Archivio del Tag ‘europeismo’
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Il paradiso di Severgnini, questo falso Occidente criminale
È ancora possibile, a un quarto di secolo dalla caduta del Muro di Berlino, ridurre i conflitti che agitano il mondo globale a una contrapposizione bipolare fra “il mondo libero” (appellativo classicamente riferito – ça va sans dire – all’Occidente) e un “impero del male” che (venuto a mancare lo spettro del comunismo) viene ora identificato con un variegato schieramento di “mostri” cui si tenta di attribuire un’improbabile identità comune? Sembrerebbe un’azzardata operazione retrò, ma ciò non ha impedito a Beppe Severgnini di provarci sulle pagine del “Corriere della Sera”. Vediamo in primo luogo come Severgnini – emulo del Dottor Frankenstein – cerca di costruire la figura di un grande Nemico assemblando pezzi eterogenei di movimenti e Stati “canaglia” (“i nuovi Erode”). In cima alla lista, prevedibilmente, i movimenti integralisti islamici sparsi per il mondo (Iraq, Siria, Nigeria, Pakistan, stranamente manca l’Afghanistan).E poco importa se questi movimenti hanno storie e radici socioculturali diverse nelle diverse situazioni, tanto ormai si può giocare sul luogo comune di un Islam radicale globalizzato e omologato che esiste solo nell’imaginario dei media del “mondo libero” (salvo poi dover fare i salti mortali come in Siria, dove il mostro Bashar al-Assad e i “terroristi” del Pkk curdo vengono ora considerati alleati nella lotta contro i super mostri dell’Isis). Subito dopo la “cleptocrazia” di Putin che tenta di “riesumare la Grande Russia” aggredendo l’Ucraina; e qui – a parte la faccia tosta di definire cleptocrazia il regime russo quando si è cittadini della nazione più corrotta del mondo, come hanno appena dimostrato gli scandali Mose, Expo e Roma Mafia – c’è una palese inversione della realtà storica, visto che ad assediare la Russia e a tentare di colonizzare i paesi ex comunisti dell’Est Europa è stato semmai, dopo il 1989, proprio il “mondo libero” occidentale.Infine l’eterno, ridicolo (per la sua irrilevanza geopolitica) bersaglio di Pyongyang, un regime da operetta che viene presentato come una terribile minaccia per la libertà, solo per avere orchestrato alcuni attacchi informatici contro la Sony, che ha prodotto un film satirico in cui si dileggia il regime nordcoreano (nel mondo libero non si censura: ci si limita a nascondere al pubblico la verità, come hanno dimostrato le rivelazioni di Assange e Snowden, i quali, per avere rovinato l’immacolata immagine dei campioni della libera informazione, sono ora costretti a vivere in esilio). Questi “nuovi Erode” possono farci paura, tuona Severgnini, ma non si illudano: essi non possono vincere; a vincere saremo noi, il mondo libero occidentale, e lo faremo con la forza delle idee e non con la violenza (peccato che sulla testa delle centinaia di migliaia di civili massacrati in Iraq e in Afghanistan, per tacere delle tante altre guerre combattute in nome della libertà, siano piovute bombe e non idee). Ma vediamo quali sono queste idee vincenti.Pace (abbiamo appena accennato ai virtuosi massacri spacciati per guerre umanitarie); benessere (la crisi iniziata nel 2008 ha svelato la realtà di un mondo in cui le disuguaglianze sono tornate ai livelli dell’800 e dove all’arricchimento smisurato di un pugno di esponenti dell’alta finanza corrisponde l’immiserimento di milioni di cittadini comuni); istruzione (vogliamo parlare dei costi di un’istruzione superiore che torna ad essere appannaggio di ristrette élite?); tolleranza (quella di un paese “libero” come gli Stati Uniti, dove migliaia di cittadini di colore disarmati vengono assassinati da poliziotti che non solo non rischiano di essere incriminati ma conservano anche il posto?), rispetto per le donne (anche se dietro la retorica del politically correct si nasconde la realtà di un lavoro femminile che continua a essere sottopagato, per tacere dei femminicidi perpetrati nelle normali famiglie borghesi).Che dire poi della presunta superiorità del mercato garante di libertà e democrazia: finché dovremo ancora ascoltare questa baggianata? È vero che è passato molto tempo da quando i regimi nazifascisti si sono dimostrati del tutto compatibili con il libero mercato, ma oggi, con la Cina totalitaria che si avvia a diventare la maggiore potenza capitalistica mondiale, siamo di fronte a una smentita ancora più clamorosa. Insomma, se questi sono i suoi “valori”, allora non solo è possibile che l’Occidente perda, ma si può dire che ha già perso, perché di quei valori non ne è rimasto in piedi nemmeno uno: a combattere i “nuovi Erode” non c’è Gesù, ma un vecchio Erode non meno feroce dei suoi nemici. Eppure, scrive Severgnini, i migranti rischiano ancora la vita in mare «per un pasto, un letto, un ospedale, una strada in cui non bisogna tremare di paura davanti a un poliziotto». Rischiano la vita perché a casa loro crepano di fame, ma qui, più che pasti, letti e ospedali, trovano squallidi ghetti assediati da folle razziste (do you remember Tor Sapienza?) e, se non subiscono passivamente qualsiasi angheria, o se sono “irregolari”, tremano eccome davanti a un poliziotto.Alla fine, quasi prevedendo le sarcastiche obiezioni avanzate in questo articolo, Severgnini le rintuzza con il solito refrain: «Eppure il mondo ci riconosce che, per adesso, non s’è inventato niente di meglio della democrazia e del mercato». È l’argomento con cui il pensiero unico neoliberista cerca di legittimare, sia pure con argomenti di basso profilo (“in fondo non abbiamo niente di meglio”), la propria egemonia culturale. Ed è proprio sul piano culturale, prima ancora che su quello politico, che occorre lavorare per smontarlo, come alcuni (non moltissimi purtroppo) cercano di fare. Uno di questi era Hosea Jaffe, un economista sudafricano morto qualche giorno fa in Italia, dove ha vissuto i suoi ultimi anni di vita. Marxista eretico (i marxisti ufficiali non gli perdonavano di avere rinfacciato alle sinistre occidentali la loro complicità con il colonialismo), iconoclasta fino ad accusare gli stessi Marx ed Engels di eurocentrismo non senza venature razziste, Jaffe è stato in prima fila nelle lotte contro diversi regimi coloniali e neocoloniali africani, e si è battuto perché partiti e sindacati occidentali riconoscessero che parte delle loro conquiste salariali e sociali erano finanziate dal supersfruttamento dei popoli del Terzo Mondo.Oggi le sue idee trovano una sia pure parziale applicazione nelle lotte di quei movimenti sudamericani, africani e asiatici che hanno cominciato a capire di doversi inventare un’alternativa globale al “mondo libero”. Possiamo solo sperare che lavorino abbastanza in fretta per impedire che la rabbia dei milioni di disperati esclusi dai nostri “paradisi” trovi rappresentanza solo da parte dei nuovi Erode di cui sopra. Senza dimenticare che quella rabbia inizia a montare anche qui e, in assenza di un’alternativa di sinistra credibile, rischia di imboccare la strada che aveva imboccato negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, una strada in fondo alla quale ci aspetterebbero orrori peggiori di quelli che oggi inquietano i sogni dei pacifici borghesi occidentali.(Carlo Formenti, “Severgnini e la vecchia retorica del mondo libero contro l’impero del male”, da “Micromega” del 22 dicembre 2014).È ancora possibile, a un quarto di secolo dalla caduta del Muro di Berlino, ridurre i conflitti che agitano il mondo globale a una contrapposizione bipolare fra “il mondo libero” (appellativo classicamente riferito – ça va sans dire – all’Occidente) e un “impero del male” che (venuto a mancare lo spettro del comunismo) viene ora identificato con un variegato schieramento di “mostri” cui si tenta di attribuire un’improbabile identità comune? Sembrerebbe un’azzardata operazione retrò, ma ciò non ha impedito a Beppe Severgnini di provarci sulle pagine del “Corriere della Sera”. Vediamo in primo luogo come Severgnini – emulo del Dottor Frankenstein – cerca di costruire la figura di un grande Nemico assemblando pezzi eterogenei di movimenti e Stati “canaglia” (“i nuovi Erode”). In cima alla lista, prevedibilmente, i movimenti integralisti islamici sparsi per il mondo (Iraq, Siria, Nigeria, Pakistan, stranamente manca l’Afghanistan).
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Ipotesi Putin: Prodi al Quirinale con la grazia per Silvio?
Prepariamoci al peggio: si chiama Romano Prodi e sarebbe il più inflessibile esattore dell’Ue, il massimo custode delle tasse e supremo garante dei creditori internazionali che stanno letteralmente spremendo l’Italia. Lo sostiene Aldo Giannuli, scrutando tra le manovre per la successione a Napolitano. Tutti i nomi finora circolati, dice il politologo dell’università di Milano, servono solo a «coprire il nome del vero candidato da tirare fuori dopo aver fatto cadere gli altri, e qui il nodo ha un solo nome: Prodi». Sulla carta è il candidato ideale del fronte anti-Nazareno, che però non avrebbe i numeri necessari a farlo eleggere. Due ipotesi, allora: «O Renzi sta pensando di sbarazzare il campo dal suo più pericoloso sfidante, per aprire la strada a un Gentiloni o a una Pinotti, oppure si sta veramente valutando di eleggere “la mortadella dal volto umano” al Quirinale». Bruciare Prodi sulla via del Colle per candidarlo all’Onu? Possibile, ma Renzi non può garantirgli il Palazzo di Vetro. Sicuramente qualcosa è stato deciso durante lo “strano” viaggio che il professore ha appena condotto a Mosca.«Prodi è sempre stato tanto amico dei tedeschi, poi dei cinesi, ma anche dei russi», scrive Giannuli nel suo blog. «In fondo, l’affare Gazprom partì quando lui era presidente del Consiglio e molti ricordano la sede moscovita della Nomisma (d’accordo, pagata dal Sismi, ma questo conta fino ad un certo punto) che dava autorevoli pareri al Cremlino». Dunque, «Renzi candida Prodi (ed è ovvio che la candidatura parta dal paese di appartenenza del candidato), però poi si aggiunge un autorevolissimo appoggio di russi, tedeschi e (perché no?) cinesi. Col che, la candidatura all’Ag dell’Onu prenderebbe decisamente corpo. Per cui, la gita russa di Prodi andrebbe letta come il sondaggio della disponibilità di Putin a sostenerlo. Vedremo se i pellegrinaggi continueranno anche a Berlino, Pechino, magari Washington». Giannuli però insiste sulla seconda ipotesi, il Quirinale. Indispensabile, però, l’appoggio di Berlusconi. «Già, ma come convincere il Cavaliere a votare quello che certamente odia di più?». Forse la risposta ce l’ha in tasca Putin: «E’ tanto amico del Cavaliere che può anche chiedergli un favore, magari assicurandogli la tanto sospirata grazia».In fondo, continua Giannuli, l’eventuale ripresa dei progetti Gazprom dovrebbe stare molto a cuore anche al Cavaliere. E poi, magari, Prodi potrebbe godere l’appoggio della Ue. Infatti è «uomo di sicura fede europeista (tradotto: farebbe benissimo il ruolo di commissario Ue in Italia, garantendo il debito anche a costo di impiccare uno per uno gli italiani per pagare gli interessi)». In fondo, «potrebbe essere sopportato anche dagli americani o, quantomeno, dall’attuale amministrazione Usa». Per convincere Berlusconi ci vorrebbe «lo zuccherino finale», cioè la concessione della grazia. «Chi meglio di Prodi potrebbe dargliela?». Giannuli non ha dubbi: «Già sento i commenti: “Con la grazia al Cavaliere, da parte del suo storico avversario, si chiudono venti anni di guerra civile”… “E’ una svolta epocale, solo Prodi poteva farlo”». A meno che non provveda direttamente Napolitano, un minuto prima di lasciare il Colle. «Insomma un mega-inciucio, un super-Nazareno che ingoia e digerisce la fragile opposizione interna al Pd (come potrebbero non votare Prodi?)». Ipotesi, d’accordo. «Però una cosa possiamo dirla da adesso: mai vista una elezione del Presidente con giochi coperti ed intrighi come questa. E siamo solo agli inizi…».Prepariamoci al peggio: si chiama Romano Prodi e sarebbe il più inflessibile esattore dell’Ue, il massimo custode delle tasse e supremo garante dei creditori internazionali che stanno letteralmente spremendo l’Italia. Lo sostiene Aldo Giannuli, scrutando tra le manovre per la successione a Napolitano. Tutti i nomi finora circolati, dice il politologo dell’università di Milano, servono solo a «coprire il nome del vero candidato da tirare fuori dopo aver fatto cadere gli altri, e qui il nodo ha un solo nome: Prodi». Sulla carta è il candidato ideale del fronte anti-Nazareno, che però non avrebbe i numeri necessari a farlo eleggere. Due ipotesi, allora: «O Renzi sta pensando di sbarazzare il campo dal suo più pericoloso sfidante, per aprire la strada a un Gentiloni o a una Pinotti, oppure si sta veramente valutando di eleggere “la mortadella dal volto umano” al Quirinale». Bruciare Prodi sulla via del Colle per candidarlo all’Onu? Possibile, ma Renzi non può garantirgli il Palazzo di Vetro. Sicuramente qualcosa è stato deciso durante lo “strano” viaggio che il professore ha appena condotto a Mosca.
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Terza Repubblica? Giannuli: la rivolta anti-Ue la seppellirà
Populismi passeggeri? Scordiamocelo. La nuova ondata anti-europeista non avrà la forza di imporsi come egemone, ma costringerà il sistema a fare i conti con le verità più scomode. E potrebbe portare al collasso la costruzione artificiosa di un’Unione Europea non esattamente democratica e popolare. Lo sostiene il politologo Aldo Giannuli, a vent’anni dalla fondazione in Italia della cosiddetta Seconda Repubblica, sotto l’urto delle inchieste per corruzione. Certo, Tangentopoli non cambiò la Costituzione. Ma a produrre il terremoto bastò la mutazione della “Costituzione materiale”, con la riforma del sistema elettorale imposta da quello che Giannuli chiama «il referendum golpista di Segni, Occhetto e Pannella», che delegittimava la Carta fondativa «riducendola al rango di “Costituzione provvisoria”», trasformando la forma di governo: dal regime parlamentare siamo passati a un «para-presidenzialismo surrettizio», sulle macerie dei vecchi partiti, «sostituiti da partiti “leggeri”, carismatici e, spesso, a carattere personale». La Prima Repubblica si era esaurita, non avendo avuto il coraggio di rinnovarsi negli anni ‘70. Ma al suo crollo è seguito «un decennio di involuzione e ulteriore degenerazione partitocratica».Determinante lo scenario geopolitico, il crollo dell’Urss che «scioglieva antichi patti (ma, singolarmente, non quello Atlantico)» e rendeva superflui vecchi strumenti di mediazione sociale. L’onda neoliberista, scrive Giannuli, si è abbattuta sulla socialdemocrazia europea, «espugnandola e facendone una variante liberale». Così è finito il soffitta «il patto lavorista del welfare», vanto del benessere europeo, dei diritti acquisiti e della sicurezza sociale. «Tutto questo avanzava sugli scudi di un nuovo tipo di populismo (in gran parte alimentato dalla televisione) profondamente antipolitico, miscelato con la nuova ideologia dominante». In Italia, questa ondata populista «assunse la forma di un esasperato giustizialismo». Ovvero: «La sacrosanta richiesta di legalità nella cosa pubblica e di lotta alla corruzione venne strumentalizzata in favore di una restrizione brutale dello spazio politico nella tenaglia fra mercati finanziari e “governo dei giudici”, conforme alla nuova “lex mercatoria”». Trionfo del liberismo, confidando in un durevole ordine mondiale. «E il progetto di una Unione Europea a trazione monetaria fu la traduzione continentale di questa ondata».All’epoca, ricorda Giannuli, l’europeismo facile spopolava: «Salvo i soliti inglesi, assai perplessi sull’Europa e più attratti dal mare, francesi, tedeschi, olandesi e spagnoli facevano a gara a chi era più europeista». Gli italiani, poi, «nel 1989 plebiscitarono i trattati europei con un 88,9% in un referendum consultivo». E alle porte della Ue «si accalcavano tutti i paesi dell’Est», nonché Cipro, Turchia e Tunisia. «Persino il Kazakhstan – rivendicando il tratto rivierasco sul Caspio, mare chiuso europeo – poneva una sua improbabile candidatura alla Ue». Vent’anni dopo, in Italia, «siamo di nuovo alla crisi dell’ordine costituzionale». E, ancora una volta, «a mutare è la Costituzione materiale: i partiti cambiano collocazione, identità, forme d’azione e di comunicazione, spinti da dinamiche sociopolitiche ben diverse da quelle che avevano accompagnato il passaggio alla Seconda Repubblica». Soprattutto, «siamo in presenza di una ondata di populismo di diversa qualità». Quello degli anni ‘80 e ‘90 era «funzionale al disegno del nuovo blocco sociale dominante – a trazione finanziaria – che postulava il totale ritiro dello Stato dall’economia», e quindi «l’abbattimento del primato della politica».Spesso, i movimenti populisti «si raccoglievano intorno a finanzieri, politici borderline o più banali “brasseurs d’affaires” come Timinski in Polonia, Ross Perot negli Usa, Collor de Mello in Brasile, Jordi Pujol in Spagna, Bernard Tapie in Francia o il nostro Silvio Berlusconi». Sicché, la critica alle ideologie «era funzionale allo stemperamento delle identità», sbriciolando i partiti tradizionali: socialdemocratici, democristiani, liberali, conservatori, gaullisti. «Oggi, in tempo di crisi, siamo in presenza di un populismo ribellista, antisistema, antifinanziario non meno che antipolitico», scrive Giannuli. «Soprattutto, l’ostilità si indirizza contro l’euro e, di conseguenza, l’Unione Europea individuate (non a torto) come articolazioni di quel potere finanziario contro cui si insorge». All’opposto di vent’anni fa, le dinamiche – da centripete che erano – si sono fatte centrifughe, e le “famiglie” classiche non esauriscono più lo spettro politico. Sia dove il sistema elettorale è proporzionale (Germania, Parlamento Europeo) sia dove vige il bicameralismo (Italia) l’elettorato non consegna più in modo chiaro la maggioranza assoluta dei seggi, così si ripiega sulle “larghe intese”, «le “grandi coalizioni” (che di grande ormai hanno il nome, più che i numeri)», e vengono approntate «in difesa dell’euro».Dove invece il sistema elettorale e il presidenzialismo consegnano la maggioranza assoluta al partito più forte, continua Giannuli, accadono altri fenomeni: quello che era il “secondo” partito del sistema tende a diventare il terzo (conservatori in Inghilterra, socialisti in Francia e Spagna) e, per effetto delle stesse leggi elettorali maggioritarie, a marginalizzarsi, dovendo affrontare una «insorgenza populista» che oggi non è così compatta: c’è «una destra radicale dichiarata» (Fn in Francia, Lega e FdI in Italia, Alba Dorata in Grecia), «una destra più moderata e “conciliabile” con il sistema» (Afd in Germania, Ukip in Inghilterra), nonché partiti più dichiaratamente di sinistra e alternativi (Podemos in Spagna, Kke in Grecia, Pcp in Portogallo) e partiti eurocritici ma più disposti a coalizzarsi con la sinistra tradizionale (Syriza in Grecia, Sel e Rifondazione in Italia, Izquierda Unida in Spagna, Sinistra Verde Nordica), mentre «casi particolari rappresentano, per diverse ragioni, la Linke in Germania e il M5S in Italia». A dettare i tempi è la crisi internazionale, ormai anche sociale: «C’è da chiedersi se la costruzione europea reggerebbe, qualora uno dei partiti antisistema dovesse vincere le elezioni in uno dei maggiori paesi dell’Unione, per esempio la Francia».Per altri versi, anche i casi di Portogallo, Grecia e Italia, con l’elevato rischio di default di ciascuno di essi, pongono seri interrogativi sulla capacità di resistere dell’attuale assetto istituzionale europeo, aggiunge Giannuli. Anche sul piano interno ai singoli Stati si manifestano tendenze implosive non trascurabili: «Le formazioni politiche populiste ed “eurocritiche”, nella maggior parte dei casi, non esprimono programmi politici organici: spessissimo la politica estera è semplicemente assente dal loro orizzonte, le ricette in materia di crisi economiche e finanziarie non di rado si mostrano assai semplicistiche, quasi mai esiste un discorso sulla ricerca e l’innovazione, e anche i discorsi sull’assetto costituzionale sono spesso generici e fumosi». Salvo i casi francese e greco, «non sembra che nessuno di questi movimenti sia in grado – almeno per un tempo politicamente prevedibile – di andare oltre una certa soglia di consensi». In altri casi, la presenza contemporanea di più forze anti-sistema, non coalizzate tra loro, ne frena l’impatto politico. «Almeno per ora, i movimenti populisti sembrano in grado di mettere in crisi l’egemonia dei partiti tradizionali, ma non di costruirne una propria». Ma guai a pensare che si tratti di temporali passeggeri: «Può darsi che l’ondata passi, ma solo dopo aver portato il sistema al limite di rottura. E l’Italia potrebbe essere il test decisivo».Populismi passeggeri? Scordiamocelo. La nuova ondata anti-europeista non avrà la forza di imporsi come egemone, ma costringerà il sistema a fare i conti con le verità più scomode. E potrebbe portare al collasso la costruzione artificiosa di un’Unione Europea non esattamente democratica e popolare. Lo sostiene il politologo Aldo Giannuli, a vent’anni dalla fondazione in Italia della cosiddetta Seconda Repubblica, sotto l’urto delle inchieste per corruzione. Certo, Tangentopoli non cambiò la Costituzione. Ma a produrre il terremoto bastò la mutazione della “Costituzione materiale”, con la riforma del sistema elettorale imposta da quello che Giannuli chiama «il referendum golpista di Segni, Occhetto e Pannella», che delegittimava la Carta fondativa «riducendola al rango di “Costituzione provvisoria”», trasformando la forma di governo: dal regime parlamentare siamo passati a un «para-presidenzialismo surrettizio», sulle macerie dei vecchi partiti, «sostituiti da partiti “leggeri”, carismatici e, spesso, a carattere personale». La Prima Repubblica si era esaurita, non avendo avuto il coraggio di rinnovarsi negli anni ‘70. Ma al suo crollo è seguito «un decennio di involuzione e ulteriore degenerazione partitocratica».
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Sinistra-fantasma, non ci ha difeso da Berlino né dall’euro
Proseguendo con le politiche di austerity l’Eurozona è destinata a deflagrare. Per questo, una sinistra degna di questo nome avrebbe il dovere di ragionare anche sulle modalità di uscita dalla moneta unica, per non lasciare il campo soltanto alle destre. Nel 2011 fui invitato a Parigi dal Partito socialista europeo a presentare lo “standard retributivo”, una proposta per interrompere la gara al ribasso tra i salari dei paesi membri dell’Unione. Ma i tedeschi si opposero. Di quella, come di altre ipotesi di coordinamento europeo, anche le più blande, non se ne fece nulla. Anzi, da allora i conflitti tra paesi sono aumentati. Sotto l’influenza del governo tedesco, a Napoli il recente vertice Bce ha ribadito che i singoli Stati nazionali dovranno restare fedeli alla linea dell’austerity. Inoltre, dal vertice è emerso un altro elemento che getta nuove ombre sul futuro dell’Eurozona. Draghi ha annunciato che la Bce immetterà sul mercato nuova liquidità per un ammontare complessivo fino a 1.000 miliardi in due anni. Sembrano tanti soldi, eppure da molti è stato considerato un intervento insufficiente.Il motivo possiamo comprenderlo facendo un confronto con altre banche centrali, ad esempio la Federal Reserve. Dall’inizio della crisi, la banca centrale statunitense ha effettuato acquisti di titoli e conseguenti emissioni di moneta per un ammontare tale da quintuplicare il suo bilancio. La Bce, invece, non lo ha nemmeno raddoppiato. Questo raffronto chiarisce che dovremmo sfatare l’opinione comune secondo cui Draghi sarebbe pronto a fare “tutto ciò che è necessario” per stabilizzare l’Eurozona. In realtà, messi a confronto con quelli di altre istituzioni, i suoi interventi sono stati abbastanza modesti. Nell’Eurozona registriamo da tempo un dissidio sulle interpretazioni dei vincoli europei, che vede la Germania e i suoi satelliti da un lato e l’Italia e gli altri Stati del Sud Europa dall’altro. Adesso nel conflitto viene coinvolta apertamente anche la Francia, che per un certo periodo si era tenuta un po’ in disparte ma che adesso inizia anch’essa a patire gli effetti dell’austerity. Temo però che non esistano le condizioni politiche per convincere il governo tedesco ad accettare finalmente una svolta negli indirizzi europei.Non vedo svolte di politica economica all’orizzonte. La mia opinione è che i paesi del Sud Europa avrebbero dovuto insistere sul fatto che in gioco è il futuro non solo della moneta unica ma anche del mercato unico europeo. Solo così, forse, avremmo potuto persuadere i tedeschi. Ma una trattativa del genere non è mai nemmeno iniziata. Ora mi sembra tardi. Il problema è che, come è stato ormai evidenziato dalla più autorevole letteratura scientifica, insistere con le politiche di austerity e di precarizzazione significa accrescere i divari tra paesi forti e paesi deboli. A lungo andare, come segnala il “monito degli economisti”, la forbice risulterà insostenibile e ai decisori politici non resterà altro che una scelta tra modi alternativi di uscita dall’Eurozona, ognuno dei quali può avere effetti diversi sulle diverse classi sociali. Sarebbe ora che tale punto entrasse nell’agenda politica delle forze politiche e sociali che si considerano eredi, più o meno degne e dirette, della tradizione del movimento dei lavoratori. Le destre nazionaliste, reazionarie e al limite xenofobe, appaiono prontissime a cogliere l’occasione di una crisi dell’euro. Le sinistre europee, invece, sembrano del tutto imbambolate. Verso una débacle storica.L’ex viceministro Pd Stefano Fassina parla di “disintegrazione caotica della moneta unica” e di “insostenibilità dell’euro”? Se si volesse far sul serio, bisognerebbe ripartire dai fondamenti. Per lungo tempo a sinistra ha prevalso un’idea astratta e retorica della globalizzazione e dell’europeismo. Un’idea basata sul convincimento che l’indiscriminata apertura ai mercati globali e l’unificazione monetaria europea potessero creare le condizioni per una maggiore convergenza tra lavoratori di diversi paesi, e quindi per un nuovo internazionalismo del lavoro. Ma la realtà si è rivelata molto più complessa. Basti notare che dall’introduzione dell’euro i differenziali salariali tra i diversi paesi non sono diminuiti ma al contrario sono aumentati. Anche questo ha reso difficile l’avvio di qualsiasi forma di coordinamento europeo della contrattazione. La sinistra, se ne esiste ancora una, dovrebbe partire da una revisione critica di quell’europeismo retorico e privo di aderenza ai fatti che per tanti anni l’ha caratterizzata. L’uscita dall’euro un salto nel buio? Abbiamo mostrato, dati alla mano, che i nemici della moneta unica sottovalutano i problemi di una eventuale uscita dall’Eurozona, per esempio riguardo ai salari o alle possibili acquisizioni estere di capitali nazionali. Questi problemi evidenziano che una uscita dall’euro andrebbe accompagnata da opportune politiche di salvaguardia, in primo luogo dei lavoratori. Ma i difensori dell’euro, che agitano il pericolo del salto nel buio, sono talvolta capaci di errori analitici anche più gravi.Prendiamo ad esempio il rischio di fughe di capitali. La verità è che queste già avvengono dentro l’Eurozona. I capitali sono fuggiti dalla Grecia nel 2010, da Italia, Spagna e Irlanda nel 2011, e più di recente le fughe di capitale hanno colpito Cipro, dove per arginarle è stato persino ipotizzato un ripristino dei controlli sui movimenti di capitale. Un tipico errore in malafede degli apologeti dell’euro è quello di evocare lo spettro di quel che succederebbe fuori senza considerare che i disastri che già si stanno già verificando dentro l’Eurozona. Intanto la Troika detta le politiche di austerity che portano a maggiore flessibilità, privatizzazioni e smantellamento di quel che resta dello Stato sociale. In Italia, il governo giustifica il Jobs Act sostenendo che occorre rendere il mercato del lavoro italiano più flessibile, più equo e più simile a quello della Germania. In realtà i dati Ocse mostrano che le riforme Treu, Biagi e Fornero hanno determinato una caduta delle tutele dei lavoratori italiani che è stata addirittura tripla rispetto alla riduzione delle protezioni che nello stesso periodo si è registrata in Germania.Gli indici dell’Ocse mostrano che ormai i lavoratori a tempo indeterminato in Italia sono meno protetti che in Germania. Inoltre, quando si parla di “apartheid” del mercato del lavoro, cioè di un divario tra protetti e precari, bisognerebbe ricordare che in Germania quel divario è triplo rispetto all’Italia. Infine, bisognerebbe smetterla con questa litania secondo cui una maggiore precarizzazione del mercato del lavoro riduce la disoccupazione. Questa tesi è stata seccamente smentita da vent’anni di ricerche empiriche. Dunque il Jobs Act si fonda su tesi false e per questo andrebbe respinto al mittente. Quanto al Tfr in busta paga, è un’anticipazione che rischia solo di deteriorare ulteriormente i risparmi dei lavoratori e che avrà effetti sulla crescita risibili. E’ l’ennesima dimostrazione che quella di Renzi non è una politica definibile tradizionalmente di “centro”: in realtà il governo segue una linea demagogica e populista.(Emiliano Brancaccio, estratti delle dichiariazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “L’Ue è fallita, la sinistra ragioni sull’euro”, pubblicata da “Micromega” il 7 ottobre 2014).Proseguendo con le politiche di austerity l’Eurozona è destinata a deflagrare. Per questo, una sinistra degna di questo nome avrebbe il dovere di ragionare anche sulle modalità di uscita dalla moneta unica, per non lasciare il campo soltanto alle destre. Nel 2011 fui invitato a Parigi dal Partito socialista europeo a presentare lo “standard retributivo”, una proposta per interrompere la gara al ribasso tra i salari dei paesi membri dell’Unione. Ma i tedeschi si opposero. Di quella, come di altre ipotesi di coordinamento europeo, anche le più blande, non se ne fece nulla. Anzi, da allora i conflitti tra paesi sono aumentati. Sotto l’influenza del governo tedesco, a Napoli il recente vertice Bce ha ribadito che i singoli Stati nazionali dovranno restare fedeli alla linea dell’austerity. Inoltre, dal vertice è emerso un altro elemento che getta nuove ombre sul futuro dell’Eurozona. Draghi ha annunciato che la Bce immetterà sul mercato nuova liquidità per un ammontare complessivo fino a 1.000 miliardi in due anni. Sembrano tanti soldi, eppure da molti è stato considerato un intervento insufficiente.
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Chi tocca muore: fango su chiunque osi avvicinarsi a Putin
Come nel film il “Tocco del male” del 1998, interpretato da Denzel Washington e Donald Sutherland, chiunque viene sfiorato dai russi viene immediatamente posseduto da un demone che trasforma gli uomini in assassini della democrazia, persecutori di gay, violentatori di donne, violatori dei diritti umani e di tutte le altre amenità del politicamente corretto, tanto in voga nelle nostre culture decadenti. Le simpatie del Cremlino nei confronti di singoli personaggi politici europei o di interi raggruppamenti partitici che vengono incoraggiati o aiutati finanziariamente (si tratta di prestiti e non di regalie a fondo perduto) bastano e avanzano per dare la patente di impresentabili, di autoritari, di nemici della civiltà occidentale a tutti costoro. Poco importa se si tratta di amicizie e di legami che nascono da una comune visione del mondo e dalle riflessioni sulla situazione economico-politica in Europa, continente del quale anche Mosca fa parte.Così fan tutti, ma ai russi sono sempre precluse buona fede e sincerità. Qualità che, invece, vengono concesse automaticamente (a prescindere, direbbe Totò) alle Ong, alle fondazioni o alle banche americane che supportano individui, partiti, organismi e movimenti (anche sediziosi) in ogni angolo del pianeta, Italia compresa. Pecunia non olet, a meno che non sia in rubli. In questi giorni lo schema diabolico, questo sì davvero tale, si è ripetuto contro il Fn guidato da Marine Le Pen, colpevole di aver accettato un prestito di nove milioni di euro dalla First Czech Russian Bank, di proprietà di Roman Yakubovich Popov, il quale, si dice, sia vicino a Putin. Il tesoriere del partito non ha negato e, del resto, il Fn non aveva altra scelta, poiché gli istituti di credito francesi si sono rifiutati di concedere mutui ad una organizzazione che si dichiara apertamente contro l’euro e l’Europa dei potenti ed a favore di un recupero di prerogative sovrane.Il presidente dell’istituto di credito russo è stato prontamente definito dai giornali “l’oligarca dello Zar”. Essendo russo, il citato banchiere non può che essere un oligarca, almeno nella zucca vuota dei nostri scribacchini di regime. Nonostante Putin sia stato il primo vero nemico dell’oligarchia speculatrice nel suo paese, da Eltsin in poi, tanto da averla combattuta in ogni ambito, politico, economico, giudiziario e sociale, egli è e resta, per i nostri pennivendoli, il despota amico dei satrapi del denaro e del furto ai danni dello Stato. Invece, l’oligarca Poroshenko, vicino all’Occidente e arrivato al potere dopo un colpo di stato anticostituzionale, è un sincero democratico e liberale. Il tocco del bene, a regia obamiana.In Italia c’è un altro partito che sta seguendo le orme del Front National, almeno in termini di battaglie politiche e di nuove parole d’ordine che cozzano con quelle dei circuiti politici dominanti, spadroneggianti da destra a sinistra. E’ la Lega di Salvini, alla quale sono state repentinamente impresse le stimmate del partito antinazionale foraggiato da una potenza straniera. Salvini ha negato di aver mai preso soldi dall’estero ma poco importa, la campagna denigratoria è già cominciata e non si fermerà finché il movimento del Nord non sarà ridotto a più miti consigli (quelli che non si possono rifiutare, provenienti da Washington e da Bruxelles) o sprofondato nel fango. Fango che sta già sgorgando copiosamente ad ogni passo di avvicinamento che fanno questi leader per intendersi tra loro e per dare vita ad un fronte internazionale capace di produrre quella massa critica necessaria a combattere l’Europa dei banchieri e dei politici asserviti agli Stati Uniti. I delinquenti della stampa l’hanno già ribattezzata l’internazionale dell’odio o dei fasciocomunisti, perché oggi, anche solo parlare di sovranità nazionale e di mutamento dei rapporti di forza mondiali, ancora troppo sbilanciati a favore di una sola potenza, quella d’oltreatlantico, costituisce un reato di lesa maestà che può costare caro (qui penso alla malasorte di Christophe de Margerie).Salvini e Le Pen si guardino le spalle perché hanno toccato dei pericolosi fili scoperti sfidando i signori della prepotenza occidentale. Inoltre, il segretario del Carroccio si tenga pure a distanza dall’endorsement di Berlusconi perché non ha bisogno dell’imprimatur del Cavaliere per scalare un elettorato ormai stufo di questo gioco degli specchi tra schieramenti opposti ma uniti nel governo. Berlusconi ha consentito all’attuale obbrobrio istituzionale di consolidarsi, a nocumento del sistema-paese e dei suoi cittadini. Fa parte del problema, non delle eventuali soluzioni. Potremo anche capire i normali piccoli tatticismi per catalizzare i voti di Forza Italia, ma non un sodalizio organico con quest’ultima che sarebbe ferale per la Lega e per il notevole lavoro di opposizione, in “solitaria tenzone”, finora svolto. (Ps: oggi il “Fatto Quotidiano” è scatenato contro la Lega. Sono apparsi due o tre articoli di fuoco, ordinati espressamente da qualcuno. I giornalisti che li hanno scritti sono membri del “circolo atlantico”. Uno più uno fa ancora due. Uno di questi pezzi cita anche il nostro sito, “Conflitti e strategie”).(Gianni Petrosillo, “Il tocco del male, chi tocca i russi muore, da Salvini alla Le Pen”, da “Conflitti e Strategie” del 27 novembre 2014).Come nel film il “Tocco del male” del 1998, interpretato da Denzel Washington e Donald Sutherland, chiunque viene sfiorato dai russi viene immediatamente posseduto da un demone che trasforma gli uomini in assassini della democrazia, persecutori di gay, violentatori di donne, violatori dei diritti umani e di tutte le altre amenità del politicamente corretto, tanto in voga nelle nostre culture decadenti. Le simpatie del Cremlino nei confronti di singoli personaggi politici europei o di interi raggruppamenti partitici che vengono incoraggiati o aiutati finanziariamente (si tratta di prestiti e non di regalie a fondo perduto) bastano e avanzano per dare la patente di impresentabili, di autoritari, di nemici della civiltà occidentale a tutti costoro. Poco importa se si tratta di amicizie e di legami che nascono da una comune visione del mondo e dalle riflessioni sulla situazione economico-politica in Europa, continente del quale anche Mosca fa parte.
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L’Ungheria sovrana disobbedisce all’Ue e fa crescere il Pil
«Noi non crediamo nell’Unione Europea, crediamo nell’Ungheria, e consideriamo l’Ue dal punto di vista secondo cui, se facciamo bene il nostro lavoro, allora quel qualcosa in cui crediamo, che si chiama Ungheria, avrà il suo tornaconto». Nelle parole del premier ungherese Viktor Orbán si può cogliere l’essenza di una diversa visione dell’Europa, immaginata come un insieme di Stati autonomi e indipendenti che traggono beneficio dalla loro reciproca collaborazione. Dopo aver sperimentato tra il 2002 e il 2010, durante il governo di socialisti e liberali, gli effetti delle fallimentari politiche europeiste di austerità e privatizzazione, come il dilagare della disoccupazione, emigrazione di massa, enorme perdita di potere d’acquisto, tagli a pensioni e tredicesima, tracollo del Pil e impennata del debito pubblico dal 55% all’82%, nel 2010 il popolo magiaro vota in maggioranza assoluta il partito conservatore “Fidesz” guidato da un Viktor Orbán completamente nuovo rispetto al precedente mandato 1998-2002, il quale, abbandonate le posizioni filo-occidentali e liberiste, strizza l’occhio a Putin e si riscopre un fervente sostenitore dell’intervento statale nell’economia.Il nuovo governo cerca in ogni modo di spezzare le catene, imposte dall’Europa della finanza internazionale e accettate dai precedenti governi, tentando di riportare sotto il controllo dello Stato tutti i settori strategici dell’economia. La nomina del keynesiano ministro dell’economia Gyorgy Matolcsy a governatore della banca nazionale ungherese provoca al governo innumerevoli critiche da parte della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e della Commissione Europea, la quale lo definisce «un rischio per i mercati», critica alla quale Orbán risponde: «Se è un rischio per i mercati allora per noi è il rischio minore». Oltretutto fa sì che la maggioranza del consiglio monetario della banca centrale sia nominata dal governo, in modo da poter effettuare politiche monetarie espansive, di sostegno alla spesa pubblica, mirate a convertire in fiorini ungheresi i prestiti contratti in valuta straniera e a finanziare a tasso zero istituti di credito impegnati a erogare finanziamenti a piccole e medie imprese ad un interesse inferiore al 2%.Nel campo della finanza pubblica rinazionalizza i fondi pensionistici privati per 10 miliardi di euro, butta fuori il Fmi saldando il debito di 2,2 miliardi di euro, tassa i profitti delle multinazionali energetiche, telefoniche, della distribuzione alimentare e i principali istituti bancari, multandone 35 stranieri per aver fatto ricadere sui correntisti l’onere della maggiore tassazione e dedicando il gettito di tali imposte alla riduzione delle bollette elettriche per privati ed enti pubblici. Nei settori industriali strategici, il governo ha istituito la commissione di controllo televisivo finalizzata a limitare le ingerenze straniere nella propaganda mediatica; ha annunciato che saranno rinazionalizzate le reti di distribuzione elettrica, idrica e verranno costituite la compagnia pubblica per l’energia pulita e l’ente nazionale per il trattamento rifiuti.Per aumentare l’indipendenza energetica della nazione, in totale contrasto con le filo-atlantiche direttive europee, Viktor Orbán stipula accordi commerciali con Putin. Ottiene un prestito di 11 miliardi di euro da Mosca, secondo il ministro Lazar ad un tasso molto più conveniente di quello offerto dai mercati, per dedicarlo alla costruzione e al rinnovamento delle pur discutibili centrali nucleari che, oltre a fornire commissioni per 3 miliardi ad imprese ungheresi ed entrate fiscali per 1 miliardo di euro, copriranno il 50% del fabbisogno energetico della nazione. Oltretutto, in data recente, il 23 settembre 2014 il leader di “Fidesz” ha concordato a Budapest, con il numero uno di Gazprom, Alexei Miller, il tracciato ungherese del gasdotto Southstream, progetto al quale anche la nostra Eni partecipa al 25%, destinato a portare in Europa 63 miliardi di metri cubi di gas l’anno, in risposta al “corridoio meridionale” voluto dalla Commissione Europea, per trasportare in europa il più caro gas statunitense dell’Azerbaijan attraverso Georgia, Turchia, Grecia, Albania.Anche le riforme in campo giudiziario sono state indirizzate a diminuire l’influenza dei potentati internazionali nel Csm ungherese. Ma il carattere nazionale della visione orbanista si esprime al meglio nella nuova Costituzione, totalmente basata sulla preservazione della cultura magiara, contro l’americanizzazione e la globalizzazione dei valori. Entrata in vigore il primo gennaio 2012, sancisce l’ufficialità della religione cattolica, il ruolo centrale della famiglia e la fondamentale importanza della tradizione e dell’etica nella vita quotidiana. Con l’adozione di queste politiche Orbán si è posto al centro del mirino della comunità internazionale occidentale; demonizzato mediaticamente, definito dittatore, autoritario, fascista e antisemita, risponde venendo rieletto democraticamente nel 2014 con il 44,57% dei consensi. Potendosi vantare di aver portato in Europa qualcosa di davvero molto raro, la ripresa dell’economia, con il calo della disoccupazione dall’11,8% al 7,6% e una crescita del Pil del 2,7% nell’ultimo trimestre del 2013 e del 3,7% nel primo trimestre 2014 Viktor Orbán ha mostrato al mondo intero che gli Stati nazionali contano ancora e sono molto più efficaci nel risolvere le crisi rispetto al divino liberismo di mercato.(Luca Pinasco, “Un modo diverso di strare in Europa”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 2 ottobre 2014).«Noi non crediamo nell’Unione Europea, crediamo nell’Ungheria, e consideriamo l’Ue dal punto di vista secondo cui, se facciamo bene il nostro lavoro, allora quel qualcosa in cui crediamo, che si chiama Ungheria, avrà il suo tornaconto». Nelle parole del premier ungherese Viktor Orbán si può cogliere l’essenza di una diversa visione dell’Europa, immaginata come un insieme di Stati autonomi e indipendenti che traggono beneficio dalla loro reciproca collaborazione. Dopo aver sperimentato tra il 2002 e il 2010, durante il governo di socialisti e liberali, gli effetti delle fallimentari politiche europeiste di austerità e privatizzazione, come il dilagare della disoccupazione, emigrazione di massa, enorme perdita di potere d’acquisto, tagli a pensioni e tredicesima, tracollo del Pil e impennata del debito pubblico dal 55% all’82%, nel 2010 il popolo magiaro vota in maggioranza assoluta il partito conservatore “Fidesz” guidato da un Viktor Orbán completamente nuovo rispetto al precedente mandato 1998-2002, il quale, abbandonate le posizioni filo-occidentali e liberiste, strizza l’occhio a Putin e si riscopre un fervente sostenitore dell’intervento statale nell’economia.
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Sciopero sociale, liberare lo Stato dalla mafia neoliberista
I dati economici per l’Italia e le proiezioni degli organi specializzati non lasciano dubbi: la recessione continuerà, le riforme di Renzi faranno cilecca, la situazione a breve si farà pericolosa. Gli interessi costituiti, la casta europeista e austerofila, si attrezzano per fronteggiare una possibile situazione prerivoluzionaria mediante una riforma del Parlamento e della legge elettorale che metta tutto nelle mani dei segretari di pochi grandi partiti politici, e in particolare si consolida l’asse neoliberista Renzi-Berlusconi. Andiamo infatti verso uno scenario di fallimento delle promesse renziane, di forte peggioramento economico, di dirompenti tensioni sociali, con un Parlamento ultra-maggioritario neoliberista che assicurerà, sì, la maggioranza a un governo fedele al modello economico in via di costruzione, ma che non rappresenterà la popolazione, anzi sarà in palese contrapposizione agli interessi di questa, e dovrà ricorrere alla repressione, legittimandola con i numeri in aula e con l’appoggio dell’“Europa”, e alla bisogna perfezionandola con l’arrivo della Trojka e dell’Eurogendfor.L’etica finanziaria del rigore e della virtuosità, incarnata dall’Ue, è un’etica per i creditori renditieri, per gli usurai, per i produttori monopolisti di moneta e credito. Storicamente, l’inflazione del primo del secondo dopoguerra, assieme alle politiche di spesa pubblica a sostegno della crescita economica, alla forte crescita dei redditi nazionali e all’effetto redistributivo di questa combinazione, è ciò che aveva sostanzialmente ridotto i loro privilegi economici. Essi ora si prendono la rivincita imponendo un modello che antepone a tutto la salvaguardia delle rendite anzi la loro rivincita, attraverso l’imposizione di condizioni opposte a quelle del secondo dopoguerra, cioè stagnazione, spostamento di ampie quote dei redditi dal lavoro alle rendite, concentrazione dei redditi e dei capitali nelle mani di cerchie sempre più ristrette, crescita della quota della spesa pubblica che i paesi subalterni, come l’Italia, devono destinare al pagamento degli interessi sul loro debito pubblico.La popolazione generale viene posta dai mass media e dalle istituzioni in condizione di conoscere solo la vulgata economica sottesa a questo modello economico e di dimenticare, in quanto ai meno giovani, e di non apprendere, in quanto ai meno vecchi, che è possibile, è esistito e ha funzionato un modello economico diverso, in cui il denaro veniva prodotto e speso per assicurare occupazione e sviluppo, in cui le banche centrali assicuravano l’acquisto dei titoli pubblici a un tasso sostenibile escludendo la possibilità di default, e che in questo modello i disavanzi interni ed esteri nonché i debiti pubblici erano molto più sostenibili di quanto lo sono ora nel sistema della virtuosità per usurai, sicché i governi e i parlamenti avevano la capacità di elaborare e decidere politiche economiche e sociali anziché farsele dettare dai mercati. E le persone avevano la possibilità di fare programmi di vita – cosa che in fondo è lo scopo non solo dell’economia ma della stessa esistenza dello Stato.La popolazione generale italiana, se tiene la testa dentro alla “realtà” che le è permesso conoscere, cioè dentro il predetto modello di economia virtuosa per usurari e renditieri marca Maastricht, può davvero pensare che il rimedio alle sofferenze che sta vivendo consista nel rinegoziare i parametri per spuntare qualche punto percentuale di flessibilità, di spesa a deficit in più, come promettono vari statisti-contaballe, oppure l’immissione di qualche centinaia di miliardi da parte della Bce che, come in passato, finirebbero alle banche per chiudere i loro buchi sommersi o per gonfiare nuove bolle speculativa, come sempre avvenuto durante questa “crisi”. L’unico rimedio effettivo sarebbe la sostituzione di quel modello con altri, che ho descritto anche in questo blog.Un’opposizione sociale vera e realistica dovrebbe puntare apertamente a questo rovesciamento di modello, non a negoziati per ottenere qualche concessione. che per forza di cose sarebbe presto revocata. E dovrebbe lottare con la coscienza che i tagli di salari, occupazione, garanzie, servizi sono stati intenzionalmente introdotti dalle istituzioni nazionali e sovranazionali come strumento per garantire e rafforzare le posizioni di una classe di renditieri finanziari, di monopolisti del credito; e che quindi si tratta di fare, con i mezzi necessari, se disponibili, una lotta di classe diretta a rovesciare un ordinamento economico-giuridico e a riprendersi i poteri pubblici, governativi, istituzionali, togliendoli a un preciso avversario di classe, per darli alla generalità dei cittadini. È probabile che la rottura dell’equilibrio, dell’omeostasi di questo attuale sistema, sia alle porte, determinata dalla continua contrazione del reddito nazionale, che rende insostenibile il servizio dei debiti pubblici e privati, quindi tende a far saltare il sistema bancario.Se a questo punto i poteri forti decidono di mettere le mani nei conti correnti della gente e confiscare il risparmio per puntellare le banche e i conti pubblici, questa può essere la scintilla che coalizza le forze euro-scettiche e trasforma gli “scioperi sociali” della Fiom (novembre 2014), e in cui già si nota il ritorno di una coscienza e di una rabbia di classe, in un’attuazione di reale sovranità popolare di contro alla irreale rappresentanza di un Parlamento di nominati e ultramaggioritario. Anche perché tale opzione di bail-in a carico dei risparmiatori farebbe capire a molti che il sistema di governance globale creato intorno al Fmi, alla Fed, alla Bce, al Mes, alla Banca dei Regolamenti internazionali, alla Commissione, ha proprio la funzione di scaricare su lavoratori, pensionati, risparmiatori, cittadini, i danni causati dalle attività di azzardo e dalle truffe finanziarie di quella stessa classe internazionale che dirige le predette istituzioni sovranazionali. Un simile rovesciamento dal basso del modello socioeconomico non è possibile su scala nazionale, bensì solo su scala almeno continentale. Ed è improbabile che parta dagli italiani, che sono storicamente incapaci di simili imprese.(Marco Della Luna, “Sciopero sociale e rovesciamento del modello neoliberista”, dal blog di Della Luna del 16 novembre 2014).I dati economici per l’Italia e le proiezioni degli organi specializzati non lasciano dubbi: la recessione continuerà, le riforme di Renzi faranno cilecca, la situazione a breve si farà pericolosa. Gli interessi costituiti, la casta europeista e austerofila, si attrezzano per fronteggiare una possibile situazione prerivoluzionaria mediante una riforma del Parlamento e della legge elettorale che metta tutto nelle mani dei segretari di pochi grandi partiti politici, e in particolare si consolida l’asse neoliberista Renzi-Berlusconi. Andiamo infatti verso uno scenario di fallimento delle promesse renziane, di forte peggioramento economico, di dirompenti tensioni sociali, con un Parlamento ultra-maggioritario neoliberista che assicurerà, sì, la maggioranza a un governo fedele al modello economico in via di costruzione, ma che non rappresenterà la popolazione, anzi sarà in palese contrapposizione agli interessi di questa, e dovrà ricorrere alla repressione, legittimandola con i numeri in aula e con l’appoggio dell’“Europa”, e alla bisogna perfezionandola con l’arrivo della Trojka e dell’Eurogendfor.
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Addio Costituzione, l’Ue è fuorilegge e cospira contro di noi
Non c’è neanche un solo diritto fondamentale enunciato dalla Costituzione che non risulti alterato in maniera sostanziale dall’applicazione dei trattati europei: la critica dell’Ars non è solo critica all’euro, ma critica all’Unione Europea. L’Italia ha giocoforza subìto una rivoluzione, che è maggiore rispetto ad altri Stati appartenenti all’unione: dai primi anni ‘90 abbiamo modificato il sistema processuale penale, il sistema di distribuzione dei poteri dal centro alla periferia, il sistema elettorale (ribaltandone completamente i presupposti), ci si è spinti verso l’aziendalizzazione delle università spacciandola per “autonomia” e infine si è modificata la legge bancaria del 1936, che fu posta a fondamento del nostro sistema economico. Con una “legge-delega” (che toglie di fatto dal dibattito democratico del Parlamento l’attività legislativa) venne introdotto con il Tub (Testo Unico Bancario, 1994) un nuovo concetto di banca come non più “istituzione pubblica”, ma moderna “società di diritto privato”; il Tuf (Testo Unico Finanza, “legge Draghi”, 1998) liberalizzò mercati e intermediari finanziari dettando i “principi generali” e lasciando, in delega agli stessi, le modalità di regolamentazione in barba ai principi costituzionali.Nel 1992 Carli formalizzò la separazione della banca centrale dal Tesoro e consentì il processo di costituzione della Bce, banca centrale di uno “Stato che non c’è”. Questa rivoluzione è avvenuta, ed è fondamentale ricordarlo, non a causa dell’euro, ma ancor prima per responsabilità dei trattati dell’Ue: dagli anni ‘80, e poi definitivamente con Maastricht, i princìpi fondamentali delle costituzioni europee sono diventati feticci, la Costituzione italiana è stata presa di mira poiché in contrasto coi trattati, e conseguentemente disinnescata. Questo meccanismo perpetrato di disinnesto delle sovranità nazionali ci ha condotti verso l’impossibilità giuridica di disciplinare numerose materie di interesse pubblico. Un paese liberista, come l’Ue impone ai propri membri, è per forza globalista. Un paese che viceversa pianifica la propria economia, come ci imporrebbe il dettato costituzionale, è un paese dove il popolo, la legge e lo Stato controllano, disciplinano e dirigono la res publica in modo più o meno socialista.Una norma fondamentale contenuta nella nostra Costituzione, l’articolo 41, enuncia: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La parte più nobile del trattato costituzionale è dunque la parte che disciplina i rapporti economici: ristabilire la legalità costituzionale significa pertanto prevedere partecipazioni statali ed aiuti di Stato ad imprese in settori strategici (misura che portò la nostra industria pubblica ad essere avanguardia nel mondo). Oggi, all’interno dell’Unione Europea, tutto questo risulta essere inapplicabile. Inoltre, per imporre di nuovo un sistema progressivo di imposizione bisognerebbe limitare la circolazione dei capitali: non esiste nessun esperienza socialista o socialdemocratica che non abbia applicato questo principio come era applicato da noi prima della distruzione economica, ma soprattutto sociale, di questo nostro intero continente. L’unico internazionalismo (parola tanto abusata quanto ostica) accettabile è quello in cui si ha un rapporto di pace tra stati socialisti. E sovrani.(Martina Carletti, “Euro, Unione Europea o socialismo?”, da “Appello al Popolo” del 23 ottobre 2014).Non c’è neanche un solo diritto fondamentale enunciato dalla Costituzione che non risulti alterato in maniera sostanziale dall’applicazione dei trattati europei: la critica dell’Ars non è solo critica all’euro, ma critica all’Unione Europea. L’Italia ha giocoforza subìto una rivoluzione, che è maggiore rispetto ad altri Stati appartenenti all’unione: dai primi anni ‘90 abbiamo modificato il sistema processuale penale, il sistema di distribuzione dei poteri dal centro alla periferia, il sistema elettorale (ribaltandone completamente i presupposti), ci si è spinti verso l’aziendalizzazione delle università spacciandola per “autonomia” e infine si è modificata la legge bancaria del 1936, che fu posta a fondamento del nostro sistema economico. Con una “legge-delega” (che toglie di fatto dal dibattito democratico del Parlamento l’attività legislativa) venne introdotto con il Tub (Testo Unico Bancario, 1994) un nuovo concetto di banca come non più “istituzione pubblica”, ma moderna “società di diritto privato”; il Tuf (Testo Unico Finanza, “legge Draghi”, 1998) liberalizzò mercati e intermediari finanziari dettando i “principi generali” e lasciando, in delega agli stessi, le modalità di regolamentazione in barba ai principi costituzionali.
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Canfora: il capitalismo sta benissimo e impone i suoi Renzi
Troppe volte dato per morto, a livello mondiale il capitalismo è appena cominciato: lo dimostra il boom dell’economia capitalistica in tre quarti del pianeta, in regioni – a partire da Russia e Cina – in cui l’economia era stata lungamente rurale o comunque arretrata. Lo sostiene un insigne storico italiano come Luciano Canfora, che avverte: il grande capitale ormai «governa direttamente», facendo a meno della mediazione politica, delle Costituzioni da difendere, dei principi fondamentali. Comandano i grandi banchieri: «Se si fidano del personale che hanno al proprio servizio lo lasciano fare, altrimenti i capitalisti intervengono direttamente». E’ già successo in Francia con Pompidou, dopo la parentesi bonapartistica di De Gaulle. Oggi il denaro la fa da padrone e la democrazia è diventata una scatola vuota: e l’esperienza del socialismo reale, che nessuno rimpiange, può essere rivista come un tentativo per mettere un argine al predominio del business come unico potere. Ma l’Urss cadde perché non seppe risolvere le diseguaglianze al suo interno. E sottovalutò la vitalità del capitalismo.L’esperienza sovietica è crollata, spiega Canfora, intervistato da Vittorio Bonanni, perché – senza uguaglianza – non era più credibile per i suoi stessi concittadini e sudditi. «La gara spaziale, le guerre stellari, il contrasto militare in tutto il pianeta: sappiamo queste cose. Però è stata una gloriosa esperienza durata abbastanza, una settantina d’anni del XX secolo. Per cui se ne deve parlare con rispetto, ma anche con la convinzione che è stato un periodo eroico della storia umana». Ma la constatazione più rilevante è un’altra: nel presupposto che mise in moto un processo rivoluzionario di grandissima estensione, a livello euroasiatico, c’era un errore di fondo: «Ci si illudeva di essere giunti al capolinea della storia, di essere al punto di arrivo del sistema capitalistico». Intanto perché si aveva una percezione molto limitata e parziale della realtà americana, sottovalutata in pieno. Solo Trotsky aveva conosciuto l’America. Oggi possiamo solo constatare che «l’esperienza del socialismo reale ha modernizzato due gigantesche aree del mondo, l’ex impero russo e la Cina, trascinandole fuori da una situazione semi-feudale», in cui la Cina «era in una posizione semi-coloniale» mentre la Russia era «un impero separato, essenzialmente agricolo e arretrato».Crollando sul piano politico, proprio il socialismo reale «ha creato i presupposti per un gigantesco sviluppo del capitalismo in quei tre quarti del mondo che ancora non erano a quel livello: quindi la storia del capitalismo è appena cominciata», anche se «nessuna forma economico-sociale è eterna». Il capitalismo «ha una storia molto più lunga di quella che allora si era pensato, nell’illusione determinata dalla fine della Prima Guerra Mondiale e dalla crisi gigantesca del 1917-18 e 19». Ma attenzione: «Erano degli europei, e non cittadini del mondo, quelli che pensavano queste cose. E come europei, vedendo crollare tre imperi che erano stati gli architrave della storia – quello tedesco, quello austroungarico e quello zarista – si erano convinti che si stava voltando pagina nella storia dell’umanità. In parte era vero, ma non nella frettolosa conclusione che eravamo arrivati al dunque. Nessuno può pilotare la storia», avverte Canfora. Men che meno l’Europa, che per secoli ha osservato il mondo con occhiali essenzialmente eurocentrici.Oggi, l’Europa si è ridotta ad essere «una piccola articolazione della politica statunitense». Aggiunge Canfora: «E’ comico essere europeisti, ed è comico tutto il ciarpame che ci viene ammanito quotidianamente. Che non è neanche oppio della storia: è una droghetta, mariuana». Problema: come contrastare tutto questo? «Secondo me si tratta di una battaglia culturale, intellettuale, scolastica, educativa, dovunque ci siano spazi di libertà di parola. Perché le forze politiche nate sull’onda del Novecento sono arrivate al lumicino. Si è realizzato in forme diverse, nei vari paesi, quello che Gramsci aveva intuito sviluppando in modo originale certe formulazioni del pensiero elitistico tardo-ottocentesco, come quello di Pareto e dello stesso Croce: che cioè siamo in una realtà di partito unico articolato, diversificato al proprio interno ma sostanzialmente unico». Le conquiste sociali del movimento operaio, tradotte in Costituzioni? Finite, con l’espulsione della forza operaia dalla storia politica. «Quel che resta fa un’altra cosa, fa quello che tradizionalmente fanno i partiti nei regimi capitalistici, cioè i comitati di affari della borghesia – giustamente divisi tra loro, altrimenti l’inganno elettorale non funzionerebbe».Durissimo il giudizio su Renzi: «Il liquidatore del comunismo italiano è già arrivato. E’ un gaglioffo di 40 anni che sta facendo la parte sua e, localmente, sta attuando il piano di Gelli di “Rinascita democratica”, cioè due partiti sostanzialmente equivalenti che si dividono il potere». Non che gli altri scenari europei non sono molto diversi: la Spd, un tempo leader della socialdemocrazia, «è ormai lo sgabello della Merkel e non può fare altro, perché da sola non ce la farà più: prendiamone atto e cerchiamo di capire se si intravedono altre possibilità». Luciano Canfora guarda al potenziale intellettuale mobilitabile dal «magma gigantesco del mondo della scuola», perché per fortuna «tutto questo sviluppo ha prodotto un’acculturazione di massa, magari scandente ma diffusissima, e con un inevitabile bisogno di capire». Quindi, «tutti quelli che hanno a che fare con quel mondo si rimbocchino le maniche e cerchino di portare chiarezza».Troppe volte dato per morto, a livello mondiale il capitalismo è appena cominciato: lo dimostra il boom dell’economia capitalistica in tre quarti del pianeta, in regioni – a partire da Russia e Cina – in cui l’economia era stata lungamente rurale o comunque arretrata. Lo sostiene un insigne storico italiano come Luciano Canfora, che avverte: il grande capitale ormai «governa direttamente», facendo a meno della mediazione politica, delle Costituzioni da difendere, dei principi fondamentali. Comandano i grandi banchieri: «Se si fidano del personale che hanno al proprio servizio lo lasciano fare, altrimenti i capitalisti intervengono direttamente». E’ già successo in Francia con Pompidou, dopo la parentesi bonapartistica di De Gaulle. Oggi il denaro la fa da padrone e la democrazia è diventata una scatola vuota: e l’esperienza del socialismo reale, che nessuno rimpiange, può essere rivista come un tentativo per mettere un argine al predominio del business come unico potere. Ma l’Urss cadde perché non seppe risolvere le diseguaglianze al suo interno. E sottovalutò la vitalità del capitalismo.
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Berlino ci divora barando, come ha fatto con la Germania Est
Verso la fine della II Guerra Mondiale gli Usa avevano un piano, il Piano Morgenthau (poi non eseguito per ovvie ragioni connesse alla guerra fredda), per eliminare dopo la guerra tutte le industrie tedesche, facendo della Germania un paese puramente agricolo. Il mezzo per ottenere ciò era semplice: imporre alla Germania l’unione monetaria con gli Usa, la cui moneta era allora molto forte: il prezzo delle merci tedesche si sarebbe moltiplicato e le aziende avrebbero chiuso, non potendo più esportare, e l’industria yankee avrebbe preso i suoi mercati e i suoi assets migliori gratis o quasi. Gli Stati Uniti non fecero questo alla Germania dopo la sua resa, però la Germania Ovest lo fece poi alla Germania Est negli anni ’90. E ora lo fa all’Italia. Oramai è stato acquisito: essendosi inchiodata a un cambio elevato e fisso – elevato sia rispetto agli altri paesi dell’Eurozona, che rispetto agli altri – e non potendo più svalutare la moneta per mantenersi competitiva sui mercati internazionali, l’Italia, per restare competitiva e limitare la sua deindustrializzazione, ha dovuto svalutare i lavoratori, riducendo i salari/redditi, tassandoli di più, tagliando e differendo le pensioni.Ma la riduzione dei redditi ha automaticamente causato il crollo della domanda interna e della capacità della gente di pagare i debiti già contratti, quindi un crollo degli incassi di chi produce per il mercato interno e un’impennata delle insolvenze e dei fallimenti. La riduzione dei salari viene in parte compensata con ammortizzatori sociali finanziati con più tasse e contributi, in parte scaricando i disoccupati e i sottoccupati sui risparmi della famiglia e sulle pensioni dei genitori o dei nonni. Tutto ciò sta consentendo una parziale conservazione dell’industria e dei mercati esteri, ma, abbisognando di drenare risparmi e andando a colpire il settore immobiliare (quello che innesca le fasi di espansione e di contrazione), non può tirare avanti ancora a lungo. Inoltre, i vincoli di bilancio, il limite del 3% al deficit sul Pil, la botta dei trasferimenti al Meccanismo Europeo di Stabilità (57 miliardi), la connessa ascesa della pressione fiscale, fa chiudere o emigrare le aziende. Emigrano anche tecnici, professionisti, capitali. Questi sono i risultati dei “compiti a casa”.Sostanzialmente, la recessione è guidata da una costante sottrazione di liquidità voluta politicamente da Berlino via Draghi, che garantisce di fare tutto ciò che serve per sostenere i debiti pubblici, ma a condizione che si facciano quei compiti a casa, ossia che si demolisca l’economia e la si doni a un capitalismo di conquista, apolide e antisociale. Tutti questi meccanismi operano costantemente, appunto come meccanismi, e giorno dopo giorno demoliscono l’Italia e la rendono dipendente, sottomessa, povera rispetto alla Germania. Un po’ più di flessibilità e un po’ meno di spread o un po’ più di spesa e inflazione in Germania non risolverebbero quanto sopra, non fermerebbero la macchina della deindustrializzazione, anche se Renzi cerca di distogliere da ciò l’attenzione attirandola su di sé con la sua azione frenetica e inconcludente (se non nel male). Non la fermerebbe nemmeno un aumento della domanda interna, perché questo si dirigerebbe verso beni di importazione, avvantaggiati dalla forza dell’euro.E poi ci sono gli utili tromboni dell’europeismo idealista, che evocano le favole moralistiche di Spinelli e soci per coprire una realtà di scontro di interessi oggettivamente contrapposti, di sopraffazioni spietate, di colonizzazione. Sarebbe molto utile, a coloro che cercano di tutelare gli interessi italiani in relazione alle politiche europee e monetarie della Germania attuale, a coloro che trattano questi temi nelle sedi europee e nazionali, conoscere come il grande capitale privato tedesco occidentale, durante il processo di riunificazione della Germania iniziato nel 1989, usò una serie di mezzi, alcuni dei quali terroristici, altri formalmente criminali, per impadronirsi delle aziende, dei beni immobili, delle risorse naturali, dei mercati della Germania Orientale senza pagare o quasi, espropriandone la popolazione che era giuridicamente proprietaria di questi assets, e trasferendo i costi dell’operazione a carico dei conti pubblici, ossia dei contribuenti della Germania Occidentale nonché a carico dei lavoratori della Germania Orientale, di cui persero il posto di lavoro circa 2 milioni e mezzo, su circa 16 milioni di abitanti.E’ tutto descritto nel recentissimo saggio di Vladimiro Giacché “Anschluss”. Queste cose vanno sapute per poterle sbattere sul muso a Merkel, Schäuble, Katainen, smascherando i loro veri fini, quando si mettono a predicare i compiti da fare a casa, mentre dovrebbero finire davanti a una Norimberga finanziaria assieme ai loro mandanti. I metodi usati per depredare la Germania Orientale furono molteplici, iniziando con la creazione di allarme default della Germania Est, nella prima fase, in tutto analogo a quello che i banchieri tedeschi scatenarono nel 2011 contro il Btp per sostituire Berlusconi con un premier che li servisse bene. E anche: l’imposizione di un’unione monetaria con cambio uno a uno tra marco orientale e marco tedesco per le partite correnti, che determinò di punto in bianco la quadruplicazione dei prezzi delle merci della Germania Orientale, con la conseguente perdita dei mercati in favore di aziende concorrenti della Germania Occidentale, e naturalmente la chiusura delle imprese orientali con massicci licenziamenti.Poi il sistematico ricorso al falso in bilancio per far apparire irrecuperabili molte aziende sane della Germania orientale, onde poterle comperare a costo nullo o quasi; quindi la rimozione dei pochi funzionari onesti, che rifiutavano di dichiarare il falso; l’imposizione delle “regole di mercato” – in realtà, della potenza economica e politica – onde occupare i mercati della Germania Orientale con merci di produzione occidentale e così favorire le aziende che producevano queste merci a danno della produzione locale; la costante collaborazione del governo federale (Kohl) con gli avidi criminali del grande capitale – e l’autorevole appoggio di… Jean Claude Juncker! Eh sì, le “integrazioni” sono sempre, nella realtà, business sfrenato e disumano, ora come allora. La Germania fa le integrazioni col disintegratore. L’agenzia fiduciaria incaricata della vendita dei beni del popolo della Germania Orientale, la Treuhandanstalt, un veicolo per realizzare questi fini e, in luogo di concludere la suggestione con un utile netto derivato dalla vendita-privatizzazione dei beni pubblici orientali, produsse un buco di oltre 1 miliardo di marchi, sicché i cittadini orientali, ciascuno dei quali aveva ricevuto l’assegnazione di una quota azionaria nell’agenzia fiduciaria del valore teorico di 40.000 marchi, alla fine dei conti non ricevettero nemmeno un pfennig per l’espropriazione dei beni popolari che avevano subito.Dopo il saccheggio, furono intentati processi penali e civili, indagini formali sull’operato dell’agenzia fiduciaria e su altre vicende relative all’annessione della Germania Orientale, ma, grazie all’opposizione del governo, all’inerzia del Parlamento, agli insabbiamenti giudiziari, al fatto che tutta la gestione della missione era stata impostata e imperniata su tecnocrati a bassa o nulla responsabilità e ad alta opacità, come gli attuali eurocrati, i processi e le indagini finirono nel nulla. Il profitto compera tutti i poteri dello Stato. Per contro, mentre il Pil della Germania Orientale crollava (-40,8% nei primi 2 anni, export -60%), quello della Germania Occidentale, grazie alle acquisizioni sottocosto di cui sopra, fece un balzo all’insù di circa il 7%. A dispetto della vulgata ufficiale, ancora oggi la Germania Orientale rimane un paese, un pezzo di paese, arretrato, che non ha agganciato la parte occidentale, che vive di trasferimenti posti a carico del contribuente occidentale, in quanto il deficit commerciale dell’Est è del 45% mentre quello del Meridione è solo il 12,5%: quindi la Germania orientale è messa molto peggio della cosiddetta Terronia. Ma, ovviamente, non è colpa sua, bensì effetto di una rapina assistita dal governo di Bonn, nell’interesse del capitalismo tedesco occidentale, e con la giustificazione pseudo-scientifica dell’ideologia del mercato e delle sue regole, in cui si nasconde il fatto che il mercato non è libero ma è l’arena di scontri e rapporti di forza e sopraffazione.Qualcosa del genere dell’unificazione tedesca del 1990 era già avvenuto in Italia, con la annessione del Sud, un’area complessivamente meno produttiva del Nord – annessione che aveva portato non a una convergenza delle due parti d’Italia, ma a una maggiore divergenza in termini di efficienza e produttività e competitività, in quanto il Nord attraeva e distoglieva capitali e competenze dal Sud, che quindi si deindustrializzava e si votava a diventare o restare un’area agricola e marginale. Analoga operazione sta avvenendo oggi sotto il pretesto della unificazione europea e della unione monetaria, ossia dell’euro. La Germania entrò nell’euro a condizione che vi entrasse d’Italia, l’altro paese ad alta capacità manifatturiera. Perché? Perché se l’Italia fosse rimasta fuori avrebbe fatto una forte concorrenza alla Germania, mentre per contro l’euro avrebbe alzato il corso della valuta italiana e abbassato il corso della valuta tedesca, in tal modo favorendo le esportazioni tedesche soprattutto entro l’unione monetaria europea e limitando quelle italiane, che diventavano meno competitive.Così è avvenuto: contrariamente alla quasi totalità dei paesi dell’Eurozona, in cui la quota manifatturiera del Pil è calata fortemente, la Germania, con l’euro, ha avuto un aumento di circa il 25% di questa quota, dovuto soprattutto ad esportazioni nei mercati dei paesi partners dell’Eurozona, ossia dovuta a quote di mercato sottratte ad essi. Esportazioni che i banchieri tedeschi hanno sostenuto facendo prestiti e investimenti verso i paesi euro-deboli, Grecia e Spagna in testa, ben sapendo che prima o poi quei paesi non sarebbero riusciti a sostenere le scadenze di pagamento – anche poiché i loro conti erano stati truccati ad hoc – e che, a qual punto, sarebbe scoppiata quella crisi che ha poi in effetti consentito alla Germania di imporre le sue regole, i suoi interessi e i suoi uomini al potere, grazie al suo controllo sulla Bce, e a costringere altri paesi, Italia in testa, a svenarsi per prestare a Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda i soldi necessari a realizzare i loro lucri usurari e fraudolenti.Anche se a molti può venire il pensiero che il vero compitino da fare a casa sia liberarsi della Germania una volta per sempre, quanto sopra descritto non va letto e presentato in chiave nazionalistica, ossia come una colpa della popolazione tedesca – sostanzialmente inconsapevole – bensì in chiave di guerra di classe, perché, sotto mentite spoglie ideologiche, è una campagna di conquista del capitalismo finanziario a spese della popolazione generale. L’Italia ha un’arma negoziale molto potente nei confronti della Germania: minacciare di uscire dall’Eurosistema (cosa che farebbe saltare l’euro e condannerebbe la Germania a una rivalutazione monetaria fortissima, che metterebbe fuori mercato le sue produzioni e in ginocchio la sua economia). Non usare quest’arma e lasciare che il paese sia fatto a pezzi giorno dopo giorno, è un delitto capitale. Ai governanti italiani che, facendo finta di non vedere la realtà, hanno collaborato e collaborano a questo disegno a danno di tutti noi, vorrei chiedere: lo fate perché minacciati, perché ricattati, o perché pagati? Quanto?(Marco Della Luna, “Euro-Anschluss, il fantasma di Morgenthau”, dal blog di Della Luna del 17 ottobre 2014).Verso la fine della II Guerra Mondiale gli Usa avevano un piano, il Piano Morgenthau (poi non eseguito per ovvie ragioni connesse alla guerra fredda), per eliminare dopo la guerra tutte le industrie tedesche, facendo della Germania un paese puramente agricolo. Il mezzo per ottenere ciò era semplice: imporre alla Germania l’unione monetaria con gli Usa, la cui moneta era allora molto forte: il prezzo delle merci tedesche si sarebbe moltiplicato e le aziende avrebbero chiuso, non potendo più esportare, e l’industria yankee avrebbe preso i suoi mercati e i suoi assets migliori gratis o quasi. Gli Stati Uniti non fecero questo alla Germania dopo la sua resa, però la Germania Ovest lo fece poi alla Germania Est negli anni ’90. E ora lo fa all’Italia. Oramai è stato acquisito: essendosi inchiodata a un cambio elevato e fisso – elevato sia rispetto agli altri paesi dell’Eurozona, che rispetto agli altri – e non potendo più svalutare la moneta per mantenersi competitiva sui mercati internazionali, l’Italia, per restare competitiva e limitare la sua deindustrializzazione, ha dovuto svalutare i lavoratori, riducendo i salari/redditi, tassandoli di più, tagliando e differendo le pensioni.
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Putin agli Usa: agite da nemici, sappiate che resisteremo
A Sochi, nell’ottobre 2014, Putin ha “resettato” drasticamente il rapporto tra la sua Russia e Washington. Un discorso ben meditato, che sarebbe grave errore, per tutti, sottovalutare. Molto più forte, a tratti drammatico nella sua chiarezza, di quello da lui pronunciato a Monaco, nel 2007. Nei 14 anni del suo potere il presidente russo non si era mai spinto fino a questo punto. E si capisce il perché solo seguendo il suo ragionamento. Vediamo di quale reset si tratta. Fino all’altro ieri Putin era rimasto “dentro” lo schema del post guerra fredda. C’era rimasto sia perché non aveva scelte diverse da fare, sia perché – con ogni probabilità – a quello schema credeva e lo riteneva utile e realistico. La crisi era già visibile. La Russia ci stava dentro scomoda. Ma rimaneva l’intenzione di superarla, con il tempo, costruendo una nuova architettura della sicurezza mondiale assieme agli Stati Uniti. Per anni, dopo il crollo del Muro, la Russia ha dovuto sopportare molti “sgarbi”. È un eufemismo. In molti casi la parola giusta sarebbe schiaffi.La Russia è stata emarginata da numerosi momenti decisionali di rilievo internazionale, messa in secondo piano, scartata senza troppi complimenti. Era (anche) un modo per farle capire che non contava e che non si voleva che contasse. Espulsa dalla gestione dei conflitti africani, ignorata nel dibattito finanziario, messa in fila per il Wto. E duramente offesa nell’intera vicenda jugoslava, fino al bombardamento di Belgrado e all’indipendenza del Kosovo. Ammessa in sala riunioni solo là dove era indispensabile che ci fosse, nel negoziato con l’Iran e nella crisi siriana. Peggio ancora: con gli ultimi presidenti americani, da Clinton, via George Bush Junior, fino a tutto Obama compreso, gli Stati Uniti hanno manovrato su scala planetaria ignorando platealmente ogni riconoscimento delle zone d’influenza russa, passeggiandovi dentro senza alcun riguardo diplomatico. Tutta l’Asia centrale ex sovietica è stata praticamente occupata dalle loro iniziative: dall’Azerbaigian fino alla Kirghisia. Non dovunque con gli stessi successi. Ma quello che conta, è il significato: Washington semplicemente mandava a dire a Mosca che non avrebbe tenuto in alcun conto il peso della Russia in quelle aree.Per non parlare della Nato, la cui espansione a est – dopo la fine del patto di Varsavia – ha proceduto senza soste, alla pari con l’allargamento dell’Unione Europea su tutta l’Europa orientale, fin dentro alcuni territori che erano stati parte dell’Unione Sovietica, come le tre repubbliche baltiche. Il tutto violando gli accordi, verbali e scritti, che impegnavano la Nato a non portare basi e armamenti nelle nuove repubbliche che via via aderivano all’Unione Europea. Espansione accompagnata da dichiarazioni sempre più incongruenti con i fatti, secondo cui l’estensione della Nato non sarebbe stata indirizzata all’accerchiamento progressivo della Russia. Infine le operazioni degli ultimissimi anni, con l’inserimento della Georgia di Saakashvili nei meccanismi Nato e la promessa di un futuro ingresso a vele spiegate nella Nato della quarta repubblica ex sovietica; e con le analoghe pressioni e promesse nei confronti della Moldavia. Da ricordare la “guerra georgiana”, conclusasi con la secca sconfitta di Tbilisi dopo il massacro di Tzkhinvali e l’intervento delle forze armate russe per ricacciare indietro i georgiani dal territorio dell’Ossetia del Sud.Il riconoscimento russo delle due repubbliche di Abkhazia e Ossetia del Sud (che Putin non aveva concesso fino all’agosto 2008) fu il primo segnale che il Cremlino aveva deciso – sebbene non di propria iniziativa ma pressato dall’iniziativa avversaria – di alzare il segnale di stop verso Washington. Tutto questo è stato superato, d’un colpo, dall’avventura spericolata del colpo di stato a Kiev, dal rovesciamento violento di Yanukovic e dal varo di una nuova Ucraina dichiaratamente ostile e bellicosa nei confronti di Mosca. Il tutto non solo con il consenso ma con il finanziamento, la direzione, il controllo americano delle operazioni sul territorio, e politiche e, infine, militari. Non si comprende la sintesi putiniana di Sochi se non tenendo conto della sommatoria di questi eventi. La conclusione è esplicita: la leadership americana non prevede alcun multipolarismo, né alcun rispetto delle regole di un qualsivoglia partenariato tra eguali. Non ci sono più regole condivise. Esiste uno stato di caos, senza alcuna direzione. Putin prende atto – senza dirlo esplicitamente, ma facendo capire che ha ben compreso – che il bersaglio è lui in persona. Che le sanzioni non sono cominciate colpendo la Russia, ma colpendo il suo stesso entourage. Che negli atteggiamenti e nelle dichiarazioni dei leader occidentali è riconoscibile l’idea che Putin non rappresenta la Russia e che, dunque, una volta eliminato lui, la Russia sarà ricondotta all’ovile. In altri termini: l’Occidente non intende negoziare con la Russia fino a che Putin sarà alla sua testa.La risposta di Sochi è ora nettissima, un vero e proprio punto di non ritorno. Poggiato su alcuni pilastri. Il primo è l’idea che l’unità dell’Occidente è precaria. L’Europa non è compatta dietro l’America. Resta un partner, anche se si trova sotto costrizione. Lo dicono i numeri delle relazioni economiche e commerciali, oltre che la storia del dopoguerra. Questo è il primo pilastro. Potrebbe essere una scommessa che non si verificherà. Ma è un modo per tenere aperto un campo di manovra. Putin mostra di sapere perfettamente che la Russia che si trova tra le mani è incastonata in mille modi nel sistema occidentale. Anche nei suoi quattordici anni di potere, non solo in quelli elstsiniani, la Russia si è legata mani e piedi ai destini dell’Occidente. Dunque è vulnerabile e dovrà pagare prezzi salati, forse salatissimi. Qui Putin è con le spalle al muro, e dovrà dimostrare ai suoi cittadini che riesce a svincolarsene. Lo spazio potrà forse aprirsi come effetto della crisi politica di questa Europa.Lo sfaldamento della tenuta dei partiti politici tradizionali, quasi dovunque, mostra che ci possono essere altri interlocutori, oltre ai conservatori tradizionali, ormai avvinghiati alle sinistre socialdemocratiche, tutte emigrate oltre Oceano. L’Europa popolare va a destra, si muove in senso antieuropeo, antiamericano e antiglobalista, e converge sull’altro pilastro su cui Putin si appoggia: quello del patriottismo, del conservatorismo etico, dei valori tradizionali della famiglia, dell’educazione, del rispetto della memoria. La “famiglia europea” potrebbe cambiare di segno nei prossimi anni. E c’è un altro pilastro, ormai evidente: l’Oriente, la Cina, l’Iran, il resto del mondo. Verso quella direzione – andassero male i tentativi verso l’Occidente – guarderà l’aquila bifronte. Le sanzioni – dice Putin – non fermeranno questa Russia, che nelle parole di Putin appare vicina, risvegliata, compatta come non lo era da molti decenni.È una specie di preludio a un governo di salvezza nazionale, in cui entreranno forse i comunisti di Ziuganov, i liberal-democratici di Zhirinovskij, i nazionalisti di destra e di sinistra, saltando a piè pari le distinzioni europee-occidentali che in Russia hanno sempre contato poco. L’America di Obama, l’America che Mosca vede come in preda a una crisi senza ritorno (perché dopo Obama potrebbe venire il peggio, con una Hillary Clinton che vince le elezioni con il programma dei repubblicani più forsennati), non è più un partner. L’orso russo – proprio questo ha detto Putin – non intende uscire dal suo habitat. Non ha ambizioni espansive. Ma non è disposto a farsi sloggiare. Putin a questa conclusione è giunto. Questo è il suo piano di resistenza. Si tratta ora di vedere se è in condizione di reggerlo. E con un’America che gioca alla “o la va o la spacca”, sarà una partita dura. È dura quando entrambi i contendenti hanno le spalle al muro.(Giulietto Chiesa, “Il reset di Putin”, da “Megachip” del 26 ottobre 2014).A Sochi, nell’ottobre 2014, Putin ha “resettato” drasticamente il rapporto tra la sua Russia e Washington. Un discorso ben meditato, che sarebbe grave errore, per tutti, sottovalutare. Molto più forte, a tratti drammatico nella sua chiarezza, di quello da lui pronunciato a Monaco, nel 2007. Nei 14 anni del suo potere il presidente russo non si era mai spinto fino a questo punto. E si capisce il perché solo seguendo il suo ragionamento. Vediamo di quale reset si tratta. Fino all’altro ieri Putin era rimasto “dentro” lo schema del post guerra fredda. C’era rimasto sia perché non aveva scelte diverse da fare, sia perché – con ogni probabilità – a quello schema credeva e lo riteneva utile e realistico. La crisi era già visibile. La Russia ci stava dentro scomoda. Ma rimaneva l’intenzione di superarla, con il tempo, costruendo una nuova architettura della sicurezza mondiale assieme agli Stati Uniti. Per anni, dopo il crollo del Muro, la Russia ha dovuto sopportare molti “sgarbi”. È un eufemismo. In molti casi la parola giusta sarebbe schiaffi.
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Complici del massacro sociale, e ora contestano Renzi?
Da almeno trent’anni, il copione è sempre o stesso: per revocare diritti e conquiste sociali è necessaria la piena complicità di quella sinistra che nel dopoguerra aveva lottato per il welfare, cioè per l’estensione orizzontale del benessere. Il grande capitale finanziario e oligarchico utilizza partiti e sindacati di cui la gente è abitutata a fidarsi – chi meglio di loro? Dunque non devono più combattere contro le riforme strutturali, destinate a demolire la struttura dell’economia sociale. E in più devono collaborare pienamente all’erosione della società dei diritti, che oggi culmina con l’attacco storico alla Costituzione democratica. Attraverso il famigerato memorandum di Lewis Powell, la destra economica statunitense aveva dettato la linea già all’inizio degli anni ‘70: radere al suolo in tutto l’Occidente la sinistra radicale e addomesticare la sinistra riformista, letteralmente “comprando” i suoi leader per ottenere la smobilitazione di partiti e sindacati. Detto fatto. E quindi che senso ha, oggi, protestare contro Renzi dopo essersi piegati per decenni ai peggiori diktat?E’ stato il centrosinistra guidato dai tecnocrati a consegnare gli italiani all’euro-sistema, massima espressione della fine dei diritti, condannando il paese alla crisi: non c’è più “benzina” per le politiche sociali, perché Maastricht – revocando la sovranità monetaria – ha prosciugato le casse dello Stato, costretto a svendere prima i servizi pubblici e poi il sistema-paese, le aziende e le tecnologie, i risparmi, i giovani talenti. Tutto travolto dal taglio della spesa pubblica, che fa crollare anche l’economia privata fondata sui consumi. Dov’èra, Susanna Camusso, mentre tutto questo accadeva? Se lo domanda Giorgio Cremaschi, già leader della Fiom, di fronte al tardivo soprassalto di orgoglio esibito dalla Cgil dopo la rottamazione forzata della repubblica dei lavoratori, il Jobs Act renziano. «In questi decenni – scrive Cremaschi su “Micromega” – il principale sindacato italiano da un lato è stato l’attore sociale della sinistra, perfettamente collaterale al Pd, dall’altro ha ripetutamente tentato un patto dei produttori con l’impresa, per agire di concerto con essa rispetto al potere politico. Entrambi questi capisaldi della strategia della Cgil ora franano clamorosamente e il suo gruppo dirigente non sa letteralmente che fare».Nessuna mobilitazione di piazza, dice Cremaschi, riuscirà a chiarire dove si sta andando, «perché la rivoluzione reazionaria di Renzi si combatte non solo rompendo con le sue manifestazioni estreme, ma anche con le ragioni e con il percorso che ad essa ci hanno portato». Il governo Renzi? «Lo potremmo chiamare il governo Renzi-Marchionne, almeno per quel che riguarda il lavoro». Rappresenta «l’ultimo e più intelligente tentativo delle classi dirigenti italiane ed europee di imporre da noi le politiche liberiste che hanno distrutto la Grecia». Intelligente, certo, «perché si è capito che la pura brutalità dei diktat della Troika alla lunga non paga: per questo le politiche liberiste oggi devono essere accompagnate o addirittura precedute da cambiamenti politici e culturali che rendano accettabile o persino condivisibile l’accentuazione delle già così esplosive diseguaglianze sociali». Niente di nuovo: «Per fare questo non basta la destra tradizionale, bisogna occupare il campo della sinistra e portare la parte più grande di essa a sostenere politiche più a destra della destra tradizionale». Questo è il renzismo, dice Cremaschi. Ma è anche – alla lettera – l’applicazione della dottrina di Lewis Powell contro i lavoratori.In Italia, secondo Cremaschi, siamo di fronte all’ultima versione «di quel trasformismo politico che nella storia del nostro paese è sempre partito dalla mutazione genetica della sinistra». Ma il fenomeno non è certo un’esclusiva del made in Italy: in Gran Bretagna provvide Tony Blair, il maestro di Renzi, a far piazza pulita di quel po’ di sinistra laburista che era sopravvissuta a Margaret Thatcher. In Germania, la patria della socialdemocrazia europea, la Spd fu suicidata dal cancelliere Gerhard Schroeder, l’uomo che fece storici sconti alla Russia per poi ottenere un ingaggio miliardario dalla Gazprom come super-consulente. Proprio Schroeder varò le micidiali riforme strutturali ispirate dal boss della Volkswagen, Peter Haartz, che comprò – corrompendoli – i leader sindacali dell’azienda, perché tradissero i lavoratori che si fidavano di loro. In Francia, l’eclissi della sinistra raggiunse caratteri mostruosi col monarca finto-socialista Mitterrand: fu lui, il massimo architetto politico dell’euro-regime, a inoculare il virus letale dell’austerity nello Stato europeo, proiettando micidiali tecnocrati – da Jacques Delors a Jacques Attali – al vertice del nuovo super-potere di Bruxelles, da cui impartire le direttive che avrebbero trasformato la fiorente Europa nella “terra desolata” di oggi, ricattata dalle banche e devastata dalla recessione e della disoccupazione.In Italia, con Renzi, siamo agli spiccioli finali: «La cancellazione dell’articolo 18 ha il valore simbolico dell’abbattimento dell’ultima bandiera dell’uguaglianza e serve a rendere accettabili provvedimenti ben più immediatamente sostanziosi, come il via libera ai licenziamenti di massa dato alla ThyssenKrupp, o il regalo alla Confindustria della riduzione delle tasse sui profitti pagata con i ticket dei malati», scrive Cremaschi. «Abbiamo realizzato un sogno, ha detto Squinzi, mentre lavoratori e precari vivono nell’incubo». Ma la sceneggiatura è invariabile: la promozione della rovina non può procedere senza il pieno consenso dei leader dell’ex sinistra. «Un governo così sfacciatamente filopadronale – insiste Cremaschi – non poteva che nascere da una operazione culturale e politica che si accampasse e giustificasse nel Pd». Il governo Renzi? «Riassume trenta anni di politiche liberiste contro il lavoro e le conduce al punto estremo», rendendo palese «la doppia contraddizione della Cgil». La prima è la più evidente: «Il rapporto del primo sindacato italiano con il Pd sta diventando sempre più insostenibile, ma allo stesso tempo resta inscindibile».Il guaio è che la Cgil, con i suoi gruppi dirigenti, ha sinora avuto il Pd come referente istituzionale fondamentale: «Rompere con esso significherebbe praticare un mare aperto nelle relazioni politiche che fa paura». Imbarazzante, quindi, che con la Cgil si schierino esponenti Pd dell’area anti-renziana, come Stefano Fassina, che poi però restano «disciplinati nel votare la legge sul lavoro». Anche qui, nulla di originale: le più importanti manomissioni della legislazione del lavoro in Italia furono introdotte da esponenti del centrosinistra, primo fra tutti Tiziano Treu con l’omonimo “pacchetto” di riforme, poi sviluppato da Massimo D’Antona (governo D’Alema) a aggiornato da Marco Biagi, consulente del governo Berlusconi ma proveniente dalla sinistra socialista, come D’Antona poi barbaramente assassinato dalle “Nuove Br”. La loro “colpa”, agli occhi dei killer? Aver cercato di demolire lo Statuto dei Lavoratori, precarizzando l’impiego. E i sindacati dov’erano? Dalla stessa parte, ovviamente: tacevano, approvando in silenzio le norme padronali che avrebbero sottratto diritti un tempo intangibili.Un’acquiescenza tacita, mai interrotta. La Cgil oggi si oppone al Jobs Act, contesta Cremaschi, ma in questi trent’anni «ha sempre finito per accettare tutti i patti e i provvedimenti che hanno portato ad esso». Ultimi esempi: «La legge Fornero sulle pensioni e il primo attacco all’articolo 18 del governo Monti son passati tranquillamente». E se ora la Camusso si oppone alla legge-delega, «non fa certo altrettanto con quei Job Act diffusi che vengono definiti in accordi che riducono diritti e salario», da ultimi «l’accordo del 10 gennaio con la Confindustria sulla rappresentanza e alcuni pessimi contratti». Lo scatto d’orgoglio contro Renzi? Meglio tardi che mai. Ma non è sufficiente «né a fermare l’offensiva di un governo che le contraddizioni del sindacato ben le conosce ed usa, né tantomeno a invertire la tendenza al degrado delle condizioni di chi lavora». Perché tutto questo cambi, conclude Cremaschi, «è necessaria una rottura di fondo della Cgil con la linea politica e le pratiche sindacali di questi trenta anni. Ma di questo, al momento, non si vede alcuna traccia».Da almeno trent’anni, il copione è sempre o stesso: per revocare diritti e conquiste sociali è necessaria la piena complicità di quella sinistra che nel dopoguerra aveva lottato per il welfare, cioè per l’estensione orizzontale del benessere. Il grande capitale finanziario e oligarchico utilizza partiti e sindacati di cui la gente è abitutata a fidarsi – chi meglio di loro? Dunque non devono più combattere contro le riforme strutturali, destinate a demolire la struttura dell’economia sociale. E in più devono collaborare pienamente all’erosione della società dei diritti, che oggi culmina con l’attacco storico alla Costituzione democratica. Attraverso il famigerato memorandum di Lewis Powell, la destra economica statunitense aveva dettato la linea già all’inizio degli anni ‘70: radere al suolo in tutto l’Occidente la sinistra radicale e addomesticare la sinistra riformista, letteralmente “comprando” i suoi leader per ottenere la smobilitazione di partiti e sindacati. Detto fatto. E quindi che senso ha, oggi, protestare contro Renzi dopo essersi piegati per decenni ai peggiori diktat?