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Klaus Regling, tedesco: l’uomo del Mes controllerà l’Italia
In principio doveva essere un boccone amaro, indigeribile e da respingere con tutte le forze. Una buona fetta degli esponenti del Movimento 5 Stelle, presto rinominati “i ribelli”, era pronta a issare barricate e muovere pericolose guerre intestine a costo di respingere il Meccanismo Europeo di Stabilità. Invece, ecco il sì alla riforma del Mes, decisa all’ultimo Eurogruppo, con il ministro dell’economia, Roberto Gualtieri, pronto a rassicurare gli animi degli alleati di maggioranza. Gualtieri ha provato a spiegare che il via libera alla riforma del Mes non significa automaticamente un suo utilizzo, visto che «la riforma è cosa distinta dalla scelta se usare o meno il Mes sanitario», e che «su questo esistono posizioni diverse nel Parlamento e nella stessa maggioranza, e ogni decisione dovrà essere condivisa dall’intera maggioranza e approvata dal Parlamento». Il tentativo di Gualtieri di calmare le acque è fallito miseramente, visto che la diffidenza tra le fila grilline è aumentata. Però, se non altro, ribelli a parte il M5S non dovrebbe opporsi alla riforma. Dunque: crisi di governo scongiurata. Almeno per il momento. C’è un problema non secondario da considerare con la massima attenzione. Come ha sottolineato “Libero”, la riforma del Fondo salva-Stati che il Parlamento approverà in giornata consegnerà, di fatto, l’Italia nelle mani di tale Klaus Regling. Chi è costui?Iniziamo con il dire che cosa diventerà, ovvero l’alto burocrate più potente d’Europa. Il motivo è semplice, visto che Regling è il direttore generale del Mes. Detto in altre parole, è l’uomo che ha – e avrà sempre di più – i pieni poteri nella gestione del Meccanismo Europeo di Stabilità. Questo significa che, nel caso in cui il debito pubblico italiano scricchiolasse pericolosamente, questo freddissimo burocrate tedesco sarebbe pronto a indossare i panni del commissario straordinario dell’Italia. E un’ipotesi del genere non è neppure tanto remota, considerando che il governo giallorosso, guidato da un Giuseppe Conte sempre più sotto pressione, continua a spendere in bonus e misure sostanzialmente inutili quanto gravose sui conti. Regling è sostanzialmente il direttore generale del Mes. Quest’ultimo, a sua volta, è più di uno strumento: si tratta di un’organizzazione internazionale, creata nel 2012 per assegnare risorse ai paesi dell’Eurozona che si trovano o rischiano di trovarsi in grossi guai finanziari. Va da sé che il prestito – perché di questo stiamo parlando – non è gratuito e include condizioni super-rigorose, dannose per le nazioni con l’acqua alla gola bisognose di un salvagente.Regling, economista e tedesco, ha 70 anni e guida il Mes dal primo giorno. Il suo mandato è stato rinnovato e resterà in carica fino al 2022. La sua storia è piatta e non presenta particolari stranezze. Figlio di un falegname poi eletto in Parlamento con i socialdemocratici, ama ascoltare Wagner e, in economia, crede fortemente a due pilastri: stabilità e rigore. Il signor Klaus è sempre rimasto lontano dalle luci dei riflettori, anche se adesso, con l’imminente riforma del Mes, i suoi poteri saranno talmente enormi che difficilmente riuscirà a nascondersi dietro a un dito. Tra i suoi superpoteri troviamo: la possibilità di affiancare la Banca Centrale Europea nella valutazione della richiesta di sostegno messa sul tavolo da uno Stato e quella di formulare la proposta per aggiustare la situazione di quel paese. Non solo: la riforma introduce pure la “piena indipendenza” del direttore generale e del personale del Mes da ogni potere eletto. La responsabilità, insomma, sarà da intendere solo “nei confronti del consiglio d’amministrazione”. La sua nomina, e quella dei successori, da cosa dipende? Deve essere nominato a maggioranza qualificata dell’80% del capitale del Mes. Considerando che la maggioranza delle quote spettano a Germania (26,9%) e Francia (20,2%), Berlino e Parigi avranno la possibilità di mettere un bel veto sul successore di Regling. Non l’Italia, ferma al 17,7% delle quote.(Federico Giuliani, “La riforma del Mes consegna l’Italia nelle mani del supercommissario tedesco”, dall’inserto “InsideOver” de “Il Giornale” del 9 dicembre 2020).In principio doveva essere un boccone amaro, indigeribile e da respingere con tutte le forze. Una buona fetta degli esponenti del Movimento 5 Stelle, presto rinominati “i ribelli”, era pronta a issare barricate e muovere pericolose guerre intestine a costo di respingere il Meccanismo Europeo di Stabilità. Invece, ecco il sì alla riforma del Mes, decisa all’ultimo Eurogruppo, con il ministro dell’economia, Roberto Gualtieri, pronto a rassicurare gli animi degli alleati di maggioranza. Gualtieri ha provato a spiegare che il via libera alla riforma del Mes non significa automaticamente un suo utilizzo, visto che «la riforma è cosa distinta dalla scelta se usare o meno il Mes sanitario», e che «su questo esistono posizioni diverse nel Parlamento e nella stessa maggioranza, e ogni decisione dovrà essere condivisa dall’intera maggioranza e approvata dal Parlamento». Il tentativo di Gualtieri di calmare le acque è fallito miseramente, visto che la diffidenza tra le fila grilline è aumentata. Però, se non altro, ribelli a parte il M5S non dovrebbe opporsi alla riforma. Dunque: crisi di governo scongiurata. Almeno per il momento. C’è un problema non secondario da considerare con la massima attenzione. Come ha sottolineato “Libero”, la riforma del Fondo salva-Stati che il Parlamento approverà in giornata consegnerà, di fatto, l’Italia nelle mani di tale Klaus Regling. Chi è costui?
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Capestro Mes: quello che Conte, Monti e l’Ue non ci dicono
L’obiettivo del Mes? Farci diventare debitori contro la nostra volontà. Non innanzitutto per ragioni economico-finanziarie (i soldi che mancano), ma squisitamente politiche. Lo spiega al “Sussidiario” Augustín José Menéndez, docente di diritto pubblico e comparato nell’Università Autonoma di Madrid. E il progetto si sta realizzando, scrive Federico Ferraù: finora Conte ha preso tempo, sul Mes, ma forse non aveva calcolato la resistenza interna di una parte dei 5 Stelle. «È vero, ci sarebbe il soccorso di Berlusconi. Ma il Parlamento risulterebbe nettamente diviso, proprio alla vigilia del Consiglio Ue del 16-17 luglio, un appuntamento cruciale perché si parlerà del prossimo bilancio europeo. E sarebbe un vero guaio, per Conte, parteciparvi con un consenso dimezzato e il partito – i 5 Stelle – che lo ha messo a palazzo Chigi diviso al suo interno». A svelare in modo sorprendente la debolezza del governo è stato Mario Monti, con un articolo uscito il 1° luglio sul “Corriere della Sera”. Monti, riassume Ferraù, ha suggerito a Conte di prendere tempo, facendosi dare un mandato parlamentare in cui il Mes venga solo menzionato, senza un rifiuto pregiudiziale. In questo modo – secondo Monti – il governo può guadagnare tempo, permettendo al Mes di perdere «alcuni dei suoi aspetti totemici», facendo «prevalere il pragmatismo».Menéndez, ricorda Ferraù (che l’ha intervistato), è coautore di un recente saggio dedicato proprio al Fondo salva-Stati. Titolo: “Mes. L’Europa e il trattato impossibile”. Tra le altre cose, scrive sempre il giornalista del “Sussidiario”, si spiega bene che il Mes “light” non esiste: il Meccanismo Europeo di Stabilità è stato concepito come strumento del creditore per controllare politicamente il debitore, e tale è rimasto. «Avere il sostegno di una maggioranza “bipartisan” nel Parlamento nazionale è sempre una risorsa nelle trattative europee», premette Augustín José Menéndez, a proposito della sortita di Monti sul “Corriere”. Ma perché non approfittare della controversia per riformare le regole europee, coinvolgendo altri paesi? Al di là delle rassicurazioni di Romano Prodi sul carattere innocuo del Mes “sanitario”, «il quadro normativo del diritto europeo sull’assistenza finanziaria rimane invariato, e quindi la condizionalità non è diventata un “optional”», avverte il professor Menéndez. «È un bene che i dirigenti europei leggano più Keynes e meno Alesina. Ma se le cose stanno così, la domanda da fare è perché, invece di fare dichiarazioni politiche, non approvano un bell’emendamento alle norme europee che richiedono la condizionalità?».«Se un paese accetta il Mes, il prestito sarà senza condizioni», assicura il tedesco Klaus Regling, gestore del Fondo. Le condizionalità sembrano sparite con il Pandemic Crisis Support (Pcs) o Mes sanitario. Tuttavia, osserva Ferraù, anche la dichiarazione di Regling assomiglia a una “condizionalità”: far accettare il Mes ai paesi, come l’Italia, che fanno resistenza. «Tutte le relazioni di credito sono relazioni di potere», conferma Menéndez. «Pertanto, quando viene instaurata una relazione creditizia su insistenza del creditore e con grande riluttanza da parte del debitore, sembra giustificato chiedersi il motivo per cui il creditore attira il debitore in modo così insistente. Tutto il meccanismo dell’assistenza finanziaria nell’Eurozona – aggiunge Menéndez – è orientato a creare un fortissimo vincolo esterno sul debitore controllato dai creditori». Forse le intenzioni di tanti politici europei sono cambiate, «ma le norme e le strutture istituzionali rimangono quelle che si sono create dieci anni fa». E quindi: «Le parole se le porta via il vento, mentre le norme giuridiche rimangono». Nello specifico, il regolamento Ue prevede una «sorveglianza rafforzata» sul paese debitore, e a certe condizioni «non esclude l’eventuale imposizione di un programma di “aggiustamento” macroeconomico».In pratica, spiega sempre Menéndez, significa che le condizioni “leggere” inizialmente stabilite «possono rapidamente evolvere nella direzione di una condizionalità ben più incisiva». In altri termini, anche aderendo al Mes sanitario, il rischio del temuto “aggiustamento” macroeconomico c’è ancora, così come l’ipotesi della “ristrutturazione” del debito pubblico italiano (e cioè: tagli devastanti alla spesa pubblica). Ricorda il professore: se la Commissione Ue ritiene che sono necessarie «ulteriori misure», e che la situazione economico-finanziaria dello Stato in questione abbia «importanti effetti negativi sulla stabilità finanziaria della zona euro o dei suoi Stati membri», l’autorità europea «può raccomandare allo Stato membro interessato di adottare misure correttive precauzionali o di predisporre un progetto di programma di aggiustamento macroeconomico». Il problema non sono i 36 miliardi della linea di credito del Mes, chiarisce Menéndez: «L’obiettivo del Fondo salva-Stati e di chi lo difende è rafforzare il vincolo esterno, che l’appartenenza all’Eurozona già implica, aggiungendo una nuova leva di controllo».La cosiddetta “governance” economica europea, dice ancora Menéndez, è un mare di norme informali «fatto di guidelines, memoranda of understanding, letters of intention e via dicendo». Sembra tutto molto “chic”, «ma questa informalità ha un prezzo salatissimo». Quale? «La sicurezza», spiega il professore. «Ricordiamoci che i famosi memoranda of understanding ai quali si condizionò l’assistenza finanziaria a Grecia o Portogallo erano riscritti ogni sei mesi appunto perché “flessibili”. I creditori potevano dettare le condizioni a loro volontà, senza essere vincolati neppure a delle condizioni anteriori». Domani, altri commissari potranno cambiare le condizioni del Mes sanitario. Perché allora non modificare regolamenti e trattati? Menéndez critica «la complessità del processo decisionale europeo», che spiega anche «la frequenza delle decisioni emergenziali», oltre che il ricorso a quella strana “informalità” delle prescrizioni. Di fatto, ribadisce Menéndez, l’Italia ha di fronte “gendarmi” come la Germania e l’Olanda: è altamente improbabile, conclude, che i governi dei paesi cosiddetti “frugali” possano dire sì a una proposta di emendamento dei regolamenti.L’obiettivo del Mes? Farci diventare debitori contro la nostra volontà. Non innanzitutto per ragioni economico-finanziarie (i soldi che mancano), ma squisitamente politiche. Lo spiega al “Sussidiario” Augustín José Menéndez, docente di diritto pubblico e comparato nell’Università Autonoma di Madrid. E il progetto si sta realizzando, scrive Federico Ferraù: finora Conte ha preso tempo, sul Mes, ma forse non aveva calcolato la resistenza interna di una parte dei 5 Stelle. «È vero, ci sarebbe il soccorso di Berlusconi. Ma il Parlamento risulterebbe nettamente diviso, proprio alla vigilia del Consiglio Ue del 16-17 luglio, un appuntamento cruciale perché si parlerà del prossimo bilancio europeo. E sarebbe un vero guaio, per Conte, parteciparvi con un consenso dimezzato e il partito – i 5 Stelle – che lo ha messo a palazzo Chigi diviso al suo interno». A svelare in modo sorprendente la debolezza del governo è stato Mario Monti, con un articolo uscito il 1° luglio sul “Corriere della Sera”. Monti, riassume Ferraù, ha suggerito a Conte di prendere tempo, facendosi dare un mandato parlamentare in cui il Mes venga solo menzionato, senza un rifiuto pregiudiziale. In questo modo – secondo Monti – il governo può guadagnare tempo, permettendo al Mes di perdere «alcuni dei suoi aspetti totemici», facendo «prevalere il pragmatismo».
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Crosetto: Mes, rischio-catastrofe. Savona: ve l’avevo detto
Un documento inviato a tutti i ministri da Paolo Savona, oggi presidente Consob ma allora titolare degli Affari Ue, metteva in guardia il governo dai rischi delle modifiche del Mes. Quel documento, “Una politeia per un’Europa diversa”, aveva spaventato molto il mondo politico e finanziario dell’Unione, ma aveva centrato il punto: «La proposta in discussione di creare un fondo europeo per gli interventi, comunque lo si chiami – metteva nero su bianco Savona, come ricorda il “Messaggero” – oltre a disporre di risorse insufficienti, ha il duplice difetto di riproporre la parametrizzazione degli interventi, invece di valutare caso per caso secondo una visione politica comune. Essa inoltre ripropone i difetti della condizionalità restrittiva per la politica fiscale dei paesi che a esso ricorreranno, rendendo il meccanismo rigido nell’applicazione e con effetti deflazionistici». Traduzione: il Mes avrebbe peggiorato, e non risolto i problemi degli Stati costretti a ricorrervi. «Se c’è fretta di chiudere sul Mes, è un segnale drammatico». Guido Crosetto, ospite di “Omnibus” su “La7″, suggerisce qualcosa che tutti, fino a oggi, hanno sottovalutato o semplicemente nascosto, scrive “Libero”: il pressing dell’Unione europea sull’Italia per approvare la riforma del Fondo Salva-Stati potrebbe nascondere la preoccupazione di un imminente crac finanziario.«Temo che vogliano chiudere sul trattato – spiega il fondatore di Fratelli d’Italia, oggi ex parlamentare – perché la situazione delle banche tedesche e olandesi, a rischio crac, sia molto grave». Il riferimento è soprattutto a DeutscheBank e KommerzBank, i due colossi tedeschi a rischio collasso. «E guardate bene», avverte Crosetto: «Se saltano le banche avremo uno tsunami in confronto al quale la crisi del 2008 sarà nulla. E a pagare, come sempre, saranno i paesi più deboli, come l’Italia». Nel testo del rinnovato Mes, aggiunge “Libero”, è rimasta la valutazione della sostenibilità dei debiti e della capacità dello Stato che chiede un prestito di poterlo restituire. Ed è un punto che difficilmente sarà oggetto di negoziazione ulteriore. Al premier Giuseppe Conte e al ministro dell’economia Roberto Gualtieri, spiega il “Messaggero”, rimane la carta della modifica degli allegati, per correggere parzialmente un tiro destinato a fare malissimo all’Italia. Perché la ristrutturazione del debito (che renderebbe carta straccia i titoli di Stato, in mano soprattutto ai risparmiatori italiani) è ancora in piedi. E anzi, resta un caposaldo del Meccanismo Europeo di Stabilità.Nel frattempo, lo scandalo-Mes sta facendo franare il governo giallorosso: secondo Augusto Minzolini, autore di un report dietro le quinte pubblicato dal “Giornale”, Renzi avrebbe promesso a Salvini di staccare la spina al Conte-bis, in cambio di un eventuale accordo con la Lega per il varo di una legge elettorale proporzionale. Dal canto suo, il “Corriere della Sera” parla di imminenti diserzioni tra i 5 Stelle. E scrive: «Fonti leghiste assicurano che già quattro senatori hanno accettato il trasbordo nella Lega e altri starebbero per cedere». Voci che fanno il paio con chi, nel Movimento, parla insistentemente di scissione. Nei guai Conte, accusato di aver ceduto (in segreto) alle pressioni europee sul Mes. Lui smentisce, ovviamente. «Peccato che poi, implicitamente, riconosca come sia stato costretto a una brusca frenata sul negoziato che, diversamente – scrive “Libero” – sarebbe già andato in porto come suggerito maldestramente dal ministro dell’economia Roberto Gualtieri in commissione, parlando di “trattato già firmato e inemendabile”». Conte, infatti, ora parla di “rinvio possibile” e di un ok al Mes “vincolato” alla riforma dell’unione bancaria a marzo.Un documento inviato a tutti i ministri da Paolo Savona, oggi presidente Consob ma allora titolare degli affari Ue, metteva in guardia il governo dai rischi delle modifiche del Mes. Quel documento, “Una politeia per un’Europa diversa”, aveva spaventato molto il mondo politico e finanziario dell’Unione, ma aveva centrato il punto: «La proposta in discussione di creare un fondo europeo per gli interventi, comunque lo si chiami – metteva nero su bianco Savona, come ricorda il “Messaggero” – oltre a disporre di risorse insufficienti, ha il duplice difetto di riproporre la parametrizzazione degli interventi, invece di valutare caso per caso secondo una visione politica comune. Essa inoltre ripropone i difetti della condizionalità restrittiva per la politica fiscale dei paesi che a esso ricorreranno, rendendo il meccanismo rigido nell’applicazione e con effetti deflazionistici». Traduzione: il Mes avrebbe peggiorato, e non risolto i problemi degli Stati costretti a ricorrervi. «Se c’è fretta di chiudere sul Mes, è un segnale drammatico». Guido Crosetto, ospite di “Omnibus” su “La7″, suggerisce qualcosa che tutti, fino a oggi, hanno sottovalutato o semplicemente nascosto, scrive “Libero“: il pressing dell’Unione europea sull’Italia per approvare la riforma del Fondo salva-Stati potrebbe nascondere la preoccupazione di un imminente crac finanziario.
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Galloni: il Mes è una follia, ma il tradimento risale al 1981
Alto tradimento, da parte di Giuseppe Conte, se ha firmato un accordo segreto sul Mes che espone gli italiani al rischio di dover sostenere di tasca propria l’eventuale “ristrutturazione” del debito pubblico? «Se Conte avesse stipulato un patto segreto contro il suo paese, il reato di alto tradimento dovrebbe essere accertato dai magistrati competenti». Lo afferma l’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, richiamando l’allarme lanciato da Paolo Becchi. Per Galloni, «Becchi ha sollevato una questione reale, ma il problema – sottolinea – è dimostrare che questi accordi ci siano stati». In ogni caso, aggiunge, «le grandi decisioni di politica economica, come il divorzio del 1981 tra Tesoro e Bankitalia, non sono mai passate per il Parlamento». Galloni sgombra il campo da un equivoco: non è stata “l’Europa” a mettere nei guai l’Italia. E’ stata la classe dirigente italiana a smontare l’industria pubblica e svendere quella privata. «A quel punto, Francia e Germania hanno fatto dell’Italia una colonia a vantaggio dei loro interessi», ma solo dopo la decisione dell’Italia di rinunciare a valorizzare il proprio grande potenziale economico.A Galloni, il Mes sembra «una follia», letteralmente: «Dato che il credito privato è più elevato del debito pubblico, allora i privati pagheranno la differenza?». Assurdo, visto che «chi compra i titoli di debito sta dando risorse allo Stato». Quanto ex Fondo salva-Stati, ora Meccanismo Europeo di Stabilità (creato per assicurare fondi ai governi, nel caso il mercato non comprasse i bond), Galloni è netto: «Non si può decretare la depenalizzazione per un istituto come il Mes», i cui funzionari non rispondono alle leggi dei paesi membri. «Casomai, gli Stati avrebbero dovuto accordarsi sull’istituzione di un tribunale penale europeo per le questioni monetarie, finanziarie e tributarie», sostiene l’economista. «Sarebbe stato coerente con la Costituzione italiana, laddove parla di limitazioni della sovranità (ma certo non contro la logica del diritto, depenalizzando reati commessi da qualcuno che è al di sopra della legge)». Aggiunge Galloni: «Se tutta questa manfrina sul Mes serve a introdurre nel sistema la categoria del “legibus solutus”, cioè del sovra-sovrano, è chiaro che siamo tornati indietro dal punto di vista della civiltà».Il problema però non è di oggi, ricorda Galloni: innanzitutto, «i partner Ue hanno sottoscritto accordi basati su parametri che non tenevano conto del fatto che l’economia potesse andare male: si riteneva che l’Ue e l’euro, di per sé, avrebbero garantito una crescita costante, attorno al 2% annuo». Poi c’è stata la doccia fredda del 2009, eppure le premesse allarmanti non mancavano: i tassi di sviluppo negli anni ‘70 erano altissimi, ma sono calati già negli anni ‘80. Negli anni ‘90 sono ulteriormente scesi, e così negli anni duemila, fino a crollare negli ultimi anni. L’economia è in crisi, ma i parametri Ue sono ancora quelli della crescita presunta. «In base al principio “ad impossibilia nemo tenetur”, questi parametri sono annullabili». In una situazione recessiva, che senso ha limitare ancora il deficit al 3% del Pil, e il debito pubblico al 60% del prodotto interno lordo? «Non si era prevista una situazione di crisi e recessione? Male: allora l’accordo era mal fatto, quindi bisogna modificarlo».Comunque, ragiona Galloni, «riguardo al parametro debito-Pil, quelli che firmarono per l’Italia ai tempi di Maastricht non lo sapevano, che il debito italiano aveva superato il Pil già da anni? Perché sono andati a firmare che il debito pubblico doveva scendere sotto il 60%, quando già era al 115%?». Secondo l’economista, «sarebbe stato meglio dire: debito pubblico e debito privato non possono superare il 400%». In quel caso, oltretutto, noi italiani «saremmo “virtuosi” insieme alla Germania, mentre oggi tutti gli altri paesi sono oltre il 400%, se si somma il debito dello Stato a quello delle famiglie e delle imprese». In altre parole, «noi siamo le pecore nere solo per il debito dello Stato, ma si sa che grossomodo il debito pubblico corrisponde alla ricchezza privata». Vie d’uscita, a parte le polemiche sul Mes? Per Galloni, «qui bisogna mettersi intorno a un tavolo seriamente – Italia, Francia e Germania in primis – e dire: rispettiamo solo i parametri che abbiano un senso (e questi non ne hanno: lo sanno pure i sassi). E che siano parametri espressi da organi che sanno di cosa stanno parlando, e non da politici che vanno a svendere i loro paesi».(Fonte: video-intervento di Nino Galloni su YouTube registrato con Marco Moiso il 20 novembre 2019).Alto tradimento, da parte di Giuseppe Conte, se ha firmato un accordo segreto sul Mes che espone gli italiani al rischio di dover sostenere di tasca propria l’eventuale “ristrutturazione” del debito pubblico? «Se Conte avesse stipulato un patto segreto contro il suo paese, il reato di alto tradimento dovrebbe essere accertato dai magistrati competenti». Lo afferma l’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, richiamando l’allarme lanciato da Paolo Becchi. Per Galloni, «Becchi ha sollevato una questione reale, ma il problema – sottolinea – è dimostrare che questi accordi ci siano stati». In ogni caso, aggiunge, «le grandi decisioni di politica economica, come il divorzio del 1981 tra Tesoro e Bankitalia, non sono mai passate per il Parlamento». Galloni sgombra il campo da un equivoco: non è stata “l’Europa” a mettere nei guai l’Italia. E’ stata la classe dirigente italiana a smontare l’industria pubblica e svendere quella privata. «A quel punto, Francia e Germania hanno fatto dell’Italia una colonia a vantaggio dei loro interessi», ma solo dopo la decisione dell’Italia di rinunciare a valorizzare il proprio grande potenziale economico.
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Mes: grazie a Conte, l’Europa farà fuori le nostre banche
Si chiama Mes, normalmente viene detto fondo salva-Stati, l’acronimo sta per Meccanismo Europeo di Stabilità. Ed è improvvisamente tornato sotto i riflettori dopo che in un seminario Bankitalia-Omfif il governatore Visco ha lanciato l’allarme. «I piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all’enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default», ha detto il governatore. Proprio così: enorme rischio. Federico Ferraù, sul “Sussidiario”, ne ha parlato con Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano. «Ci rendiamo conto di quello che vorrebbe dire per il sistema bancario nazionale una ristrutturazione forzata del debito italiano?». Giampaolo Galli, vicedirettore dell’Osservatorio sui conti pubblici presieduto da Cottarelli, lo ha spiegato in una audizione alla Camera: «Sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori, una sorta di bail-in applicato a milioni di risparmiatori». Il Mes è un fondo comune di credito che ricapitalizza Stati e banche in difficoltà. Un benefattore europeo? Tutt’altro: il Mes non elargisce a costo zero. Lo fa alle sue condizioni: totale controllo sulle politiche di bilancio dello Stato richiedente. Anche a costo di impoverire tutti.Sulla riforma del Mes, ricorda Ferraù, hanno richiamato l’attenzione Alberto Bagnai e Claudio Borghi fin da quando la Lega era al governo. Allarme inascoltato, fino alle attuali parole di Visco. «Era già tutto scritto», afferma il professor Mangia. Per stare nel Mes «abbiamo pagato molto, negli anni – cifre dell’ordine di qualche decina di miliardi – e solo adesso ci si accorge di che cosa sia». Ovvero? «Il Mes è il figlio di una stagione di crisi, è stato generato da una crisi, e adesso vuole consolidarsi fino a diventare parte integrante del diritto dell’Unione. Fino ad oggi è un Trattato internazionale che ha dato origine a quello che, asetticamente, si definisce un “veicolo finanziario”». In realtà, spiega Alessandro Mangia, il Mes è un soggetto di diritto internazionale «che esercita attività bancaria avvalendosi, però, dello statuto e delle garanzie di un soggetto sovrano». Quindi può rifinanziare singoli Stati o singoli sistemi bancari, però sotto “stretta condizionalità”. «Non so se ci si rende conto delle implicazioni politiche dell’adozione di meccanismi propri del diritto commerciale e bancario a regolare i rapporti fra Stati: si è un po’ in ritardo se ci si preoccupa adesso di cosa sia il Mes».Che Bankitalia (non certo antieuropeista) abbia manifestato profonde preoccupazioni al riguardo dovrebbe dirla lunga. «Il punto è che probabilmente i buoi sono già usciti dalla stalla anni fa, e solo adesso ci si accorge che la stalla è vuota». In altre parole: «Si vuole far diventare il Mes un Fondo Monetario Europeo, che integri il ruolo della Bce sul versante dell’essere “prestatore di ultima istanza”». La Bce non può esserlo, ricorda Mangia: quelle funzioni sono state surrogate dal programma Omt (Outright monetary transactions) di Draghi, su cui c’è stato contenzioso presso la Corte di Giustizia. «E adesso, in una fase di crisi bancaria incipiente – si pensi solo all’esposizione di Deutsche Bank sul mercato dei derivati, pari a 20 volte il Pil tedesco – si ha fretta di chiudere il cerchio, creando un prestatore di ultima istanza. Intanto si riforma il Mes, poi si penserà al suo inserimento nell’intelaiatura istituzionale dell’Unione». Secondo Mangia, «Bankitalia ha capito che rischi corre con l’approvazione delle modifiche che due anni fa chiedeva Schäuble, e che sono state oggetto di una dichiarazione congiunta franco-tedesca nel giugno 2018. A stretto giro quella dichiarazione è stata ripresa – sempre in giugno – dall’Eurogruppo, che è un altro organo misterioso e non previsto dai Trattati, e da un Eurosummit cui ha partecipato il governo italiano, nella sua versione Conte-1».Del Mes ha parlato anche Salvini su Facebook: «Pare che, nei mesi scorsi, Conte o qualcuno abbia firmato di notte e di nascosto un accordo in Europa per cambiare il Mes, ossia l’autorizzazione a piallare il risparmio degli italiani. Non lo lasceremo passare. Sarebbe alto tradimento, se qualcuno – senza interpellare il Parlamento – avesse trasformato il fondo salva-Stati in un fondo ammazza-Stati». Insomma, abbiamo dormito? Avverte Mangia: «Il caso del Mes è stato totalmente sottovalutato dalla stampa, nonostante Borghi e Bagnai si siano spesi fin da allora per portarlo all’attenzione dei media». La verità è che «la gente non sa cos’è il Mes e a cosa serve». Accusano ora Bagnai e Borghi: «Abbiamo sempre denunciato il sospetto segreto con cui il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, e l’ex ministro dell’economia Giovanni Tria, hanno condotto le trattative senza mai informare il Parlamento, pur essendone obbligati per legge. La loro reticenza ci aveva indotto persino ad interrogazioni parlamentari addirittura quando eravamo parte della stessa maggioranza».Se ci si stupisce di questo, ribatte Mangia, vuol dire che non si è letto o non si è capito l’attuale Trattato Mes e le clamorose anomalie che conteneva fin dall’inizio. «Il Mes e i suoi funzionari godono di piena e perfetta immunità da ogni giurisdizione. Non possono essere oggetto di perquisizioni, ispezioni o altro da chicchessia. I suoi documenti sono secretati. Gli organi di vertice non sono perseguibili per gli atti adottati nell’esercizio delle loro funzioni. I governatori – e cioè i ministri economici degli Stati aderenti al trattato: in poche parole Tria o chi per lui – sono tenuti (ripeto, tenuti) – al segreto professionale nel momento in cui operano all’interno del Mes, tanto durante quanto dopo l’esercizio delle loro funzioni (articolo 34). Questa è legge dello Stato, non è aria fritta». Una norma simile, dice Mangia, ha perfettamente senso dentro una banca. Cosa succede se invece la logica del segreto professionale la si colloca nel rapporto tra governo e Parlamento? «Ci sta o non ci sta che un ministro debba tacere di fronte al Parlamento? Ci si rende conto di cosa si è fatto approvando una norma del genere nel 2012? E di quanto si è alterato il meccanismo di responsabilità politica disegnato in Costituzione tra ministro e Parlamento?».Se a questo si aggiunge che l’esercizio di potere estero sfugge, per sua natura, al controllo delle Camere, tranne che in certi casi tassativamente indicati dall’articolo 80, si capisce quanto fantasiose siano certe rappresentazioni del lavoro parlamentare. Basti pensare ai trattati segreti o ai trattati adottati in forma semplificata. «Si dice che non tutti i cammelli possono passare per la cruna dell’ago. In realtà ci si dimentica di dire che certi cammelli non hanno neanche bisogno di passarci, per la cruna dell’ago». Il testo della riforma, aggiunge Mangia, è arrivato prima su Internet che in Commissione: «Diciamo che Conte e Tria sono stati tutt’altro che solerti nell’informare le Camere dell’esito di quegli incontri». Possono essere accusati di alto tradimento, come ha ipotizzato Salvini? Assolutamente no, visto in carattere più che anomalo del trattato: l’articolo 34 del Mes «è fatto per interrompere gli obblighi di comunicazione e responsabilità tra Parlamenti nazionali e ministri», spiega Mangia. «Certo, nel caso di Tria non si applica l’articolo 34 sul segreto professionale, ma quello è il principio. Che pone un enorme problema costituzionale di ministri legittimati a mentire o a tacere di fronte alle Camere».Secondo Mangia, è assolutamente «ridicolo», oggi, parlare di legittimazione democratica del Mes, come fa Giampaolo Galli: «È come parlare di legittimazione democratica di una banca, perché la legge la legittima a fare la banca. Sarebbe tutto molto divertente, non fosse che rischia di essere tragico per le sue conseguenze». E cioè? «Per le stesse ragioni messe in chiaro da Galli nel suo intervento, e che hanno fatto muovere Bankitalia». Mangia sottolinea la marginalizzazione del ruolo della Commissione Europea nel valutare l’opportunità di rilasciare finanziamenti ai singoli Stati in caso di bisogno: «La Commissione viene ritenuta ormai un organo troppo “politico” già nella burocrazia di Bruxelles, che rivendica un suo ruolo contro la Commissione», rispetto a molti obiettivi: la scelta di condizionare il rilascio di finanziamenti a una ristrutturazione preventiva del debito, ma anche l’inclusione di clausole di azione collettiva nelle emissioni di debito pubblico dal 2022 in poi, costruite per facilitare quelle operazioni di ristrutturazione del debito che sembrano essere il cuore di questa riforma.Sintetizza Mangia: «Se un bel giorno si arrivasse ad una situazione di crisi dello spread, tale da precludere l’accesso dell’Italia al finanziamento dei mercati, e si dovesse chiedere l’intervento del Mes – del quale saremmo comunque i terzi contributori – sarebbe il Mes, e non la Commissione, a valutare sulla base di meccanismi automatici l’opportunità di chiedere una ristrutturazione del debito pubblico». In altre parole «sarebbe il Mes a determinare le “condizionalità” – e cioè le politiche economiche “lacrime e sangue” da praticare – per ottenere questo finanziamento». E sarebbe sempre il Mes, alla fine, a determinare il contenuto di questa ristrutturazione. «Peccato che il debito pubblico italiano sia detenuto per il 70% da banche nazionali». E quindi? «Vuol dire che una ristrutturazione di quel debito inciderebbe in modo pesantissimo sui bilanci di banche che hanno comunque sostenuto – oggi assai più che in passato – il debito pubblico nazionale», conclude Mangia. «Ci rendiamo conto di quello che vorrebbe dire per il sistema bancario nazionale una ristrutturazione forzata del debito italiano? E perché si parli di questa riforma come di una pistola puntata alla tempia dei risparmiatori italiani?».Si chiama Mes, normalmente viene detto fondo salva-Stati, l’acronimo sta per Meccanismo Europeo di Stabilità. Ed è improvvisamente tornato sotto i riflettori dopo che in un seminario Bankitalia-Omfif il governatore Visco ha lanciato l’allarme. «I piccoli e incerti benefici di una ristrutturazione del debito devono essere ponderati rispetto all’enorme rischio che il mero annuncio di una sua introduzione possa innescare una spirale perversa di aspettative di default», ha detto il governatore. Proprio così: enorme rischio. Federico Ferraù, sul “Sussidiario“, ne ha parlato con Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano. «Ci rendiamo conto di quello che vorrebbe dire per il sistema bancario nazionale una ristrutturazione forzata del debito italiano?». Giampaolo Galli, vicedirettore dell’Osservatorio sui conti pubblici presieduto da Cottarelli, lo ha spiegato in una audizione alla Camera: «Sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori, una sorta di bail-in applicato a milioni di risparmiatori». Il Mes è un fondo comune di credito che ricapitalizza Stati e banche in difficoltà. Un benefattore europeo? Tutt’altro: il Mes non elargisce a costo zero. Lo fa alle sue condizioni: totale controllo sulle politiche di bilancio dello Stato richiedente. Anche a costo di impoverire tutti.
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Campiglio: Def senza soldi, più tasse a carico delle famiglie
Gran parte della manovra è legata al disinnesco delle clausole di salvaguardia, che assorbono più dei due terzi dei 30 miliardi in gioco. Dalle risorse messe in campo non ci possiamo attendere una grande spinta. La cautela è dettata dal fatto che la pressione fiscale aumenterà: nel 2019 è al 41,9% del Pil e nel 2020 subirà un leggero aumento al 42%, e comunque non in diminuzione. Il divario dell’Italia rispetto a paesi come la Germania o la Francia per i provvedimenti a favore della famiglia è da molto tempo intorno allo 0,5-1% del Pil. E’ chiaro che i 200 milioni per gli asili nido vanno accolti con favore, ma bisogna considerare i tempi, perché se diventano operativi quando i bambini sono grandi, forse arrivano un po’ in ritardo. E non è una battuta, è quello che è accaduto finora. Anche quando c’erano le risorse non è stato fatto nulla. Il dato centrale che ne è seguito è che in modo rapsodico un governo sì e un governo no ha introdotto qualcosa per la famiglia, in sostanza bonus a scadenza. Quasi una beffa: gli aumenti delle tasse non finiscono mai – noi ancora oggi abbiamo pagato accise sulla benzina per il finanziamento della guerra in Etiopia – ma le agevolazioni su diversi aspetti della vita familiare scadono sempre. Speriamo che prima o poi ci sia la volontà politica di varare provvedimenti che abbiano una stabilità nel tempo che vada al di là dei 5 anni.Intanto il governo ha annunciato l’istituzione del Fondo assegno unico e servizi per la famiglia, che dovrebbe contare su una dotazione crescente fino ai 2,5 miliardi entro il 2022. Come verrà finanziato? I 2,5 miliardi possono essere un punto di partenza di grande interesse se si raccolgono risorse fresche, e non una partita di giro di altre risorse esistenti con cui lo Stato sociale interviene a sostegno della famiglia in modo diretto o indiretto. Anche qui suggerisco cautela, perché se la pressione fiscale torna a crescere, ciò che conta è il reddito netto delle famiglie in moneta e in natura. Se metto risorse con una mano e le tolgo con un’altra, l’effetto è quanto meno imprevedibile. E mi riferisco alla filosofia di fondo di questa manovra. Fondamentalmente è il primo passo verso il rientro definitivo nelle regole fiscali che i differenti Parlamenti negli anni recenti hanno votato a larga maggioranza. In buona sostanza, nel 2019 si prevede un rapporto debito/Pil pari al 135,7%, sulla base dei nuovi dati Istat e Banca d’Italia, e sulla base del Documento programmatico di bilancio in diminuzione al 135,2% nel 2020, al 133,4% nel 2021 e al 131,4% nel 2022.Nell’aggiornamento di settembre al Def (NaDef del precedente governo) vi è un esercizio particolarmente elaborato su sentieri e tempi di rientro del rapporto debito/Pil, a legislazione corrente o con scenario ottimistico o pessimistico, da qui al 2030. Il messaggio implicito della NaDef è: stiamo lavorando per un rientro del rapporto debito/Pil che – nello scenario più ottimistico – da oggi al 2030 dovrebbe tornare sotto quota 100, ai livelli cioè del 2007. In un scenario di mercato pessimistico rimarrebbe invece intorno al 120%. Negli ultimi anni è vero che l’Italia è cresciuta un po’ più dell’1%, ma tutto è avvenuto in una congiuntura mondiale molto favorevole, in cui il nostro paese era sempre, purtroppo, fanalino di coda nei tassi di crescita. Adesso il quadro globale è diventato più incerto e questo rientro decennale significa altri dieci anni, non diciamo di austerity, parola che fa paura, ma di parsimonia. Una parsimonia – ecco il punto vero – anche per chi la sta usando suo malgrado da più tempo, cioè i ceti più deboli. Occorre perciò un intervento più robusto e meno controverso: il Fondo europeo di stabilità finanziaria potrebbe essere il nuovo soggetto da attivare per un cambio di rotta. Le clausole di salvaguardia? Introdotte come fossero un’ ipoteca sulla casa, per le manovre del passato. Il mancato aumento dell’Iva comporta un minor gettito tributario e la necessità di aumentare le tasse o ridurre la spesa.A legislazione vigente e in assenza di una ripresa della crescita, lo spazio di manovra che esiste per rilanciare o irrobustire l’economia del paese o delle famiglie si riduce di molto. Il disinnesco delle clausole contabilmente figura come entrate mancate, e se ci sono meno entrate da una parte bisogna trovarle da un’altra parte. La lotta all’evasione, per esempio? Mettere in bilancio 7 miliardi dal contrasto all’evasione utilizzando solo lotta al contante e fatturazione elettronica è, con tutto il rispetto, eccessivo. Le attività reali difficilmente sfuggono all’imposizione fiscale. In particolare la casa, che è la vera ricchezza degli italiani, è candidata a subire un effetto ingiusto, e cioè che il saldo netto tra micro-bonus e micro-tasse sia casuale: ci sarà chi guadagna di più e chi invece paga di più. Ma il punto decisivo – lo ripeto – è che complessivamente la pressione fiscale potrebbe aumentare. Di spazio per la crescita ce n’è poco, perché mancano le risorse. E se far quadrare i conti diventa difficile, è molto probabile che verranno toccate altre voci di bilancio, come il sistema di deduzioni e detrazioni. Ma attenzione: intervenire, azzerandole progressivamente sui redditi più alti, rischia di diventare un boomerang, perché si prefigura un gettito che non ci sarà: chi ha alti redditi ha infatti anche un’assicurazione privata, e di conseguenza si potrebbero di nuovo ridurre le spese sulla sanità per chi ne ha bisogno.(Luigi Campiglio, dichiarazioni rilasciate a Marco Biscella nell’intervista “Zero crescita, famiglie stangate: ecco la nuova crisi”, pubblicata sul “Sussidiario” il 18 ottobre 2019, in relazione alla manovra 2020 del Conte-bis. Il professor Campiglio è docente di politica economica all’Università Cattolica di Milano).Gran parte della manovra è legata al disinnesco delle clausole di salvaguardia, che assorbono più dei due terzi dei 30 miliardi in gioco. Dalle risorse messe in campo non ci possiamo attendere una grande spinta. La cautela è dettata dal fatto che la pressione fiscale aumenterà: nel 2019 è al 41,9% del Pil e nel 2020 subirà un leggero aumento al 42%, e comunque non in diminuzione. Il divario dell’Italia rispetto a paesi come la Germania o la Francia per i provvedimenti a favore della famiglia è da molto tempo intorno allo 0,5-1% del Pil. E’ chiaro che i 200 milioni per gli asili nido vanno accolti con favore, ma bisogna considerare i tempi, perché se diventano operativi quando i bambini sono grandi, forse arrivano un po’ in ritardo. E non è una battuta, è quello che è accaduto finora. Anche quando c’erano le risorse non è stato fatto nulla. Il dato centrale che ne è seguito è che in modo rapsodico un governo sì e un governo no ha introdotto qualcosa per la famiglia, in sostanza bonus a scadenza. Quasi una beffa: gli aumenti delle tasse non finiscono mai – noi ancora oggi abbiamo pagato accise sulla benzina per il finanziamento della guerra in Etiopia – ma le agevolazioni su diversi aspetti della vita familiare scadono sempre. Speriamo che prima o poi ci sia la volontà politica di varare provvedimenti che abbiano una stabilità nel tempo che vada al di là dei 5 anni.
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Carotenuto: ho paura, chi pilota il Conte-2 è capace di tutto
«Spero sinceramente che duri poco, perché di questo governo c’è da aver paura: il Conte-bis è un esecutivo pericolosissimo». Lo afferma Fausto Carotenuto, già analista strategico dei servizi segreti, autore di una singolare ritratto di Giuseppe Conte: «E’ sorretto dallo stesso potentissimo network vaticano che gestiva lo strapotere di Andreotti, a cominciare dal cardinale Achille Silvestrini». Ora siamo nei guai, dice Carotenuto in un video su YouTube, perché a Conte si aggiungono personaggi temibili come l’euro-tecnocrate Roberto Gualtieri, che Bruxelles ha fatto sistemare direttamente al ministero dell’economia. Senza contare Paolo Gentiloni, come Conte in strettissimi rapporti col Vaticano, ora promosso alla Commissione Ue, e lo stesso David Sassoli, eletto presidente del Parlamento Europeo. Gentiloni e Sassoli, ovvero: il Pd, i grandi media, il Vaticano e l’europeismo oligarchico. Questo significa che l’Italia, dopo l’effimera sbornia gialloverde, è oggi una cinghia di trasmissione perfetta per il super-potere europeo: «Aspettiamoci di tutto», dice Carotenuto, perché i signori dell’eurocrazia, magari in cambio di qualche piccola concessione sul bilancio, «potranno prendere decisioni inimmaginabili e terribili, per tutti noi».
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Vergogna M5S: ha tradito tutti, dai suoi elettori a Salvini
Nel 2014, il cofondatore del M5S Gianroberto Casaleggio rilasciava a “Il Fatto Quotidiano” una lunga intervista, dal titolo “Pacta Sunt Servanda”. Spaziando su molti argomenti, Casaleggio riassumeva l’idea di democrazia semplice e diretta che stava alla base del MoVimento: in politica gli impegni vanno mantenuti e chi non lo fa deve essere cacciato. Riferendosi al sindaco di Parma, l’allora pentastellato Federico Pizzarotti, Casaleggio sentenziava senza mezzi termini: «Se io prendo l’impegno di chiudere un inceneritore, o lo chiudo o vado a casa». Parole inequivocabili, che riflettevano una visione alternativa dei rapporti tra eletti e cittadini elettori. Nell’aprile 2019, dopo aver portato avanti efficaci campagne di demonizzazione e demolizione degli avversari politici ed avere ottenuto il potere, il M5S è arrivato a negare totalmente alcuni temi per i quali era stato da sempre sostenuto dai cittadini. Qualcuno potrebbe obiettare che a volte le cose vanno indipendentemente dalla volontà di chi agisce. E vero, ma passare dal NoVax, NoTav e NoUe al Sì Vax, Sì Ue e infine Sì Tav non equivale a discorrere di quisquilie.E quanto all’Ue, il cambiamento da demolitori in aperti sostenitori non trova neppure una spiegazione razionale, perché quella del sostegno all’assetto dell’Ue in difesa del Pil italiano pronunciata dal senatore Lanzi lo scorso aprile è e rimane una “kaxxata” che solo persone prive di capacità cognitive potrebbero accettare per buona. Ma come, vieni a dirmi che dobbiamo difendere l’istituzione che ci ha massacrato economicamente e socialmente per 20 anni per salvaguardare proprio quel Pil italiano che è stato fatto a pezzi dai Lorsignori a marchio Bruxelles? E questo dopo che per 10 anni ripeti ovunque che quell’Europa istituzionale, che ora vuoi sostenere, è un Club Med di rispettabili criminali, arricchiti burocrati asserviti ai neoliberisti mondiali che nell’assetto dell’Ue e nelle sue regole capestro hanno trovato un altro giocattolo per far pagare le crisi finanziarie ai meno abbienti, italiani inclusi?Quanto alla Tav serve veramente a poco che Grillo dica che «non avere la forza numerica per bloccare l’inutile piramide non significa essersi schierati dalla parte di chi la sostiene». Servirebbe piuttosto chiedersi se il MoV ha cercato degli alleati per allargare il fronte istituzionale del dissenso in questi anni. Di fronte a fallimenti continui come si può affermare che qui si tratta di coerenza e non di rigidità? Con che coraggio o mancanza di vergogna si dichiara che se il resto d’Europa vuole la Tav, il M5S ha comunque coerentemente fatto tutto quello che doveva e quindi non è responsabile? Ma se impegnarsi e non riuscire a mantenere gli impegni comporta l’ammettere la propria inadeguatezza e andarsene – Casaleggio, mai sconfessato da Grillo, dixit – a cosa serve dire che si è fatto il possibile? E allora Pizzarotti che ha percorso tutte le vie legali per fermare l’inceneritore di Parma e non vi è riuscito cosa doveva fare? Andare di notte con un commando ed esplosivo e farlo saltare? Eppure lui doveva dimettersi – giustamente – e chi sta al governo che ha fatto un voltafaccia su tutto, no?!A questo punto rimarrebbe da spiegare il comandamento etico dei “pacta sunt servanda”, mai venuto meno per il M5S, e che in democrazia dovrebbe valere per tutti, semper Casaleggio Senior dixit. Dov’è il tradimento di Pizzarotti che, vistosi impossibilitato a mantenere una promessa elettorale, dopo aver esaurito tutte le vie legali, ha tentato di trattare con i poteri forti per restare a galla cercando di contenere i danni dell’inceneritore? Non è la stessa cosa che tenta di fare il M5S “per sopravvivere”, dopo che la decisione di Salvini di aprire la crisi di governo lo ha riportato alla realtà del voto e delle scelte maldestre e antitetiche al programma condiviso con la Lega in Europa? Quindi se fallire vuol dire “te ne vai”, anche se ci si può rifiutare comprensibilmente di associare al fallimento qualche dietrofront o inciampo su punti marginali, fallire totalmente su battaglie che in teoria rappresentavano l’anima politica del M5S, le promesse chiave di quel rinnovamento che voleva portare in Italia, cosa comporta? Starsene in poltrona per dire che si è coerenti e che gli altri sono brutti, cattivi e corrotti?Si leggono in questi giorni messaggi di ogni tipo su social che incolpano dell’attuale crisi di governo l’orco Salvini, l’irresponsabile traditore che vuole consegnare l’Italia all’ultradestra. Alternativamente Salvini cede il primo posto sulla gogna mediatica agli italiani, agli Usa, a Di Battista, meno a coloro che dirigono il M5S e che hanno sostenuto il suo sistema. Per i “veri” appartenenti al M5S, dal MoV dovrebbero uscire, anzi essere cacciati, i traditori, gli infiltrati, i fascisti… va bene, ma poi chi ti rimane? Intendo dire che se cacci i fascisti da un partito-azienda dove sopravvive e viene promosso chi fa la volontà del capo, che è una sola persona, non è che poi rimangono molti, dopo aver fatto pulizia. Ora, finché il proprietario era in vita e aveva una visione della storia e della politica ad ampio raggio, il messaggio innovatore poteva essere sostenuto, con qualche falla. Ma nel momento in cui è stato sostituito da un nuovo proprietario che al posto dei libri si interessa solo previsioni di vendita, di cosa ci illudiamo? Del cambiamento? Della Rivoluzione?Fatta da chi? Da una manica di gente messa insieme alla meno peggio e presentata ai cittadini dopo una selezione da casting televisivo su come si ripetono slogan messi a punto dalla Casaleggio, o su come vengono le zoomate fatte a 32 denti o sui tacchi? Se qualcuno davvero crede, dopo quanto il MoV ha mostrato nell’ultimo anno, che una simile compagine potesse davvero competere con Salvini e rappresentare un’alternativa al malgoverno sistemico di questa nazione, allora ha bisogno di supporto psichiatrico. E magari serviva pensare che a trattare con Salvini ci andava gente diversa da un ragazzo di 30 anni con una cultura, esperienza di vita e di lavoro molto limitata. E per capire questo non serviva una visione alternativa e unica della democrazia. Bastava il buon senso, anche se era contrario agli affari, per fare i quali serve impegnarsi solo nelle battaglie che portano utili, che però in questo caso non sono quelle che servono per cambiare l’Italia e abbattere la tanto detestata casta.Per cambiare la gestione sistemica dell’Italia serve ridare allo Stato italiano quella sovranità che non ha più, sovranità che a parole il M5S difende, e per farlo serve attaccare coloro che quella sovranità riducono, e che siedono a Bruxelles nel consesso dell’Ue. La battaglia è contro l’attuale assetto dell’Ue, contro i trattati applicati in modo diverso all’interno dei vari Stati, per cui mentre la Francia emette il franco coloniale contravvenendo al Trattato di Maastricht e in Germania le banche possono prestare denaro pubblico, come più e più volte ha evidenziato Nicoletta Forcheri, l’Italia non può fare nulla. La battaglia è contro la gestione del Mes, il Fondo europeo di stabilità finanziaria, di cui l’Italia è il terzo principale contributore dopo Germania e Francia, e nel quale finora ha versato miliardi di euro. Un fondo tanto generoso e gestito saggiamente che, se uno Stato in difficoltà ne avesse bisogno, verrebbe salvato con erogazioni a tassi di usura, per cui per ricevere in forma di aiuto quei soldi che ha versato deve pagare una tangente, come si fa con ogni rispettabile organizzazione mafiosa.La battaglia è contro la mancanza di una politica europea condivisa e seria sull’immigrazione, invece di favorire una tratta a pagamento di esseri umani gestita da Ong amiche e cooperative compiacenti, sotto la falsa pretesa di una solidarietà che vorrebbe che un continente ne ospitasse un altro “per risolvere i problemi di entrambi”, e che non ha nessun riscontro nella storia. A cosa serve risparmiare qualche ghello, anche tagliando i parlamentari, se poi dall’alto vi è chi ti dice comunque cosa devi o non devi fare, ti impone limiti di spesa, ti obbliga a versare miliardi con cui potresti sanare i debiti pubblici, e affossa i tuoi diritti? A niente, e se una forza politica “rivoluzionaria” si rifiuta di impegnarsi negli scontri veri inventandosi nemici immaginari, allora vuol dire che del cambiamento non gli frega niente. Questi sono i punti che il M5S dovrebbe trattare se volesse davvero cambiare le cose in Italia, e per farlo deve contrapporsi all’Europa così com’è. Certo costa, ma la via è quella. E invece su questi temi, dopo il famoso referendum consultivo sull’euro di 7 anni fa rimasto lettera morta, la propaganda del M5S e il blog non parlano mai… strano!Dovrebbe portare lo scontro in Europa, come ha dichiarato per 10 anni di voler fare. Avrebbe dovuto sostenere il fronte sovranista. E invece cosa ha fatto? Ha lasciato al manipolo di 14 europarlamentari eletti lo scorso maggio libertà di coscienza sulla votazione che avrebbe portato il piddino Doc Sassoli – quello che dice che il Parlamento Europeo per lui sarà sempre aperto all’immigrazione, come i porti, per intenderci – e ha votato alla presidenza della Commissione Ursula von der Leyen, eletta con appena 9 voti di scarto e alla quale non sono mancati quelli dei 14 del M5S. La signora Austerity, amica della Lagarde, la macellaia sociale dell’Ue, e di Angelona Merkel e sua ex ministra, è il correlativo oggettivo di Mario Monti in gonnella, e di Monti condivide oltre alla visione di austerity e tagli alle spese sociali, anche le amicizie importanti per le multinazionali e società di fondi d’investimento e di consulenza come la McKinsey. E mentre veniva incoronata presidente della Commissione Ue, Castaldo (M5S) è stato eletto vicepresidente nonostante i 5 Stelle siano senza gruppo a Bruxelles: è la prima volta in Europa. Ma sarà un caso?Queste “battaglie” del M5S sembrano più scambi di favori per chi vuole farsi gli affari propri a prescindere dalle promesse fatte al beneamato popolo che dovrebbe difendere. E mentre vende briciole di slogan di democrazia, il MoV si rifiuta di attuare le uniche vere scelte che dovrebbe fare se davvero volesse tener fede a quanto detto per una decade. Ma si sa, bisogna sopravvivere e poiché ‘l’amico del mio nemico può diventare amico mio” nel mondo dell’immaginifico politico stellato dove non esiste né destra né sinistra, le ideologie sono morte, ma il denaro rimane, ecco che allora anche l’ipotesi di allearsi con pezzi del Pd renziano può andar bene. Il cofondatore del M5S potrebbe infine illuminarci sulle ragioni – quelle vere, che ancora non conosciamo – per le quali la sua creatura politica è diventata europeista al punto di votare la von der Leyen, che rappresenta la reincarnazione femminile di Monti-aka Rigor Mortis, o chiarire il significato grillino – quello italiano lo conosciamo già – dell’espressione “comitati d’affari” tanto cara al MoV delle origini, lo stesso che nel 2011 condannava Rigor Mortis e che ora con metamorfosi politica – attuata per sopravvivenza o convenienza? – è arrivato camaleonticamente a fare le scelte di cui sopra. I nodi sono sempre quelli.(Alessandro Guardamagna, estratti da “Se pacta sunt servanda, chi ha tradito chi?”, da “Come Don Chisciotte” del 15 agosto 2019).Nel 2014, il cofondatore del M5S Gianroberto Casaleggio rilasciava a “Il Fatto Quotidiano” una lunga intervista, dal titolo “Pacta Sunt Servanda”. Spaziando su molti argomenti, Casaleggio riassumeva l’idea di democrazia semplice e diretta che stava alla base del MoVimento: in politica gli impegni vanno mantenuti e chi non lo fa deve essere cacciato. Riferendosi al sindaco di Parma, l’allora pentastellato Federico Pizzarotti, Casaleggio sentenziava senza mezzi termini: «Se io prendo l’impegno di chiudere un inceneritore, o lo chiudo o vado a casa». Parole inequivocabili, che riflettevano una visione alternativa dei rapporti tra eletti e cittadini elettori. Nell’aprile 2019, dopo aver portato avanti efficaci campagne di demonizzazione e demolizione degli avversari politici ed avere ottenuto il potere, il M5S è arrivato a negare totalmente alcuni temi per i quali era stato da sempre sostenuto dai cittadini. Qualcuno potrebbe obiettare che a volte le cose vanno indipendentemente dalla volontà di chi agisce. E vero, ma passare dal NoVax, NoTav e NoUe al Sì Vax, Sì Ue e infine Sì Tav non equivale a discorrere di quisquilie.
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Savona: nessun problema se il debito arriva al 200% del Pil
Anche da presidente della Consob, Paolo Savona non smentisce la sua fama di economista “contrarian”. Mentre l’Italia dibatte con la Ue per evitare la procedura d’infrazione a causa di un debito al 132% del Pil, l’82enne professore sardo rilancia come «istruttivo l’esempio del Giappone: se la fiducia nel paese è solida e la base di risparmio sufficiente, livelli di indebitamento nell’ordine del 200% non contrastano con gli obiettivi economici e sociali perseguiti dalla politica». È uno dei passaggi chiave della sua relazione tenuta a Milano all’incontro annuale della Consob, organismo borsistico che presiede da marzo dopo le dimissioni da ministro degli affari europei, come ricorda Fabrizio Massaro sul “Corriere della Sera”. Per Savona, sintetizza Massaro, basta che il debito salga meno di quanto cresce l’economia di un paese. Perché invece l’operazione non riesce, all’Italia? Savona parte da lontano: quando c’erano la lira e una banca centrale che poteva comprare quel debito (che è quanto accade in Giappone, e che invece l’attuale Bce non può fare), avevamo sì inflazione e svalutazione, ma il debito era stabile e le famiglie lo compravano. Ora invece i bond nazionali sono largamente in mani estere, la finanza preadatoria specula sui rendimenti.Le famiglie hanno meno Btp, e il potere di valutare il rischio del rimborso «si è trasferito sul mercato – dice Savona – senza un adeguato contrasto alla speculazione», che non di rado viene usata dall’Europa «come vincolo esterno» per far rispettare i parametri fiscali, con valutazioni che spesso «appaiono prossime a pregiudizi», quando invece i sospetti di un default sono «oggettivamente infondati». La forza dell’Italia – ricorda Savona – sta nell’enorme risparmio privato: 16.295 miliardi, quasi 10 volte il Pil, di cui 4.218 miliardi delle famiglie («una risorsa alla quale molti paesi attingono») e sulla spinta dell’export, con 43,4 miliardi di surplus. Centrodestra e centrosinistra, però, restano come sempre lontanissimi da qualsiasi soluzione salva-Italia, preferendo rinnovare il eterno la sottomissione all’Ue e la rassegnazione all’austerity neoliberista. Quelle di Savona sono «parole da film horror», secondo la vicepresidente del Pd, Anna Ascani: «Davvero vogliono bruciare decine di altri miliardi dei cittadini per interessi sul debito?». Per Mara Carfagna, di Forza Italia, «in caso di crisi del debito, la soluzione inizia con P e finisce con E: una patrimoniale pagata dagli italiani». Di «attacco al risparmio degli italiani» parla anche Benedetto Della Vedova, segretario di “+Europa”.In realtà, sottolinea Massaro sul “Corriere”, Savona ha un’altra idea: per contenere lo spread serve un «titolo europeo privo di rischio» – cioè l’eurobond, che Mario Draghi si ostina a negare: un titolo che prenda il ruolo che oggi è svolo, di fatto, dal Bund tedesco. Uno “european safe asset” emesso dal Fondo di stabilità Esm raccoglierebbe capitali e prestiti agli Stati membri applicando tassi bassissimi, in modo da neutralizzare in partenza a minaccia dello spread. «La relazione di Savona mi è piaciuta molto», ha detto il sottosegretario Giancarlo Giorgetti, confermando che la Lega è oggi l’unica forza politica italiana impegnata a cercare soluzioni alternative alla crisi. Una era il progetto di Flat Tax promosso da Armando Siri, puntualmente messo fuori gioco dalla magistratura in collaborazione col giustizialismo elettoralistico dei 5 Stelle. Sullo sfondo, poi, c’è sempre anche la folle sottovolutazione del reale patrimonio italiano: non solo l’enorme risparmio privato, ma anche l’immenso giacimento dei beni culturali – è il più grande al mondo, e dunque ha un valore potenziale formidabile, eppure non viene neppure lontanamente contabilizzato dai tecnocrati di Bruxelles che si ostinano a negare deficit e liquidità al nostro paese, demonizzando prontamente persino i minibot.Anche da presidente della Consob, Paolo Savona non smentisce la sua fama di economista “contrarian”. Mentre l’Italia dibatte con la Ue per evitare la procedura d’infrazione a causa di un debito al 132% del Pil, l’82enne professore sardo rilancia come «istruttivo l’esempio del Giappone: se la fiducia nel paese è solida e la base di risparmio sufficiente, livelli di indebitamento nell’ordine del 200% non contrastano con gli obiettivi economici e sociali perseguiti dalla politica». È uno dei passaggi chiave della sua relazione tenuta a Milano all’incontro annuale della Consob, organismo borsistico che presiede da marzo dopo le dimissioni da ministro degli affari europei, come ricorda Fabrizio Massaro sul “Corriere della Sera”. Per Savona, sintetizza Massaro, basta che il debito salga meno di quanto cresce l’economia di un paese. Perché invece l’operazione non riesce, all’Italia? Savona parte da lontano: quando c’erano la lira e una banca centrale che poteva comprare quel debito (che è quanto accade in Giappone, e che invece l’attuale Bce non può fare), avevamo sì inflazione e svalutazione, ma il debito era stabile e le famiglie lo compravano. Ora invece i bond nazionali sono largamente in mani estere, la finanza preadatoria specula sui rendimenti.
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Grazie all’imbroglio del debito, vogliono portarci via tutto
Siamo nei guai, da quando «abbiamo consegnato direttamente ai mercati finanziari la possibilità di creare nuova moneta». A chi conveniva? A loro, l’élite finanziaria speculativa. Si sono fatti le leggi che volevano. E oggi l’establishment ci racconta che il deficit è una tragedia, e che i “mercati” sono i nostri unici, veri padroni. Lo ammette persino il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Siamo caduti in un colossale imbroglio, avverte l’ex manager Bnl Guido Grossi, intervistato da “Tiscali”. La buona notizia è che possiamo uscirne: primo passo, rimettere in debito in mani italiane, riattivando i Bot a breve scadenza su misura per i cittadini: «Bastano 200 miliardi per far svanire l’incubo dello spread. E l’Italia è ricchissima: 4.200 miliardi di risparmi, più 5.000 miliardi di patrimonio immobiliare». Si può allonatarsi anche rapidamente, dalle secche artificiose del rigore, a una condizione: che si sappia chi ci ha inguaiati, come funziona la trappola del debito “privatizzato” e a cosa serve. Ad accumulare soldi? Sbagliato: il vero obiettivo è fare incetta di beni pubblici, dopo averne fatto crollare il prezzo attraverso crisi pilotate.La storia della nostra “prigionia” è lunga è dolorosa, riassume Grossi. Pietra miliare, il Trattato di Maastricht: l’Ue non può prestare soldi agli Stati né ad altri enti pubblici diversi dalle banche. «Perché? Non c’è alcun ragionevole motivo». Non esiste ragione, spiega Grossi, per cui la politica debba rinunciare al controllo della moneta. «Noi viviamo nell’economia dello scambio, visto che nessuno è in grado di prodursi tutto quello di cui ha bisogno, e per scambiarsi le cose serve la moneta. Questa deve circolare, passare di mano in mano, e quando ce n’è poca nel sistema bisogna immetterla». E dal 1971, finito il “gold standard”, è diventato chiaro che creare moneta è qualcosa che si può fare senza costi. «L’importante è che ce ne sia la giusta quantità e che, soprattutto, vada a finire nelle tasche giuste. Ma lo Stato ha rinunciato al potere di emetterla, questo è il primo punto». Il secondo? Il sistema finanziario si è trasformato: prima, il cittadino portava i risparmi in banca, e la banca li investiva nell’economia reale e creava lavoro. Oppure il cittadino prestava quei risparmi allo Stato, sotto forma di Bot e Cct, perché era un modo per metterli al sicuro.«Lo Stato usava quei risparmi per fare spesa pubblica: in sostanza, rimetteva quei soldi nelle tasche dei cittadini che spendono e nelle casse delle imprese che investono». La moneta circolava, aggiunge Grossi, perché «c’era un controllo pubblico», sia nella sua creazione, sia nella sua circolazione. Ormai «la moneta si crea dal nulla». Dunque, «sarebbe meglio riportarla sotto il controllo pubblico». La questione è che circola molto male, la moneta, «perché il sistema finanziario è diventato privato». E non solo: «Ha smesso di fare il suo mestiere: non prende il risparmio privato per indirizzarlo sulle imprese che investono o nelle famiglie che devono comprare casa». Il grosso «finisce sui mercati finanziari». E se tutti vogliono comprare i titoli di Stato il loro prezzo sale. Peraltro, «se il mercato compra titoli e le banche centrali continuano a comprarne con le operazioni di “quantitative easing”, e comprano pure titoli di aziende private, in quelle operazioni non fanno altro che sostenere il prezzo della bolla speculativa. Ci dicono che lo fanno per far salire l’inflazione e far entrare soldi alle imprese ma questi soldi vanno direttamente sui mercati finanziari».Fino agli anni ‘90, prosegue Grossi, si finanziavano ancora investimenti e imprese. Ora invece «la gran parte viene destinata a circolare attraverso lo scambio di titoli, di derivati sempre più complessi e sempre più oscuri». Così, la finanza decide tutto: «Una grande banca d’affari può chiamare una impresa, ottenere la sua collocazione in Borsa, studiarla, preparare il report per presentarla ai mercati, finire col conoscerla meglio di quanto non riesca a fare l’impresa stessa. Può farle avere i soldi dei mercati perché conosce tutti i fondi di investimento, anzi ha i suoi fondi di investimento. Ha la sua ricerca che può distribuire a tutti gli enti istituzionali in giro per il mondo, può fabbricare i derivati sui titoli e sui prestiti, negoziarli, fare tutto per operare sui mercati finanziari». Ed è chiaro che, con tali informazioni, la banca può sapere molto prima di altri quando il prezzo può salire e quando può scendere. «Possono fare qualsiasi cosa, far arricchire chi vogliono». L’obiettivo finale? «Non è continuare ad accumulare moneta, ma comprare beni reali», spiega Grossi. «E come si fa a comprare a basso costo cose reali? Scatenando crisi economiche».La Grecia insegna: con la scusa del debito, società e banche tedesche si sono prese anche gli aeroporti. Chi ha impedito alla Grecia di difendersi? L’Unione Europea, con i suoi vincoli: proibendo allo Stato di creare moneta, e perfino di farsela prestare per fare spesa pubblica in investimenti. Ovvio che il mondo finanziario sia intimamente legato alle multinazionali. E paesi come la Germania e gli Usa, dove c’è un grosso nucleo di grandi aziende internazionalizzate, traggono enormi dei benefici da questo sistema: a monte, riescono a ottenere regole su misura per il proprio business. «Anche in Italia ce le avevamo, le grandi aziende: le partecipazioni statali». Certo, ricorda Grossi, ci hanno raccontato che erano “carrozzoni” spreca-soldi. «In realtà facevano invidia agli Usa, alla Gran Bretagna, alla Francia e alla Germania». Così è arrivata la mannaia Ue: «Il Trattato di Maastricht ci ha poi imposto il vincolo assurdo del rapporto del 60% tra debito e Pil (e deficit non superiore al 3% del Pil)». E’ avvenuto «in un particolare momento, in cui noi eravamo a 100 e gli altri a 60». Obiettivo: frenare l’Italia, barando.«Così abbiamo dovuto svendere le partecipazioni statali, perché l’unico modo per entrare era vendere il patrimonio pubblico». La situazione, osserva Grossi, è precipitata con il divorzio fra Tesoro e Bankitalia, quando la banca centrale ha smesso di finanziare il governo a costo zero, “regalando” il debito (interessi) alla finanza privata. E ora siamo al pareggio di bilancio, varato da Monti: «Quando l’economia è ferma e c’è troppa disoccupazione, lo Stato ha il dovere di intervenire». C’è scritto nella Costituzione, ricorda Grossi: «Lo Stato ha il dovere di fare quanto necessario per metterci in grado di avere una esistenza libera e dignitosa, di contribuire al progresso materiale e spirituale della nazione. E ciò lo possiamo realizzare solo lavorando. Se c’è disoccupazione, crisi economica, le famiglie non spendono e le imprese non investono, allora o interviene qualcuno dall’esterno o la crisi rimane e continua ad avvitarsi su se stessa». A questo punto come fa, uno Stato, a continuare a perseguire politiche “costituzionali”, cioè keynesiane, di sviluppo e occupazione?«Tolto il potere di chiedere a Bankitalia di finanziare il deficit, aggiunto il vincolo di pareggio di bilancio, lo Stato in pratica non può più intervenire nell’economia». Attenzione: «Quando lo Stato poteva creare moneta, il debito pubblico materialmente finiva per non essere un problema». Controllando la leva monetaria, lo Stato non poteva mai ritrovarsi senza soldi. Gli stessi titoli di Stato, aggiunge Grossi, non servivano certo a incamerare denaro: al contrario, erano soldi che lo Stato lasciava ai cittadini, «per impiegare tranquillamente i loro risparmi nella maniera meno rischiosa e più sicura possibile». Se invece viene tolta la sovranità monetaria, sottolinea Grossi, allora il rischio comincia a nascere: «Lo Stato, per ripagare i titoli, è obbligato o a prendere con le tasse i soldi dalle tasche di alcuni cittadini per ripagare chi ha i titoli, o a farseli prestare. Per vendere i titoli di Stato, poi, il tesoro si serve degli operatori specialistici, che sono Goldman Sachs, Jp Morgan, Morgan Stanley e così via. Anziché rivolgersi ai suoi cittadini che non sanno dove mettere i risparmi, si rivolge alle banche private che fanno aumentare i costi dello Stato».Solo una parte del debito italiano, comunque, è in mano a stranieri: 700 miliardi, su 2.341. Ma questo non cambia la situazione, «perché la maggior parte dei titoli è controllata da questo sistema finanziario». In pratica, «gli investitori ci prestano i soldi alle loro condizioni, e noi abbiamo il rischio spread. Un rischio che arriva dai mercati: non sta scritto in nessuna norma che dobbiamo averlo. E’ stata una scelta tecnico-amministrativa che non ci è mai stata raccontata. Di questa scelta – dice Grossi – dobbiamo liberarci». Mettendo il debito pubblico in mano agli investitori internazionali stranieri e non avendo possibilità di stampare moneta, aggiunge Grossi, lo Stato è costretto a farsi prestare i soldi da altri per pagare quegli investitori. «Ho rinunciato a farmi prestare anche i soldi dai cittadini, e dunque mi sono messo un cappio al collo. Voglio finanziare cose indispensabili per il paese? Sale lo spread, le agenzie di rating abbassano la qualifica dei nostri titoli e possono determinare eventi rischiosissimi e catastrofici. Se viene abbassato il rating molti investitori possono essere spinti a vendere i nostri titoli. E se tutti vendono, si svende».Alla fine può arrivare il default, scattare il meccanismo “salva-Stati” come in Grecia. «Cioè: arrivano, ci prestano i soldi e in cambio ci impongono le tasse, ci dicono cosa privatizzare, cosa vendere, cosa tagliare e chi licenziare, ci piaccia o no. Per questo bisogna rimettere ordine nella nostra ricchezza e modificare il meccanismo uscendo dal cappio». Lo Stato, spiega Grossi, oggi paga inoltre tassi d’interesse altissimi perché si rivolge ai mercati finanziari esteri. «Negli anni ’80 avevamo tassi nominali molto alti, pagavamo anche il 10,15 o 20%. Oggi invece paghiamo dall’1 al 3%». Sembra che ci abbiamo guadagnato, e invece ci abbiamo perso: quello che conta, infatti, è il tasso nominale meno il tasso d’inflazione. «Se ho un debito di 100, se in un anno pago il 10% ma l’inflazione sta al 15%, a fine anno non ho pagato 10, ho risparmiato 5. Perché il peso del mio debito è sceso del 5%. Questo indipendentemente dal livello dei tassi nominali».I problemi sono iniziati smettendo di chiedere i soldi ai risparmiatori italiani, «che si accontentano di un tasso al di sotto dell’inflazione perché vogliono semplicemente difendere il valore del capitale». Tradotto: se io perdo l’1% cento (inflazione) ma nessuno mi tocca il capitale, non mi preoccupo. «Se invece compro un prodotto di investimento in banca e nel momento stesso in cui lo prendo già mi hanno tolto il 4 o 5% (anni addietro addirittura il 10%) allora sì che corro dei rischi e devo preoccuparmi. E quando lo Stato sceglie di farsi prestare i soldi non più dai propri cittadini, che si accontentano di un piccolo tasso di interesse in cambio della sicurezza, e comincia a rivolgersi agli investitori istituzionali che per natura fanno gli speculatori, è per forza costretto a pagare di più». A loro sta bene rischiare un po’ di capitale, a differenza del cittadino risparmiatore, ma vogliono essere pagati molto di più in cambio del rischio. «Ed ecco che i tassi reali sono diventati positivi».Oggi in Italia c’è l’inflazione all’1,50. Il Btp trentennale rende il 3,55%, quindi lo stato paga il 2% reale. «Sembra una cifra bassa ma è altissima, perché basta che passi il tempo e il debito cresce a dismisura. E’ esattamente quanto è successo, anche se ci raccontano che abbiamo sperperato i soldi». Insiste Grossi: «Lo spreco vero sono i 10 milioni di italiani che potrebbero lavorare e non facciamo lavorare», proprio perché il “cappio” di questo debito – gonfiato dalla speculazione – ci lascia in bolletta, mentre l’Ue ci impedisce di fare deficit per investire sul lavoro. Risultato: grazie alle politiche “lacrime e sangue”, ai tagli e all’austerity, in questi ultimi anni il debito pubblico (che si diceva di voler tagliare) è continuato a salire. «Sale il debito, sale la povertà, sale la disoccupazione. E’ evidente che la direzione presa era completamente sbagliata». Il timido Def “gialloverde”, con quel 2,4% di deficit, è primo segnale di una possibile inversione di tendenza, finalmente: il deficit generarerà un aumento del Pil, dei consumi, dell’occupazione.Siamo nei guai, da quando «abbiamo consegnato direttamente ai mercati finanziari la possibilità di creare nuova moneta». A chi conveniva? A loro, l’élite finanziaria speculativa. Si sono fatti le leggi che volevano. E oggi l’establishment ci racconta che il deficit è una tragedia, e che i “mercati” sono i nostri unici, veri padroni. Lo ammette persino il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Siamo caduti in un colossale imbroglio, avverte l’ex manager Bnl Guido Grossi, intervistato da “Tiscali”. La buona notizia è che possiamo uscirne: primo passo, rimettere in debito in mani italiane, riattivando i Bot a breve scadenza su misura per i cittadini: «Bastano 200 miliardi per far svanire l’incubo dello spread. E l’Italia è ricchissima: 4.200 miliardi di risparmi, più 5.000 miliardi di patrimonio immobiliare». Ci si può allontanare anche rapidamente, dalle secche artificiose del rigore, a una condizione: che si sappia chi ci ha inguaiati, come funziona la trappola del debito “privatizzato” e a cosa serve. Ad accumulare soldi? Sbagliato: il vero obiettivo è fare incetta di beni pubblici, dopo averne fatto crollare il prezzo attraverso crisi pilotate.
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Zingales a Mattarella: decide la democrazia, non i mercati
«La decisione del presidente italiano di respingere un governo eletto non ha senso né dal punto di vista economico né da quello politico». Lo afferma l’economista bocconiano Luigi Zingales, docente universitario a Chicago e, nel 2011, favorevole al rigore imposto all’Italia dall’Ue attraverso Mario Monti. Oggi Zingales non è più un teorico dell’austerity. Lo dimostra nel modo più esplicito, firmando un’analisi su “Foreign Policy” dopo l’inaudito siluramento del governo Conte attuato in prima battuta da Mattarella. «Nel 20° secolo, quando i risultati elettorali non risultarono graditi all’élite dominante e ai suoi alleati internazionali, scesero in strada i carri armati», scrive il professore. «Nel 21° secolo la reazione è meno cruenta, ma non per questo meno aggressiva. Invece dei carri armati, viene usato il mercato delle obbligazioni». È quello che è successo in Italia il 27 maggio, «quando un governo appoggiato da una maggioranza parlamentare è stato bloccato dal presidente della Repubblica, per il timore di come il mercato obbligazionario avrebbe potuto reagire alla nomina dell’ex dirigente della Banca d’Italia, Paolo Savona, di ottantuno anni, designato come ministro dell’economia». La colpa di Savona? «Avere sviluppato un piano di emergenza per l’uscita dall’euro, nel caso che questa avvenisse. È come se il presidente degli Stati Uniti licenziasse un ministro della difesa perché appronta un piano di emergenza in caso di guerra nucleare con la Corea del Nord».Al contrario, scrive Zingales, «entrambi avrebbero dovuto invece essere elogiati per la loro previdenza». Ma ammettiamo pure che Mattarella avesse ragione, e che la nomina di Savona potesse scatenare il panico nel fragile mercato obbligazionario italiano. Allo stesso modo, aggiunge il professore, ammettiamo pure che la Costituzione gli desse il diritto di farlo. Sarebbe stata una buona scelta? È giusto che la paura dei mercati annulli il processo decisionale democratico? E’ vero, agli economisti piace l’efficienza dei mercati nell’allocazione delle risorse. «I buoni economisti, tuttavia, sanno che, per funzionare correttamente, i mercati dovrebbero operare in regime di piena concorrenza e che gli operatori sul mercato dovrebbero essere informati in modo simmetrico». Al contrario, «il mercato del debito sovrano in Europa non soddisfa nessuna delle due condizioni», sottolinea Zingales, nella riflessione ripresa da “Voci dall’Estero”: «In un mercato concorrenziale, ogni singolo attore dovrebbe essere un price-taker, ovvero la sua attività di scambio non dovrebbe avere alcun impatto sui prezzi di mercato. E invece, per sua stessa ammissione, la Bce ha un impatto sui prezzi di mercato». Si impegna infatti nell’acquisto di obbligazioni sovrane per ridurne il rendimento, pratica nota come “quantitative easing”.Di conseguenza, prosegue Zingales, il mercato obbligazionario europeo non si muove più in base al risultato delle decisioni di migliaia di operatori indipendenti è invece diventato «un “concorso di bellezza”, in cui si cerca di anticipare la prossima decisione della Bce». In un simile mercato, «la dichiarazione di un membro della Bce che il “quantitative easing” dovrebbe concludersi prima del previsto» (come ha fatto Sabine Lautenschläger, membro del comitato esecutivo della banca centrale europea) «può essere sufficiente per creare timore e aumentare lo spread tra obbligazioni italiane e tedesche». Si domanda Zingales: «È saggio vincolare le decisioni politiche di qualsiasi altro paese ai capricci di un simile mercato? Il presidente italiano, evidentemente, lo pensa. Ma farlo è pericoloso: sia dal punto di vista economico sia politico». È pericoloso dal punto di vista economico, sostiene Zingales, «perché gli economisti preparati sanno che il mercato delle obbligazioni sovrane può avere più punti di equilibrio. Di conseguenza, quando il rapporto tra debito e Pil è alto, è sufficiente che si sparga una voce per spostare il mercato obbligazionario da un punto di equilibrio a un altro, con il rischio di default».In generale, questa eventualità è impedita dalla banca centrale nazionale. «Quando è stata creata la Bce, tuttavia, i meccanismi necessari a una banca centrale non furono previsti appositamente, con lo scopo di lasciare ai mercati l’imposizione di un vincolo disciplinare ai paesi membri». Ma questa, osserva Zingales, «è stata una decisione cattiva dal punto di vista economico, che ha reso obbligatorio che la Bce alla fine fosse costretta a intervenire attivamente». Il risultato, per gli Stati, membri è che «non sono stati disciplinati da un mercato adeguatamente funzionante, ma dalla Bce – un’istituzione composta da individui che, anche se animati dalle migliori intenzioni, possono sbagliare». Il che, sempre secondo il professore, ci porta ai pericoli dal punto di vista politico. «Qualsiasi sistema istituzionale che attribuisca a un organismo non eletto come la Bce un ruolo prevalente rispetto agli organismi eletti, senza controllo, solleva seri problemi di legittimità», scrive l’economista. Immaginiamo l’ipotesi in cui il commento di un dirigente della Bce tedesco scateni involontariamente una crisi sul mercato obbligazionario italiano, che costringa l’Italia a ricorrere a un programma del Mes e del Fmi. «Che tipo di legittimità politica avrebbe un simile risultato in Italia? Anche un paese meno affascinato da poco plausibili teorie complottiste comincerebbe a sospettare una trama tedesca».Questo sospetto «diventerebbe poi certezza», scrive Zingales, «se un commissario europeo tedesco dichiarasse che i mercati finanziari insegneranno agli italiani a non votare per i populisti». Fortunatamente, aggiunge, quest’ultimo punto è ipotetico, ma non troppo: il commissario europeo alle finanze, Günther Oettinger, ha dichiarato che sperava che «lo sviluppo negativo dei mercati» fornisse «agli elettori un segnale di non votare per i populisti di destra o di sinistra». Precisa Zingales: «Sto negando il diritto dei partner europei degli italiani di essere preoccupati per il bilancio pieno di promesse (e nessuna misura per pagarle) concordato dal Movimento Cinque Stelle e dalla Lega? Assolutamente no. Mi associo anche alle preoccupazioni espresse dall’economista tedesco Hans-Werner Sinn sul cosiddetto debito Target2 che l’Italia sta accumulando nel sistema dell’euro: debito che è il risultato di un maggior numero di investitori stranieri che vendono obbligazioni italiane piuttosto che acquistarle». Entrambe le preoccupazioni, tuttavia, «riflettono gli errori di concezione fondamentali dell’euro», sottolinea il professore. «Lo Stato dell’Indiana non si preoccupa di quanto è spendaccione lo Stato dell’Illinois, né del debito che la Federal Reserve Bank di Chicago accumula con la Federal Reserve centrale».L’Illinois è libero di scegliere i suoi governatori senza interferenze dell’Indiana (anche se alcuni conservatori fiscali preferirebbero diversamente), proprio come lo Stato dell’Illinois è libero di fare default senza trascinare con sé tutte le sue banche locali e l’intera economia locale. «Il motivo è che ci sono sufficienti istituzioni federali, dall’assicurazione contro la disoccupazione all’assicurazione sui depositi, per assorbire lo shock. E c’è un’autorità politica comune – in particolare, il Congresso degli Stati Uniti, in cui gli Stati più piccoli sono in proporzione più rappresentati – per risolvere eventuali controversie che potrebbero sorgere». Le tensioni politiche in Europa non sono quindi inevitabili, insiste Zingales. «La moneta comune europea, tuttavia, è stata creata prima delle istituzioni necessarie per sostenerla. La speranza – formulata esplicitamente da alcuni politici italiani – era che una crisi alla fine avrebbe accelerato la creazione di queste istituzioni. Ma quasi vent’anni dopo l’introduzione dell’euro e dieci anni dopo una crisi economica di quelle che si scatenano una volta in un secolo, i progressi verso la creazione di queste istituzioni in Europa sono stati minimi».Molti europei non sono d’accordo? E’ vero: considerano “incoraggianti” i progressi dell’ultimo decennio, soprattutto se confrontati con la totale immobilità dei primi dieci anni dell’euro. «Certo, per chi vive all’ultimo piano la costruzione di una pompa per drenare l’acqua non appare urgente come per chi vive in cantina. L’Italia, in Europa, vive in cantina: e sta affogando», scrive Zingales. Beninteso: «Nessun governo italiano può riformare l’Eurozona da solo». Eppure, aggiunge, «le riforme non si faranno, se non ci si prova». Il presidente francese Emmanuel Macron sembra disposto a spendere un po’ di capitale politico per promuovere una riforma dell’Eurozona, «ma ha bisogno di un alleato in Italia – la terza maggiore economia dell’area economica – per renderla una priorità». Questo, spiega Zingales, sarebbe il principale vantaggio di una coalizione tra Lega e 5 Stelle: «Entrambe le parti hanno promesso di combattere per le riforme in Europa – una promessa su cui scommettono il loro futuro politico». E quindi: «Piuttosto che criminalizzare le richieste di aiuto – conclude Zingales – l’Europa dovrebbe rimboccarsi le maniche e proporre un piano per il cambiamento. Altrimenti, non solo il “Belpaese” – come gli italiani chiamano la nostra patria – affonderà, ma affonderà l’idea stessa che nel continente si possa convivere in pace e prosperità».«La decisione del presidente italiano di respingere un governo eletto non ha senso né dal punto di vista economico né da quello politico». Lo afferma l’economista bocconiano Luigi Zingales, docente universitario a Chicago e, nel 2011, favorevole al rigore imposto all’Italia dall’Ue attraverso Mario Monti. Oggi Zingales non è più un teorico dell’austerity. Lo dimostra nel modo più esplicito, firmando un’analisi su “Foreign Policy” dopo l’inaudito siluramento del governo Conte attuato in prima battuta da Mattarella. «Nel 20° secolo, quando i risultati elettorali non risultarono graditi all’élite dominante e ai suoi alleati internazionali, scesero in strada i carri armati», scrive il professore. «Nel 21° secolo la reazione è meno cruenta, ma non per questo meno aggressiva. Invece dei carri armati, viene usato il mercato delle obbligazioni». È quello che è successo in Italia il 27 maggio, «quando un governo appoggiato da una maggioranza parlamentare è stato bloccato dal presidente della Repubblica, per il timore di come il mercato obbligazionario avrebbe potuto reagire alla nomina dell’ex dirigente della Banca d’Italia, Paolo Savona, di ottantuno anni, designato come ministro dell’economia». La colpa di Savona? «Avere sviluppato un piano di emergenza per l’uscita dall’euro, nel caso che questa avvenisse. È come se il presidente degli Stati Uniti licenziasse un ministro della difesa perché appronta un piano di emergenza in caso di guerra nucleare con la Corea del Nord».
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Micalizzi: liberi da Madrid e ancora più schiavi di Bruxelles?
Chiunque abbia a cuore la sovranità dei popoli non può che provare empatia per qualsiasi causa di autodeterminazione, soprattutto se conclamata dalle immagini di una popolazione che lotta per le strade per respingere la polizia inviata ad impedire la celebrazione di una consultazione popolare. Tuttavia, la partita in atto contro le élite finanziarie è complessa e richiede pragmatismo e strategia. Proviamo a porci questa domanda: supponiamo che oggi la Catalogna si stacchi dalla Spagna, e che questo inneschi altre spinte centrifughe riguardanti i baschi, i corsi, i bretoni, i fiamminghi, l’Alto Adige etc… staremmo per questo realizzando l’Europa dei popoli liberi? L’Europa della piccole patrie? L’Europa delle identità? Oggi, nel contesto nel quale siamo, non ne sono affatto sicuro. Non ho un’opinione compiuta sui fatti catalani, e plaudirei senza esitazione alla volontà indipendentista catalana se fossi sicuro che il neo-Stato avesse un piano di emancipazione dalle élite finanziarie alle quali, oggi, è soggetto come parte del perimetro spagnolo. Infatti, è l’indipendenza dall’occupazione finanziaria la prima che va cercata, che è di gran lunga superiore a qualsiasi altra forma di occupazione, inclusa quella militare.Ecco, io questa sicurezza non ce l’ho. Anzi, stando ai dati in mio possesso, nel contesto attuale ritengo che l’eventuale nuovo Stato catalano verrebbe facilmente assorbito nei meccanismi burocratico-finanziari di Bruxelles e della City di Londra, ed avrebbe ancora meno potere contrattuale di quanto non ne abbia già oggi all’interno del perimetro giuridico spagnolo. Qualsiasi decisione strategica deve essere accompagnata da un piano. Ad esempio, da anni ripeto a chi si affretta a sostenere l’uscita tout-court dall’euro di spiegare dove intende andare, con quali mezzi e con quale strategia. Stesso dicasi per i trattati militari (Nato), commerciali, etc. Non basta “uscire”, bisogna avere un piano ed avere almeno una chance di trovarsi, dopo l’uscita, in una posizione migliore, di maggiore sovranità rispetto a prima, altrimenti è meglio star fermi e costruire le condizioni necesssarie. Questo stesso principio, oggi, lo applico alle rivendicazioni indipendentiste. A me sembra che la causa catalana, infatti, non diversa da quella di altre regioni ricche europee, nasca dalla rivendicazione di autonomia amministrativa, non finanziaria.E’ rivolta, cioè, contro l’“occupazione” politica dello Stato centralista, non contro quella finanziaria esercitata dalla Troika e dalle sue propaggini bancarie attraverso l’inganno del debito. Difatti, viene rivendicata la gestione autonoma del budget fiscale, dei vincoli di bilancio, ma non si denunciano i meccanismi di asservimento finanziario, quei meccanismi automatici che sono figli di trattati europei perversi e ingannevoli. Non ho notizie di alcuna critica radicale dei catalani rispetto al debito fittizio verso la Bce, rispetto alla minaccia del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes), rispetto al meccanismo perverso del Fiscal Compact che sta attuando un piano di deflazione e svalutazione programmata dell’intera Eurozona. Se leggessi qualcosa del genere, potrei accettare la scelta indipendentista come strumentale ad un disegno più ampio di emancipazione finanziaria e quindi autenticamente politica del popolo catalano, finalizzata a ricostituire quella triade popolo-territorio-sovranità che caratterizza un’autentica comunità politica. Mi sembra, insomma, che Barcellona non disponga di alcun modello economico-sociale alternativo a quello neo-liberista, e che non guardi a Madrid come ad un nemico, quanto piuttosto come ad un antagonista, un concorrente nella corsa autolesionista a sottoporsi alla dittatura delle élite burocratico-finanziarie.Posta così la questione, potremmo addirittura trovarci alla soglia di una ricomposizione degli Stati nazionali europei in unità frazionate, più deboli e assoggettabili a piani di indebitamento più efficaci perchè adattati alle caratteristiche socio-economiche di entità maggiormente omogenee, il tutto all’interno di una cornice compiutamente neo-liberista. In più, di certo, possiamo aggiungere già da ora che nella situazione di oggi (lo sottolineo) la Catalogna indipendente implicherebbe anche la rinuncia dei catalani ad avere un peso nelle decisioni internazionali, un ruolo nelle scelte militari, geopolitiche, nelle assisi internazionali dove si fanno gli accordi sul commercio, sull’energia, sui flussi migratori, indebolendo peraltro anche il peso specifico della Spagna post-scissione. Resisterei, quindi, alla tentazione di plaudire alla Catalogna “libera”… e mi domanderei piuttosto se nel contesto attuale questa mossa non crei piuttosto le premesse per una ulteriore sottrazione di sovranità popolare, prestando alla Troika un nuovo lembo di terra sul quale esercitare il proprio dominio, con minore resistenze rispetto al passato.(Alberto Micalizzi, “Indipendenza da cosa?”, dal blog di Micalizzi del 1° ottobre 2017).Chiunque abbia a cuore la sovranità dei popoli non può che provare empatia per qualsiasi causa di autodeterminazione, soprattutto se conclamata dalle immagini di una popolazione che lotta per le strade per respingere la polizia inviata ad impedire la celebrazione di una consultazione popolare. Tuttavia, la partita in atto contro le élite finanziarie è complessa e richiede pragmatismo e strategia. Proviamo a porci questa domanda: supponiamo che oggi la Catalogna si stacchi dalla Spagna, e che questo inneschi altre spinte centrifughe riguardanti i baschi, i corsi, i bretoni, i fiamminghi, l’Alto Adige etc… staremmo per questo realizzando l’Europa dei popoli liberi? L’Europa della piccole patrie? L’Europa delle identità? Oggi, nel contesto nel quale siamo, non ne sono affatto sicuro. Non ho un’opinione compiuta sui fatti catalani, e plaudirei senza esitazione alla volontà indipendentista catalana se fossi sicuro che il neo-Stato avesse un piano di emancipazione dalle élite finanziarie alle quali, oggi, è soggetto come parte del perimetro spagnolo. Infatti, è l’indipendenza dall’occupazione finanziaria la prima che va cercata, che è di gran lunga superiore a qualsiasi altra forma di occupazione, inclusa quella militare.