice: basta una sola cosa, il Padre Nostro. E’ sufficiente – ovviamente, se la fai col cuore, con coerenza. E’ un messaggio così grande. Lasciamo perdere tutti i dibattiti sul Cristo storico, se è vissuto o non è vissuto, lasciamo stare. Tu prendi quella roba lì e te la leggi: se non ti cambia la vita, cosa vuoi che te la cambi? Cos’altro ti può cambiare la vita? Nulla. Puoi dire le verità più belle del mondo, tutto quello che vuoi. Ma se non ha cambiato il corso della storia quella roba lì, vuol dire che ancora non siamo pronti per cambiarlo, il corso della storia.
    Il messaggio vero, universale, è che c’è un solo padre, di cui siamo tutti figli. E quando questo padre ha dovuto immaginare di avere un figlio suo, che forma gli ha dato? Un angelo, un arcangelo, un cherubino? No, una forma umana. Basta, quello è il messaggio. Un figlio. Nella parola figlio c’è il concetto di uomo: la parola figlio fa parte del concetto di uomo. E quindi lui l’ha fatto uomo, dovendo fare un figlio – poteva essere solo un uomo. Posso anche dare ragione agli scettici, perché io credo negli archetipi: se anche quelli dicono che il Vangelo è falso, e Gesù Cristo anche, vuol dire che l’archetipo risaliva a tempo prima e si è trasmesso lì, ma rimane la verità dell’evento. Quella rimane, intatta.
    (Gianfranco Carpeoro, riflessione sul messaggio di Cristo; estratti da una video-intervista pubblicata su YouTube il 19 ottobre 2013. Di fede anarchica e cristiana “eretica”, già avvocato e studioso di esoterismo e simbolismo, Carpeoro è stato “gran maestro” della loggia massonica di Piazza del Gesù).

    Un miglioramento generale, grazie alle nuove conoscenze in nostro possesso? Ma no. Se non ha portato sviluppo positivo alla nostra società quello che ha detto Gesù Cristo, cosa volete che possa riuscirci? Non ha portato l’uomo a cambiare completamente il suo approccio con la realtà. E questo, indipendentemente dalle osservazioni storiche: la mia fede personale, da cristiano un po’ eretico, non è fondata su istituzioni o dogmi, non me ne frega niente. A me, che la Madonna fosse vergine o meno, che lui sia risorto o meno, che sia vissuto o meno e che si chiamasse realmente Gesù Cristo, che i Vangeli fossero solo quelli o meno, non me ne frega niente. Io ho recepito, nelle cose che ho letto, un grande messaggio universale, di grande fratellanza. Ho recepito un grande messaggio simbolico, anche di resurrezione – ma non nei termini che noi volgarmente intendiamo, per cui San Tommaso gli deve toccare le piaghe: non è quello. Quando, nel Discorso della Montagna, gli chiedono “ma noi, per ottenere questa riconciliazione, cosa dobbiamo fare?”, lui dice una cosa sola: recita il Padre Nostro.

  • I cent’anni di Ingrao e l’estinzione della sinistra italiana

    Scritto il 29/3/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Cent’anni di solitudine, anche se carismatica, collezionando sconfitte incassate per mancanza di coraggio. Questo l’impietoso ritratto che, da storico, Aldo Giannuli dipinge dell’anziano Pietro Ingrao, gran veterano della sinistra comunista. Al centesimo compleanno, il 29 marzo, attorno al vecchio leone del granitico Pci di Togliatti e Berlinguer c’è il nulla cosmico: disoccupazione record e Jobs Act, fine dei diritti dei lavoratori, precariato universale, povertà e paura, Costituzione rottamata, legge elettorale di regime. La fine della democrazia moderna, archiviata dai diktat dell’élite. Rileggendo Ingrao con gli occhiali di Giannuli, si svela il mistero della fine della sinistra italiana: la sinistra che non ha “visto” la crisi e non ha più saputo “leggere” il mondo, per poi arrendersi al nuovo potere cosmopolita degli oligarchi globalizzati e, all’occorrenza, accomodarsi a tavola per votare leggi-capestro e abbattere gli ultimi diritti, in cambio di poltrone, confidando ancora e sempre nell’antica fiducia di un elettorato “di sinistra”, pronto a qualunque autolesionismo pur di avere l’illusione di opporsi al cattivo di turno, prima Craxi e poi Berlusconi.
    Pietro Ingrao, uno strano Charlie Brown che ha fatto scuola: il suo stile «attraverso Bertinotti giunge sino a noi, essendo palese l’ascendenza ingraiana anche di Landini». Ingrao, ricorda Giannuli, appartiene a quella seconda generazione di dirigenti comunisti che ebbe la sua prima formazione nell’Italia fascista e scoprì solo in un secondo momento il comunismo, attraverso il tunnel doloroso della guerra, della Resistenza, per incontrarsi con Togliatti prima ancora che con Gramsci. Si enfatizzò l’antifascismo «come negazione assoluta e incontaminata del fascismo», eppure «il fascismo seminò concetti che poi sono restati, finendo impastati con la successiva cultura politica dell’Italia repubblicana». Usi obbedir tacendo: la cultura della disciplina. Ingrao era stato influenzato dalla figura di Giuseppe Bottai, «il maggior intellettuale del regime e, insieme, il gerarca più attivo nel promuovere la formazione delle giovani generazioni». Dalle sue riviste, continua Giannuli, presero le mosse alcuni dei nomi migliori dell’intellettualità post-fascista e antifascista: Salvatore Quasimodo e Nicola Abbagnano, Enzo Paci, Mario Alicata, Vitaliano Brancati, Cesare Pavese, Vasco Pratolini. E poi Vittorio Sereni, Giuseppe Ungaretti, Enzo Biagi, Renato Guttuso, Sandro Penna, Eugenio Montale. «Diversi di loro, come Giame Pintor, li ritroveremo fra i primi a combattere con la Resistenza».
    Ad avvicinare Bottai e Ingrao, «due figure inconsuete del Novecento italiano», secondo Giannuli «non fu solo la propensione all’eresia e la profonda compenetrazione fra politica e cultura, ma anche il gusto del dubbio sistematico, la propensione all’astrattezza», nonché «una certa sofisticatezza intellettuale e l’eterna insoddisfazione per la propria ricerca». In controluce, anche «il forte narcisismo, l’irresolutezza, la mancanza di tempismo politico, lo scarso coraggio». Bottai divorziò da Mussolini solo all’ultimo, e «non senza un profondissimo tormento interiore», mentre Ingrao «ha avuto sempre fede nel Partito, contro il quale non cercò mai di aver ragione» Tant’è vero che «in nome di questa fede approvò – colpa non da poco, anche se condivisa con molti – il brutale intervento sovietico in Ungheria». Così, Ingrao «piegò il capo dopo la sconfitta all’XI congresso». In più «restò fedele al partito anche quando (contro le sue convinzioni) esso cessò di essere comunista, per distaccarsene anni dopo e da solo. Era fedeltà all’ideale o feticismo organizzativo? Lasciamo decidere a chi ci legge».
    Questo attaccamento insieme fideistico e tormentato, continua Giannuli, lo ha portato ad essere “l’uomo delle occasioni mancate”: nel 1966 tentò di dare battaglia all’XI congresso, ma senza avere il coraggio di presentare una sua mozione di minoranza e finendo sconfitto senza neppure aver combattuto davvero la sua battaglia. Tre anni dopo, assistette inerte all’espulsione del gruppo del “Manifesto” (tutti suoi storici seguaci) senza avere il coraggio di votare contro (come fecero Cesare Luporini e Lucio Lombardo Radice) e neppure di astenersi, ma «tristemente votò a favore». Nel 1973 incassò la proposta di compromesso storico di Berlinguer, accennando solo una “lettura di sinistra” che non spostava di un millimetro i termini politici della questione (fu più esplicito nella critica il vecchio Longo). Nel 1976, infine, «incassò con altrettanta mancanza di coraggio anche la politica di Unità Nazionale, accontentandosi di andar a fare il presidente della Camera». Altra ombra sul suo passato: «Non si dissociò neppure per un attimo dalla politica della fermezza sul caso Moro», evitando di adoperarsi per una trattativa che avrebbe potuto salvare il leader democristiano.
    Ingrao, prosegue Giannuli, ebbe un suo momento di fulgore dall’80 all’84, quando Berlinguer ruppe con Amendola e cercò il suo appoggio, per reggere la svolta del dopo-terremoto e della “questione morale”, ma con l’unico risultato di inasprire l’isolamento identitario e settario del Pci, che ne avviava la decadenza. «L’ultima occasione di incidere nella storia di questo paese la ebbe con la trasformazione del Pci in Pds». Dopo essersi messo alla testa del cartello di opposizione che sfiorò il 30% al congresso di scioglimento, «come sempre gli mancò il coraggio del passo successivo: guidare la scissione di Rifondazione». Ingrao infatti si tirò indietro: «Preferì restare inutilmente nel Pds per uscirne, da solo e fra le lacrime, pochi anni dopo». Spiegazione: «In queste ripetute battaglie perse senza esser date, ha inciso certamente la sua devozione al partito, assunto non come mezzo ma come fine in sé». Era spesso accusato di astrattezza, dice Giannuli, e i detrattori avevano ragione: Amendola, il leader della destra riformista del Pci, forniva a «analisi datatissime, come quella di Pietro Grifone sulla contrapposizione fra rendita e profitto in Italia», ma almeno era molto concreto nella proposta, sempre incerta fra alleanze sociali destinate a non tradursi mai in alleanze politiche.
    «In politica estera, dopo il 1970, Ingrao non ha mai proposto l’uscita dalla Nato», aggiunge Giannuli. Sul piano istituzionale invece ha puntato sulle autonomie locali, senza però prevedere la proliferazione incontrollata di poltrone. «Altra proposta caratterizzante della sua azione sul piano istituzionale – continua Giannuli – fu il tentativo di ridare centralità al Parlamento, attraverso un regime assembleare che scavalcasse la tradizionale divisione fra maggioranza ed opposizione. Il frutto fu la riforma dei regolamenti parlamentari del 1971 che proprio Ingrao, in veste di capogruppo alla Camera, trattò con il capogruppo della Dc, Andreotti. Ma il risultato finale non fu quello di un improbabile regime assembleare, quanto la premessa del consociativismo Dc-Pci». Libertà e autonomia ai parlamentari? «In presenza di un partito retto con la ferrea regola del centralismo democratico, come era il Pci, era una pretesa piuttosto irragionevole». Indeterminata anche la sua critica al “socialismo reale” dei regimi dell’est. Poi il Muro è crollato, e il vecchio Ingrao è scomparso dai radar. Proprio come la sinistra italiana, che dopo Tangentopoli ha consegnato il paese al dominio dell’élite neoliberista, quella della privatizzazione universale che impone i suoi diktat tramite l’Ue a guida tedesca e il braccio secolare dell’euro.

    Cent’anni di solitudine, anche se carismatica, collezionando sconfitte incassate per mancanza di coraggio. Questo l’impietoso ritratto che, da storico, Aldo Giannuli dipinge dell’anziano Pietro Ingrao, gran veterano della sinistra comunista. Al centesimo compleanno, il 29 marzo, attorno al vecchio leone del granitico Pci di Togliatti e Berlinguer c’è il nulla cosmico: disoccupazione record e Jobs Act, fine dei diritti dei lavoratori, precariato universale, povertà e paura, Costituzione rottamata, legge elettorale di regime. La fine della democrazia moderna, archiviata dai diktat dell’élite. Rileggendo Ingrao con gli occhiali di Giannuli, si svela il mistero della fine della sinistra italiana: la sinistra che non ha “visto” la crisi e non ha più saputo “leggere” il mondo, per poi arrendersi al nuovo potere cosmopolita degli oligarchi globalizzati e, all’occorrenza, accomodarsi a tavola per votare leggi-capestro e abbattere gli ultimi diritti, in cambio di poltrone, confidando ancora e sempre nell’antica fiducia di un elettorato “di sinistra”, pronto a qualunque autolesionismo pur di avere l’illusione di opporsi al cattivo di turno, prima Craxi e poi Berlusconi.

  • Gli orrori della globalizzazione e il silenzio degli intellettuali

    Scritto il 22/3/15 • nella Categoria: idee • (4)

    Il fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi anni ‘80, dopo una gestazione ventennale, e ormai è al quarto di secolo: un periodo sufficiente a individuare alcune delle sue principali tendenze e caratteristiche. Non c’è mass media, partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che con la globalizzazione tutto è cambiato, che siamo entrati in una fase storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento. «Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce – almeno in Occidente – che imprese, partiti, mass media e anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti». Tutto, scrive Aldo Giannuli, viene letto sulla base di analogie con il passato: la crisi? E’ una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? E’ la riproposizione del periodo che precedette la Prima Guerra Mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel ‘500, e sono gli altri che devono accettare la cultura più avanzata, ovviamente quella occidentale. «I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire le tendenze in atto», sostiene Giannuli.
    «La crisi finanziaria, imprevista e imprevedibile, è curata con costanti iniezioni di liquidità (come se fosse quella di ottanta anni fa) che però hanno effetti sui sintomi ma non sulle ragioni del male oscuro», scrive Giannuli sul suo blog. «Le rivolte arabe, anch’esse impreviste, segnalano una interdipendenza stretta fra crisi economica e dinamiche socio-culturali che sfugge alle capacità di gestione della comunità internazionale». In più, «lo sviluppo cinese ha mutato i rapporti di forza esistenti ma porta con sé problemi insospettati». Questo, continua lo storico, determina un profondo disorientamento soprattutto (ma non solo) nelle classi dirigenti, «che si trovano ad affrontare problemi a un livello di complessità incomparabilmente maggiore del passato, e questo disorientamento sta già producendo effetti molto negativi sul piano delle decisioni: è lo shock da globalizzazione, il fenomeno più rilevante della nostra epoca che si impone al centro dell’attenzione di storici, sociologi, economisti, politologi».
    Almeno per quel che riguarda l’Occidente, secondo Giannuli, lo shock sembra determinare tre fenomeni: la paralisi dei decisori, la paura dei governati e l’afasia degli intellettuali. «I decisori appaiono sempre più indecisi sul da farsi, tanto sul fianco finanziario (dove l’unica cosa che riescono a decidere è l’inondazione di liquidità, che fa guadagnare tempo ma non cura la crisi), quanto sul piano delle relazioni internazionali (e le esitazioni americane su Iran, Siria e Califfato ne sono una testimonianza, non meno che il pantano ucraino da quale nessuno sa come uscire)». Di fronte a un corso dei fatti, che Giannuli reputa «del tutto imprevisto», e non frutto di pianificazione da parte di una ristrettissima élite, come invece suggerisce Gioele Magaldi nel libro “Massoni”, che svela il ruolo occulto delle “Ur-Lodges”, le superlogge internazionali del massimo potere mondiale, i decisori (tanto politici quanto finanziari) «reagiscono schierandosi a difesa dell’esistente e senza chiedersi se le patologie socio-economiche in atto non siano un prodotto di quel sistema che rifiutano costantemente di mettere in discussione».
    Dai governanti “rassegnati” alla globalizzazione autoritaria, senza più alternative politiche, si passa ai governati, «cui era stato promesso che la globalizzazione sarebbe stato un cammino fiorito». I cittadini, scrive Giannuli, «assistono impotenti al crollo di queste aspettative, al peggioramento delle loro condizioni di vita, e avvertono sempre più la paura del futuro». Che è, al tempo stesso, «paura dei diversi che giungono dal sud del mondo e che si pensa minaccino posti di lavoro e identità culturale, paura della crisi che erode risparmi e getta nella disoccupazione, paura della concorrenza delle merci straniere che tagliano l’erba sotto i piedi alle nostre aziende, paura di un fisco sempre più vorace che programmaticamente non colpisce più i grandi capitali volati nei paradisi finanziari ma si accanisce sui ceti medi». E ancora: «Paura del terrorismo, delle epidemie, di tutto». E su questo paesaggio «impera il chiassoso silenzio degli intellettuali, che parlano di tutto senza dir nulla». Infatti, «una critica della globalizzazione e dei modi con cui si è realizzata e va avanti è tentata solo da pochissimi», i quali però vengono «spinti ai margini» e restano «privi, in gran parte, di accesso alle tribune massmediatiche». Secondo Giannuli, «c’è una sottile vendetta della storia che punisce chi aveva imposto il  “pensiero unico”: democrazia liberale (o quel che si pensava fosse tale) e liberismo economico erano l’unica forma di pensiero legittimata», a scapito di «tutte le altre correnti di pensiero, pure interne al mondo occidentale».
    Per il politologo dell’ateneo milanese, «la resa senza condizioni della socialdemocrazia ha segnato la riduzione dello spazio politico: tutto il resto ne era espulso». E così, «il rullo compressore della finanza, attraverso gli opportuni finanziamenti, la direzione dei mass media, il controllo dell’industria culturale, la colonizzazione delle facoltà, persino l’uso calibrato del Premio Nobel, tutto è stato usato per imporre questa dittatura culturale. E gli intellettuali – in grande maggioranza – si sono adattati gioiosamente a questo stato di cose, rinunciando ad ogni residuo spirito critico». Oggi, nel momento della crisi, i decisori – non meno che i governati – di fatto «non trovano le parole per capire quel che sta accadendo, e non sanno riconoscere la crisi in atto». E questo, conclude Giannuli, «accade perché dal fronte degli studiosi, dei “tecnici”, di quelli che dovrebbero illuminarli, viene solo un confuso starnazzare che non dice nulla. E’ questa la rumorosa afasia degli intellettuali», peraltro “incanalati” nel mainstream dai tempi del manifesto “La crisi della democrazia”, promosso dalla Commissione Trilaterale: propaganda conculcata negli atenei e nei media anxche attraverso la poderosa macchina dei think-tanks, come l’Aspen Institute, che recluta intellettuali di fama. Il Verbo è sempre lo stesso: il Mercato deve vincere sullo Stato. La democrazia sociale? Rottamata. Il vero potere è finito nelle mani di pochissimi, come nel feudalesimo medievale. E paga legioni di intellettuali perché non dicano la verità e non raccontino quello che sta davvero succedendo.

    Il fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi anni ‘80, dopo una gestazione ventennale, e ormai è al quarto di secolo: un periodo sufficiente a individuare alcune delle sue principali tendenze e caratteristiche. Non c’è mass media, partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che con la globalizzazione tutto è cambiato, che siamo entrati in una fase storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento. «Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce – almeno in Occidente – che imprese, partiti, mass media e anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti». Tutto, scrive Aldo Giannuli, viene letto sulla base di analogie con il passato: la crisi? E’ una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? E’ la riproposizione del periodo che precedette la Prima Guerra Mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel ‘500, e sono gli altri che devono accettare la cultura più avanzata, ovviamente quella occidentale. «I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire le tendenze in atto», sostiene Giannuli.

  • Isis, Grecia, Ucraina: chi muove i fili del grande spettacolo

    Scritto il 28/2/15 • nella Categoria: idee • (41)

    «Nel preciso momento storico che viviamo, carico di insidie e di incognite, il Grande Fratello propone essenzialmente all’attenzione della pubblica opinione trans-nazionale tre diverse emergenze: l’Isis, la crisi greca e il conflitto russo-ucraino. Tre vicende apparentemente indipendenti fra di loro, che invece si intrecciano in profondità fra i meandri del potere più invisibile e nascosto». Per Francesco Maria Toscano, stretto collaboratore di Gioele Magaldi, autore del dirompente libro “Massoni” che denuncia lo strapotere occulto delle Ur-Lodges, le superlogge internazionali dell’élite finanziaria, l’illusionismo di cui siamo vittime dipende dall’efficiente disinformazione operata dal circuito mainstream, che «veicola a getto continuo una serie impressionante di informazioni spesso in evidente contrasto fra di loro». Il sistema dominante «moltiplica all’infinito le notizie, mischiando continuamente pezzi di verità e pezzi di menzogna». Risultato: il pubblico è fuoriviato e disorientato. Paradossale: «Così come è tornata la miseria nonostante l’aumento esponenziale della capacità produttiva, allo stesso modo dilaga l’ignoranza, a dispetto dell’epidermica esplosione delle più svariate fonti divulgative».
    Isis, Grecia e Ucraina: tre scenari lontani fra loro sono in apparenza. «Interpretare la storia contemporanea senza individuare con precisione i soggetti che la determinano è impresa vana e velleitaria», premette Toscano sul blog “Il Moralista”. «L’uso di categorie astratte come l’America, la Russia, la Germania, l’Europa e il fondamentalismo islamico impedisce la comprensione degli eventi». Chi è “l’Europa”? «Una divinità mitologica tardo-antica ritornata dall’Ade per tormentare i greci a distanza di qualche millennio?». Allo stesso modo, «è infantile ritenere che i diversi gruppi di potere di stanza negli Stati Uniti, o altrove, antepongano sempre e comunque gli interessi nazionali rispetto a quelli lobbistici e di parte», anche perché «le diverse cordate che influenzano i processi globali sono cosmopolite e variegate, per cui è normale scovare complicità fra soggetti che parlano formalmente in nome e per conto di istituzioni apparentemente in contrasto fra di loro».
    Si racconta che Angela Merkel, rappresentante della Germania, tenga un atteggiamento duro nei confronti della Russia di Putin, accusata di portare scompiglio all’interno di una Ue che sembrerebbe muoversi sempre sotto le direttive dell’onnipotente zio d’America. Ma questa è solo «la lettura dominante dei fatti, che viene continuamente riproposta». Ma si tratta di una narrazione «falsa e marcia fin dalle fondamenta». Scrive Toscano: «Merkel e Putin, oltre a recitare di giorno la parte di quelli che garantiscono l’unità nazionale nei rispettivi paesi di provenienza, risultano entrambi affiliati presso una specifica e influente Ur-Lodge, la “Golden Eurasia”, officina latomistica specialissima che contiene al proprio interno componenti decisamente eterogenee». Se ne deduce quindi che «è in atto fra Putin e Merkel uno speculare gioco delle parti, funzionale al ridimensionamento nell’area di chi, come Obama, è portavoce ed espressione di ben altre superlogge». Questo però non autorizza a concludere che Russia e Germania, fingendo di sfidarsi, potrebbero allearsi sottobanco per ridimensionare l’America.
    Secondo Toscano, la “Golden Eurasia” «persegue un simile obiettivo anche e soprattutto grazie al preciso supporto di una parte di classe dirigente a stelle e strisce che spera nella prosecuzione duratura di un conflitto “a bassa intensità”». Stessi incroci invisibili nel caso dell’Isis, l’armata del terrore messa in piedi finanziando l’oscuro Abu Bakr al-Baghdadi, fatto appositamente scarcerare nel 2009 dal centro di detenzione americano di Camp Bucca, in Iraq. «Isis, ovvero Iside, dea egizia tenebrosa e inquietante, è il frutto velenoso di una particolare Ur-Lodge decisamente eretica e perversa», racconta Toscano. «Mi riferisco alla “Hathor Pentalpha”, punto di snodo di tanti guerrafondai sanguinari già visti all’opera al tempo del crollo delle Torre Gemelle». Perché Obama chiede adesso al Congresso i poteri di guerra per risolvere la pratica Isis? «Perché sa che gli eccidi commessi dal “califfo” al-Baghdadi sono propedeutici al nuovo scontro di civiltà che Jeb Bush avvierà nel malaugurato caso in cui dovesse presto ritrovarsi alla Casa Bianca».
    Secondo Toscano, inoltre, il caso Isis e il conflitto russo-ucraino si intrecciano poi con la cosiddetta “crisi greca”. «L’intransigenza della Germania, per bocca del ministro Wolfang Schäuble, “maestro venerabile” di una superloggia (la “Der Ring”) che vanta stretti rapporti con la “Hathor Pentalpha”, è finalisticamente funzionale al progressivo allontanamento della Grecia dalla sfera di influenza euro-atlantica». Persino leader “progressisti” come Renzi e Hollande «restano tuttora schierati come un sol uomo a difesa della protervia e dell’arroganza teutonica». Vi sembra normale? Toscano ricorda che anche il banchiere centrale Mario Draghi è iniziato presso la Ur-Lodge “Der Ring”. «Lo stesso Draghi che, recentemente, ha aperto le porte del Tempio a beneficio di Matteo Renzi, guadagnandosi così il subalterno appoggio del pinocchietto fiorentino che, con buona pace di Telemaco, non sbraita più contro gli euroburocrati ottusi e cattivi».

    «Nel preciso momento storico che viviamo, carico di insidie e di incognite, il Grande Fratello propone essenzialmente all’attenzione della pubblica opinione trans-nazionale tre diverse emergenze: l’Isis, la crisi greca e il conflitto russo-ucraino. Tre vicende apparentemente indipendenti fra di loro, che invece si intrecciano in profondità fra i meandri del potere più invisibile e nascosto». Per Francesco Maria Toscano, stretto collaboratore di Gioele Magaldi, autore del dirompente libro “Massoni” che denuncia lo strapotere occulto delle Ur-Lodges, le superlogge internazionali dell’élite finanziaria, l’illusionismo di cui siamo vittime dipende dall’efficiente disinformazione operata dal circuito mainstream, che «veicola a getto continuo una serie impressionante di informazioni spesso in evidente contrasto fra di loro». Il sistema dominante «moltiplica all’infinito le notizie, mischiando continuamente pezzi di verità e pezzi di menzogna». Risultato: il pubblico è fuoriviato e disorientato. Paradossale: «Così come è tornata la miseria nonostante l’aumento esponenziale della capacità produttiva, allo stesso modo dilaga l’ignoranza, a dispetto dell’epidermica esplosione delle più svariate fonti divulgative».

  • Giannuli: non credo al Grande Complotto, fuori le prove

    Scritto il 24/2/15 • nella Categoria: idee • (7)

    Cari complottisti, non esagerate: la «implausibiltà» delle vostre tesi è spesso così clamorosa da costituire il miglior regalo al potere che, «attraverso i suoi manutengoli nei mass media», potrà agevolmente provvedere a «ridicolizzare ogni tentativo di mettere in discussione le “verità ufficiali”». Storico e politologo, esperto di servizi segreti e trame oscure, il professor Aldo Giannuli avverte il bisogno di mettere in guardia dall’eccesso di dietrologia i lettori del suo blog. Il web è inondato da milioni di informazioni su piste scomode, che il mainstream silenzia accuratamente? Non importa: per Giannuli il problema è la proliferazione incontrollata di tesi non dimostrate. La definisce «una moda», evidentemente preoccupante visto che in Italia «miete molti consensi a sinistra o in ambienti come quello dei 5 Stelle, degli ex “Italia dei Valori”, lettori del “Fatto” e del “Manifesto”». La colpa? E’ dell’attuale «processo di spoliticizzazione di massa», che secondo Giannuli «apre spazio ad un immaginario para-magico sostitutivo delle categorie politiche di analisi».
    Eppure, annota il docente dell’ateneo milanese, il «paradigma “complottista”» nasce in ambienti di destra nel XIX secolo, «avendo a bersaglio fisso massoni ed ebrei», in diversi casi accomunati in un’unica congiura. «E’ il mondo cattolico – scrive Giannuli – il primo ventre fecondo di questo indirizzo, che vede la modernità stessa come il frutto della congiura diabolica dei massoni: dalla Rivoluzione Francese all’Unità d’Italia, dall’industrialismo allo sviluppo del capitale finanziario, dal modernismo alla rivoluzione sessuale è tutto il prodotto di essa». Non è difficile, in questo, scorgere l’eredità della Santa Inquisizione, «che spiegava eresie e rivolte con l’intervento del Maligno attraverso infedeli (ebrei in testa), streghe e indemoniati: il “Malleus maleficarum” è un testo di rara chiarezza a questo proposito». A questo filone principale, continua Giannuli, si aggiunse in seguito l’antisemitismo di destra, alimentato dai falsi della polizia politica zarista (i “Protocolli dei Savi di Sion”), poi sfociato nel nazismo. «La crisi del 1929 offrì una formidabile occasione per l’antisemitismo», e infatti si scaricò la catastrofe «sulle spalle della congiura finanziaria ebraica».
    Infine, ad alimentare e modernizzare l’immaginario complottista, giunse la crescita dello spionaggio dalla Prima Guerra Mondiale in poi: «L’ossessione della spia in agguato crebbe per tutti i decenni centrali del secolo scorso, producendo un genere letterario e cinematografico che contribuì non poco a socializzare le masse a questa “cultura del sospetto”». Secondo Giannuli, «il paradigma complottista è stato preparato in cucine di destra (cattolicesimo tradizionale, antisemitismo nazista, servizi segreti e derivazioni letterarie)», mentre poi «a “sdoganarlo” a sinistra fu lo stalinismo con le sue ossessioni e la sua caccia alle streghe trotzkjiste (manco a dirlo: ebrei anche quelli, come il loro capo)». Finita la guerra, scese in campo la “controinformazione”, con la missione di rompere il silenzio omertoso attorno al potere, partendo dall’analisi critica delle apparenze: «Spesso le apparenze ingannano, soprattutto nei casi più oscuri e drammatici come stragi, assassinii politici, colpi di Stato o scandali finanziari, per cui occorre indagare con spirito critico». E’ quello che si dovrebbe fare sempre, per esempio «su un “suicidio” dietro il quale si nasconde un omicidio». Il punto è, soprattutto nei casi “politici”, «la polizia non è una parte fuori del conflitto, ma un personaggio in commedia, che spesso falsifica, omette, depista, confonde le acque».
    Nei casi politici, la ricerca del movente politico è un pezzo decisivo dell’indagine. Ma la riflessione critica – secondo la scuola della controinformazione – deve sempre muoversi sul filo della razionalità. «Il fatto che una versione ufficiale “non quadri” logicamente, non significa che si possano dipingere gli scenari più fantasiosi e intimamente incoerenti». Quindi, primo passo: «Una versione falsificata dice solo che le cose non possono essere andate nel modo in cui essa le racconta, ma non ci dice ancora come è andata davvero». In secondo luogo, «l’apparenza va processata logicamente, non rimossa». Se emergono aspetti dubbi, incoerenti o anche spudoratamente falsi, questo «non autorizza a mettere da parte tutto il resto come falso e incoerente: ogni singolo aspetto di quel che ci appare va accolto come vero sino a prova contraria. Si può accettarlo “con beneficio di inventario” ma bisogna comunque accettarlo, perché ci si priverebbe degli elementi su cui lavorare». Infine, occorre distinguere sempre fra prove e indizi, certezze e semplici ipotesi. «L’importante è che la spiegazione “certa” (ovviamente “certa” solo sino a prova contraria che dimostri l’errore) non nasca troppo presto. E qui c’è l’errore classico dei dilettanti: prima formulare la ricostruzione d’insieme e dopo andare cercando prove e indizi a sostegno».
    A Giannuli non piace che si evochi – o si denunci – l’esistenza di «un vertice mondiale che tutto dirige e regola». Obiezione: «Se ci fosse questa “cupola mondiale” si dovrebbe registrare un quadro mondiale sostanzialmente aconflittuale o al massimo con limitatissimi conflitti periferici, mentre la nostra conoscenza ci indica un mondo attraversato da crescenti conflitti tutt’altro che periferici e una sostanziale assenza di ordine internazionale». Secondo quello che Giannuli definisce teorema “complottista pregiudiziale”, le crisi finanziarie non sono altro che fenomeni intenzionalmente manovrati per impoverire chi è già povero a spese dell’élite. «Può anche darsi che le cose stiano così, ma spetta a chi fa queste affermazioni produrre le prove a sostegno», replica il professore. «Ad esempio: constatare che la crisi ha lasciato come sedimento (almeno sinora) un aumento delle diseguaglianze, con ricchi ancor più ricchi e poveri sempre più poveri, non basta a dimostrare che quell’esito sia stato cercato sin dall’inizio e la crisi appositamente provocata, perché esso potrebbe essere stato solo il prodotto oggettivo, ma non prevedibile, di un processo innescato da altri fattori».
    Il guaio è che il “complottista pregiudiziale”, per Giannuli, «non avverte normalmente questa esigenza di rigore analitico», perché «obbedisce prima di tutto a uno stato d’animo, l’ansia per i pericoli da cui si sente minacciato, l’angoscia per la sua impotenza di fronte ad un mondo ostile e buio». Il professore si esprime con durezza: «La stupidità è sempre nemica dell’intelligenza e serva del potere», sentenzia. Trascurando il fatto – non proprio irrilevante – che se oggi il dibattito sulle “vere cause” della grande crisi appassiona milioni di persone, lo si deve essenzialmente a tanti “complottisi”, regolarmente denigrati, certamente spaventati da un mondo sempre più spietato e incomprensibile, ma soprattutto scandalizzati dal silenzio assordante del mainstream mediatico, televisivo, editoriale, accademico, politico, sindacale. La grande crisi sta facendo a pezzi l’Europa e quel che resta della pace del mondo. Chi doveva fornire spiegazioni, non l’ha fatto. Se non altro, i “complottisti” ci provano. L’alternativa è il silenzio sordo di un establishment marmoreo, muto anche di fronte alle denunce più serie e circostanziate.

    Cari complottisti, non esagerate: la «implausibiltà» delle vostre tesi è spesso così clamorosa da costituire il miglior regalo al potere che, «attraverso i suoi manutengoli nei mass media», potrà agevolmente provvedere a «ridicolizzare ogni tentativo di mettere in discussione le “verità ufficiali”». Storico e politologo, esperto di servizi segreti e trame oscure, il professor Aldo Giannuli avverte il bisogno di mettere in guardia dall’eccesso di dietrologia i lettori del suo blog. Il web è inondato da milioni di informazioni su piste scomode, che il mainstream silenzia accuratamente? Non importa: per Giannuli il problema è la proliferazione incontrollata di tesi non dimostrate. La definisce «una moda», evidentemente preoccupante visto che in Italia «miete molti consensi a sinistra o in ambienti come quello dei 5 Stelle, degli ex “Italia dei Valori”, lettori del “Fatto” e del “Manifesto”». La colpa? E’ dell’attuale «processo di spoliticizzazione di massa», che secondo Giannuli «apre spazio ad un immaginario para-magico sostitutivo delle categorie politiche di analisi».

  • Perché in Italia un vero leader non viene mai eletto al Colle

    Scritto il 03/2/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Sei un vero leader, stimato dagli elettori? Non abiterai mai al Quirinale. Lo dice la storia della Repubblica italiana, che nei suoi settant’anni ha avuto una quindicina di figure eminenti, statisti e capi di partito che l’hanno fondata, guidata e dominata. Nessuno di loro, però, ha mai raggiunto il Colle, annota Marcello Veneziani. Alla guida del paese si sono infatti succeduti «statisti come De Gasperi, padri fondatori come Sturzo, padri costituenti come Calamandrei, uomini di governo e di partito come Fanfani e Moro, Andreotti, De Mita, capi socialisti come Nenni e Craxi, laici come Malagodi, La Malfa e Spadolini, comunisti come Togliatti e Amendola, oppositori di destra come Almirante e radicali come Pannella». Tutte figure di primo piano, «assai diverse tra loro, per ruolo, indole e giudizio, ma unite da un destino: nessuno di loro è diventato presidente della Repubblica». Osserva Veneziani: «Sorte curiosa per una Repubblica, ma i suoi presidenti sono stati piuttosto notabili, a volte anche di secondo piano».
    Un analista “eretico” come Marco Della Luna sostiene che il profilo “defilato” della classe dirigente italiana, specie degli esponenti politici chiamati a rivestire le cariche istituzionali più eminenti, non è casuale: un leader forte, capace di incarnare una vertenza sovranista in nome del futuro della comunità nazionale, sarebbe percepito come un pericolo, sia in sede europea che sul versante atlantico. Le eccezioni – da Mattei a Moro – non sono arrivate all’età della pensione: qualcuno le ha tolte di mezzo. Prevale il grigio: in generale, la nomenklatura italiana si segnala per l’alto tasso di corruzione, clientelismo e degrado delle strutture partitiche. Più che ovvio, sostiene Della Luna: solo una partitocrazia corrotta, e quindi debole perché ricattabile, può “obbedire” senza fiatare alle direttive e ai diktat che provengono dai poteri forti che risiedono all’estero. Dopo il “golpe dello spread” architettato per l’insediamento di Monti e il varo definitivo dell’austerity, l’economista Nino Galloni ha svelato la vana ma serrata resistenza condotta da Giulio Andreotti per evitare che l’Italia finisse nella morsa dell’euro, che l’avrebbe condotta alla catastrofe economica. Galloni racconta che il governo subì fortissime pressioni dalla Germania, operate direttamente dal cancelliere Kohl.
    Un altro studioso “fuori ordinanza”, l’insigne esoterista Gianfranco Carpeoro, sostiene che Bettino Craxi fu liquidato in modo brutale proprio dai poteri che già allora puntavano a demolire la sovranità italiana: un leader troppo ingombrante col quale fare i conti. Nel libro “Il golpe inglese”, edito da Chiarelettere, Giovanni Fasanella e Mario José Cereghino evocano il ruolo costante di potenze straniere come quella britannica nel destino politico del Belpaese. E un altro libro di Chiarelettere, l’esplosivo “Massoni” di Gioele Magaldi, illumina il grande retroscena massonico di ogni decisione storica, mettendo in fila nomi come quelli di Mario Draghi, Giorgio Napolitano e Mario Monti. La sorte dell’Italia viene sempre decisa lontano da Roma? Lo sostiene anche Paolo Barnard: nel saggio “Il più grande crimine” documenta la “svendita” del paese da parte dei tecnocrati del centrosinistra, cooptati dall’élite finanziaria europea prima ancora che la classe dirigente della Prima Repubblica venisse spazzata via dal ciclone Mani Pulite. L’Italia del boom economico “doveva” piegarsi ai tormenti di Maastrich e alle torture imposte dall’euro, pareggio di bilancio e Fiscal Compact, riforme strutturali (azzeramento del welfare) e taglio della spesa pubblica, cioè demolizione – mediante crisi – del tessuto socio-economico nazionale.
    Chiedetevi perché non si fa mai “la cosa giusta”, suggerisce Barbard: scoprirete che i partiti, specie quelli del centrosinistra, sono stati tutti reclutati dal “vero potere”, quello dell’oligarchia neo-aristocratica, per sabotare lo Stato e servire gli interessi delle multinazionali finanziarie. Questo spiega l’altrimenti incomprensibile, cronica mediocrità del ceto politico italiano. Sul “Giornale”, alla vigilia dell’elezione di Mattarella al Quirinale, Marcello Veneziani riflette sullo strano veto che impedisce l’accesso al Colle ai leader più carismatici. Veneziani passa in rassegna i presidenti finora succedutisi: «Il più autorevole fu Einaudi e prima di lui De Nicola, entrambi monarchici; e poi notabili democristiani da Gronchi a Scalfaro, o Segni, Leone e Cossiga, su cui si esercitò la macchina del fango; esponenti come Saragat e Napolitano, capi partigiani come Pertini o banchieri come Ciampi. Ma nessun vero leader o statista, nessun leader di partito di massa o di grande popolarità, nessun riformatore con significative esperienze di governo, se non di governi di transizione o balneari (e nessun romano, lombardo o adriatico)». Per Veneziani, «è questa l’anomalia della Repubblica italiana: senza presidenzialismo niente capi alla De Gaulle o Mitterrand, alla Kennedy o Nixon, solo gregari o notabili. Così sarà pure stavolta. Il galletto è Renzi, per il Colle cercano la gallina».
    Tra le mille dietrologie fiorite attorno all’anomala elezione di Mattarella, si segnala per inappuntabile coerenza la spiegazione fornita da Francesco Maria Toscano, stretto collaboratore di Gioele Magaldi: Renzi avrebbe “mollato” Berlusconi dopo aver promesso obbediente devozione al “venerabile” Mario Draghi, vero padre del rigore europeo. Il Patto del Nazareno? Un bluff di Renzi per alzare la posta: accoglietemi a corte, o rimetto in gioco l’odiato Berlusconi. Detto fatto: secondo Toscano, a Renzi sarebbe stato finalmente accordato l’accesso al mondo ultra-riservato delle “Ur-Lodges”, le massime strutture di potere della massoneria internazionale, di cui Draghi sarebbe uno dei leader più importanti, insieme alla presidente del Fmi, Christine Lagarde. In pegno, come garanzia di sottomissione, il mite Mattarella sul Colle. Un uomo destinato a non ostacolare il manovratore Renzi, in realtà mero esecutore dei diktat di Bruxelles? E’ presto per dirlo, ovviamente. Ma certo è da interpretare il primo gesto del neo-presidente: che evoca il nazismo alle Fosse Ardeatine per lanciare un monito contro “il terrorismo”, e non il nuovo nazismo della Troika Ue che governa col ricatto e senza più ombra di democrazia, piegando i popoli al volere di ristrettissime élite neo-feudali.

    Sei un vero leader, stimato dagli elettori? Non abiterai mai al Quirinale. Lo dice la storia della Repubblica italiana, che nei suoi settant’anni ha avuto una quindicina di figure eminenti, statisti e capi di partito che l’hanno fondata, guidata e dominata. Nessuno di loro, però, ha mai raggiunto il Colle, annota Marcello Veneziani. Alla guida del paese si sono infatti succeduti «statisti come De Gasperi, padri fondatori come Sturzo, padri costituenti come Calamandrei, uomini di governo e di partito come Fanfani e Moro, Andreotti, De Mita, capi socialisti come Nenni e Craxi, laici come Malagodi, La Malfa e Spadolini, comunisti come Togliatti e Amendola, oppositori di destra come Almirante e radicali come Pannella». Tutte figure di primo piano, «assai diverse tra loro, per ruolo, indole e giudizio, ma unite da un destino: nessuno di loro è diventato presidente della Repubblica». Osserva Veneziani: «Sorte curiosa per una Repubblica, ma i suoi presidenti sono stati piuttosto notabili, a volte anche di secondo piano».

  • Il terrorismo dei fantasmi che organizza funerali e ipocrisia

    Scritto il 11/1/15 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    L’odio è un film di tanti anni fa, che finisce in un bagno di sangue proprio a Parigi, la città cosmopolita della grande scommessa integrazionista pensata ai tempi della decolonizzazione, quando gli orchi europei facevano ancora ammazzare i ribelli, i patrioti sovranisti non allineati, i Lumbumba, i Sankara, ma a presidiare la democrazia c’erano fior di partiti e sindacati, editori e intellettuali, università e società civile che volevano farla finita con l’ideologia e la pratica della sopraffazione, con l’abominio genocida, parassitario e schiavistico del terzo mondo. Erano già al lavoro le menti raffinatissime della barbarie, ma agivano nell’ombra delle officine bancarie, dell’alchimia finanziaria, per sottrarre alle masse il controllo dello Stato e della moneta. Presto avrebbero avuto bisogno di politici, e ne avrebbero reclutati a migliaia. L’odio, però, ufficialmente era ancora fuori dalla porta. Era il fantasma di Auschwitz, l’ecatombe di Hiroshima, lo spettro nucleare della guerra fredda. Allevati dai vincitori atlantici della Seconda Guerra Mondiale, gli europei coltivavano una loro relativa sovranità di benessere e privilegi grazie al primo welfare del mondo, fondato sul sacro principio in base al quale nessuno deve soffrire, perché non soffra il sistema.
    L’odio incandescente è quello che preme il grilletto a colpo sicuro e fa fuori il vignettista e il banchiere eretico, ma il suo mandante è l’odio freddo di chi progetta stragi e concepisce il mondo come un teatro da insanguinare costantemente, in modo che non si spenga la paura dei molti e la fiamma dell’odio non si estingua mai. L’odio è una promessa, una minaccia. Una punizione. Esemplare, a Parigi, la punizione degli irriverenti. Una lezione valida per tutti, musulmani e cristiani, mediorientali e occidentali: nessuno può ritenersi al sicuro, specie se ostenta idee spericolate e sciorina sberleffi, se pensa davvero di potersi prendere gioco del potere. La punizione prima o poi arriva, ed è un missile a testata multipla. Terrorizza la cosiddetta opinione pubblica, minaccia una nazione come la Francia e la ricatta, temendo la conversione sovranista del grande paese su cui si fonda l’Unione Europea. Minaccia e ricatta qualunque cittadino occidentale si creda libero. Minaccia e ricatta gli europei, trascinati loro malgrado nell’oscuro braccio di ferro autolesionistico con la Russia del gas. Il terrorismo spegne la democrazia, la ricaccia nella paura. Ed è sempre sporco, opaco e bugiardo, prima ancora che mostruoso e sanguinario.
    L’odio ha riempito un cimitero mondiale di oppositori, caduti sotto il fuoco dei golpisti, sotto le bombe, sotto il velo di strani incidenti. L’odio parla sempre con una sola voce: dobbiamo tutti avere paura, molta paura. Perché i primi a cadere sono sempre stati quelli che si erano battuti senza risparmio per insegnare all’umanità a non avere paura. Perché il potere ha davvero paura soltanto di chi non lo teme, di chi osa sfidarlo, di chi dimostra che l’oligarchia non è invincibile, sapendo che la storia dell’uomo è millenaria e nessun potere è eterno. Per questo l’odio teme la verità e predilige la menzogna, sfornando narrazioni mancine, fuorivianti, suggestive. I terroristi grotteschi, cavernicoli e deliranti, sono comparsi sulla scena soltanto negli anni ‘90, quando l’equilibrio della guerra fredda si era rotto per sempre. Prima, c’era stato soprattutto il terrorismo irredentista delle lotte di liberazione, sempre rivendicato, collegato a precise cause geopolitiche, l’Ira in Irlanda, l’Eta in Spagna, l’Olp in Palestina. Eserciti clandestini e irregolari, ma non fantasmi come quelli che misero le bombe nelle piazze italiane, sui treni, sugli aerei. L’altro terrorismo, quello dei fantasmi, è diventato improvvisamente internazionale solo dopo la fine dell’Urss, quando il teatro d’azione non era più solo l’Occidente, ma anche e soprattutto il resto del mondo.
    Oggi, il terrorismo fantasma torna invece nel cortile di casa. E’ comparso negli Stati Uniti, poi si è esteso all’Europa per mani di stragisti isolati, fanatici, pazzi, di cui però poi sono emersi imbarazzanti collegamenti con apparati di polizia e spezzoni di intelligence. Tutto questo, mentre il grande terrorismo – il più estremo e feroce – si è scatenato senza tregua contro le popolazioni civili della Cecenia, della Jugoslavia, dell’Iraq, dell’Afghanistan, contro gli inermi della Siria, i bambini di Gaza, gli abitanti del Donbass persi a cannonate. Chi piange le vittime di “Charlie Hebdo” macellate senza pietà dovrebbe domandarsi da dove viene la barbarie, chi l’ha coltivata. Chi è ben deciso probabilmente ad impiegarla ancora, e sempre di più, nel timore che il mondo si risvegli, che si risvegli la Francia, che si risvegli l’Europa. In Sicilia, ai tempi, si diceva che era sempre del killer la prima corona di fiori sulla bara dell’ucciso, sfregio definitivo alla memoria dell’assassinato e terribile monito per la comunità in lutto: siamo stati noi, e siamo invincibili. Rinunciare all’odio comporta prima di tutto un tributo supremo di verità, di ripudio dell’ipocrisia. Viceversa, si rischia di partecipare al funerale a braccetto coi camerieri dei veri mandanti del delitto, i “ministri dei temporali” pronti a tuonare comodamente contro una barbarie lontana e straniera. In un giallo, il commissario scoprirebbe che quei signori non hanno un alibi: alcuni di loro, la sera prima, erano a cena con l’assassino.

    L’odio è un film di tanti anni fa, che finisce in un bagno di sangue proprio a Parigi, la città cosmopolita della grande scommessa integrazionista pensata ai tempi della decolonizzazione, quando gli orchi europei facevano ancora ammazzare i ribelli, i patrioti sovranisti non allineati, i Lumbumba, i Sankara, ma a presidiare la democrazia c’erano fior di partiti e sindacati, editori e intellettuali, università e società civile che volevano farla finita con l’ideologia e la pratica della sopraffazione, con l’abominio genocida, parassitario e schiavistico del terzo mondo. Erano già al lavoro le menti raffinatissime della barbarie, ma agivano nell’ombra delle officine bancarie, dell’alchimia finanziaria, per sottrarre alle masse il controllo dello Stato e della moneta. Presto avrebbero avuto bisogno di politici, e ne avrebbero reclutati a migliaia. L’odio, però, ufficialmente era ancora fuori dalla porta. Era il fantasma di Auschwitz, l’ecatombe di Hiroshima, lo spettro nucleare della guerra fredda. Allevati dai vincitori atlantici della Seconda Guerra Mondiale, gli europei coltivavano una loro relativa sovranità di benessere e privilegi grazie al primo welfare del mondo, fondato sul sacro principio in base al quale nessuno deve soffrire, perché non soffra il sistema.

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