Archivio del Tag ‘export’
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Soldi solo agli speculatori, così gli Usa ci fregano sempre
Le due maggiori banche centrali del mondo, la Fed e la Bce, Yellen e Draghi, hanno deciso di fare entrambe la più fottuta puttanata che una Bc possa fare in assoluto. Prima la Fed, che adesso dovrebbe smetterla, ora la Bce. Hanno iniettato miliardi su miliardi nelle banche a tassi ridicoli o comprandogli i titoli di Stato che avevano nelle riserve in quantità oceaniche. Risultato: zero per la gente e il lavoro, zero per le aziende, proprio un emerito cazzo, ma soldi a prezzi stracciati per gli speculatori per speculare. L’ho detto a “La Gabbia”, La7, ma lo hanno scritto milioni di analisti nel mondo. Ora che succede? Le Borse si sono gonfiate con acquisti frenetici oltre ogni realtà, stanno gonfiandosi da 64 mesi consecutivamente, e non era solo Hyman Minsky che ce lo diceva anni fa, ma la realtà di oggi ce lo dice: quando un gonfiore così accade, poi fa il botto, SEMPRE, SEMPRE E SEMPRE, perché non riflette, come detto, il mondo reale, ma solo i soldi regalati a prezzi stracciati dalle banche centrali agli speculatori. E tutto esplode in merda (dopo che i soliti noti hanno fatto miliardi e i solidi idioti, voi, ci hanno perso investimenti e lavoro). Ma non solo…Il mercato dei Junk Bonds aziendali si è gonfiato fino alla Luna, poi si è sgonfiato e sono cazzi ora per ’ste aziendine, che non trovano più liquidità e? e?…. LI-CEN-ZIA-NO; il valore dei titoli di Stato dei paesi europei cosiddetti Piigs è schizzato alle stelle con rendimenti sotto le scarpe, ma attenzione che nessuna di queste tre cose riflette il reale valore delle Borse, delle aziende, né dei titoli in oggetto, sempre per lo stesso motivo: sono soldi investiti grazie “ai soldi regalati a prezzi stracciati dalle banche centrali agli speculatori”. Cioè? Una colossale bolla speculativa come quella del 2001-2007 che poi è esplosa frantumando il pianeta. Di nuovo. Non abbiamo imparato un cazzo, NIENTE! Poi quella verruca pustolosa della Camusso, una delle più ignoranti presenze in Italia dal 1861, protesterà per i licenziamenti… Una colossale bolla speculativa su cui s’innestano alcune altre variabili alla dinamite. Ohhhhh! Che belle notizie! (tanto alle scimmie-cani italiani, al 99,99%, frega un cazzo. Scimmie-cani che siano della curva ultras Lazio, quelli che “governo ladro”, o che leggano il “Fatto Quotidiano”).Allora: in ’sto macello pronto a esplodere sotto al sedere di tuo figlio di 5 anni, s’innesta Obama che è senza ombra di dubbio il più bastardo presidente Usa da sempre, quello che ha permesso il più grande trasferimento di ricchezza dal 99% all’1% nella storia dell’umanità (e doveva essere un negro a essere così? Povero M.L. King “I have a dream”…). Obama fa la guerra di sanzioni commerciali con Putin, che significa che fra tutte le economie del mondo quella che va più in merda è proprio… LA NOSTRAAAA! Cioè l’Europa! Geniale. Come ci fottono sempre gli Usa, eh? Magistrali. Ma per chi scrivo io? Per gente che domattina sta con gli occhi da cefalo bollito incollati al “Fatto Quotidiano” o a “Repubblica” sulla Boschi o su Galan. Mentre il Vero Potere gli fotte il tratto rettale-sigmoideo over and over and over again fino alla morte. Giusto, santamente giusto. Siete idioti (ok, meno tu e quell’altro e tuo cugino)… come la Camusso, che dirà…(Paolo Barnard, “Questa finanza te la becchi dove sai. Sorry”, dal blog di Barnard del 13 agosto 2014).Le due maggiori banche centrali del mondo, la Fed e la Bce, Yellen e Draghi, hanno deciso di fare entrambe la più fottuta puttanata che una Bc possa fare in assoluto. Prima la Fed, che adesso dovrebbe smetterla, ora la Bce. Hanno iniettato miliardi su miliardi nelle banche a tassi ridicoli o comprandogli i titoli di Stato che avevano nelle riserve in quantità oceaniche. Risultato: zero per la gente e il lavoro, zero per le aziende, proprio un emerito cazzo, ma soldi a prezzi stracciati per gli speculatori per speculare. L’ho detto a “La Gabbia”, La7, ma lo hanno scritto milioni di analisti nel mondo. Ora che succede? Le Borse si sono gonfiate con acquisti frenetici oltre ogni realtà, stanno gonfiandosi da 64 mesi consecutivamente, e non era solo Hyman Minsky che ce lo diceva anni fa, ma la realtà di oggi ce lo dice: quando un gonfiore così accade, poi fa il botto, sempre, sempre e sempre, perché non riflette, come detto, il mondo reale, ma solo i soldi regalati a prezzi stracciati dalle banche centrali agli speculatori. E tutto esplode in merda (dopo che i soliti noti hanno fatto miliardi e i solidi idioti, voi, ci hanno perso investimenti e lavoro). Ma non solo…
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In Ucraina, la guerra europea degli idioti pericolosi
Le menti geostrategiche di Usa e Ue avevano già convincentemente manifestato il loro livello di intelligenza e lungimiranza nelle campagne di pacificazione, stabilizzazione e democratizzazione di Iraq, Afghanistan, Libia, Egitto. In Siria mesi fa stavano per aiutare gli insorti jihadisti bombardando l’esercito siriano, e ora, costretti dai fatti, aiutano l’esercito siriano bombardando i jihadisti. Mentre le fabbriche licenziano e chiudono e l’economia comunitaria si contrae perfino in Germania, e mentre si avvicina un freddo inverno, le sullodate menti si lanciano in una campagna di sanzioni, dirette a parole contro la Russia, ma nei fatti contro le imprese, i lavoratori, i consumatori dell’Europa Occidentale. Penso alle ditte che, a seguito delle sanzioni, non possono più esportare verso il più grande paese del nostro continente, quindi vanno a gambe all’aria. Con le sanzioni in vigore ad oggi e con le contromisure russe, l’Italia rischia 800.000 posti di lavoro e, solo di esportazioni agroalimentari perde 200 milioni, cioè il 24%. L’Ue perderà circa 5 miliardi.Qual è il fine degli illuminati strateghi? Indurre Mosca a decurtarci i prodotti energetici per costringerci ad affidarci ai fornitori Usa, così da aumentare anche la nostra sudditanza politica verso Washington, e con un passaggio per forti rincari che si tradurranno in maggiori costi per riscaldarsi, per viaggiare, per fabbricare? Dopo che la loro geniale e felicissima guerra in Libia (voluta da Londra e Parigi, appoggiata da Washington, e a cui Berlusconi fu spinto a partecipare da Napolitano) ci ha privato di quella preziosa fonte alternativa, in cui avevamo investito molto, è logico che adesso puntino a privarci anche del fornitore russo, per metterci completamente in pugno a quello americano. Intanto – ripeto – è assodato che queste stupide sanzioni ci stanno facendo perdere punti di Pil e guadagnare punti di disoccupazione. Ma per distrarre l’opinione pubblica dai veri problemi, dalla depressione economica, da chi fa gli affari sulla pelle delle nazioni, da chi si mangia i diritti della gente – per distrarre gli europei dal problema dei conflitti oggettivi e interni di interessi all’Ue, tra paesi dominanti (Germania in testa) e paesi subalterni – si costruiscono conflitti esterni e nemici esterni, meglio se con connotazioni morali e ideologiche. E’ una costante storica.Non meno balorda è la motivazione delle sanzioni medesime. Le menti strategiche dei nostri leaders, dopo aver inglobato nella Nato e armato contro la Russia diversi paesi dell’area ex-sovietica, anche nel Caucaso e nella zona altaica, fino all’Afghanistan, ora vorrebbero estendere la Nato all’Ucraina, portando i loro missili a poche centinaia di chilometri da Mosca. E’ pensabile che Mosca accetti ciò senza combattere? Che accetti un accerchiamento che le arriva sotto casa? Quanto vogliamo tirare questa corda? Non è meglio, non è più sicuro, magari, creare uno Stato-cuscinetto nel Donbass, libero da armi strategiche? Non è meglio lasciare alla Russia le sue tre provincie storiche ed etniche, piuttosto che rischiare una guerra nucleare, o anche solo un ulteriore tracollo economico?Infatti, la Russia rivuole semplicemente indietro le sue tre provincie, che da secoli sono abitate in maggioranza da russi, e che Krushev, a tavolino, aveva passato amministrativamente all’Ucraina nel 1953, in un contesto che rendeva pressoché indifferente questo passaggio. E’ chiaro che i recenti rivolgimenti in Ucraina hanno cambiato le carte in tavola, che è emersa e si sta consolidando una forma di nazionalismo ucraino il quale, verso la minoranza russa, va dal non amichevole all’ostile, e che politicamente si estende dal liberismo capitalista al fascismo. Santa Julya Tymoshenko, celebrata leader filoeuropea ed eroina della democrazia di Kiev, è stata intercettata mentre diceva di voler eliminare i separatisti russi con le armi nucleari. Dopo questo, e dopo le stragi che sono state consumate, come si può onestamente pensare a una pacifica convivenza della minoranza russa con la maggioranza ucraina entro il medesimo Stato e sotto il medesimo governo?La divisione umana che si è aperta è incolmabile e insanabile; meglio prenderne atto, e tracciare un confine che metta fine alla guerra e alle carneficine, prima che prenda corpo il fenomeno che già è iniziato, ossia dei volontari stranieri, perlopiù di estrema destra, che vanno a combattere in Ucraina contro i comunisti russi, e che, a differenza dei soldati ucraini, non si fanno scrupolo di sparare anche sui civili, identificandoli come nemico etno-ideologico. Si aggiungono i mercenari e i contractors occidentali, i mercenari delle multinazionali Usa che supportano Kiev, assieme a neonazisti svedesi. Combattenti francesi, americani, serbi, polacchi, israeliani, britannici, etc., già versano il loro sangue, perlopiù per motivi ideali, soprattutto a difesa dei russi. Hanno formato una brigata sotto il nome “United Continent”. Stanno così risvegliandosi gli odii atavici e tradizionali del Vecchio Continente, complicati, oltre che dalla stupidità dei vari fanatismi, dalla contrapposizione ideologica e dalla valenza di lotta paneuropea contro l’invadente presenza del capitalismo americano.Una deriva, questa, di cui i cauti media non ci informano, ma che è ovviamente assai pericolosa, che tende a coinvolgere altri paesi e a far evolvere un conflitto etnico locale in qualcosa di incomparabilmente peggiore e che può portare all’uso di armi nucleari in Europa, quindi a conseguenze mortifere o persino peggio che mortifere anche per noi dell’Europa occidentale. La guerra di Ucraina è già adesso una guerra europea. Assomiglia alla guerra civile spagnola. Ma a differenza di quella, tocca direttamente una superpotenza nucleare. Perciò ripeto: basta sanzioni idiote contro la Russia, tracciare un confine per separare le opposte forze armate, porre fine alla guerra, lasciare alla Russia ciò che è della Russia, e prendersi pure il resto. Ma senza piazzarci armi strategiche.(Marco Della Luna, “Ucraina, la guerra europea degli idioti pericolosi”, dal blog di Della Luna del 1° settembre 2014).Le menti geostrategiche di Usa e Ue avevano già convincentemente manifestato il loro livello di intelligenza e lungimiranza nelle campagne di pacificazione, stabilizzazione e democratizzazione di Iraq, Afghanistan, Libia, Egitto. In Siria mesi fa stavano per aiutare gli insorti jihadisti bombardando l’esercito siriano, e ora, costretti dai fatti, aiutano l’esercito siriano bombardando i jihadisti. Mentre le fabbriche licenziano e chiudono e l’economia comunitaria si contrae perfino in Germania, e mentre si avvicina un freddo inverno, le sullodate menti si lanciano in una campagna di sanzioni, dirette a parole contro la Russia, ma nei fatti contro le imprese, i lavoratori, i consumatori dell’Europa Occidentale. Penso alle ditte che, a seguito delle sanzioni, non possono più esportare verso il più grande paese del nostro continente, quindi vanno a gambe all’aria. Con le sanzioni in vigore ad oggi e con le contromisure russe, l’Italia rischia 800.000 posti di lavoro e, solo di esportazioni agroalimentari perde 200 milioni, cioè il 24%. L’Ue perderà circa 5 miliardi.
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Cabras: siam pronti anche noi alla macelleria della guerra?
Perché mai, domanda il giornalista, avete deciso di far sfilare i prigionieri di guerra? «E’ stata Kiev a dire che avrebbero marciato in parata a Donetsk il giorno 24. E così han fatto». Questa la terribile ironia che i difensori russofoni del Donbass aggredito dall’esercito ucraino esibiscono dopo aver respinto l’attacco. Avvertono: nessuna illusione sui cosiddetti dispersi dell’esercito regolare. «Le famiglie ricevono lettere che li dichiarano “dispersi in azione”. In realtà sono morti. Le autorità di Kiev lo fanno apposta. Centinaia e migliaia di morti in qualche decina di tombe». Il comandante russofono lo annuncia ufficialmente: «Ognuno sappia che se hai ricevuto una lettera che lo definisce “disperso in azione”, allora molto probabilmente tuo marito, fratello o figlio è stato ucciso». Il video è proposto da “Pandora Tv”, che presenta anche l’intera conferenza stampa del presidente del Donbass, Aleksandr Zakharchenko, tenutasi il 24 agosto nel pieno della controffensiva delle milizie ribelli, che hanno sbaragliato le meglio armate e più numerose forze del governo di Kiev.«Sarà l’Ucraina, sarà il richiamo bellico dell’anno quattordici, sarà che ormai le dichiarazioni di molti politici europei già annunciano la carneficina all’orizzonte», moltiplicando ogni giorno le nuove evocazioni di una guerra mondiale, ma intanto «cresce per molti una sensazione di pericolo», scrive Pino Cabras su “Megachip”. «Evocare è facile, ma essere davvero pronti all’anticamera dell’Apocalisse è un’altra cosa». Chi è davvero pronto per la guerra? Certo non i popoli europei: «Vivono in una bolla televisiva che fa loro sperare di essere ancora a lungo i consumatori che sono stati negli ultimi decenni. La cuccagna non è stata ancora smontata, perciò il ricordo dell’ultima guerra mondiale rimane annacquato. Gli europei medi – continua Cabras – non riescono più a immaginare la guerra come catastrofe. I telegiornali e i grandi quotidiani li ammaestrano all’isteria bellica, alla propaganda più sfacciata, alla russofobia, questo sì. Ma occultano l’idea che la distruzione possa entrare nelle loro case o sommergere intere coorti dei loro figli».Il peggio è che «nessun europeo medio ha saputo cosa è accaduto in Ucraina negli ultimi sei mesi, dal golpe in poi. Tanto meno sa cosa c’era prima. Né sa che il governo di Kiev ha martoriato la popolazione civile delle regioni orientali». L’europeo medio «ignora gli interessi predatori di quei capitalisti mafiosi che vorrebbero svuotare quelle regioni dei loro abitanti russofoni», non sa che «le forze di sicurezza ucraine sono in mano ad avventurieri imbevuti di ideologie naziste». E naturalmente «non sa nulla della Russia, non sa nulla di nulla: e si ritroverà nella guerra vasta che annuncia il neopresidente polacco del Consiglio Europeo, Donald Tusk (un burattino atlantista), e peggio di lui il ministro della difesa ucraino Gheletei, senza sapere ancora nulla». Certamente a scalpitare è Tusk, il regime dell’Ue è al guinzaglio di Washington, lo stesso Cameron sembra avere il dito sul grilletto. La Nato sembra abbozzare una frenata – su richiesta della Merkel, cioè dell’export tedesco danneggiato dalle sanzioni contro Mosca – ma intanto prepara una forza di pronto intervento per l’Est. In teoria, era pronta alla guerra anche la giunta golpista di Kiev, «ma in modo totalmente irresponsabile, con una tragica incapacità di valutare gli interessi dei russi e – di questi – la determinazione (cioè una prontezza reale) a pagare e infliggere il prezzo di una guerra vera».Quel che accade ora in Ucraina, dice Cabras, misura le reali dimensioni di queste diverse “prontezze”. Da un lato i popoli occidentali «anestetizzati dai loro media», popoli «che non hanno alcuna misura dei fatti», e in più il popolo ucraino «che si sorprende di dover subire una disfatta (in Italia si direbbe una Caporetto), come nel caso delle mamme e sorelle disperate che chiedono conto delle notizie di una brigata di 4.700 uomini, di cui sono tornati con le proprie gambe in appena 83». Queste famiglie «hanno appena riscoperto il concetto di “carne da cannone”», quello della Grande Guerra. «Sono le avanguardie delle mamme che ripeteranno la scena in tante altre lingue, anche da noi, nelle capitali in bancarotta dell’Europa ai comandi di Bruxelles e Francoforte». Dall’altro lato della barricata, ecco invece i militari del Donbass: «Colpisce la sicurezza e l’agghiacciante autorevolezza – in un dosaggio di gravitas e brutale ironia – con cui questi partigiani dei nostri giorni parlano di migliaia di vittime di guerra». La “gravitas” è quella che annuncia l’avvenuta strage dei militari mandati allo sbaraglio dagli aggressori incoraggiati dalla Nato. L’ironia è quella della sfilata dei prigionieri: a marciare (disarmati e sconfitti) il 24 agosto sono stati gli ucraini di Kiev, quelli che avevano annunciato con troppa fretta la conquista di Donesk, con tanto di parata dal sapore hitleriano.«Purtroppo, cari giornalisti, l’Occidente cerca di invaderci con una frequenza di 30-50 anni», dicono i resistenti dell’Est. «Ogni 30-50 anni la civiltà occidentale cerca di imporci la sua opinione e il suo modo di vivere. La Prima Guerra Mondiale, la Grande guerra patriottica, la guerra di Crimea prima ancora, e così via nelle profondità della storia. Come risultato, l’Occidente tradizionalmente ottiene la caduta di Berlino, di Parigi. L’Occidente arriva ogni 30-50 anni per ottenere ciò che si merita. Ora, nel 2014, sono un po’ in ritardo», ma il copione sembra lo stesso. Loro, sì, sono pronti alla guerra. Lo hanno dimostrato. E lo spiegano in modo chiarissimo: «Diremo a chiunque venga a farci del male sul nostro territorio: ci batteremo con le unghie e con i denti per la nostra patria. Kiev e l’Occidente hanno fatto un grosso sbaglio a risvegliarci. Noi siamo gente laboriosa. Mentre altri saltavano a Maidan per 300 grivne, la nostra gente era giù in miniera a estrarre carbone, a fondere metallo e a seminare le colture. Nessuno di noi ha avuto il tempo di saltare, eravamo impegnati a lavorare». Poi, quando li hanno presi a cannonate, si sono ribellati.«Quando un tizio che appena ieri lavorava con un martello pneumatico o guidava una mietitrebbia, oggi si trova alla guida di un carro armato o di un Grad, o a raccogliere un mitra, la linea è stata passata e non lo potete più fermare», dicono i militari dell’Est. «Quello che ha dovuto lasciare il proprio lavoro sa che combatterà fino alla fine e fino al suo ultimo respiro». E l’Occidente è pronto è combattere “fino all’ultimo respiro”? Certo non lo è la nuova Lady Pesc, Federica Mogherini, che si abbandona a dichiarazioni desolanti, del tipo: «Se non esiste più un partenariato strategico è per scelta di Mosca». Ovvero: nessuna autocritica ai piani alti dell’Ovest. «Ecco, Mogherini non è pronta», scrive Cabras. «Fa interamente sua tutta l’eredità della Nato e della Ue in questi anni di crisi internazionali, destabilizzazioni, aggressioni ed escalation: cioè un bilancio disastroso e criminale, dall’Iraq all’Afghanistan al dossier libico, alla Siria, e ora all’Ucraina».Il bilancio occidentale di questi anni? «Un caos funesto interamente imputabile alla lunga “guerra infinita” scatenata dalle capitali dell’atlantismo», subito dopo l’opaco super-attentato dell’11 Settembre. Lo stesso Cabras ricorda che, all’indomani della guerra-lampo nell’Ossezia del Sud attaccata dall’esercito georgiano armato da Bush e poi travolto dai russi, nel 2008 il “Times” ricordava le parole di Lord Salisbury, ministro degli esteri e primo ministro ai tempi dell’Impero Britannico», un uomo che «irradiò un potere globale immenso». Di fronte a proposte pericolose, in cui Londra minacciava seriamente altri paesi, Salisbury avrebbe guardato i suoi colleghi negli occhi, chiedendo semplicemente: «Siete davvero pronti a combattere? Altrimenti, non imbarcatevi in questa politica».Già: siete davvero pronti a combattere? «E’ la domanda giusta, quella che non vi hanno ancora fatto», osserva Cabras. «Nell’Europa politicamente desertificata dall’obbedienza alla Nato si continua ad agire come se la Russia fosse ancora oggi lo Stato esausto degli anni novanta, su cui si muoveva etilicamente Boris Eltsin e sul cui collo si stringeva il capestro del Fondo Monetario Internazionale. La situazione è completamente diversa, eppure si va lo stesso allo scontro. O si va proprio per questo, nel momento in cui i Brics picconano il Dollar Standard. E gli Usa non possono accettare un mondo multipolare in cui il dollaro non sia l’architrave». Allora, siamo pronti a combattere? La risposta la anticipano – a distanza – i comandanti militari dell’Est ucraino, che a questa guerra hanno già preso le misure. «Potete dirlo in giro: non svegliate la bestia», raccomandano. «Non fatelo, davvero. Finché c’è ancora la possibilità, lasciate che le madri risparmino i propri figli».Perché mai, domanda il giornalista, avete deciso di far sfilare i prigionieri di guerra? «E’ stata Kiev a dire che avrebbero marciato in parata a Donetsk il giorno 24. E così han fatto». Questa la terribile ironia che i difensori russofoni del Donbass aggredito dall’esercito ucraino esibiscono dopo aver respinto l’attacco. Avvertono: nessuna illusione sui cosiddetti dispersi dell’esercito regolare. «Le famiglie ricevono lettere che li dichiarano “dispersi in azione”. In realtà sono morti. Le autorità di Kiev lo fanno apposta. Centinaia e migliaia di morti in qualche decina di tombe». Il comandante russofono lo annuncia ufficialmente: «Ognuno sappia che se hai ricevuto una lettera che lo definisce “disperso in azione”, allora molto probabilmente tuo marito, fratello o figlio è stato ucciso». Il video è proposto da “Pandora Tv”, che presenta anche l’intera conferenza stampa del presidente del Donbass, Aleksandr Zakharchenko, tenutasi il 24 agosto nel pieno della controffensiva delle milizie ribelli, che hanno sbaragliato le meglio armate e più numerose forze del governo di Kiev.
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Barnard: ci fanno a pezzi, e poi lo chiamano successo
Jean-Claude Juncker ha accolto il proclama di Matteo Renzi («Decido io le riforme») con un sommovimento leggero del colon ascendente. Poi fine proclama Renzi. E fine di tutto ciò che c’è da commentare sul governo italiano. Le cose interessanti accadono in Europa e nel mondo. Siccome io e la Mmt diciamo da tempo che ’sta farsa che si chiama economia Neoclassica (quella che domina il tuo governo e quelli di quasi tutto il mondo, quella di Renzi, Hollande, Merkel, Abe, Obama ecc.) non funziona, anzi, devasta democrazie e cittadini, ecco alcune grandiose tappe dell’economia Neoclassica (che fra l’altro le sotto-scimmie-cani del Pd hanno votato ultimamente). Il “Wall Street Journal” annuncia che la Grecia sta recuperando! Ok? Attenzione: che significa che recupera? Significa che invece di morire al ritmo di dieci rantoli al minuto sta morendo al ritmo di 5 rantoli al minuto. Un SUCCESSO!L’economia greca, ci dice il “Wsj”, si è impoverita SOLO dello 0,2% nell’ultimo quarto, ed è… ATTENZIONE ALLA GOOD NEWS!… la contrazione più piccola dal 2008! Cavoli! Che fantastico risultato, che successo! Nobel dell’Economia alla Troika che 6 anni fa scrisse le ricette per la gran riscossa dell’economia greca. Fantastico! La Grecia rantola un po’ meno e non ci dà più così tanto fastidio sentirla morire, perché fa meno rumore. Questa sì che è economia. Ok, ma non finisce qui. Nel secondo quarto del 2014 l’economia francese registra un successo da farsi delle se… (finisce per ghe). Crescita nazionale a zero, 0, nulla, morta. E qui la cosa si fa interessante per chi, come noi poveri emarginati della Mmt, sostiene il valore dei bilanci settoriali (cioè se il “gov” mette 10 nel settore privato ma gli toglie 20, il settore privato va in rosso di 10). Hollande ha fatto un taglio alle tasse di 41 miliardi di euro, poi ha approvato un taglio di spesa pubblica di 50 miliardi.Allora, bambini della seconda elementare: se ti regalo 41 ma poi ti tolgo 50, voi ci guadagnate? No! Ci perdete, vero bimbi? Infatti. Francia a crescita zero e sfora il deficit di bilancio (limite 3%) con un 3.8%, e ha una disoccupazione record più una caterva di dati disastrosi nell’economia reale (mentre Renzi per fare bella figura con i suoi padroni non lo sfora, il 3%! – poi noi crepiamo, ma almeno facciamo bella figura). Oh! Ma andiamo lontano da questa Eurozona ormai lago di pus senza rimedio. La Banca del Giappone ha fatto quello che vuole fare Draghi oggi qui da noi, e che facevano gli Usa fino a poco fa (sapete, noi europei arriviamo sempre dopo la puzza rispetto a Usa e Giappone, ma mica mai che impariamo un xxxx). Ok, la Banca del Giappone ha inondato le banche giapponesi di soldi a costo quasi zero (comprando valanghe di titoli di Stato più altri trucchi), ha svalutato lo Yen, tutto nella convinzione che la POLITICA MONETARIA possa sostituire la POLITICA ECONOMICA DEI VERI POSTI DI LAVORO E DEGLI INVESTIMENTI (CIOE’ LA SPESA PUBBLICA PER IL SETTORE PRIVATO).Insomma, Abe a Tokyo ha fatto la solita puttanata che ha fatto la Fed a Washington, chiamata Quantitative Easing (Qe), senza una cippa di risultato in America. E infatti… il Giappone oggi registra il suo peggior crollo dal 2011, uno stupefacente meno 6,8%! Ma come è accaduto? Chissà come? Non è solo che il Qe non serve a un xxxx. Be’, qui ci vuole una piccola premessa. Noi della Mmt diciamo da decenni che l’Iva, ma SOPRATTUTTO GLI AUMENTI IVA, sono il cancro terminale dell’economia. Non esiste una tassa più devastante per un’economia pensata dall’umanità dai tempi dei Sumeri. Ok. Il Giappone di Abe cosa ha fatto? Ma siiii! Ha aumentato l’Iva come un pazzo, ha quindi tirato una fucilata in piena testa ai consumatori e al commercio giapponesi, e guarda che caso, ma guarda che caso!, il Giappone crolla come crescita, vedi sopra, ma anche come export, che oggi tocca il suo punto più basso da 29 anni. Da VEN-TI-NO-VE anni. Ok. Domani Peter Gomez vi dirà il resto sul “Fatto Quotidiano” (Peter, ma quanto sei forte?).(Paolo Barnard, “Grecia, Francia, Giappone – e dopo la puzza, Renzi”, dal blog di Barnard del 14 agosto 2014).Jean-Claude Juncker ha accolto il proclama di Matteo Renzi («Decido io le riforme») con un sommovimento leggero del colon ascendente. Poi fine proclama Renzi. E fine di tutto ciò che c’è da commentare sul governo italiano. Le cose interessanti accadono in Europa e nel mondo. Siccome io e la Mmt diciamo da tempo che ’sta farsa che si chiama economia Neoclassica (quella che domina il tuo governo e quelli di quasi tutto il mondo, quella di Renzi, Hollande, Merkel, Abe, Obama ecc.) non funziona, anzi, devasta democrazie e cittadini, ecco alcune grandiose tappe dell’economia Neoclassica (che fra l’altro le sotto-scimmie-cani del Pd hanno votato ultimamente). Il “Wall Street Journal” annuncia che la Grecia sta recuperando! Ok? Attenzione: che significa che recupera? Significa che invece di morire al ritmo di dieci rantoli al minuto sta morendo al ritmo di 5 rantoli al minuto. Un successo!
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Se arriva la Troika: prepariamoci alla fine dell’Italia
C’è gente in Italia che si augura che arrivi. La Troika, s’intende, ovvero la struttura mista Commissione Ue, Bce e Fondo Monetario Internazionale che, in cambio di prestiti, impone ai governi la sua ricetta politica. Eugenio Scalfari l’ha persino scritto in una delle sue omelie domenicali. Matteo Renzi, ogni volta che gli capita, dice che non succederà, eppure un certo umore circola in giro: le banche d’affari invitano a non comprare italiano, il Pil cala, “Moody’s” vede nero, Mario Draghi chiede “cessioni di sovranità”. Non siamo ancora all’estate 2011, quando la Troika s’affacciò per la prima volta da noi, ma anche allora le cose precipitarono assai in fretta: ad aprile lo spread era 122 punti, più basso di adesso, ad agosto 400, a novembre 552 e i rendimenti sui Btp decennali oltre il 7%. Al tempo arrivò Mario Monti, stavolta il commissariamento sarebbe completo.Non è che la Troika si presenti così e suoni al palazzo del governo: arriva su invito, a seguito di eventi che sono quasi sempre identici. Funziona così. Il paese X, per qualche motivo, comincia ad avere difficoltà a finanziarsi sul mercato: gli investitori chiedono interessi troppo alti. È qui, quando il paese X teme di non poter pagare stipendi e pensioni, che arriva la Troika proponendo un bel prestito e sostenendo che il problema è il debito pubblico. Per avere i soldi, però, bisogna firmare un bel “Memorandum”, una lista assai nutrita di cose da fare. La ricetta è sempre la stessa per tutti i paesi: tagli di spesa pubblica, stipendi e pensioni; licenziamenti nel settore statale; aumenti di tasse; privatizzazioni e liberalizzazioni selvagge (servizi pubblici in primis); riforme del mercato del lavoro (libertà di licenziare). Al termine della “cura” – aiutata da cospicue pressioni sull’opinione pubblica – il paziente è più malato di prima, il welfare e i beni pubblici un ricordo.In sostanza, e per paradosso, l’arrivo della Troika europea coincide con la distruzione del modello sociale europeo. Non solo: i debiti pubblici – causa di ogni male – aumentano in maniera esponenziale. Non c’è da sorprendersi: il fine non è comprimere il debito dello Stato, ma quello estero, bloccando le importazioni attraverso un taglio dei redditi disponibili. È in questo modo che i creditori (spesso banche del Nord) rientrano dei soldi prestati negli anni di vacche grasse. In principio fu la Grecia: un debutto, e neanche troppo felice. Ad aprile 2010 il debito pubblico greco è ormai classificato “spazzatura” dalle agenzie di rating: la Germania aveva nel frattempo fatto sapere che i debiti dei singoli paesi dell’Eurozona non sono garantiti dalla Bce. È a quel punto che arriva la Troika con la sua borsa: promette un prestito da 110 miliardi, poi divenuti oltre 300 negli anni. Piccola notazione: i soldi non sono gratis – e nemmeno prestati all’1% come la Bce fece coi mille miliardi dati alle banche – ma concessi al ragguardevole interesse del 5,5%. In cambio, la Troika ha preteso tagli strutturali per 30 miliardi di euro a regime. Per capirci: il Pil greco ammonta a 180 miliardi, quindi è come se all’Italia chiedessero una manovra da 250 miliardi.Atene procede a rilento, ma comunque ha già licenziato 8.500 statali e altri 6.500 seguiranno entro quest’anno (alla fine saranno 30.000 su 750.000 totali). La tv pubblica è stata chiusa dalla sera alla mattina, la rete degli ambulatori specialistici pure; scuola, università e ospedali sono stati falcidiati. L’ultimo Memorandum, questa primavera, ha imposto alla Grecia di vendersi pure le spiagge (110 per la precisione) e un piano di privatizzazioni capillari da qui al 2020. La Troika, peraltro, non si occupa solo di spesa pubblica, ma di ogni aspetto della vita economica: pretende, per dire, che la Grecia cambi le leggi su come si pastorizza il latte (a vantaggio delle multinazionali). I risultati, però, non sono brillanti: quest’anno se n’è accorto persino l’Europarlamento. Il reddito disponibile delle famiglie dal 2009 è diminuito del 40%, gli stipendi del 34%, servizi e benefit sociali del 26%. La disoccupazione era al 9% cinque anni fa e ora supera il 27%, il Pil s’è ridotto di un quarto. Pure i conti pubblici, ovviamente, non migliorano: il rapporto deficit-Pil nel 2013 era al 12,7%, il debito pubblico al 175% (dal 129% del 2009).Il secondo paese a essere curato dalla Troika è stato l’Irlanda, messa nei guai a fine 2010 dal fallimento del suo sistema bancario e costretta a chiedere un prestito di 78 miliardi di euro. La struttura economica dell’Irlanda (un sistema basato sul esportazioni, tassazione irrisoria e poco welfare) sembrava fatta apposta per applicare i diktat dei Memorandum, eppure “l’allievo modello” non se la passa così bene come si vorrebbe far credere: dopo una sostanziosa sforbiciata dei salari e manovre per il 19% del Pil, il debito pubblico – che nel 2008 era solo al 44% del Pil – oggi sfora il 125%. E ancora: la crescita degli ultimi due anni è stata solo dello 0,2% nonostante la spinta di un deficit che l’anno scorso s’è attestato al 7,6%. Il valore degli immobili è il 57% in meno rispetto a cinque anni fa, il debito delle famiglie il 200% del reddito. La disoccupazione nel 2013 è passata dal 14,5 al 12,6%, ma il calo è dovuto in larga parte all’emigrazione (lo stesso discorso vale per Spagna, Portogallo e Grecia).Il Consiglio d’Europa, infine, ha denunciato che l’Irlanda non offre garanzie minime per malattia, disoccupazione, sopravvivenza, infortuni sul lavoro e benefici di invalidità. Sarà per questo che – a dicembre 2013 – quando Fmi, Bce e Ue hanno proposto all’Irlanda un nuovo prestito – il governo di Dublino ha risposto subito: “No, grazie”. In realtà, i funzionari della Troika continueranno a fare ispezioni biennali fino al 2031. Sei anni in meno di quel che toccano al Portogallo, uscito anche lui formalmente dall’ombrello della Troika nel dicembre scorso. Il panorama è lo stesso degli esempi precedenti: dopo tre anni di “cura” 1,9 milioni di persone (il 18% circa della popolazione) vivono sotto la soglia di povertà e i conti pubblici sono un disastro. Una vicenda simbolica: il governo di Lisbona, per realizzare le richieste dei Memorandum, voleva vendersi 85 quadri di Joan Mirò all’asta (ma un giudice, per ora, ha bloccato tutto). Va citato, infine, almeno il caso di Cipro, dove per la prima volta è stato applicato il principio, ora comunitario, che i fallimenti bancari li pagano anche i correntisti. Esagera, Bruno Amoroso, del centro studi Federico Caffè, quando li chiama “i sicari dell’economia”?(Marco Palombi, “Ecco come la triade Bce-Fmi-Ue potrebbe commissariare l’Italia e cosa ci sarebbe da aspettarsi”, da “Il Fatto Quotidiano” del 13 agosto 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).C’è gente in Italia che si augura che arrivi. La Troika, s’intende, ovvero la struttura mista Commissione Ue, Bce e Fondo Monetario Internazionale che, in cambio di prestiti, impone ai governi la sua ricetta politica. Eugenio Scalfari l’ha persino scritto in una delle sue omelie domenicali. Matteo Renzi, ogni volta che gli capita, dice che non succederà, eppure un certo umore circola in giro: le banche d’affari invitano a non comprare italiano, il Pil cala, “Moody’s” vede nero, Mario Draghi chiede “cessioni di sovranità”. Non siamo ancora all’estate 2011, quando la Troika s’affacciò per la prima volta da noi, ma anche allora le cose precipitarono assai in fretta: ad aprile lo spread era 122 punti, più basso di adesso, ad agosto 400, a novembre 552 e i rendimenti sui Btp decennali oltre il 7%. Al tempo arrivò Mario Monti, stavolta il commissariamento sarebbe completo.
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Russian Compact, addio export: l’Italia perde 300 milioni
È forte la preoccupazione tra gli imprenditori italiani dell’agroalimentare dopo il blocco delle importazioni annunciato dalla Russia: le sanzioni di Mosca costeranno almeno 100 milioni di euro per il 2014, e più del doppio – circa 220 milioni – nel 2015, colpendo duramente un comparto che nell’export verso la Russia vale oltre 700 milioni di euro. Un embargo totale su carne di manzo, suina e avicola, frutta e verdura, latte e formaggi provenienti dai paesi dell’Unione Europea, ma anche da Stati Uniti, Canada, Australia e Norvegia. Durerà un anno il divieto di importazione disposto dalla Russia in risposta alle sanzioni contro Mosca adottate da Stati Uniti e Unione Europea, spiega Adolfo Marino di “Pandora Tv” in un post ripreso da “Megachip”. «La via delle sanzioni è un vicolo cieco», sostiene il premier russo Dmitrij Medvedev, «ma la Russia è stata costretta a reagire». Stando ai calcoli del “Sole 24 Ore”, in un’economia in recessione come quella italiana le tensioni con la Russia bastano da sole a mettere in ginocchio l’export e il Pil.Le imprese italiane temono «una duplice, pesante ricaduta in un settore già in difficoltà come l’agroalimentare», perché lo stop di Mosca «apre la porta a forniture da Bielorussia, Argentina e Brasile, con la perdita di quote di mercato che l’Italia difficilmente potrà riconquistare». Inoltre, con l’embargo russo, «la produzione ortofrutticola di Grecia e Spagna si scaricherà sull’Europa con effetti drammatici», sottolinea il presidente di Confcooperative, Maurizio Gardini. «L’impressione – scrive Marino – è che la portata della crisi ucraina sia stata molto sottovalutata: le recenti tensioni internazionali rimettono in questione l’Europa nel suo complesso, che dovrà adesso pensare a una politica che superi la ricetta tedesca del rigore». Ovvero: «Non sarà più possibile continuare a mortificare i consumi interni, coltivando l’illusione di una crescita basata sulle esportazioni».Proprio sulla compressione della domanda interna, attraverso il blocco decennale dei salari, si è basato il super-export tedesco di questi anni, agevolato dall’avvento dell’euro e dai conti pubblici “a doppio fondo” della Germania, che attraverso un ente di credito come la Kfw trasferisce denaro al sistema privato: in pratica, “spesa pubblica fantasma” che la Germania effettua sottobanco, aggirando la rigida normativa di Bruxelles. E’ la stessa Germania che poi impone agli altri paesi europei il massimo del rigore, fino alla super-stangata del “Fiscal Compact”. Ora, avverte Marino, che il rischio concreto che ad esso si aggiunga «un altrettanto disastroso “Russian Compact”», col taglio delle esportazioni verso Mosca. Per la prima volta, attraverso la crisi esplosa in Ucraina, si incrociano in modo drammaticamente evidente le due linee di frattura che stanno mettendo in ginocchio la nostra economia: da un lato la pretesa neoliberista di azzoppare lo Stato sovrano come soggetto economico, fondamentale partner di imprese e famiglie, e dall’altro il precipitare della crisi geopolitica accelerata dal declino Usa: molti osservatori internazionali denunciano il pericolo che Washington forzi lo scontro con Mosca per sfuggire alla contabilità della recessione attraverso la peggiore delle scorciatoie, la guerra.È forte la preoccupazione tra gli imprenditori italiani dell’agroalimentare dopo il blocco delle importazioni annunciato dalla Russia: le sanzioni di Mosca costeranno almeno 100 milioni di euro per il 2014, e più del doppio – circa 220 milioni – nel 2015, colpendo duramente un comparto che nell’export verso la Russia vale oltre 700 milioni di euro. Un embargo totale su carne di manzo, suina e avicola, frutta e verdura, latte e formaggi provenienti dai paesi dell’Unione Europea, ma anche da Stati Uniti, Canada, Australia e Norvegia. Durerà un anno il divieto di importazione disposto dalla Russia in risposta alle sanzioni contro Mosca adottate da Stati Uniti e Unione Europea, spiega Adolfo Marino di “Pandora Tv” in un post ripreso da “Megachip”. «La via delle sanzioni è un vicolo cieco», sostiene il premier russo Dmitrij Medvedev, «ma la Russia è stata costretta a reagire». Stando ai calcoli del “Sole 24 Ore”, in un’economia in recessione come quella italiana le tensioni con la Russia bastano da sole a mettere in ginocchio l’export e il Pil.
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Voto, Scozia indipendente? Londra: scordatevi la sterlina
La Scozia starebbe meglio economicamente se fosse un paese indipendente? Non è così secondo la stragrande maggioranza degli intervistati della terza indagine mensile del Cfm, il “Centre for Macroeconomics” finanziato da università inglesi. Data fatidica: 18 settembre 2014. Referendum sull’indipendenza della Scozia. Gli elettori scozzesi verranno chiamati a rispondere alla seguente domanda: “La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?”. In caso di una vittoria del “Sì”, il piano è che la Scozia diventi indipendente nel marzo 2016: dopo 307 anni non sarebbe più una nazione costitutiva del Regno Unito. Sarebbe un cambiamento fondamentale non solo per il governo della Scozia, ma anche per Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord, che continuerebbero a costituire lo “United Kingdom”. Altri paesi con forti identità regionali, scrive “LaVoce.info”, potrebbero essere influenzati dal referendum scozzese, che potrebbe quindi avere conseguenze sulle relazioni internazionali della Gran Bretagna. A cominciare dalla Spagna, che teme per la perdita della Catalogna.I sondaggi mostrano una consistente maggioranza contraria allo strappo da Londra, ma il vantaggio si è andato riducendo fino al 5%, esclusi i “non so”. «Favorevoli e contrari all’indipendenza della Scozia concordano comunque sul fatto che le questioni economiche sono al centro del referendum», come confermano i quesiti posti dal “Cfm”. Primo tema: i benefici economici dell’indipendenza. La Scozia ha 5,3 milioni di abitanti, l’8,3% della popolazione totale del Regno Unito. Pil pro capite: 20.571 sterline in Scozia, contro le 21.295 sterline nella Gran Bretagna nel suo insieme. Scozia e Regno Unito hanno la medesima produttività del lavoro, mentre la disoccupazione è del 6,4% in Scozia rispetto al 6,8% della media britannica. Il governo scozzese stima il rapporto deficit-Pil al 14%, a fronte di un disavanzo del 7,3% nel Regno Unito. «Se alla Scozia venisse destinato l’84% (una quota “geografica”) delle imposte derivanti dall’estrazione di petrolio e gas del Mare del Nord, si stima che il suo deficit potrebbe scendere all’8,3%».Con il regime fiscale attuale, continua “LaVoce.info”, il governo scozzese è responsabile per il 60% della spesa pubblica totale in Scozia e per il 16% del gettito fiscale. «Se la Scozia diventasse indipendente, il suo governo sarebbe responsabile di tutta la spesa pubblica e delle entrate fiscali, mentre i prestiti e i trasferimenti fiscali transfrontalieri cesserebbero». Il governo scozzese ha detto che accetterà una congrua parte del debito sovrano del Regno Unito e che intende formare una unione monetaria formale con il Regno Unito, ipotesi che però Londra ha escluso. «C’è inevitabilmente più di un’incertezza su quelle che sarebbero le condizioni finali di un accordo tra una Scozia indipendente e il resto del Regno Unito». Il “Cfm” ha quindi invitato gli intervistati a rispondere alla prima domanda «in base alla loro percezione di quali potrebbero essere questi termini», specificando che la voce “condizioni economiche” comprende innanzitutto il reddito pro capite, più altri aspetti del progresso economico.Prima domanda: “Sei d’accordo che la Scozia starebbe meglio in termini economici se fosse un paese indipendente?”. Hanno 28 esperti su 46. «Tre quarti degli intervistati ha detto di non essere d’accordo o di essere fortemente in disaccordo con la proposta». Solo uno dei 28 intervistati è d’accordo o fortemente d’accordo. Se si escludono gli indecisi, il 95% del campione si dichiara preoccupato dal futuro economico della Scozia in caso di secessione. «Le principali preoccupazioni sono sulle prospettive di bilancio di una Scozia indipendente: George Buckley (Deutsche Bank) la descrive come esposta a entrate fiscali più deboli». Pesano le incognite dell’esaurimento delle risorse petrolifere e lo stesso profilo demografico, più fragile di quello britannico. John Driffill (Birkbeck) rileva che «una Scozia indipendente potrebbe sì impostare politiche più adatte alle sue preferenze, ma potrebbe essere comunque svantaggiata dall’indipendenza perché potrebbero emergere problemi di coordinamento su quegli aspetti che invece vanno gestiti congiuntamente fra Scozia e Regno Unito». Sia Michael Wickens (York) sia Martin Ellison (Oxford) dicono che la Scozia «potrebbe pagare oneri finanziari più elevati rispetto al Regno Unito».Diversi intervistati mettono in dubbio la saggezza di disfare molte istituzioni quando non si conosce l’efficacia di quelle che le sostituiranno. David Cobham (Heriot-Watt) si chiede se abbia senso «separare i cittadini di nazioni così integrate». Jagjit Chadha (Kent) segnala i possibili rischi derivanti dalla «possibile mancanza di nuovi equilibri politici ed economici robusti». Michael McMahon (Warwick) pensa che ci sarebbero «notevoli costi di transizione». In parecchi si dicono preoccupati per l’incertezza dei tempi in cui la Scozia indipendente potrebbe rientrare nell’Unione Europea (dalla quale peraltro la stessa Gran Bretagna potrebbe uscire, visto il referendum all’orizzonte per il 2017). Marco Bassetto (Ucl) sostiene che la questione legata al processo di adesione all’Ue è «più importante di quella legata all’unione monetaria», mentre Anche Richard Portes (Lbs) e Nicholas Oulton (Lse) esprimono preoccupazione che «l’incertezza riguardo l’adesione alla Ue potrebbe essere dannosa per l’economia».Nel caso la Scozia diventasse indipendente, il Regno Unito sarebbe costituito da Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord. Tutte le attuali istituzioni dello Stato, a eccezione di quelle situate fisicamente in Scozia, resterebbero britanniche. In primis la Banca d’Inghilterra: soggetta al Parlamento di Londra, rimarrebbe la banca centrale del Regno Unito senza alcuna competenza per una Scozia indipendente, salvo diverso accordo. Le esportazioni dalla Scozia verso il resto del Regno Unito sono stimate intorno ai 48 miliardi di sterline, il 38% del Pil scozzese previsto nel 2012 (esclusi petrolio e gas). Le stime dicono che il resto della Gran Bretagna abbia esportato tra i 50 e i 60 miliardi di sterline in Scozia, circa il 4% del Pil. «Sia la Scozia sia il Regno Unito hanno grandi settori finanziari con il valore degli asset del sistema bancario molte volte più grande dei rispettivi Pil. Se la Scozia indipendente assumesse una quota di debito pubblico proporzionata alla sua quota di popolazione, il rapporto debito-Pil potrebbe arrivare all’86% nel 2016».Gli scozzesi vorrebbero un’unione monetaria? Il governatore della Bank of England, Mark Carney, risponde – in piena consonanza coi politici di Londra – che «le unioni monetarie di successo richiedono unioni fiscali, bancarie e alcune cessione di sovranità nazionale». Nel sondaggio “Cfm”, alla domanda – giusto escludere gli scozzesi dalla sterlina? – hanno risposto in 34, con pareri più equamente divisi ma un prevalente consenso verso la posizione di Londra. Secondo Martin Ellison (Oxford) la recente crisi dell’euro «mostra come sia difficile creare un’unione monetaria senza l’unione politica, fiscale e bancaria». Per David Cobham (Heriot-Watt) i vincoli all’unione monetaria britannica sarebbero difficilmente accettabili per una Scozia indipendente. Luis Garicano (Lse) ritiene che un impegno di non-salvataggio per la Scozia indipendente non sarebbe credibile verso il mondo e il governo scozzese, sicché il Regno Unito «finirebbe per subire il peggio dei due mondi: la mancanza di disciplina di mercato e l’azzardo morale». Altri tecnici ritengono che i contribuenti di ciascuno Stato sovrano potrebbero essere isolati dai rischi dell’altro. Troppa pretattica, però, rischia di inquinare l’opinione pubblica, come denunciano Christopher Pissarides (Lse) e John Driffill (Birkbeck), secondo cui «l’attuale posizione del Regno Unito», contraria all’unione monetaria con gli scozzesi, «è puramente motivata dalla volontà di influenzare il referendum», scoraggiando l’indipendenza della Scozia.La Scozia starebbe meglio economicamente se fosse un paese indipendente? Non è così secondo la stragrande maggioranza degli intervistati della terza indagine mensile del Cfm, il “Centre for Macroeconomics” finanziato da università inglesi. Data fatidica: 18 settembre 2014. Referendum sull’indipendenza della Scozia. Gli elettori scozzesi verranno chiamati a rispondere alla seguente domanda: “La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?”. In caso di una vittoria del “Sì”, il piano è che la Scozia diventi indipendente nel marzo 2016: dopo 307 anni non sarebbe più una nazione costitutiva del Regno Unito. Sarebbe un cambiamento fondamentale non solo per il governo della Scozia, ma anche per Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord, che continuerebbero a costituire lo “United Kingdom”. Altri paesi con forti identità regionali, scrive “LaVoce.info”, potrebbero essere influenzati dal referendum scozzese, che potrebbe quindi avere conseguenze sulle relazioni internazionali della Gran Bretagna. A cominciare dalla Spagna, che teme per la perdita della Catalogna.
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Riforme eversive: sabotare l’Italia, registi e complici
In tutta Europa, con le prime riforme della fine degli anni ‘70, il modello di sviluppo favorevole al lavoro e alla crescita, di stampo keynesiano, è stato sostituito con «un modello neomonetarista, diretto al trasferimento di redditi, ricchezza, diritti e potere politico dalla popolazione generale e dalle classi produttive alla élite finanziaria apolide», con un fine apertamente «antisociale e incompatibile coi principi costituzionali». Questo disegno, già ampiamente realizzato dall’Ue e dalla politica italiana, «è la radicale eversione del fondamento di legittimità dello Stato», sancito dalla Costituzione italiana, che fonda la Repubblica sul “lavoro”, sulla democraticità, sull’eguaglianza giuridica e sostanziale. Come documenta il giurista Luciano Barra Caracciolo, l’insieme delle riforme e dei trattati introdotti in esecuzione di questo piano è radicalmente anticostituzionale, oltre che «penalmente illecito», in quanto «attentato contro la Costituzione commesso con mezzi violenti», cioè il rischio provocato di default pubblico e la diffusione deliberata di «disoccupazione, allarme e grave sofferenza sociale».“Il grande mutuo”, saggio di Antonino Galloni (Editori Riuniti) già nel 2007 preannunciava l’imminente esplosione di un’imponente crisi finanziaria e di liquidità dopo l’inizio, anni prima, delle problematicità nell’economia reale. Quasi contemporaneamente, «in epoca di grandi promesse europeiste al pubblico», un altro saggio, “Basta con questa Italia”, firmato da Marco Della Luna (Arianna Editrice, 2008), anticipava che l’Italia, come sistema-paese, con le sue aziende pubbliche e private meno competitive di quelle straniere, sotto-capitalizzate, sotto-finanziate e strozzinate, vessate da fisco e pubblica amministrazione, incapaci di significativi avanzamenti tecnologici, sarebbe stata «rilevata dal capitale straniero, che la avrebbe riformata e gestita secondo i propri interessi, e certo non secondo quelli degli italiani». Esattamente questo sta avvenendo, scrive oggi Della Luna nel suo blog, grazie alla piena collaborazione tra la politica italiana, l’Ue e la Bce, «che hanno creato ad arte le condizioni affinché ciò avvenisse». Problema capitale: la grave carenza di liquidità, «che si pretende di combattere con misure fiscali e budgetarie che invece la aggravano, gettando il paese nelle mani del capitalismo imperialista appoggiato dalla Bce».«L’eversione costituzionale – scrive Della Luna – consiste essenzialmente nel sostituire, con l’inganno e le crisi create ad hoc, il sistema socioeconomico legittimante stabilito nella Costituzione con uno incompatibile con esso perché antidemocratico e oligarchico». Questa manomissione prende oggi il nome di “riforme”, corrompendo nel modo più subdolo anche il vocabolario italiano. Insieme allo stesso Nino Galloni, Della Luna mette a fuoco il quadro, regolarmente trascurato dai media: l’Italia è ko grazie al piano europeo nonostante la sua economia sia virtualmente ancora sana, e grazie alla disonestà organica della Germania, che bara clamorosamente. Primo appunto: «Nonostante tutto, le imprese italiane esportano più di quanto il sistema Italia importi: quindi hanno un buon potenziale medio di profitto, sono interessanti, fanno gola». Secondo punto: «La Germania ha fatto e fa imbrogli di tutti i generi», anche se – almeno fino a due anni fa, grazie a un ceto politico-imprenditoriale meno rapace di quello italiano – ha investito in innovazione tecnologica per abbassare il costo del lavoro. Terzo problema: da due anni, la stessa Germania sta contenendo la propria domanda interna.«E’ uno squilibrio dovuto a eccesso di avanzo commerciale, che corrisponde al disavanzo di altri», scrivono Galloni e Della Luna. «E’ vero che a tale avanzo non corrisponde un disavanzo dell’Italia, ma nondimeno quell’avanzo è utilizzabile per comperare, in Italia, servizi in via di privatizzazione». Si tengano presenti, poi, le intenzioni annunciate da Draghi: sostenere il credito bancario verso l’economia reale, «nei limiti del mandato della Bce». Si tratta di «espressioni allusive, indeterminate, ambigue, che prospettano una variabile ad oggi ancora tale». A pesare, intanto, è la realtà. Il capitale straniero ha potuto comprare a prezzo di saldo moltissime aziende italiane soprattutto grazie all’euro: la moneta unica agevola l’export tedesco sfavorendo quello italiano, e inoltre aumenta l’indebitamento dell’Italia, rendendo più difficile – per il nostro paese – ottenere crediti. Poi pesa anche la riduzione tedesca del costo del lavoro: «La Germania, aiutandosi slealmente con lo sforamento del limite del 3% del deficit sul Pil (autorizzato dall’Italia), nonché con trucchi contabili e con illeciti aiuti di Stato alle imprese, ha ridotto prima di Italia e altri paesi il suo costo del lavoro per unità di prodotto. Lo ha fatto anche introducendo forme di impiego a 250 e 450 euro al mese, dette minijob e midijob».Grazie a questi vantaggi strategici – moneta favorevole e minor costo produttivo, ottenuto anche “barando” – la Germania ha potuto esportare verso la periferia (Italia compresa) molto più di quanto prima importava da essa, «realizzando così per molti anni forti saldi attivi della bilancia dei pagamenti, e indebitando quei paesi verso di sé, tanto più che prestava loro soldi per importare i suoi prodotti (caso estremo: la Grecia)». Questo ha permesso a Berlino di «rastrellare a basso costo aziende valide o potenzialmente produttive e redditizie di quei paesi, per integrarle nei propri cicli produttivi», lasciando ai paesi d’orgine – come l’Italia – soltanto «le briciole dei margini di utile», o addirittura chiudendo aziende concorrenti di quelle tedesche. «Gli utili di queste aziende rastrellate – scrive Della Luna – vengono trattenuti o deportati in Germania». Di male in peggio: nel settore dei servizi pubblici, l’operazione di “rastrellamento” si sta estendendo con la partecipazione della Francia.Beneficiando di posizioni di monopolio e contando su una domanda costante, quello dei servizi pubblici – nel quale è facilissimo incrementare le tariffe – è un settore che produce fortissimi utili e rendite. Soldi, continuano Galloni e Della Luna, che «saranno sempre più raccolti dalle tasche dei cittadini e delle imprese italiane per essere deportati in Germania e in Francia: probabilmente l’asse franco-tedesco per dominare l’Ue si basa su accordi di questo tipo». Al fine di massimizzare l’utile di questa operazione, sia sul settore manifatturiero che su quello dei servizi, «questo capitalismo mercantilista e imperialista ha bisogno di fare le cosiddette riforme, le quali in sostanza sono riduzioni dei diritti economici e non economici dei lavoratori anche autonomi, aumento della loro sudditanza al datore di lavoro, aumento dei livelli di precariato, di disoccupazione e sotto-occupazione in funzione di battere la forza contrattuale dei lavoratori». Analogamente, «vengono colpiti i piccoli e piccolissimi imprenditori, artigiani, commercianti, che non si prestano al piano di conquista dell’imperialismo mercantile franco-tedesco».Ed ecco il trucco finale: «Per realizzare pienamente questa operazione di take-over sui servizi pubblici, è necessario farli privatizzare. A questo fine essi vengono, attraverso opportune campagne mediatiche, presentati come inefficienti, corrotti, dispendiosissimi, costosi, parassitari». Inoltre, «non si dice che investire in essi aumenterebbe la loro efficienza, in quanto li doterebbe di strumenti oggi mancanti e avrebbe un sicuro effetto di moltiplicatore del Pil, mentre il togliere loro fondi ha un effetto demoltiplicatore». Non è tutto: «Come ulteriore strumento per sabotarli, li si sta sovraccaricando di oneri e spese anche attraverso la politica di immigrazione di massa senza limitazioni, che sta ponendo un onere crescente e potenzialmente enorme alla spesa pubblica per l’accoglienza, mantenimento, cure sanitarie, alloggio, ricongiungimenti familiari». Profezia: «Quando la situazione diverrà esplosiva per i crescenti costi così suscitati da una parte e per la crescente disoccupazione e recessione dall’altra, con ulteriori maggiorazioni delle tasse, la popolazione stessa chiederà la privatizzazione estesa dei servizi sociali ora ancora in mano pubblica. A quel punto, capitali stranieri entreranno e occuperanno queste posizioni di mercato collegate a rendite monopolistiche».In altre parole, la fine dello Stato sociale. «Sottolineo che la Germania e i suoi satelliti riescono a sfruttare questo processo perché hanno eseguito prima dell’Italia e di altri paesi le riforme consistenti nella riduzione del costo del lavoro e dei diritti dei lavoratori», precisa Della Luna. In questo modo, anticipando i “concorrenti” europei, Berlino ha acquisito «quei vantaggi commerciali, quegli attivi negli scambi con l’Italia, quei conseguenti crediti verso di essa», che ora spende «per rastrellare le imprese e i servizi italiani». La Bce, l’Ue, Maastricht, l’euro, i vertici istituzionali: «Tutti concorrono a questo scopo strategico, spingendo per le “riforme” che l’Europa ci chiede». Tutti questi soggetti «lavorano per cedere e trasferire al capitale straniero le risorse e le aziende del paese, e insieme per trasformare i lavoratori italiani in forza lavoro sottopagata e sottomessa dei nuovi padroni finanziari stranieri». Tutto ciò accade per una ragione semplicissima: la politica italiana glielo consente. «In compenso di questa prestazione di tradimento, la nostra casta politica si riserva il ruolo di complice dei capitali stranieri, onde mantenere le sue poltrone e i suoi privilegi».Ecco perché, intorno a questo progetto, «la partitocrazia italiana si è ora saldamente unita in modo trasversale, destra e sinistra, per realizzare di corsa le famose riforme», che ovviamente «non c’entrano col rilancio economico». L’Italicum, per esempio, «è stato concordato tra Renzi e Berlusconi per sopprimere i partiti piccoli e autonomi, non radicati nel controllo della spesa pubblica». La casta punta soprattutto sulla nuova legge elettorale e sul nuovo Senato, «che hanno la funzione di blindarla contro la protesta, il dissenso, il potenziale voto contrario dei cittadini traditi e derubati dai partiti». Non a caso il Senato ridisegnato dal Patto del Nazareno «viene preposto alla regolazione della spesa pubblica e consegnato agli uomini degli apparati partitici regionali, ossia la parte peggiore, più vorace, della partitocrazia: potranno mangiare più che mai, spalleggiati e legittimati anche dagli interessi stranieri». Naturalmente è già in programma anche una riforma della giustizia, «per mettere al guinzaglio quei giudici che restano fedeli alla Costituzione e alla Repubblica». Scontato: «La voteranno tutti insieme, trasversalmente. Sono già d’accordo. E poi qualcuno avrà diritto alla grazia».Scoperto il gioco, c’è da mettersi a piangere: «Le promesse di risanamento e rilancio entro il modello economico vigente sono pura menzogna», sottolinea Della Luna. «Per tornare alla crescita e all’occupazione è indispensabile, innanzitutto, spiegare il complotto alla gente, specialmente agli imprenditori e ai lavoratori, uscire dalla struttura sopra descritta, dall’euro, dall’Ue, e disfarsi dei personaggi politici e istituzionali che la assecondano». In parallelo, dicono Della Luna e Galloni, occorre «avviare una revisione del concetto di moneta oggi in uso, la “fiat currency”, e far capire, con tutte le conseguenze, che essa non è una merce né una materia prima, ma un simbolo, generato col computer e senza costi». Che senso ha, dunque, parlare di scarsità o mancanza di mezzi finanziari per gli investimenti necessari e utili alla società? Al contrario: «E’ un crimine eversivo e contro l’umanità fingere che vi sia una tale scarsità o mancanza, e usare questa finzione per impadronirsi di un paese e della sua economia reale, e per deprimere i salari e i livelli occupazionali». Raccontare la menzogna suprema – dire cioè che ci sia scarsità di moneta, e che la moneta abbia un costo di produzione – significa solo imporre un progetto di dominio, per trasferire la ricchezza reale strappandola a cittadini, imprese, famiglie e lavoratori, per consegnarla «nelle mani del cartello dei produttori dei mezzi monetari che in cambio non produce e non dà alcuna ricchezza reale alla società».In tutta Europa, con le prime riforme della fine degli anni ‘70, il modello di sviluppo favorevole al lavoro e alla crescita, di stampo keynesiano, è stato sostituito con «un modello neomonetarista, diretto al trasferimento di redditi, ricchezza, diritti e potere politico dalla popolazione generale e dalle classi produttive alla élite finanziaria apolide», con un fine apertamente «antisociale e incompatibile coi principi costituzionali». Questo disegno, già ampiamente realizzato dall’Ue e dalla politica italiana, «è la radicale eversione del fondamento di legittimità dello Stato», sancito dalla Costituzione italiana, che fonda la Repubblica sul “lavoro”, sulla democraticità, sull’eguaglianza giuridica e sostanziale. Come documenta il giurista Luciano Barra Caracciolo, l’insieme delle riforme e dei trattati introdotti in esecuzione di questo piano è radicalmente anticostituzionale, oltre che «penalmente illecito», in quanto «attentato contro la Costituzione commesso con mezzi violenti», cioè il rischio provocato di default pubblico e la diffusione deliberata di «disoccupazione, allarme e grave sofferenza sociale».
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Industrie e banche agli stranieri, per Renzi va bene così
La vendita della Indesit a Whirpool è solo l’ultimo caso: si sta verificando nel silenzio generale la fine dell’Italia industriale, come predetto da Luciano Gallino. Il pericolo imminente è quello di cedere al capitale estero non solo le industrie ma anche le grandi banche, e di svendere completamente il risparmio italiano. A causa del declino verticale dell’industria e della sofferenza delle banche italiane, e a causa della colpevole inerzia governativa e dei pesanti vincoli europei, il capitalismo nazionale sta diventando un servile vassallo di quello internazionale. E l’Italia rischia così di precipitare definitivamente nel Terzo Mondo. Se l’“Economist” definisce “untangled” (sciolto, smembrato) il capitalismo italiano, sfugge il peso della svolta forzata di Mediobanca, che ha deciso di sciogliere gli accordi incrociati tra le maggiori aziende nazionali: da allora, secondo Enrico Grazzini, il capitalismo italiano si è votato a una sorta di suicidio irreversibile.Al cosiddetto capitalismo di relazione, «cioè all’intreccio tra capitalismo (semifallito) delle grandi famiglie, capitalismo finanziario e capitalismo (quasi dismesso) di Stato, si è sostituito l’arrembaggio dell’industria e della finanza internazionale, con la benedizione del governo Renzi», scrive Grazzini su “Micromega”. Intervistato dal “Corriere della Sera”, il premier ha definito «un’operazione fantastica» la vendita dell’Indesit di Merloni alla concorrente Whirpool: «Ho parlato personalmente io con gli americani a Palazzo Chigi. Non si attraggono gli investimenti esteri riscoprendo una visione autarchica e superata del mondo. Noi vogliamo portare aziende da tutto il mondo a Taranto come a Termini Imerese. Il punto non è il passaporto, ma il piano industriale. Gli imprenditori stranieri sono i benvenuti in Italia se hanno soldi e idee per creare posti di lavoro». Così, commenta Grazzini, il liberista Renzi esulta di fronte al fatto che il capitalismo industriale italiano non è più competitivo e si sta smembrando a favore dei capitali stranieri.Ovvio che gli investimenti esteri sono benvenuti, non si possono proteggere a tutti i costi le società nazionali, «ma bisognerebbe assolutamente evitare di cedere le industrie strategiche indispensabili per il futuro industriale del nostro paese». Quasi sempre, continua Grazzini, le cessioni all’estero arricchiscono solo le grandi famiglie, come i Merloni e i Tronchetti Provera (vedi i casi di Pirelli e Telecom Italia). L’ondata di cessioni industriali non comporta solo la riduzione drastica dell’occupazione, ma anche l’impossibilità di mantenere le condizioni per uno sviluppo economico autonomo e democratico. L’Italia, «cedendo le sue industrie e le sue banche», di fatto «mina le basi del suo sviluppo». E, da domani, «peserà come il due di picche nel turbolento scenario economico e politico europeo e mondiale». Parla da sola la “fuga” americana della Fiat, «propiziata dai miliardi concessi da Obama per proteggere l’industria americana dell’auto e dal silenzio criminale e assurdo dei governi italiani».De-italianizzata anche Telecom, che non ha più pesanti azionisti italiani e «dietro lo schermo ideologico della public company guidata dai manager è sostanzialmente in vendita», sono rimasti pochissimi i grandi gruppi italiani in grado di competere sul mercato internazionale. «E sono praticamente tutti statali, ovvero Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri e pochi altri». Nonostante i peccati mortali attribuiti (spesso giustamente) ai boiardi di Stato, quel che resta della nostra industria pubblica sa competere meglio di quella privata, rileva Grazzini. «Anche per queste industrie strategiche il governo prevede però una disgraziata privatizzazione a favore dei capitali esteri, con l’obiettivo (falso) di diminuire il debito pubblico e rispettare i vincoli di deficit pubblico posti dall’Unione Europea». La verità è ben altra: «L’euro ci strozza e la Ue vuole farci vendere i gioielli di famiglia. Ma anche un grullo capisce che non si può alleggerire un debito di 2.100 miliardi con la vendita di quote di società da cui ricavare al massimo qualche decina di miliardi».All’opposto, lo Stato francese difende il controllo della sua industria nucleare e dell’energia, diventando il maggiore azionista di Areva per impedirne la completa acquisizione da parte dell’americana General Electric. «L’ideologia liberista di Renzi non è più praticata neppure presso i paesi più liberisti», scrive Grazzini. «Obama protegge gelosamente le sue industrie strategiche, l’auto, l’hi-tech e la finanza. La Fed, la banca centrale americana, stampa decine di miliardi di dollari al mese grazie ai quali le banche d’affari e le industrie statunitensi possono acquistare facilmente i concorrenti esteri. Anche grazie al “privilegio esorbitante” del dollaro facile, il 40% circa della Borsa italiana è in mano a banche d’affari, fondi pensione e fondi speculativi e di private equity americani, arabi, europei, fondi sovrani di Stati esteri». Esempio: il fondo BlackRock, gigante della finanza Usa, è uno dei principali azionisti non solo di Telecom Italia ma anche di Unicredit e Intesa, cioè delle due principali banche nazionali in cui confluisce gran parte del risparmio degli italiani.Ma non è solo il governo americano a intervenire a favore della sua industria: secondo uno studio di Mediobanca, il governo britannico e quello tedesco hanno speso rispettivamente 1.213 e 446 miliardi di euro per salvare le loro banche nazionali dalla crisi. Angela Merkel fa di tutto per proteggere e sviluppare l’industria tedesca dell’auto e della meccanica. La Germania, inoltre, «manovra l’euro come se fosse il marco per favorire le sue esportazioni e la proiezione internazionale della sua industria». E il governo bianco-rosa della cancelliera finanzia (giustamente) con denaro pubblico la sua industria delle energie alternative, contrastando duramente l’Unione Europea che vorrebbe impedire gli aiuti di Stato anti-competitivi. «I paesi emergenti – a partire da Cina, India e Brasile – sono riusciti a svilupparsi negli ultimi decenni attirando gli investimenti industriali esteri, ma anche proteggendo le industrie strategiche grazie allo stretto controllo dei capitali stranieri».Solo una politica pubblica attiva e intelligente, conclude Grazzini, può infatti difendere l’economia nazionale dall’assalto dei grandi enti finanziari che divorano le industrie, sviluppando ricerca, infrastrutture, aziende hi-tech e energie alternative. «Purtroppo il governo Renzi sembra avere una visione di politica economica completamente subordinata all’ideologia del “lasciar fare” ai mercati finanziari. Il governo interviene solo “a babbo morto” quando un’azienda è completamente fallita, come Alitalia, per cederla ai capitali esteri, cercando solo, per quanto possibile, di salvare le grandi banche creditrici (Intesa e Mps innanzitutto, nel caso Alitalia)». A fermare la slavina basterebbe un intervento deciso della Cassa Depositi e Prestiti, «l’unico ente nazionale simile a una banca pubblica». Meglio ancora: «Il governo dovrebbe nazionalizzare e gestire una grande banca, e finanziare (con profitto pubblico) le piccole aziende italiane in grave crisi di liquidità», nonché «le medie aziende del cosiddetto “quarto capitalismo” in grado di competere sui mercati internazionali».Un fondo pubblico specializzato, continua Grazzini, dovrebbe inoltre co-finanziare massicciamente le società private di “venture capital”, per sponsorizzare l’avvio e lo sviluppo globale di nuove start-up nei campi promettenti ma incerti dell’hi-tech. Peccato che politica sia praticamente inesistente, a cominciare da sinistra e sindacati, pur sapendo che «l’intervento statale non basta assolutamente per salvare e sviluppare l’industria nazionale: nell’economia dell’innovazione e delle conoscenze occorre mobilitare soprattutto l’intelligenza e la partecipazione dei lavoratori». Democrazia dal basso, per consentire alla forza lavoro – come avviene in Germania – di eleggere i suoi rappresentanti nei consigli di amministrazione delle grandi imprese, come l’Ilva e Telecom. Per Grazzini, «il pericolo maggiore – e imminente – è che non solo le industrie manifatturiere ma anche le banche nazionali vengano cedute all’estero (come è già successo con Mps, la terza banca nazionale) e che il risparmio degli italiani vada ad alimentare completamente lo sviluppo delle economie estere». Con soddisfazione sospetta, l’“Economist” annuncia che dal 2010 le fondazioni nazionali (lottizzate, ma pur sempre semi-pubbliche) abbiano perso la presa sulle banche italiane quotate in Borsa, che ormai dipendono dal “libero” mercato azionario per il 77%, con investitori stranieri padroni dell’11% del credito italiano, cioè il doppio rispetto a pochi anni fa.L’unificazione bancaria europea decisa dalla Ue genera la necessità di ricorrere al mercato per ricapitalizzare le banche nazionali colme di debiti in sofferenza a causa della crisi, e spesso dei crediti erogati agli “amici”. «L’apertura del mercato bancario nazionale sollecitata dall’Unione Europea è una fortuna per la speculazione internazionale», spiega Grazzini. «Le ricapitalizzazioni sono una manna per gli investitori esteri che con pochi soldi potranno acquistare il risparmio nazionale: ma senza il minimo controllo sul risparmio non ci saranno nuovi investimenti e prospettive di sviluppo più o meno sostenibile». L’Italia? «Diventerà irrimediabilmente un paese del terzo mondo». Ama conclusione: «L’economia italiana avrebbe bisogno di democrazia economica dal basso, di una avanzata politica industriale, di capitani d’industria come Enrico Mattei e Adriano Olivetti, di innovatori come Steve Jobs, di banchieri come Raffaele Mattioli, e di politici della statura di De Gaulle per difendere e sviluppare l’economia nazionale. Purtroppo invece in Italia hanno prevalso i Marchionne, i Berlusconi e i Renzi».La vendita della Indesit a Whirpool è solo l’ultimo caso: si sta verificando nel silenzio generale la fine dell’Italia industriale, come predetto da Luciano Gallino. Il pericolo imminente è quello di cedere al capitale estero non solo le industrie ma anche le grandi banche, e di svendere completamente il risparmio italiano. A causa del declino verticale dell’industria e della sofferenza delle banche italiane, e a causa della colpevole inerzia governativa e dei pesanti vincoli europei, il capitalismo nazionale sta diventando un servile vassallo di quello internazionale. E l’Italia rischia così di precipitare definitivamente nel Terzo Mondo. Se l’“Economist” definisce “untangled” (sciolto, smembrato) il capitalismo italiano, sfugge il peso della svolta forzata di Mediobanca, che ha deciso di sciogliere gli accordi incrociati tra le maggiori aziende nazionali: da allora, secondo Enrico Grazzini, il capitalismo italiano si è votato a una sorta di suicidio irreversibile.
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Barare e rubare senza vergogna, così si diventa Germania
Volete essere l’economia leader di questa (putrefatta) Eurozona? Facile: barate, ma barate proprio in modo disgustoso, senza vergogna. Ecco le ricette. A) Inventatevi una Cassa Depositi e Prestiti, dategli il nome di Kfw, fatele investire soldi pubblici nelle aziende private nazionali senza che neppure un centesimo di questi soldi compaia nei famigerati conti di Stato, così nessuno a Bruxelles se ne accorge e vi mette le manette. B) Fate riforme del lavoro che fanno ristagnare i salari nazionali per 12 anni, così le vostre mega-industrie nazionali possono esportare a prezzi concorrenziali succhiando il sangue ai loro dipendenti. Ma quando questi s’infuriano (perché non sono tutti idioti), date la colpa delle loro pene non al governo né ai giganti dell’export, no! La colpa è di altri paesi europei, quelli spendaccioni, stupidi e incapaci.C) Create un sistema di moneta unica europea che ha in sé un complesso meccanismo finanziario per cui il vostro concorrente industriale numero uno, l’Italia, verrà spazzato via, messo in crisi e deprezzato all’estremo. Così le vostre patetiche Pmi (che in questo caso si chiamano Mittelstand) potranno venire in Italia a rubarci i nostri super-brevetti e le nostre prodigiose tecnologie per due soldi bucati, e portarsele a casa loro. Oh!, e i lavoratori/imprenditori italiani… bè c’è sempre un gabinetto dove metterli, no? D) Dettate la legge suprema della competitività in Europa, dove la regola numero uno è, ad esempio, prendere un Monti o una Fornero, promettergli la paghetta finale (consulenze private milionarie in ambito finanziario) a patto che diminuiscano drammaticamente sia i salari italiani che le pensioni. Ma a casa vostra fate esattamente il contrario: diminuite l’età pensionabile e fate addirittura intervenire la Banca Centrale (!) a dire che i salari vanno aumentati.F) Strombazzate in tutte le sedi di potere tecnocratico che la vostra disoccupazione è la minore in Europa, quando la verità è che barate da prendervi a schiaffi, perché avete il più alto tasso di lavoratori sottopagati rispetto alla media di reddito nazionale di tutta Europa, ma guarda caso risultano come occupati! G) Fate la voce grossa sulle RIFORME, che tutti ’sti paesi mollicci del sud Europa devono assolutamente fare perché sono spendaccioni, corrotti, incapaci zavorre all’economia del continente. Ma poi nascondete con oculatezza che l’Ocse vi mette al ventottesimo posto su 34 paesi come efficienza nelle… RIFORME! Cioè siete dei brocchi da vergognarsi. Ma con gli altri fate la voce grossa. H) Cambiate rapidamente discorso quando qualcuno vi ricorda che prima dell’introduzione dell’euro, cioè della macchina monetaria che vi permette di barare, c’era un piccolo industrioso paese chiamato Italia che vi faceva un c… così sia in termini di esportazioni, che come innovazione tecnologica, ed era esattamente al vostro pari nei maggiori parametri macroeconomici come Posizione Patrimoniale sull’Estero, Conto delle Partite Correnti e Debito Privato (qui poi noi italiani siamo ancora di gran lunga messi meglio).I) Vantate di avere una grande autorevole seria mega-banca, leader mondiale… mica ’ste botteghe di pochi spiccioli come hanno gli altri. Ma nascondete di nuovo che ’sta vostra illustrissima banca non è solo stra-fallita, con un equity capital ratio (l’opposto del leverage ratio) del 2,5%, cioè come avere 15 euro in cassa e avere debiti di miliardi con il Pentagono. E nascondete che ’sta vostra big bank si è anche accumulata scommesse in derivati (dinamite senza pompieri) per un totale di 20 volte il Pil del vostro stesso paese. E quando salta quella, la vostra illustrissima banca, salta il mondo. Ma voi zitti! Mentite con la faccia come il c… sul modello mondiale che ’sta vostra banca putrefatta rappresenta. Insomma, volete primeggiare in questa Eurozona? Mentite, barate, spogliatevi della minima decenza, siate bugiardi oltre il tollerabile… in altre parole chiamatevi Germania e Deutsche Bank.Ps: poi hanno il più alto giro di mazzette in termini assoluti di tutta Europa (Craxi era un pivello). E siccome hanno dato il pretesto (la tragedia dell’Olocausto) ai sionisti ebrei per massacrare i palestinesi, dovrebbero pagare di tasca loro un piano Marshall per tutta la Palestina. Ma non solo: i tedeschi dovrebbero essere processati per crimini contro l’umanità in Grecia, oggi. Dai, i tedeschi sono nazisti nel Dna, inutile, o l’Onu commissaria la Germania in blocco, oppure continueranno a fare Olocausti. Ce l’hanno nel Dna di essere nazisti.(Paolo Barnard, “Per essere Germania bisogna rubare, barare… fare proprio schifo”, dal blog di Barnard del 2 agosto 2014).Volete essere l’economia leader di questa (putrefatta) Eurozona? Facile: barate, ma barate proprio in modo disgustoso, senza vergogna. Ecco le ricette. A) Inventatevi una Cassa Depositi e Prestiti, dategli il nome di Kfw, fatele investire soldi pubblici nelle aziende private nazionali senza che neppure un centesimo di questi soldi compaia nei famigerati conti di Stato, così nessuno a Bruxelles se ne accorge e vi mette le manette. B) Fate riforme del lavoro che fanno ristagnare i salari nazionali per 12 anni, così le vostre mega-industrie nazionali possono esportare a prezzi concorrenziali succhiando il sangue ai loro dipendenti. Ma quando questi s’infuriano (perché non sono tutti idioti), date la colpa delle loro pene non al governo né ai giganti dell’export, no! La colpa è di altri paesi europei, quelli spendaccioni, stupidi e incapaci.
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Anche Wall Street scommette sulla Terza Guerra Mondiale
Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Timoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma?Perché infine rovesciare Yanukovic quando lo stesso quarto e ultimo presidente dell’Ucraina aveva già venduto il Donbass alla Chevron e alla Shell? La bellezza di quasi 8.000 chilometri quadrati di territorio per la durata di 50 anni, un accordo segreto in gran parte valutato 10 miliardi di dollari, alla ricerca del gas da scisti bituminosi che avrebbe liberato “per sempre” l’Ucraina dalla dipendenza energetica dall’odiata Russia. Insomma: Yanukovic – presentato come «l’uomo di Mosca» da tutti i media occidentali – non era poi quel grande amico di Putin. Perché farlo fuori così brutalmente? Che bisogno c’era? Solo perché non aveva firmato a Vilnius il documento giugulatorio di “associazione” all’Unione Europea? Ma fino al novembre dell’anno precedente Viktor Yanukovic aveva negoziato, lasciando sperare in un successo europeo totale. Il documento era già pronto, anche se in parte assai segreto. Bastava aspettare qualche mese e sarebbe stato imposto, con le buone o con le cattive.No, tutti questi interrogativi non avevano risposte adeguate. Doveva esserci qualcos’altro. La fretta con cui Washington aveva premuto, e Varsavia aveva agito ai suoi ordini, indicava qualche altra impellente necessità. A me fu subito chiaro che il golpe – non a caso un golpe con le stigmate naziste così visibili – era diretto non contro Yanukovic, pedina di nessun peso, ma contro la Russia. I neocon, tramite la esecutrice Victoria Nuland, volevano una crisi di valenza internazionale, se non addirittura mondiale. Ma perché la fretta? Perché accelerare lo scontro e portare la Nato praticamente sul portone del Cremlino? Era, in fondo, uno scenario che io stesso avevo previsto sarebbe accaduto. Ma assistevo a un’improvvisa e drammatica accelerazione. Doveva esserci qualcos’altro a spiegare la fretta. E le dimensioni della rottura che si stava creando. Non si trattava di una crisi regionale, non un episodio passeggero. Le potenziali ripercussioni erano evidenti: uno scontro di portata non minore di quello della crisi dei missili a Cuba del 1962.Bisognava spiegare il senso e le ragioni dell’accelerazione. Io non sono un economista (lo ripeto sempre, per non eccitare le rimostranze degli scopritori dell’aria calda). Non sono neanche un esperto dei sotterfugi della finanza mondiale. Credo poco o nulla ai numeri che arrivano da quella parte, convinto ormai da tempo che sono in gran parte falsi o comunque molto manipolati. Ma tutto il nervosismo che da tempo leggo nei commenti di coloro che dicono d’intendersene (anche perché su quei trucchi ci hanno vissuto e ci vivono), mi ha fatto pensare che qualcosa non funzionava nei ragionamenti sopra esposti. Così mi sono trovato, con qualche sorpresa, in buona compagnia a parlare di “inizio della Terza Guerra Mondiale”. Devo prima di tutto esprimere i miei ringraziamenti a Roberto Savio, ideatore di quel fondamentale bollettino che si chiama “Other News”, con sottotitolo esplicativo: “L’informazione che i mercati eliminano”. Il primo di agosto, “Other News” ha pubblicato una rassegna che riprende numerosi spunti dal “Washington’s Blog”, così intitolata: “Un gruppo di esperti finanziari ai massimi livelli afferma che la Terza Guerra Mondiale è in arrivo, a meno che non la fermiamo”. Saccheggerò questa rassegna, che mi pare estremamente istruttiva.In primo luogo i nomi sono effettivamente grossi calibri, a giudicare dalla frequenza con cui i mercati li citano. Prendiamo per esempio Nouriel Rubini, che a gennaio di quest’anno twittava da Davos: «Molti oratori qui paragonano il 2014 con il 1914, quando la Prima Guerra Mondiale esplose e nessuno se l’aspettava. Siamo di fronte a un cigno nero nella forma di una guerra tra Cina e Giappone?» Fuochino. Ma gli fa eco Kile Bass, multimiliardario manager di hedge funds, che prima cita un «influente analista cinese» e poi lo stesso premier giapponese Abe, che «non escludono un confronto militare tra Cina e Giappone». Aggiungendo previsioni molto ben descritte, che in bocca a un gestore finanziario di quel calibro non possono essere trascurate. «Miliardi di dollari di depositi bancari saranno ristrutturati – ci informa Kile Bass – e milioni di prudenti risparmiatori finanziari perderanno grandi percentuali del loro reale potere d’acquisto esattamente nel momento sbagliato delle loro vite [sempre che ci sia un momento giusto per perdere i propri averi, ndr]. Neanche questa volta il mondo finirà, ma la struttura sociale delle nazioni influenti sarà posta in acuta tensione e in qualche caso fatta a pezzi. (…) Noi crediamo che la guerra sia un’inevitabile conseguenza dell’attuale situazione economica globale».Gli fa eco l’ex capo dell’Office for Management and Budget ai tempi di Reagan, David Stockman. Anche per lui lo scontro in atto tra America e Russia condurrà alla terza guerra mondiale. Un po’ più generico sulle modalità, ma convinto anche lui che si sta andando verso «una grossa guerra» (“a major war”) è l’ex analista tecnico di Goldman Sachs, Charles Nenner, che, ora in proprio, vanta tra i suoi clienti numerosi importanti hedge funds, banche, e un certo numero di ricchissimi investitori internazionali. Altrettanto, con qualche variazione, pensano investitori americani di primo piano come James Dines e Marc Faber. Quest’ultimo afferma apertamente che il governo americano comincerà nuove guerre in risposta alla crisi economica in atto. «La prossima cosa che il governo farà per distrarre l’attenzione della gente dalle cattive condizioni economiche – scrive Marc Faber – sarà di cominciare una qualche guerra da qualche parte».Tutto chiaro, ma allora come mai i giornali e le tv ci dicono che l’America va fortissimo? Pochi giorni fa Martin Armstrong – un gestore di fondi d’investimenti sovrani multimiliardari – dice la stessa cosa: «Occorre distrarre la gente dall’imminente declino economico». Gli ultimi due pezzi che ha scritto li ha intitolati così: “Andremo in guerra contro la Russia” e “Prepariamoci alla terza guerra mondiale”. Non è ben chiaro se tutti questi profeti stiano enunciando prognosi sincere o siano semplicemente festeggiando in anticipo i futuri successi economico-finanziari che si aspettano dalla guerra, essendo evidente, da sempre, che le guerre ingrassano prima di tutto i banchieri e poi i produttori di armi. Ma l’insistenza con cui il tema viene sollevato indica comunque che il puzzo di bruciato tutti costoro lo sentono in anticipo.Altri, per esempio la presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff, osservano che il mondo è attraversato da una «guerra delle valute» che sta diventando globale, cioè di tutti contro tutti. Da non dimenticare che la seconda guerra mondiale arrivò dopo una serie violenta di svalutazioni competitive. Sta accadendo ora la stessa cosa, quando le nazioni svalutano per rendere più competitive le loro merci e per incentivare le esportazioni. E molti si stanno accorgendo che la nuova banca, creata dal Brics, con capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, basata in Cina, costituisce una novità impressionante nel panorama globale, dove un numero crescente di transazioni avviene in yuan, in rubli, invece che in dollari Usa. Come scrive Jim Rickards – che nel 2009 partecipò ai primi “giochi di guerra finanziari” organizzati dal Pentagono – c’è il rischio che gli Stati Uniti si trovino «trascinati» in «guerre asimmetriche» di valute, in grado di accrescere le incertezze globali. È evidente che Rickards sta dalla parte americana. Ma, se il Pentagono – e non la Federal Reserve – organizza questo tipo di “giochi”, vuol dire che ci siamo già dentro fino al collo e che il loro carattere militare è fuori discussione.Del resto (questa volta parla il multimiliardario Hugo Salinas Price) «sono molti a chiedersi quali siano state le ragioni vere che hanno portato all’eliminazione di Gheddafi. Egli stava pianificando una valuta pan-africana. La stessa cosa accadde a Saddam Hussein. Gli Stati Uniti non tollerano alcun’altra solida valuta in grado di competere con il dollaro». Altri mettono il dito sulla crescente scarsità di risorse, soprattutto energetiche. Altri ancora guardano alla Cina come a un avversario bisbetico e sempre più incontrollabile – forse il protagonista di quella guerra asimmetrica citata da Jim Rickards. Gerald Celente, autore di accurate previsioni finanziarie e geopolitiche da molti anni, va anche lui seccamente alla conclusione: «Una terza guerra mondiale comincerà presto». Jim Rogers, un altro investitore internazionale miliardario, punta gli occhi sull’Europa: «Se si continua a salvare uno Stato dietro l’altro si finirà in un’altra guerra mondiale». Dunque continuiamo a strozzare i popoli europei, con l’obiettivo di evitare la guerra. Un pacifismo molto sospetto, ma comunque allarmato. Ovviamente sarà utile guardarsi da certi “pacifisti”. Ma questa rassegna è utile per capire che l’allarme è in aumento.La Cina, senza fare troppo rumore, fa provvista di risorse, energetiche e territoriali, solo che invece di mandare le proprie cannoniere (non è il tempo), quelle risorse se le compra, con i denari del debito americano. Putin deve fronteggiare la prima offensiva e non ha tempo da perdere. Tra l’altro un tribunale olandese, senza alcuna autorità o potere, ha decretato che la Russia dovrà pagare 50 miliardi di dollari, più gl’interessi, alla Yukos, cioè a quel bandito di Mikhail Khodorkovskij che la Russia ha scarcerato qualche mese fa con un gesto di distensione verso l’Europa (si noti che il tribunale sedeva nello stesso paese che aveva avuto il più alto numero di vittime nell’abbattimento del Boeing delle linee aeree malaysiane). Sarà stato un caso? Comunque, uno dei più vicini consiglieri di Putin, di fronte alla domanda “cosa farà la Russia di fronte a quella sentenza?”, ha risposto stringendosi nelle spalle: «C’è una guerra alle porte in Europa. Lei pensa realmente che una tale decisione abbia qualche importanza?».Giuridicamente non ce l’ha, ma sarà usata dai centri di comando dell’Occidente per colpire i beni russi all’estero, per sequestrare e congelare conti bancari, proprietà azionarie. Ecco una guerra asimmetrica appena iniziata senza essere stata nemmeno dichiarata. Un influente settimanale americano ha dedicato la sua copertina a Vladimir Putin, con questo commento: “Il Paria”. Un titolo che è, invece, una dichiarazione di guerra. Solo che non è stata pronunciata dal Dipartimento di Stato, bensì dal “ministero della propaganda”, cioè dai media occidentali. È stato Paul Craig Roberts a usare questa definizione in un articolo di qualche giorno fa. Chi è Paul Craig Roberts? È stato Assistente Segretario al Tesoro durante la presidenza Reagan, ex editore del “Wall Street Journal”, considerato dal “who’s who” americano come uno dei mille pensatori politici più influenti del mondo. L’articolo era intitolato: “La guerra sta arrivando” (“War is coming”).(Giulietto Chiesa, “Chi parla di Terza Guerra Mondiale?”, da “Megachip” del 6 agosto 2014).Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Tymoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma?
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Le ricette di Draghi per il funerale dell’economia europea
Revoca degli ultimi campoli di sovranità nazionale e trasferimento di tutti i poteri a Bruxelles. Lo “propone” Mario Draghi, cioè l’uomo costantemente citato come il pegggior banchiere centrale del mondo, il peggiore della storia, scrive Paolo Barnard. «Ci si chieda: perché l’Italia della metà degli anni ’90 – che non faceva la riforme di Draghi, che non strisciava supina di fronte a Bruxelles, che usava la spesa pubblica molto ma molto più di oggi… perché veniva definita da “Standard & Poor’s” come “economia leader d’Europa”? Allora Mario, che ci rispondi? Avevamo l’Eurozona allora? No. Avevamo invece il triplo della spesa pubblica di oggi, che come i veri economisti sanno è l’attivo di tutto il settore privato di cittadini e aziende. Oggi la folle dittatura delle Austerità ha stroncato la spesa pubblica, e stroncati affondiamo. Tutto qui».«Se metti in acqua diciotto barche con buchi sotto la chiglia e queste iniziano ad affondare», scrive Barnard nel suo blog, «mi sembra ridicolo che tutti puntino lo sguardo su quella che affonda più in fretta», l’Italia, «piuttosto che considerare il fatto che sono state tutte costruite da incompetenti», e quindi «è il cantiere cialtrone che va chiuso». Tradotto: «Mario Draghi regge il cantiere Eurozona dove tutti, e tutto, sta affondando, ma gli viene comodo imbrogliare i media e il pubblico puntando il dito sulla barca Italia che affonda un po’ più delle altre». La crescita dell’Eurozona, dopo 14 anni di grandi promesse, è letteralmente pietosa, «non riesce mai a superare quel triste zero virgola», mentre ad esempio la Gran Bretagna «cresce come basilico al sole». La deflazione europea è fuori controllo, «cioè i prezzi crollano di minuto in minuto perché non c’è domanda, e tutti i gran proclami di Draghi per frenare questa valanga sono stati accolti dai mercati e dai consumatori come ridicolaggini, fra l’altro disoneste perché tutte tese solo a favorire speculazioni finanziarie».Le cosiddette “riforme” tanto invocate da Draghi come pozione magica di salvezza «non hanno salvato nessuno dei paesi che le hanno fatte». Bollettino di guerra: la Finlandia è all’ottavo mese a crescita zero, l’Olanda precipita nella terza recessione dal 2009, Francia registra il record della disoccupazione e un crollo storico di settori-chiave come l’immobiliare e il manifatturiero. Nel Belgio “commissariato” dall’Ue abbiamo consumi a tasso negativo e crescita zero. E persino in Germania crollano gli ordini industriali (-4%), il Pil è in calo, stipendi sono stagnanti da 10 anni, il calo della domanda interna deprime tutto l’export europeo. Poi, secondo dati ufficiali Eurostat, «le gloriose riforme di Draghi e dell’Eurozona hanno infilato nella calza della Befana anche il più alto tasso di disoccupazione europea dalla nascita dell’euro». E poi le banche, «quelle regolamentate da Mario Draghi, che oggi dispensa ricette severe su come curarci». Ebbene: la maggioranza delle banche europee «sono marce, ma veramente, cioè di fatto fallite».Secondo la Bank of International Settlements, «le banche in Europa non sono riuscite a rimediare alla loro catastrofica esposizione a prestiti che saranno inesigibili perché gli indebitati sono al collasso». E il collasso, sottolinea Barnard, è proprio opera della Troika di Draghi e delle sue austerità, «come ormai ammettono anche Goldman Sachs e gli “hedge funds”». La stessa Reuters ci informa che le stesse banche europee, azzoppare da «buchi contabili che si vedono dalla Luna», hanno prestato 3.000 miliardi di dollari ai “mercati emergenti”: soldi che difficilmente torneranno indietro. «Poi indovinate a chi, per questo motivo, le medesime banche diranno no al mutuo o al finanziamento? A voi, a voi, e infatti registriamo il più alto declino nei prestiti bancari alle famiglie dal 2008».E attenzione: il 90% dello strombazzato calo dello spread e degli interessi sui titoli di Stato dei paesi come Spagna, Irlanda o Italia, rivela uno studio di “Bloomberg”, «non è dovuto a reali progressi dell’economia di quegli Stati, ma ai trucchi speculativi di Mario Draghi alla Bce: quindi aria fritta, che Renzi oggi usa per infinocchiare i soliti poveri italiani». Gran finale: il “Financial Times” annuncia che le banche più fallite di tutta l’Europa «non sono quelle spagnole o italiane, ma quelle tedesche», espressione del sistema di potere che domina Bruxelles e Francoforte, di cui Draghi è forse il massimo esponente. E questo “terapeuta” ha ancora il coraggio di proporre soluzioni e cure? Assolutamente sì. Il macellaio travestito da medico: la farsa continua, e l’Europa affonda.Revoca degli ultimi campoli di sovranità nazionale e trasferimento di tutti i poteri a Bruxelles. Lo “propone” Mario Draghi, cioè l’uomo costantemente citato come il pegggior banchiere centrale del mondo, il peggiore della storia, scrive Paolo Barnard. «Ci si chieda: perché l’Italia della metà degli anni ’90 – che non faceva la riforme di Draghi, che non strisciava supina di fronte a Bruxelles, che usava la spesa pubblica molto ma molto più di oggi… perché veniva definita da “Standard & Poor’s” come “economia leader d’Europa”? Allora Mario, che ci rispondi? Avevamo l’Eurozona allora? No. Avevamo invece il triplo della spesa pubblica di oggi, che come i veri economisti sanno è l’attivo di tutto il settore privato di cittadini e aziende. Oggi la folle dittatura delle Austerità ha stroncato la spesa pubblica, e stroncati affondiamo. Tutto qui».