Archivio del Tag ‘Eurostat’
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Le ricette di Draghi per il funerale dell’economia europea
Revoca degli ultimi campoli di sovranità nazionale e trasferimento di tutti i poteri a Bruxelles. Lo “propone” Mario Draghi, cioè l’uomo costantemente citato come il pegggior banchiere centrale del mondo, il peggiore della storia, scrive Paolo Barnard. «Ci si chieda: perché l’Italia della metà degli anni ’90 – che non faceva la riforme di Draghi, che non strisciava supina di fronte a Bruxelles, che usava la spesa pubblica molto ma molto più di oggi… perché veniva definita da “Standard & Poor’s” come “economia leader d’Europa”? Allora Mario, che ci rispondi? Avevamo l’Eurozona allora? No. Avevamo invece il triplo della spesa pubblica di oggi, che come i veri economisti sanno è l’attivo di tutto il settore privato di cittadini e aziende. Oggi la folle dittatura delle Austerità ha stroncato la spesa pubblica, e stroncati affondiamo. Tutto qui».«Se metti in acqua diciotto barche con buchi sotto la chiglia e queste iniziano ad affondare», scrive Barnard nel suo blog, «mi sembra ridicolo che tutti puntino lo sguardo su quella che affonda più in fretta», l’Italia, «piuttosto che considerare il fatto che sono state tutte costruite da incompetenti», e quindi «è il cantiere cialtrone che va chiuso». Tradotto: «Mario Draghi regge il cantiere Eurozona dove tutti, e tutto, sta affondando, ma gli viene comodo imbrogliare i media e il pubblico puntando il dito sulla barca Italia che affonda un po’ più delle altre». La crescita dell’Eurozona, dopo 14 anni di grandi promesse, è letteralmente pietosa, «non riesce mai a superare quel triste zero virgola», mentre ad esempio la Gran Bretagna «cresce come basilico al sole». La deflazione europea è fuori controllo, «cioè i prezzi crollano di minuto in minuto perché non c’è domanda, e tutti i gran proclami di Draghi per frenare questa valanga sono stati accolti dai mercati e dai consumatori come ridicolaggini, fra l’altro disoneste perché tutte tese solo a favorire speculazioni finanziarie».Le cosiddette “riforme” tanto invocate da Draghi come pozione magica di salvezza «non hanno salvato nessuno dei paesi che le hanno fatte». Bollettino di guerra: la Finlandia è all’ottavo mese a crescita zero, l’Olanda precipita nella terza recessione dal 2009, Francia registra il record della disoccupazione e un crollo storico di settori-chiave come l’immobiliare e il manifatturiero. Nel Belgio “commissariato” dall’Ue abbiamo consumi a tasso negativo e crescita zero. E persino in Germania crollano gli ordini industriali (-4%), il Pil è in calo, stipendi sono stagnanti da 10 anni, il calo della domanda interna deprime tutto l’export europeo. Poi, secondo dati ufficiali Eurostat, «le gloriose riforme di Draghi e dell’Eurozona hanno infilato nella calza della Befana anche il più alto tasso di disoccupazione europea dalla nascita dell’euro». E poi le banche, «quelle regolamentate da Mario Draghi, che oggi dispensa ricette severe su come curarci». Ebbene: la maggioranza delle banche europee «sono marce, ma veramente, cioè di fatto fallite».Secondo la Bank of International Settlements, «le banche in Europa non sono riuscite a rimediare alla loro catastrofica esposizione a prestiti che saranno inesigibili perché gli indebitati sono al collasso». E il collasso, sottolinea Barnard, è proprio opera della Troika di Draghi e delle sue austerità, «come ormai ammettono anche Goldman Sachs e gli “hedge funds”». La stessa Reuters ci informa che le stesse banche europee, azzoppare da «buchi contabili che si vedono dalla Luna», hanno prestato 3.000 miliardi di dollari ai “mercati emergenti”: soldi che difficilmente torneranno indietro. «Poi indovinate a chi, per questo motivo, le medesime banche diranno no al mutuo o al finanziamento? A voi, a voi, e infatti registriamo il più alto declino nei prestiti bancari alle famiglie dal 2008».E attenzione: il 90% dello strombazzato calo dello spread e degli interessi sui titoli di Stato dei paesi come Spagna, Irlanda o Italia, rivela uno studio di “Bloomberg”, «non è dovuto a reali progressi dell’economia di quegli Stati, ma ai trucchi speculativi di Mario Draghi alla Bce: quindi aria fritta, che Renzi oggi usa per infinocchiare i soliti poveri italiani». Gran finale: il “Financial Times” annuncia che le banche più fallite di tutta l’Europa «non sono quelle spagnole o italiane, ma quelle tedesche», espressione del sistema di potere che domina Bruxelles e Francoforte, di cui Draghi è forse il massimo esponente. E questo “terapeuta” ha ancora il coraggio di proporre soluzioni e cure? Assolutamente sì. Il macellaio travestito da medico: la farsa continua, e l’Europa affonda.Revoca degli ultimi campoli di sovranità nazionale e trasferimento di tutti i poteri a Bruxelles. Lo “propone” Mario Draghi, cioè l’uomo costantemente citato come il pegggior banchiere centrale del mondo, il peggiore della storia, scrive Paolo Barnard. «Ci si chieda: perché l’Italia della metà degli anni ’90 – che non faceva la riforme di Draghi, che non strisciava supina di fronte a Bruxelles, che usava la spesa pubblica molto ma molto più di oggi… perché veniva definita da “Standard & Poor’s” come “economia leader d’Europa”? Allora Mario, che ci rispondi? Avevamo l’Eurozona allora? No. Avevamo invece il triplo della spesa pubblica di oggi, che come i veri economisti sanno è l’attivo di tutto il settore privato di cittadini e aziende. Oggi la folle dittatura delle Austerità ha stroncato la spesa pubblica, e stroncati affondiamo. Tutto qui».
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Debito positivo, cioè consumi, per tornare sostenibili
Se la politica capisse cos’è veramente il debito pubblico, nessuno in Italia, così come in alcun paese europeo oggi, parlerebbe di crisi. Ma poiché la politica non sa (e in alcuni casi non vuole) capirlo, tocca a noi cittadini e imprenditori informarci, e salvarci di conseguenza. Sapete bene che il reale governo italiano risiede nelle istituzioni dell’Eurozona, che decidono tutto ciò che conta nelle nostre vite di cittadini e aziende. Costoro ci dicono da anni che il debito pubblico va sempre contenuto, perché è la causa di ogni possibile male economico. A tale scopo hanno imposto ai diciotto membri della zona euro le austerità, cioè tagli selvaggi a tutto ciò che è spesa dello Stato, il cosiddetto “risanamento” dei conti. Ma i risultati non ci sono, anzi: in nessuno dei diciotto si è vista una riduzione di debito, e peggio, le relative economie sono tutte in calo, includendo Belgio, Finlandia, Olanda e anche Germania, non solo noi “spendaccioni” del sud Europa, dati Eurostat alla mano. E allora ecco la domanda: cos’è che non funziona?E’ semplice. Primo punto: il debito pubblico non è pubblico. Quando uno Stato spende o emette un titolo, esso accredita conti correnti di cittadini e aziende (noi, il cosiddetto “pubblico”). Quella spesa è debito di Stato, ma è il credito di tutti gli altri, cioè noi, il “pubblico”. Non può essere contemporaneamente debito per tutti e due. Nessuno di noi dovrà ripagarlo. Nessuna impresa privata che lavora per lo Stato dovrà restituire quel fatturato, così come nessun risparmiatore dovrà ripagare i Bot che ha in portafoglio. Di nuovo: la spesa di Stato è debito del governo, ma credito per tutti noi. Secondo punto: il debito dello Stato può essere fruttuoso o, al contrario, dannoso per l’economia. Ed è qui l’errore catastrofico della politica di Bruxelles, cioè il condannare il debito di per sé, sempre, e sempre pretendere che esso venga ridotto. Innanzi tutto, ribadendo che il debito di Stato è il credito di cittadini e aziende, ridurlo significa automaticamente impoverirci. Poi, di nuovo, vanno distinti i due tipi di debito.Se lo Stato investe in un programma di piena occupazione, in infrastrutture e tecnologie per le imprese, in ricerca, se impone il costo del denaro a tasso quasi zero, o addirittura fa credito agevolato in settori vitali per le imprese e le famiglie, la ricchezza del paese cresce (il Pil), e parlo della ricchezza di cittadini e aziende. La crescita del Pil non solo rilancia i consumi e i fatturati, ma rientra sempre nelle “casse” dello Stato e finisce poi col mantenere il debito stabile. Questo è il debito positivo. Se, come invece pretendono le austerità di Bruxelles, viene impedito al governo di usare il debito in quel modo virtuoso, l’economia collassa, il Pil cala e in questo modo la proporzione del debito su Pil appare maggiorata.E peggio: il governo è poi costretto a spendere montagne di denaro per “tappare i buchi” causati proprio dalle austerità, come la cassa integrazione, come i salvataggi delle banche travolte dai prestiti emessi ma ora inesigibili, come l’aumento delle spese per la povertà sociale, e come le “punizioni” che i mercati c’infliggono alzandoci i tassi d’interesse proprio a causa della crisi innescata dalle austerità stesse. Questa è tutta spesa a debito negativo, perché non produce nulla, non aumenta né Pil né fatturati né redditi, e fa crescere precisamente il volume del debito. Un paradosso micidiale, che sta devastando le nostre vite, ma che la politica italiana, totalmente serva del potere europeo, non vuole capire, tanto meno rimediare. Esiste un debito di Stato non solo positivo, ma vitale per noi cittadini e aziende. Non possiamo farne senza, oggi.(Paolo Barnard, “Debito positivo e debito negativo, la differenza”, dal blog di Barnard del 17 luglio 2014).http://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=889Se la politica capisse cos’è veramente il debito pubblico, nessuno in Italia, così come in alcun paese europeo oggi, parlerebbe di crisi. Ma poiché la politica non sa (e in alcuni casi non vuole) capirlo, tocca a noi cittadini e imprenditori informarci, e salvarci di conseguenza. Sapete bene che il reale governo italiano risiede nelle istituzioni dell’Eurozona, che decidono tutto ciò che conta nelle nostre vite di cittadini e aziende. Costoro ci dicono da anni che il debito pubblico va sempre contenuto, perché è la causa di ogni possibile male economico. A tale scopo hanno imposto ai diciotto membri della zona euro le austerità, cioè tagli selvaggi a tutto ciò che è spesa dello Stato, il cosiddetto “risanamento” dei conti. Ma i risultati non ci sono, anzi: in nessuno dei diciotto si è vista una riduzione di debito, e peggio, le relative economie sono tutte in calo, includendo Belgio, Finlandia, Olanda e anche Germania, non solo noi “spendaccioni” del sud Europa, dati Eurostat alla mano. E allora ecco la domanda: cos’è che non funziona?
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Missione compiuta, l’Italia muore: la catastrofe in cifre
Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotograno «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».Secondo gli analisti di “Sollevazione”, la resa matematica dell’Italia rivelata dai conti – la lingua spietata del pallottoliere – permette anche di «capire come le politiche austeritarie per tenere in piedi l’euro, il sistema bancocratico e il capitalismo-casinò, abbiano affossato il nostro paese», il cui Pil ha perso 8,7 punti percentuali a partire dal 2007, inclusa la manipolazione dello spread che ha “armato” la gigantesca manomissione operata da Monti e Fornero, con la loro “spending review” e la riforma-suicidio delle pensioni. Un’agenda peraltro proseguita da Letta: tagliare la spesa, ben sapendo che il “risparmio” dello Stato manda in crisi il settore privato, facendo calare il gettito fiscale e quindi esplodere il debito pubblico. Matteo Renzi? Niente di nuovo: neoliberismo puro, a cominciare dal Jobs Act per precarizzare ulteriormente il lavoro. Aggravanti: la neutralizzazione delle ultime difese sociali garantite dalla Costituzione, come vuole l’élite finanziaria, e l’eliminazione fisica dell’opposizione attraverso una legge elettorale come l’Italicum, definita peggiore – per le sue restrizioni – di quella che permise a Mussolini di consolidare il neonato regime fascista.Tutto questo, mentre il paese soccombe ogni giorno: in sei anni, il Pil pro capite è calato di 9 punti (di 10, invece, il reddito reale disponibile per le famiglie). Stesse percentuali per la frana della ricchezza nazionale: -9% dal 2007 al 2013, pari a 843 miliardi di euro. C’era una volta l’Italia: nello stesso periodo, la produzione industriale è crollata addirittura del 25,5%. Sta andando in frantumi, grazie alla politica imposta da Berlino, il maggior competitore europeo della Germania. Tra il 2001 e in 2013, l’Italia ha perso 120.000 fabbriche. Sono cifre da scenario bellico, e non sono riguardano solo l’industria: ci sono anche le 75.000 imprese artigiane costrette a chiudere. Anno record per il fallimenti, l’infame 2013 delle “larghe intese”: qualcosa come 111.000 fallimenti, in appena dodici mesi. Contraccolpo catastrofico, la disoccupazione: dal 2001, con l’ingresso nell’Eurozona, l’industria italiana ha perso un milione e 160.000 posti di lavoro. Colpa anche dell’assenza di credito: nonostante ricevano denaro dalla Bce a tassi «prossimi allo zero», le banche continuano a finanziare le imprese con prestiti al 4,49%, mentre negli altri paesi dell’Eurozona l’interesse medio è al 3,8%.Anche così il lavoro si estingue alla velocità della luce. Dal 2007, la piaga della disoccupazione è più che raddoppiata: dal 6,1% al 12,7 attuale. «I disoccupati ufficiali sono 3 milioni e 300.000», rileva “Sollevazione”, ai quali vanno però aggiunti «altri 3 milioni di persone», che ormai non si rivolgono neppure più ai centri per l’impiego: i cosiddetti “sfiduciati” fanno salire a quasi 6 milioni e mezzo il totale dei disoccupati italiani, proprio mentre la Germania del super-export vede salire ai massimi storici la quota degli occupati. C’è anche il trucco, naturalmente: un tedesco su quattro accetta i mini-job da 450 euro al mese. E’ la strada aperta in Italia dal Jobs Act di Renzi, di fronte a una platea oceanica di giovani senza lavoro: il 43%, più del doppio dei ragazzi disoccupati nel 2007. Sta male, comunque, la stragrande maggioranza dei salari italiani: «Con uno stipendio netto di 21.374 dollari l’anno, l’Italia si colloca al 23esimo posto nella classifica Ocse: se la passano peggio solo i portoghesi e gli abitanti dei paesi dell’Europa orientale». A valanga, la mancanza di impiego si traduce in forte calo dei consumi familiari, tagliati di quasi il 10% solo negli ultimi due anni. A farne le spese è anche il risparmio, continuamente eroso per far fronte all’emergenza economica, mentre la super-tassazione disposta dall’Ue ha raggiunto per l’Italia il 44% del Pil.«Se si considera il periodo tra il 2011 e il 2012 – precisa “Sollevazione” – soltanto l’Ungheria, in Unione Europea, ha conosciuto un aumento delle tasse rispetto al Pil superiore a quello dell’Italia». E’ un circolo vizioso: imporre più tasse a chi già le paga, per tentare (inutilmente) di arginare il calo delle entrate, comunque – già oggi – superiori alla somma delle uscite: situazione che sarà ulteriormente aggravata dal Fiscal Compact e cronicizzata dall’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. In pratica, la fine dello Stato sociale e delle garanzie sui servizi vitali – scuola e sanità in primis, peraltro minacciate di privatizzazione forzata dal Ttip e dal Tisa, i trattati segreti euro-atlantici imposti dagli Usa, che Renzi preme per approvare in fretta. Cartina di tornasole di questa autentica catastrofe, il debito pubblico: era pari al 103,3% del Pil nel 2007, ma ha raggiunto il 132,9% nel 2013. «L’ultimo rilevamento di Bankitalia ci dice che il debito pubblico ha toccato a maggio 2014 un nuovo record storico: quota 2.166,3 miliardi, con un aumento di 20 miliardi sul mese precedente».Va in rosso il conto delle famiglie, nel paese che prima dell’avvento dell’euro era il più risparmiatore d’Europa: rispetto al Pil, dal 1998 al 2012 il debito privato delle imprese è passato dall’85 al 120%, quello delle banche dal 40 al 110%, quello delle famiglie dal 30 al 50%. Paradossalmente, osserva “Sollevazione”, «in questo periodo quello che è cresciuto meno è stato proprio il debito pubblico», mentre il debito aggregato – pubblico e privato – è letteralmente esploso, dal 275% ad oltre il 400%. Spaventose pure le sofferenze bancarie, cresciute di 100 miliardi dal 2007 al 2013, per un totale di 147,3 miliardi di euro. Ed ecco l’ultimo gradino della tragedia: la povertà. Un fantasma che mette paura: l’esercito dei nuovi poveri e il timore che crescano furti e rapine ha aumentato del 5,7% i denari lasciati in custodia alle banche, oltre 1,2 miliardi di euro. Secondo Eurostat, gli «individui a rischio povertà o esclusione sociale» nel 2008 erano in Italia il 25,3%, e sono diventati il 29,9% nel 2012. L’ Istat è ancora più preciso: «Un italiano su dieci è in povertà assoluta».Tra il 2012 e il 2013, spiega l’istituto di statistica, l’incidenza della povertà assoluta è aumentata dal 6,8 al 7,9%, coinvolgendo oltre 300.000 famiglie e 1 milione 206.000 persone in più rispetto all’anno precedente. «E’ povera, o quasi povera, una famiglia su cinque». Poi c’è la “povertà relativa”, quelle delle famiglie (sono quasi 3 milioni e mezzo) il cui portafoglio mensile è inferiore alla spesa media nazionale, 972 euro al mese. Sono famiglie che cercano di sopravvivere con meno di 800 euro al mese, che si riducono a meno di 750 nel Mezzogiorno, dove più evidenti sono le diseguaglianze che la “crisi” ha fatto esplodere. Nel 1992, l’Italia era un paese relativamente equilibrato: non c’era un abisso tra ricchi e poveri e la classe media era in ottima salute. Oggi, praticamente, è in via di estinzione e teme di sprofondare giorno per giorno verso la povertà. Nel 2013, l’Italia è risultato «il paese più diseguale dell’Unione Europea, dopo la Gran Bretagna». Solo che il Regno Unito non è ingabbiato dall’euro. Infatti, a Londra, economia e occupazione stanno decisamente meglio rispetto alla media dell’atroce Eurozona, di cui l’Italia – dopo la Grecia – è la vittima principale.Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotografano «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».
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Triste miracolo: paghe da fame per un tedesco su quattro
Mario Monti, 20 gennaio 2013: «Noi ammiriamo la Germania e vogliamo imitarla in alcune riforme». Beppe Grillo, 15 marzo 2013: «Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca, quel che ha dato buoni risultati in Germania lo vogliamo anche noi» Matteo Renzi, 17 marzo 2014: «La pretesa di creare posti di lavoro con una legislazione molto severa e strutturata è fallita, dobbiamo cambiare le regole del gioco: in questo senso abbiamo nella Germania il nostro punto di riferimento». “Fare come la Germania” è il mantra di tutti, fino al Jobs Act renziano. Storia: nel 2003 il socialdemocratico Schroeder ha smantellato i diritti sociali e tagliato gli stipendi ai lavoratori, per poter rilanciare un’economia basata interamente sull’export e quindi sul basso costo del lavoro. La riforma prende il nome da Peter Hartz, industriale della Volkswagen. Un genio? Fate voi: “Hartz ammette di aver corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere”, titolò di recente il “Sole 24 Ore”. Facile, no? Risultato: nel regno della Merkel dilagano i mini-job da 450 euro, che dopo una vita di lavoro danno diritto a una pensione di 200 euro mensili.Sul sito “MeMmt.info”, Daniele Della Bona ripercorre i passaggi chiave del falso “miracolo” tedesco, basato sul doppio ricatto imposto ai lavoratori e ai partner europei, costretti alla politica di rigore per colpire l’industria nazionale e quindi smantellare la concorrenza industriale, dell’Italia in primis, così scomoda per la manifattura tedesca. Per Roland Berger, storico consulente di Berlino, la chiave delle riforme iniziate nel 2003 è stata «una liberalizzazione del mercato del lavoro», con stipendi rimasti al palo rispetto all’incremento della produttività, a tutto vantaggio del capitale industriale. «Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale, l’aumento dell’ età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari». Una confessione peraltro tardiva, rileva Della Bona nel post ripreso dal blog “Vox Popoli”. Più tempestivo era stato lo stesso Schroeder, il cancelliere che regalò un maxi-sconto a Gazprom per poi essere profumatamente assunto dalla compagnia russa. Già nel 2005, al World Economic Forum di Davos, Schroeder ammise: «Abbiamo dato vita ad uno dei migliori settori a bassa salario in Europa».La chiave del boom tedesco sono i famigerati mini-job, per i quali non è obbligatorio neppure versare contributi sociali. Paghette da fame, per 15 ore settimanali. In compenso, il business trova super-conveniente questa formula di assunzione: nel 2003 i minijobber erano 5 milioni e mezzo, nel 2011 erano almeno 7,5 milioni. Una catastrofe, secondo Della Bona, per i lavoratori tedeschi: esplosione di operai con bassi salari, boom del lavoro temporaneo e part-time, crollo dei salari reali medi, aumento della disuguaglianza sociale e reddituale, calo delle tutele contrattuali per tutti i lavoratori. A chi era funzionale questo disegno? E chi ne ha tratto beneficio? «La prima conseguenza è stata quella di creare un mercato del lavoro altamente segmentato», con alcuni lavoratori ben pagati e «un esercito di bassi salariati, spesso costretti a chiedere un sussidio per sopravvivere o a svolgere un secondo lavoro: fra i minijobber sono 2,5 milioni quelli con un secondo impiego». Non a caso, la quota di lavoratori nella categoria a basso salario (cioè inferiore ai 2/3 del salario medio) è il 24,3% degli occupati: è pagato con un’elemosina un lavoratore tedesco su 4, cioè quasi 8 milioni e mezzo di occupati.Nel 2010, secondo Eurostat, all’interno dell’Unione Europea, su 27 paesi membri soltanto 6 avevano una quota di lavoratori a basso salario maggiore di quella tedesca: Estonia, Cipro, Lituania, Lettonia, Polonia e Romania. «Non solo 8,4 milioni di lavoratori percepivano nel 2012 una paga oraria inferiore ai 9,30 euro, ma – di questi – 6,6 milioni guadagnavano meno di 8,5 euro all’ora, 5,7 milioni meno di 8 euro, 4 milioni meno di 7 euro, 2,5 meno di 6 euro e 1,7 milioni avevano una paga oraria inferiore addirittura ai 5 euro». Non solo i mini-job “costano” pochissimo e fanno “risparmiare” anche sui contributi previdenziali, ma minacciano di terremotare l’impianto socio-produttivo della Germania, perché creano «le premesse per sostituire lavoratori che avevano contratti a tempo indeterminato». Secondo l’Instituts für Arbeitsmarkt und Berufsforschung (Iab), «il fenomeno è maggiormente visibile nei servizi: qui, molti minijobber svolgono lavori in precedenza assegnati ad occupati a tempo pieno – ma lo fanno con una paga più bassa». Le prove della sostituzione sono visibili anche nel commercio al dettaglio, nel turismo, nella sanità e nel sociale, scrive lo Iab, istituto di ricerca interno all’Agenzia federale per il lavoro. «Soprattutto nelle piccole aziende con meno di 10 dipendenti, i ricercatori hanno potuto confermare che la creazione di nuovi minijobs va di pari passo con l’eliminazione degli occupati a tempo pieno con regolare contratto».I ricercatori dello Iab ritengono «un pericolo» la sostituzione dei lavoratori regolari nelle piccole imprese: indeboliscono le casse sociali e quindi il sistema sociale tedesco. «In particolare, i lavoratori che per un lungo periodo hanno svolto un minijob, rischiano la trappola della povertà in vecchiaia a causa di una pensione troppo bassa». Non solo: «I minijobber non hanno diritto alle ferie e non hanno accesso ai bonus e alle indennità aziendali». Un trend che viene confermato dai dati dell’Ocse: la quota complessiva di lavoratori a tempo determinato e part-time è aumentata notevolmente a partire dal 2003, superando abbondantemente la soglia del 50% fra i giovani occupati tedeschi. «Non dovrebbe dunque stupire che i salari reali medi siano calati in Germania fra il 2003 e il 2009 di oltre il 6%». La situazione tedesca ha allarmato persino l’Ilo, l’International Labour Office delle Nazioni Unite, secondo cui il boom della Germania non è affatto dovuto a un aumento della produttività, ma solo al super-sfruttamento dei lavoratori sottopagati, dal momento che «gli sviluppi della produttività sono rimasti in linea con gli altri paesi dell’Eurozona».Il trucco, a tutto danno dei lavoratori tedeschi, sono state «politiche di deflazione salariale che non solo hanno avuto un impatto sui consumi privati, ma hanno anche condotto ad un ampliamento delle disuguaglianze reddituali ad un velocità mai vista prima, nemmeno dopo la riunificazione, quando molti milioni di persone della Germania Est persero il loro lavoro». Addirittura la Commissione Europea, nel 2012, «ormai a babbo morto», si è accorta del problema, aggiunge Della Bona. Il commissario europeo agli affari sociali, Laszlo Andor, intervistato dal giornale tedesco “Faz.net”, ha infatti riconosciuto che «il mercato del lavoro in Germania è sempre più segmentato», visto che «un gran numero di occupati ha solo un minijob». Pessimo scenario: «Se continua così – avverte Andor – il divario fra lavori regolari e minijobs crescerà rapidamente: i minijobber rischiano di restare in questa situazione e di cadere nella trappola della povertà». La stretta tedesca sui salari, dice ancora il commissario europeo, ha danneggiato gli altri Stati Ue: «Con la sua politica mercantilista, la Germania ha rafforzato gli squilibri in Europa e causato la crisi».Meglio tardi che mai, dirà qualcuno. Peccato che adesso tutti ripetano che anche i paesi del Sud Europa dovrebbero fare come la Germania, ben interpretata dalla stessa Merkel a Davos nel 2013: «Per ottenere riforme strutturali è necessario esercitare pressione», ha detto la cancelliera, ammettendo che «anche in Germania i disoccupati sono dovuti arrivare fino a 5 milioni, prima di ottenere la disponibilità all’attuazione delle riforme strutturali». Rispondendo ai Verdi, nella primavera 2013 il governo tedesco ha risposto – mentendo – che la mancanza di competitività dei paesi in crisi nasce da salari troppo alti e scarsa produttività. La strada maestra, ovviamente, sarebbe «la flessibilizzazione del salario, che in futuro dovrà essere orientato allo sviluppo della produttività», per «garantire l’occupazione e aumentarla». Ci sarebbe da ridere, se non fosse che tutti i partner europei – a cominciare da Renzi – mostrano di credere ancora, nei fatti e negli atti di governo, alla fiaba atroce dell’austerity espansiva made in Germany. I lavoratori tedeschi sono condannati anche dall’Epl, l’indice di protezione del lavoro dell’Ocse, che misura la facilità con la quale si può essere licenziati. Quando si parla di Germania, sottolinea Della Bona, dobbiamo tenere a mente che a Berlino ci sono le grandi multinazionali mercantiliste e i lavoratori, e che l’euro ha beneficiato sicuramente le prime e danneggiato enormemente i secondi.«La politica economica e commerciale tedesca di tipo mercantilistico (esportare il più possibile e ridurre le importazioni per mantenere un saldo estero positivo: “essere competitivi”, come si dice spesso sui media) ha dapprima condotto a una forte riduzione dei salari dei lavoratori tedeschi, fortemente scesi in termini reali a partire soprattutto dal 2003», e ora minaccia – di conseguenza – di mettere in crisi il bilancio statale (esattamente come in Italia) a causa del crollo dei consumi interni e del gettito fiscale. «Se il salario non cresce, difficilmente il lavoratore tedesco può comprare beni e servizi prodotti a casa propria o all’estero: meno soldi hai e meno cose compri». Ci guadagna solo l’industriale tedesco, che fa affari d’oro in due modi: sottopagando i lavoratori e beneficiando della politica europea decisa a Berlino per colpire la concorrenza, come quella italiana. Il super-export tedesco è esploso alla fine degli anni ‘90, «mentre il volume dei consumi delle famiglie, gli investimenti interni e i salari reali sono rimasti pressoché stazionari». Non stupisce che, dall’ingresso nell’euro fino alla crisi finanziaria del 2007, la Germania sia stata il paese che è cresciuto meno in Europa, come conferma l’outlook 2013 del Fmi.Infine, a completare l’affresco ci sono i dati – truccati – della disoccupazione. Ufficialmente, l’Agenzia federale per il lavoro a settembre 2012 parla di 2,7 milioni di disoccupati e di 5 milioni di “persone in età lavorativa ricevono un sussidio di disoccupazione”. Con questi numeri si arriva ad un tasso di disoccupazione di circa l’11.9 %, rileva Della Bona. Ma la stessa agenzia fornisce anche il motivo per cui circa 2,3 milioni di persone in grado di lavorare, destinatarie di un sussidio di disoccupazione, non siano incluse nel tasso di disoccupazione ufficiale: «Non vengono considerati disoccupati tutti coloro che si trovano all’interno di un programma di politica del mercato del lavoro (formazione e inserimento)», cioè quasi 1 milione di persone. Anche chi ha un basso reddito, e per questo riceve un’integrazione, non viene considerato disoccupato: erano 655.000 persone già nel maggio 2012. Sono escluse dal calcolo dei disoccupati altre 630.000 persone, quelle che ricevono un sussidio perché crescono dei figli o vanno a scuola. Poi ci sono 248.000 persone assistite perché “non capaci di lavorare”, e altri 235.000 individui “anziani” che ricevono un sussidio perché hanno più di 58 anni e negli ultimi 12 mesi, semplicemente, non hanno più lavorato. Solo metà dei beneficiari del sussidio è registrata come disoccupata, ammette la stessa agenzia. Anche così, truccando le cifre, la Germania continua a raccontare il suo miracolo triste da 400 euro al mese.Mario Monti, 20 gennaio 2013: «Noi ammiriamo la Germania e vogliamo imitarla in alcune riforme». Beppe Grillo, 15 marzo 2013: «Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca, quel che ha dato buoni risultati in Germania lo vogliamo anche noi» Matteo Renzi, 17 marzo 2014: «La pretesa di creare posti di lavoro con una legislazione molto severa e strutturata è fallita, dobbiamo cambiare le regole del gioco: in questo senso abbiamo nella Germania il nostro punto di riferimento». “Fare come la Germania” è il mantra di tutti, fino al Jobs Act renziano. Storia: nel 2003 il socialdemocratico Schroeder ha smantellato i diritti sociali e tagliato gli stipendi ai lavoratori, per poter rilanciare un’economia basata interamente sull’export e quindi sul basso costo del lavoro. La riforma prende il nome da Peter Hartz, industriale della Volkswagen. Un genio? Fate voi: “Hartz ammette di aver corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere”, titolò di recente il “Sole 24 Ore”. Facile, no? Risultato: nel regno della Merkel dilagano i mini-job da 450 euro, che dopo una vita di lavoro danno diritto a una pensione di 200 euro mensili.