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Feltrinelli espelle Altaforte: la vergogna di Torino continua
Che spiegazione dare dell’incidente del Salone del Libro di Torino, dove la casa editrice Altaforte è stata esclusa perché ritenuta vicina a CasaPound, movimento peraltro considerato perfettamente legale? Io sono un militante di CasaPound, e non l’ho mai nascosto. Altaforte invece è indipendente da CasaPound. E’ talmente indipendente da pubblicare un libro-intervista del ministro dell’interno Salvini, che di fatto è uno dei principali competitor del movimento. Per questo ho vissuto un conflitto personale. Poi mi sono arreso, perché comunque una casa editrice deve provare a fare anche delle provocazioni culturali. Questa poi non è nemmeno una provocazione, è solo un’intervista all’uomo più in vista del momento. E dato che la casa editrice si definisce sovranista, è chiaro che ha cercato di coinvolgere l’uomo che in questo momento sta portando in auge proprio questo tema. Le spiegazioni che mi sono dato, purtroppo, sono legate anche ai numeri del Salone del Libro: nel 2015 la rassegna torinese contata 300.000 ingressi. Poi c’è stato un lento decadimento: fino ad arrivare al 2019, quando ha perso più della metà dei visitatori (in soli quattro anni). Questo perché? Bastava andare a vedere gli stand del democraticissimo Salone del Libro per rendersi conto che era diventato una specie di centro sociale. Erano evidenziate in ogni modo bandiere antifasciste, scritte “qui c’è un editore antifascista”.Il che significa, secondo me, che esiste una sorta di lobby del pensiero, di lobby della cultura, che si sta stringendo in un proprio giardinetto, che alla fine non darà più né fiori né frutti. Lo dico tenendo conto di alcune persone che hanno influenzato la vicenda di Altaforte a Torino, in particolare Christian Raimo, consulente editoriale del Salone: in un post su Facebook ha scritto che la politica è una questione occupazione di spazi, e quindi Altaforte non aveva diritto a quello spazio. Ebbene, questo gli si è ritorto contro. Perché, rispetto all’anno precedente, il Salone ha perso altri 20.000 visitatori (sono scesi a 160.000). Chiara Giannini, l’autrice di “Io sono Matteo Salvini”, sostiene che è stato un attacco al capo della Lega. Sicuramente è stato un attacco a tutto tondo, anche a Salvini, perché è il personaggio più scomodo e più inviso alla sinistra italiana. Senza fargli pubblicità, devo dire però che sta mantenendo le promesse che aveva fatto in campagna elettorale (a differenza, forse, di quello che fanno a sinistra). Però secondo me sono molto scomode anche altre tematiche, che noi trattiamo. Per esempio l’immigrazione, con il libro di Francesca Totolo “Inferno SpA”. Abbiamo trattato il tema del colonialismo francese in Africa con il libro “I coloni dell’austerity”, di Ilaria Bifarini, che parla del franco Cfa (e di fatto mi permetto anche di dire che, secondo me, siamo stati noi a riportarlo in auge circa quattro mesi fa, all’epoca della mini-crisi diplomatica fra Italia e Francia).Poi abbiamo trattato il tema del neo-femminismo, quindi la lobby che sta dietro al mondo Lgbt, con un bellissimo libro di Francesco Borgonovo, “L’era delle streghe”. Sicuramente abbiamo trattato il tema dell’Unione Europea e dell’euro con un libro di Marco Mori, “La morte della Repubblica”. E abbiamo altri testi interessanti, come “La nazione fatidica” di Adriano Scianca. Noi siamo nati appena 8 mesi fa. E’ chiaro che tutto questo rumore non ce l’aspettavamo, sono sincero. Però, ecco: c’è un attacco a tutto tondo. Io stesso indagato? A quanto pare è stato fatto un esposto – per apologia di fascismo – da parte del sindaco di Torino, Chiara Appendino, e del presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino. Quello che mi si contesta è un reato d’opinione, riferendosi a mie dichiarazioni. Premetto: non mi pento di nulla di ciò che ho detto, ma sono cose che tenderei a non ripetere, qui, anche perché devo chiarire la mia posizione di fronte alle autorità giudiziarie, che avranno il compito di appurare se quelle mie dichiarazioni sono un reato o meno. Io intanto le anticipo, dicendo che il reato non c’è. Comunque è assurdo, secondo me, il fatto che oggi il reato d’opinione esista ancora.Ho subito un blitz – anche simpatico – da parte di Filippo Roma de “Le Iene”, che mi è venuto a fare un po’ di provocazioni (anche scherzose, per una volta) e insieme abbiamo scherzato sul discorso della libertà di espressione. La nostra Costituzione viene sbandierata moltissimo, dalla sinistra, che forse non la legge più da tanto tempo: altrimenti si ricorderebbe che esiste un articolo, il 21, che consente la libertà di parola. A Filippo Roma ho fatto questa battuta: è mai possibile che io venga accusato in questo modo, mentre durante il fascismo, il 1° maggio 1925, Benedetto Croce potè firmare il Manifesto degli Intellettuali Antifascisti senza ricevere nessun tipo di censura da parte del regime? Nel 2019, invece, Francesco Polacchi (che per carità, non si permette neanche lontanamente di paragonarsi a Croce) non può presentare un libro-intervista su un uomo che verrà votato da un italiano su tre. E’ un po’ bizzarra, la situazione. Ci ha giovato, l’inatteso clamore del Salone di Torino? C’è chi rispolvera il vecchio adagio: bene o male, purchè se ne parli. In realtà io sono scettico: secondo me, questo libro aveva già di per sé un potenziale incredibile di vendita.Comunque, Matteo Salvini verrà votato, verosimilmente, da otto milioni di persone. E il fatto che in questo momento il libro sia in cima alla classifica di Amazon non dipende solo dalla polemica torinese. Salvini è comunque l’uomo del momento, che ha trasformato un partito del 4% portandolo probabilmente al 30-35% nell’arco di tre-quattro anni. Ha sicuramente un consenso incredibile. Quindi, secondo me, tutta la vicenda di Torino ci ha comunque danneggiato. Sono convinto che, al Salone del Libro, senza la rescissione del contratto avremmo venduto qualche migliaio di libri. Dunque a mio parere ci è stato inflitto un danno gravissimo, anche perché poi la Feltrinelli – e non solo lei – ha chiuso il canale distributivo per Altaforte: hanno quindi creato un danno anche commerciale, per la distribuzione. Immagino abbiano ricevuto pressioni, sia esterne che interne, per non far espandere la nostra casa editrice. E questo è gravissimo, perché ne va della reperibilità dei libri – non solo quello di Salvini, ma proprio tutti i titoli di Altaforte. Per carità, loro possono fare le loro scelte. E noi inviteremo i clienti ad acquistare i nostri libri da altre parti.(Francesco Polacchi, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti in apertura della puntata di “Border Nights” del 14 maggio 2019. Polacchi, esponente di CasaPound, è il referente della casa editrice Altaforte, clamorosamente espulsa dal Salone del Libro di Torino per la polemica scoppiata in relazione a passate dichiarazioni dello stesso Polacchi, che ebbe a definirsi “fascista”. «Quando si arriva a escludere dei libri e una casa editrice da un evento importante, mi chiedo se siamo nel 2019 o in un’altra epoca», commenta Frabetti, che annuncia che la sua web-radio, libertaria e ultra-democratica, nelle prossime settimane si impegnerà a ospitare gli autori di Altaforte, per presentare i loro libri. «I reati d’opinione sarebbero da abolire», aggiunge Frabetti, pensando alla sinistra europeista che ha cacciato l’editrice dal Salone di Torino: «Ai benpensanti piace tanto, questa Unione Europea. Peccato che poi vengano applicati raramente i principi che la Corte Europea sancisce spesso, legati anche alle opinioni e alla libertà di stampa. Belle parole, che tali rimangono».Che spiegazione dare dell’incidente del Salone del Libro di Torino, dove la casa editrice Altaforte è stata esclusa perché ritenuta vicina a CasaPound, movimento peraltro considerato perfettamente legale? Io sono un militante di CasaPound, e non l’ho mai nascosto. Altaforte invece è indipendente da CasaPound. E’ talmente indipendente da pubblicare un libro-intervista del ministro dell’interno Salvini, che di fatto è uno dei principali competitor del movimento. Per questo ho vissuto un conflitto personale. Poi mi sono arreso, perché comunque una casa editrice deve provare a fare anche delle provocazioni culturali. Questa poi non è nemmeno una provocazione, è solo un’intervista all’uomo più in vista del momento. E dato che la casa editrice si definisce sovranista, è chiaro che ha cercato di coinvolgere l’uomo che in questo momento sta portando in auge proprio questo tema. Le spiegazioni che mi sono dato, purtroppo, sono legate anche ai numeri del Salone del Libro: nel 2015 la rassegna torinese contava 300.000 ingressi. Poi c’è stato un lento decadimento: fino ad arrivare al 2019, quando ha perso più della metà dei visitatori (in soli quattro anni). Questo perché? Bastava andare a vedere gli stand del democraticissimo Salone del Libro per rendersi conto che era diventato una specie di centro sociale. Erano evidenziate in ogni modo bandiere antifasciste, scritte “qui c’è un editore antifascista”.
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Magaldi: Salvini abbaia ma non morde, proprio come l’Italia
Povera patria, cantava Battiato, ai tempi in cui il radar stava per inquadrare lo sfacelo di Tangentopoli e i rottami delle auto di Falcone e Borsellino, mentre su RaiTre i vari Ghezzi e Guglielmi scavavano tra le macerie civili nella vana speranza di rintracciare qualcosa che potesse somigliare a un umanesimo post-comunista. Nel frattempo – lontano dagli occhi, e dal cuore – l’altra sinistra, quella di potere, si accingeva a svendere segretamente l’Italia, impiccandola al “vincolo esterno” di Maastricht che l’avrebbe ridotta a colonia minore, docile preda dell’asse franco-tedesco. Quasi trent’anni dopo, sostituiti gli attori, il copione ripropone la stessa canzone. Povera patria, e povero Salvini: ridotto a farsi applaudire da un antagonista da salotto come Diego Fusaro per la ridicola crociata contro la cannabis light, dopo aver lisciato il pelo, a Verona, ai cultori dell’archeologia familistica pre-moderna, reazionaria, ottusamente tradizionalista. «Non ne azzecca più una, il leader della Lega». E dove sarebbe la notizia? Perché mai dovrebbero interessarci, le avvisaglie di declino che sfiorano il Capitano? Semplice: perché è stato l’unico, in questi anni, a mettere a fuoco il problema del paese, il vero avversario. Ma il suo attuale smarrimento fotografa alla perfezione la fragilità del sistema-Italia di fronte all’ostacolo – sempre lo stesso – che condanna la penisola alla depressione sociale ed economica.Non si smuove di un millimetro l’impero abusivo di Bruxelles, dominato da lobbisti travestiti da statisti. L’altra notizia è che la situazione sta peggiorando a vista d’occhio. E il governo gialloverde non sa che pesci pigliare, non avendo osato sfidare gli oligarchi tenendo duro almeno sulla richiesta di deficit. Povero Salvini, comunque: tacciato di xenofobia, pur essendo stato l’unico a far eleggere un senatore di origine africana. Lo hanno anche accusato di fascismo per il libro pubblicato dall’editrice vicina a CasaPound, sfrontatamente cacciata dal Salone del Libro di Torino – strano posto, dove si fa la guerra (elettorale) a un’azienda, anziché eventualmente lasciar procedere i magistrati (nel caso, per apologia di fascismo) contro la discutibile sortita verbale, individuale, di uno dei suoi responsabili. E a proposito di Torino: quante volte il Salone dell’Ipocrisia ha ospitato editori e autori dichiaratamente comunisti, quindi teoricamente altrettanto ostili, sulla carta, all’orizzonte culturale e antropologico della democrazia liberale? Ne ha per tutti, Gioele Magaldi, nell’osservare il caos che domina la vigilia delle europee: «Elezioni perfettamente inutili», sostiene il presidente del Movimento Roosevelt, che annuncia che diserterà le urne. Motivo: impossibile sperare in un voto utile. Tutto resterà come prima, nelle mani del neoliberismo di regime incarnato da Ppe e Pse.Da una parte c’è il mostruoso e grottesco Juncker, che – in spregio di qualsiasi etica e decenza democratica – già annuncia che “i populisti” saranno tenuti lontani dai ruoli-chiave, a prescindere dal risultato della consultazione. All’ombra di Juncker siede l’altrettanto imbarazzante Moscovici, il “signor no” del deficit italiano, in conferenza stampa con l’ectoplasmatico Gentiloni, alter ego dell’impalpabile Zingaretti. A loro va bene così: con l’Italia che “subisce ancora”, come Fantozzi, votata – per una assurda maledizione – a non crescere, a restare sottomessa e depressa, a non guarire mai. Ma chi fronteggia l’impostura? In campo ci sono (rumorosamente) soltanto loro, i cosiddetti sovranisti, cioè la pessima compagnia che si è scelto Matteo Salvini: «I primi a opporsi all’Italia quando chiedeva più deficit sono stati proprio Polonia e Ungheria, gli alleati teorici della Lega», fa notare Magaldi, che nel bestseller “Massoni” ha disegnato la mappa segreta del potere mondialista, interamente massonico, che ha progettato questa globalizzazione senza diritti che stiamo tutti scontando, italiani senza lavoro e giovani senza futuro, aziende sull’orlo del fallimento, professionisti costretti a mendicare pagamenti che non arrivano mai.Sovranismo contro globalismo? Falsa dicotomia, checché ne pensi l’ex ideologo grillino Paolo Becchi: non contano le dimensioni del sistema, le sue frontiere, ma le modalità di gestione – democratiche oppure oligarchiche, progressiste o conservatrici (alzi la mano chi vorrebbe vivere nella Corea del Nord, paese teoricamente ultra-sovranista). E il nostro Salvini? S’è perso per strada, prima ancora di cominciare: «Abbaia, ma non morde», dice Magaldi. In questo, ricorda sinistramente l’altro Matteo, il Renzi che – a parole – sembrava sul punto di resuscitare l’Italia, opponendosi agli abusi della subdola tecnocrazia europea. In un attimo, è passato dal 40% agli scantinati della politica, tra gli ex. Potrebbe succedere anche al condottiero leghista: l’imboscata sleale di Di Maio e Conte – decapitare Armando Siri, per offrire una stampella moralistica ai 5 Stelle in pieno panico pre-elettorale – è già costata un 6% di consensi, alla Lega, almeno stando ai sondaggi. Su Siri, Magaldi è indignato: il sottosegretario doveva restare al suo posto, essendo solo indagato. «Salvini doveva difenderlo a oltranza. E invece cosa ha fatto? Al solito: ha abbaiato, minacciando sfracelli, ma poi ha ingoiato il rospo anche stavolta, incassando una sconfitta bruciante». Un guerriero di latta, il cui consenso si sta mostrando pericolosamente effimero e friabile.«Salvini sa benissimo che è Bruxelles, che dovrebbe mordere, e non i negozi di cannabis terapeutica: queste battaglie tragicomiche le lasci a Fusaro, e spenda meglio il suo tempo. Pensi all’Italia, alla crisi che sta azzannando il paese». Già, la grande crisi che tutti fingono di non vedere. Fino a ieri, se non altro, Salvini la indicava senza ipocrisie: è riuscito a piazzare al Senato un economista keynesiano come Alberto Bagnai. Dopodiché, nebbia in Val Padana. «Oltre ad aver ceduto di fronte al diktat di Bruxelles sul deficit, che avrebbe fatto crescere il Pil riducendo l’incidenza del debito – argomenta Magaldi – il governo gialloverde non ha neppure preso in considerazione la proposta che l’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, avanza da anni: creare moneta parallela, non a debito e perfettamente ammessa dal Trattato di Lisbona, per aggirare la scarsità artificiosa di liquidità che affligge l’Eurozona e creare quei posti di lavoro di cui l’Italia ha drammaticamente bisogno».Infrastrutture strategiche, servizi, welfare, sicurezza del territorio. Servono soldi, che però l’élite neo-feudale non vuole che si spendano: la fine della crisi sarebbe anche la fine dell’attuale potere oligarchico, basato sulla precarizzazione del lavoro. Il piano avanza da anni, implacabile: tagliare i viveri allo Stato per costringerlo ad alzare le tasse, comprimere i salari e colpire i consumi. Amputare il welfare significa spremere il paese, spingendolo a erodere i risparmi. Il cielo si chiude: rassegnazione. Meno opportunità, meno diritti. Le elezioni? Non contano: lo dice Juncker, spettrale tecnocrate al quale Fabio Fazio, sulla Rai, stende il tappeto rosso. Se la ride, l’oligarca del Lussemburgo (rinomato paradiso fiscale, per decenni), già sapendo che l’alleanza di piombo tra popolari e socialisti europei ridurrà le elezioni del 26 maggio a una lugubre barzelletta. Ci vuole ben altro, per rovesciare questi cialtroni: un programma rivoluzionario, radicale, che smonti le loro menzogne travestite da scienza economica e vendute al popolo bue come dogma di fede. Salvini, almeno lui, lo sa benissimo. Ed è per questo che è imperdonabile, oggi, il suo ostinarsi ad abbaiare – contro falsi obiettivi – senza mai decidersi a mordere davvero.(Il pensiero di Magaldi è sintetizzato in due interventi su YouTube, l’11 maggio in video-chat con Marco Moiso, vicepresidente del Movimento Roosevelt, e il 13 maggio con Fabio Frabetti, conduttore di “Border Nights”. Dopo il recente convegno di Londra sul New Deal rooseveltiano di cui avrebbe bisogno l’Europa, i temi esposti da Magaldi – come risolvere la crisi italiana, affrontando finalmente l’oligarchia di Bruxelles – saranno alla base dell’assemblea che il 14 luglio, a Roma, darà vita al “Partito che serve all’Italia”, laboratorio politico che si candida a smascherare le ipocrisie e la mancanza di coraggio della politica italiana di fronte alle reali cause del malessere del paese).Povera patria, cantava Battiato, ai tempi in cui il radar stava per inquadrare lo sfacelo di Tangentopoli e i rottami delle auto di Falcone e Borsellino, mentre su RaiTre i vari Ghezzi e Guglielmi scavavano tra le macerie civili nella vana speranza di rintracciare qualcosa che potesse somigliare a un umanesimo post-comunista. Nel frattempo – lontano dagli occhi, e dal cuore – l’altra sinistra, quella di potere, si accingeva a svendere segretamente l’Italia, impiccandola al “vincolo esterno” di Maastricht che l’avrebbe ridotta a colonia minore, docile preda dell’asse franco-tedesco. Quasi trent’anni dopo, sostituiti gli attori, il copione ripropone la stessa canzone. Povera patria, e povero Salvini: ridotto a farsi applaudire da un antagonista da salotto come Diego Fusaro per la ridicola crociata contro la cannabis light, dopo aver lisciato il pelo, a Verona, ai cultori dell’archeologia familistica pre-moderna, reazionaria, ottusamente tradizionalista. «Non ne azzecca più una, il leader della Lega». E dove sarebbe la notizia? Perché mai dovrebbero interessarci, le avvisaglie di declino che sfiorano il Capitano? Semplice: perché è stato l’unico, in questi anni, a mettere a fuoco il problema del paese, il vero avversario. Ma il suo attuale smarrimento fotografa alla perfezione la fragilità del sistema-Italia di fronte all’ostacolo – sempre lo stesso – che condanna la penisola alla depressione sociale ed economica.
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Se i grillini capissero quale infamia è stata inflitta a Siri
Gli operatori politici devono tener conto essenzialmente dei loro interessi e della realtà. L’interesse dei capi grillini (le cui mosse in economia sono state molto dannose) è di portare la competizione con la Lega sul piano bella moralità politica e della giustizia per farsi più forti e più belli agli occhi del loro elettorato attuale e potenziale. La realtà di cui tener conto è che l’elettorato, soprattutto quello di riferimento del Movimento 5 Stelle, è sprovveduto ed emotivo, assetato di colpevoli cui imputare un malandare le cui cause vere non può capire. L’operazione ha fatto risalire il Movimento nei sondaggi, e scendere la Lega. Realisticamente, nell’interesse del suo partito, Siri forse si doveva dimettere subito, proprio per tenere conto dei limiti cognitivi ed emotivi della base popolare, la quale, vivendo mentalmente in un mondo immaginario, non vede le ragioni per cui Siri dovrebbe, al contrario, nell’interesse di tutti e della legalità costituzionale (sempre che non vi siano ragioni ulteriori in senso contrario rispetto a quelle rese note sinora) restare al suo posto.Le ragioni sono le seguenti. In primo luogo, Siri, ad oggi non è accusato ma solo indagato; il pubblico ministero non ha ancora esercitato l’azione penale, il giudice delle indagini preliminari non lo ha ancora rinviato a giudizio, e forse verrà addirittura disposta l’archiviazione della sua posizione. Nessun personaggio istituzionale è stato finora rimosso in una tale situazione. In secondo luogo, anche se fosse già imputato, dovrebbe applicarsi la presunzione di non colpevolezza, perché essa è un principio di civiltà giuridica irrinunciabile. In terzo luogo e in generale, il sistema giudiziario italiano non è affidabile perché è tra i meno efficienti al mondo, a livello dell’Africa nera. In quarto luogo, notoriamente il potere giudiziario è in parte politicizzato e non di rado viene strumentalizzato per la lotta partitica soprattutto nell’approssimarsi di elezioni.In quinto luogo, se si dà al pm (che talora agisce per scopi politici) il potere di causare le dimissioni degli eletti dal popolo, si sovverte il principio democratico, subordinandolo alle decisioni insindacabili di un soggetto che non è nemmeno responsabile delle sue azioni, oltre a non avere mandato elettorale. Ciò è peggio di qualsiasi cosa dal punto di vista costituzionale, è peggio persino dal lasciare in una carica istituzionale un personaggio che sia stato definitivamente condannato: è peggio perché è sovversivo del principio fondamentale della democrazia. Se l’elettorato grillino capisse questa cosa elementare, se capisse quindi il carattere illegale e la portata profondamente eversiva della rimozione di Siri, si rivolterebbe contro Giggino ed esigerebbe le dimissioni di Conte, che ha deciso e firmato quella rimozione, assumendosene la responsabilità politica.Quanto sopra vale per i processi in generale, mentre per il caso di Siri in particolare dobbiamo considerare i due procedimenti penali che lo interessano. Il primo è quello in cui ha patteggiato una pena per l’accusa di bancarotta fraudolenta. Il patteggiamento non è una valida ragione perché si dimetta. Infatti, in primo luogo, il patteggiamento non è un’ammissione o un accertamento di reato. In secondo luogo, il motivo per cui Siri ha patteggiato potrebbe essere che, di fatto, i processi per bancarotta fraudolenta in Italia spesso vengono gestiti in modo illegale, ossia ti accusano e ti condannano anche in assenza della prova che tu abbia commesso una distrazione patrimoniale o un qualsiasi altro fatto specifico. Oppure, nei casi in cui vi sono più amministratori della impresa fallita, succede che spesso vengono condannati tutti e senza andare a vedere chi abbia fatto che cosa, applicando una sorta di responsabilità oggettiva-collettiva, e spesso in assenza di prove delle responsabilità personali e dei fatti specifici, in totale violazione del principio di personalità della responsabilità penale, dell’onere della prova e della presunzione di non colpevolezza. Può darsi che Siri fosse innocente e abbia patteggiato per evitare di subire cose simili.L’altro procedimento penale che interessa Siri, quello ancora in fase di indagini preliminari e riguardante supposti rapporti con la criminalità organizzata, ancor meno dovrebbe essere considerato come necessitante le sue dimissioni. Infatti, in primo luogo, la mafia in Italia è stata portata dentro le istituzioni dagli americani durante l’invasione dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, come ricostruiscono numerosi studi storici, e da allora essa fa parte istituzionalmente dello Stato italiano: ci piaccia o no, lo Stato italiano è uno Stato-mafia (come altri). Anzi, da allora le varie mafie, camorre, ‘ndranghete hanno aumentato gradualmente il loro potere economico e politico, il loro controllo sul territorio e su buona parte dei collegi elettorali del Meridione, sì che governare senza un accordo con esse (a livello locale come a Roma) è impossibile; e la pretesa che i governi italiani combattano la criminalità organizzata – quella grande e non quella minore, quella che taglieggia i bottegai o spaccia per strada – è assurda oggettivamente anche se creduta popolarmente e vendibile alle masse elettorali.Ancor più importante: molti studi economici e sociologici evidenziano come, su scala mondiale, la criminalità organizzata è divenuta estremamente potente sul piano politico e addirittura possa soppiantare i governi, girando somme enormi riveniente da traffici illeciti (droga, armi, riciclaggi). Su questa enorme liquidità, che per il 60% circa si ricicla nelle banche statunitensi, si regge la stabilità di interi sistemi bancari del “mondo libero”. In conclusione, lo scandalizzarsi per (l’ipotesi di) contatti tra qualche personaggio politico o istituzionale e ambienti affaristici della criminalità organizzata, è pura ipocrisia o grave ingenuità. Peraltro, via via che si fanno istituzionali, le mafie, pur conservando il loro scopo di profitto e controllo politico, modificano i loro metodi e diventano per così dire civili. La mafia burocratica, la mafia ministeriale, la mafia legislativa, la mafia giudiziaria assomiglia ben poco alla mafia dagli stereotipi, alla mafia della coppola e della lupara; è una mafia in doppiopetto, felpata, che spende molto per legittimarsi e uccide moderatamente, che controlla i mass media, che modella l’opinione pubblica e la sua percezione del mondo, che in sostanza si è assimilata alla gestione normale del potere politico e al suo stile usuale (salvo mantenere modalità vetero-mafiose in campi come l’esazione fiscale nostrana).In fondo, l’organizzazione criminale di tipo mafioso altro non è che una forma molto efficiente, e pertanto vincente, di organizzazione e gestione di interesse e potere. Per questo si afferma e dilaga e soppianta altre istituzioni e controlla i cartelli delle materie prime, dell’informazione, e soprattutto del credito, della moneta, del rating. È una realtà pragmatica, che è errato inquadrare e giudicare limitativamente con categorie giuridiche, morali e emotive, per quanto essa possa essere ripugnante emotivamente e moralmente. Nella sua auto-narrazione, il sistema si professa come fondato su precisi principi: la trasparenza e sincerità, la conformità a etica e legge, la democraticità dell’azione politico-istituzionale. Ma questi principi sono solo la verniciatura della realtà, la quale funziona in modo completamente indipendente da essi. Essi hanno a che fare con la realtà solo nel senso che sbandierarli serve a nasconderla.La violazione delle regole legali e dei principi morali, assieme all’inganno, è funzionale e indispensabile per il profitto e per il potere. Però, nella narrazione per il popolo, il malandare delle cose e le ingiustizie non possono essere attribuiti a questa realtà, perché si disturberebbe il consenso, bensì a capri espiatori (gli ebrei, i comunisti, i fascisti, il nemico di classe, gli infedeli, etc.). Ogni sistema di potere completa la sua propria auto-narrazione aprendo, al proprio interno, uno spazio di dialettica consentita, onde ciascuno possa trovare il colpevole per lui più verosimile per le ingiustizie e per il malandare (il liberismo, il socialismo, l’Europa, gli euroscettici, etc.) e possa aderire a un partito che promette di risolvere i mali sconfiggendo quel colpevole. In questo modo, si produce e mantiene il consenso popolare, detto democrazia.(Marco Della Luna, “Il sacrificio democratico di Siri”, dal blog di Della Luna del 10 maggio 2019).Gli operatori politici devono tener conto essenzialmente dei loro interessi e della realtà. L’interesse dei capi grillini (le cui mosse in economia sono state molto dannose) è di portare la competizione con la Lega sul piano bella moralità politica e della giustizia per farsi più forti e più belli agli occhi del loro elettorato attuale e potenziale. La realtà di cui tener conto è che l’elettorato, soprattutto quello di riferimento del Movimento 5 Stelle, è sprovveduto ed emotivo, assetato di colpevoli cui imputare un malandare le cui cause vere non può capire. L’operazione ha fatto risalire il Movimento nei sondaggi, e scendere la Lega. Realisticamente, nell’interesse del suo partito, Siri forse si doveva dimettere subito, proprio per tenere conto dei limiti cognitivi ed emotivi della base popolare, la quale, vivendo mentalmente in un mondo immaginario, non vede le ragioni per cui Siri dovrebbe, al contrario, nell’interesse di tutti e della legalità costituzionale (sempre che non vi siano ragioni ulteriori in senso contrario rispetto a quelle rese note sinora) restare al suo posto.
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Torino, Auschwitz: vergognosa censura contro CasaPound
Osservavo in silenzio, con disgusto ormai antico, l’eterno ripetersi della Discriminazione Antifascista anche in quel carnevale del libro che è diventato il Salone di Torino. Liste di proscrizione, scomuniche, dimissioni, presìdi, mobilitazioni. Il solito repertorio che ormai conosciamo e vediamo ogni giorno. È una coazione a ripetere, gli antifascisti coatti sono forzati ai loro esorcismi, non possono farne a meno anche se sanno di sortire l’effetto opposto. Ho cercato di superare la nausea per studiare con distacco la loro pantomima e per cogliere la molla che scatta in questi casi: cos’è, da dove nasce, a che scopo, per poi manifestarsi col solito rituale. E ho scoperto che al fondo agisce una legge logico-matematica con un inquietante risvolto medico-sanitario: alla base di tutto c’è l’applicazione della proprietà transitiva. Seguitemi nel ragionamento, vi propongo lo schema generale. Se sei ritenuto a torto o ragione di destra, sei inevitabilmente colluso con la destra estrema, altrimenti ti dissoceresti in modo netto e vistoso. E se sei colluso o perlomeno contiguo all’estrema destra, sei in odore di fascismo, altrimenti ti dichiareresti antifascista; ma se sei in odore di fascismo, sei automaticamente in odore di nazismo e di razzismo. Ergo, sei il terminale di una filiera che parte da casa tua e arriva diritto ad Auschwitz.È quel che è accaduto a Torino: per la proprietà transitiva sono partiti dall’editore vicino a Casa Pound per censurare a cascata editori e autori di destra. Con me si sono evitati il problema in partenza: sono escluso da anni, sono fuori salone. Se gli inviti ricevuti ti allietano, gli inviti negati ti onorano. Comunque, ammetto, non ne soffro la mancanza. In realtà l’obbiettivo finale è oggi Salvini, il Gatto Mammone di turno. Immaginate cosa accadrebbe se la proprietà transitiva si applicasse anche a sinistra? Arriveremmo dalle Br e i gulag a Zingaretti e “La Repubblica”. Follia. E si caccerebbe, per citarne solo uno, un grande storico come Luciano Canfora perché è comunista. Discriminazione che nessuno a destra ha mai auspicato. La stessa progressione si pratica verso chi ritiene che si debbano frenare i flussi migratori, verso chi simpatizza per Salvini o si definisce patriota, conservatore e via dicendo. Dallo stop ai migranti al campo di sterminio c’è un filo conduttore, anzi un filo spinato, come hanno mostrato i propagandisti dell’Eterno Nazismo, utilizzando una foto di Salvini con Orban sui confini. La proprietà transitiva qui è condita con la frase: così cominciò Hitler. E allora se Hitler cominciò la sua rivoluzione in birreria mettiamo fuori legge tutte le birrerie?La proprietà transitiva applicata al tempo si chiama “sequenza fatale”; si comincia così, da un filo spinato, e poi si sa dove si va a finire. E io che continuavo a identificare il filo spinato con la cortina di ferro dei regimi comunisti, da cui non si poteva uscire… La proprietà transitiva regala sorprese; per esempio se sei di destra, per i vasi comunicanti suddetti, ti trovi complice di due sciagurati ragazzi di CasaPound che hanno violentato una ragazza. T’illumini d’infamia per la proprietà transitiva: se l’editore Altaforte, vicino a Casa Pound, pubblica un libro-intervista con Salvini, allora Salvini è dalla parte del nazifascismo, del terrorismo e dei due violentatori. La stessa proprietà transitiva vale in senso verticale come ereditarietà: tu puoi essere alla quarta generazione, ma se ti chiami Mussolini – per la proprietà transitiva che risale dal figlio al padre, al nonno e al bisnonno – non puoi candidarti, sei contaminato, di stirpe maledetta; sei criminale nel sangue. L’ereditarietà della pena è l’applicazione biologico-giuridica della proprietà transitiva. Indipendentemente da quello che sei e che hai fatto in vita tua, in quanto pronipote di Mussolini, sei colpevole per ragioni di sangue, di nome e dna: ma questo non è razzismo allo stato “puro”?Come si può capire, la proprietà transitiva sottintende un criterio medico-sanitario: se A è vicino a B e B è vicino a C che a sua volta è vicino a D, allora A ha contaminato D. È una catena di infetti. E’ necessario isolare A, B, C, D e tutti coloro che sono vicini a loro o solo d’accordo; è necessario metterli in quarantena, espellerli, escluderli. Sono intoccabili nel senso dei paria indiani, la casta infame da tenere separata per non contaminarsi. Dunque è necessario allestire un cordone sanitario per isolare gli infetti e i loro stand e al contempo esercitare a scopo di profilassi una discriminazione razziale a cascata. Un effetto perverso di questa proprietà, già sperimentato con successo da diversi decenni, è istigare a spezzare la catena per immunizzarsi: è così accaduto che i moderati, i liberali, i democristiani, spaventati dall’accusa di collusione e contagio, siano stati costretti a erigere muri verso la destra.E questa chiusura ha beneficiato i loro avversari: infatti era possibile il centro-sinistra ma non il centro-destra, l’agibilità del centro poteva allargarsi a sinistra fino alla sinistra estrema e ai comunisti, ma non poteva allearsi con la destra, perché – in virtù della proprietà transitiva – ti allei di fatto con l’estrema destra, razzista e xenofoba e quindi coi nazifascisti. Berlusconi, va detto, spezzò questa catena e questo interdetto, così il centro-destra diventò maggioranza e andò al governo. Ma Hitler non andò al potere… L’effetto più curioso che produce la proprietà transitiva, con la relativa sequenza fatale, è l’applicazione dell’effetto farfalla: come il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano in un’altra parte del mondo, così un saluto romano a Canicattì può provocare un uragano su Salvini e paraggi. La fisica al servizio del delirio partigiano produce queste assurde scemenze.(Marcello Veneziani, “Censurati per proprietà transitiva”, da “La Verità” del 9 maggio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Osservavo in silenzio, con disgusto ormai antico, l’eterno ripetersi della Discriminazione Antifascista anche in quel carnevale del libro che è diventato il Salone di Torino. Liste di proscrizione, scomuniche, dimissioni, presìdi, mobilitazioni. Il solito repertorio che ormai conosciamo e vediamo ogni giorno. È una coazione a ripetere, gli antifascisti coatti sono forzati ai loro esorcismi, non possono farne a meno anche se sanno di sortire l’effetto opposto. Ho cercato di superare la nausea per studiare con distacco la loro pantomima e per cogliere la molla che scatta in questi casi: cos’è, da dove nasce, a che scopo, per poi manifestarsi col solito rituale. E ho scoperto che al fondo agisce una legge logico-matematica con un inquietante risvolto medico-sanitario: alla base di tutto c’è l’applicazione della proprietà transitiva. Seguitemi nel ragionamento, vi propongo lo schema generale. Se sei ritenuto a torto o ragione di destra, sei inevitabilmente colluso con la destra estrema, altrimenti ti dissoceresti in modo netto e vistoso. E se sei colluso o perlomeno contiguo all’estrema destra, sei in odore di fascismo, altrimenti ti dichiareresti antifascista; ma se sei in odore di fascismo, sei automaticamente in odore di nazismo e di razzismo. Ergo, sei il terminale di una filiera che parte da casa tua e arriva diritto ad Auschwitz.
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Tra CasaPound e NoTav, a Torino il Salone dell’Ipocrisia
Centomila persone alla camera ardente dell’Avvocato, ma solo duemila al funerale di Primo Levi. Due lutti che in qualche modo fotografano Torino: folla oceanica per il patron della Fiat e dalla Juventus, di cui ora si scoprono i miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano. Molto più intime, invece, le esequie dell’autore di “Se questo è un uomo”, massimo capolavoro della memorialistica mondiale sulla Shoah. Unico paese in cui il libro non fu tradotto, per decenni: Israele. Motivo tutto politico: Primo Levi non tollerava gli abusi del sionismo contro i palestinesi. Il regime di Tel Aviv fu costretto a “sdoganarlo” solo dopo la spettacolare operazione di Philip Roth, che finalmente presentò il chimico-scrittore al pubblico statunitense negli anni ‘80, tributandogli gli onori di un eroe civile e di una grande firma della letteratura internazionale. Ebrei e antifascismo? Torino non smentisce la sua ambivalenza: scatena l’inferno per mettere al bando CasaPound dal Salone del Libro, ma tace sul brutale pestaggio inflitto, pochi giorni prima, ai NoTav che sfilavano pacificamente per le strade del centro, al corteo del Primo Maggio.La città che esibisce la sua ostilità militante verso l’apologia del fascismo (nostalgia ostentata da Francesco Polacchi, presidente della casa editrice Altaforte), poi non riesce a tollerare il popolo della vicina valle di Susa, che resiste da vent’anni contro un progetto-monstre dalla comprovata inutilità, imposto al territorio da tutte le forze politiche (tranne una, i 5 Stelle) ridotte a cinghie di trasmissione del potere neoliberista europeo che lucra in modo imperiale e feudale sulle grandi opere, impedendo alla politica di far emergere la voce dei cittadini. Tecnicamente: sospensione della democrazia. Destra o sinistra, è uguale: sul Tav Torino-Lione, Giorgia Meloni e Matteo Salvini (e pure CasaPound) la pensano come il Pd. Che i centomila valsusini siano contrari all’opera, a loro non importa. In questi anni, con l’aiuto dei migliori tecnici universitari, i NoTav hanno demolito sistematicamente qualsiasi ragione a supporto dell’infrastruttura, ma invano. L’Italia ha un bisogno disperato di infrastrutture utili, eppure Torino preferisce svenare il bilancio nazionale per una ferrovia desolatamente inutile. E tace, la città, se la polizia carica i manifestanti al corteo del Primo Maggio, colpevoli di sventolare bandiere NoTav.Perché il Pd torinese aveva tanta paura dei valsusini, nel giorno della festa del lavoro? Ovvio: avrebbero contestato i sindacati-fantasma che – Cgil in testa – il lavoro se lo sono lasciato sfilare di mano a colpi di controriforme neoliberali convalidate dai funesti governi di centrosinistra. Precarizzazione, flessibilità, delocalizzazioni, cancellazione dei diritti sociali. Arresasi su ogni fronte, la Cgil però tiene duro sul Tav, un feticcio ridicolo – poche centinaia di addetti, a tempo determinato – per il quale però Sergio Chiamparino s’è inventato le “madamine”, pronte a scendere dalle residenze in collina (zona Agnelli) per invocare il ritorno dell’occupazione (e soprattutto seppellire mediaticamente gli insopportabili NoTav). Così piovono manganellate sugli inermi, che il Primo Maggio avrebbero contestato l’ignavia dei sindacati italiani di fronte allo sfacelo del paese, culminato con la strage sociale messa in atto dai tecnocrati di Monti, coadiuvati dalla torinese Fornero, fino al pareggio di bilancio inserito nella Costituzione anche con i voti delle anime morte del Pd guidate da Bersani.A salvare la situazione – ripulendo le cattive coscienze – ora ci pensano i brutti e cattivi di CasaPound: che fortuna, per molti torinesi, potersela vedere con loro, rispolverando (piuttosto abusivamente) l’identità antifascista della città di Gobetti, la capitale operaia dove Gramsci e Togliatti studiavano da rivoluzionari nel biennio rosso, quasi cent’anni prima che gli stessi torinesi applaudissero Marchionne, il manager venuto dalla finanza per smontare la Fiat per portarla lontano da Torino. Sfila l’orgoglio antifascista, al Salone dell’Ipocrisia, tra i cerotti e i lividi dei manifestanti ai quali, il Primo Maggio, è stato fisicamente impedito di presenziare in piazza, sotto il palco dei sindacalisti che hanno svenduto i diritti del lavoro e puntellato la guerra sociale dell’élite contro il popolo lavoratore. Il primo a denunciarlo fu l’ennesimo grande torinese, il sociologo Luciano Gallino, anch’esso scomparso senza che la sua città se ne accorgesse.Centomila persone alla camera ardente dell’Avvocato, ma solo duemila al funerale di Primo Levi. Due lutti che in qualche modo fotografano Torino: folla oceanica per il patron della Fiat e dalla Juventus, di cui ora si scoprono i miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano. Molto più intime, invece, le esequie dell’autore di “Se questo è un uomo”, massimo capolavoro della memorialistica mondiale sulla Shoah. Unico paese in cui il libro non fu proposto nelle scuole, per decenni: Israele. Motivo tutto politico: Primo Levi non tollerava gli abusi del sionismo contro i palestinesi. Il regime di Tel Aviv fu costretto a “sdoganarlo” solo dopo la spettacolare operazione di Philip Roth, che finalmente presentò il chimico-scrittore al pubblico statunitense negli anni ‘80, tributandogli gli onori di un eroe civile e di una grande firma della letteratura internazionale. Ebrei e antifascismo? Torino non smentisce la sua ambivalenza: scatena l’inferno per mettere al bando CasaPound dal Salone del Libro, ma tace sul brutale pestaggio inflitto, pochi giorni prima, ai NoTav che sfilavano pacificamente per le strade del centro, al corteo del Primo Maggio.
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Magaldi: il coraggio di una vera rivoluzione per il XXI secolo
Da Berlusconi in avanti, passando per Monti e soprattutto per Renzi, sono tutti piuttosto bravini a raccogliere il consenso, ma poi non sanno che farne: per impiegarlo in modo utile, e soprattutto mantenerlo, bisognerebbe operare con coraggio in direzioni precise – e questo non accade. Se oggi si può avere coraggio senza rischiare la vita, come invece Olof Palme e Thomas Sankara, è perché si è seduti sulle spalle di questi giganti: loro sono stati assassinati, ma le loro idee sono qui, pronte per essere usate. Un governo italiano che avesse davvero coraggio e determinazione dovrebbe dire, agli altri paesi e alle istituzioni Ue: in democrazia si parte da una Costituzione e da politiche unitarie, e questo oggi in Europa non c’è. Quindi: o avviamo una fase costituente di questo tipo, tenendo conto del fatto che il modello dell’austerità neoliberista ha fallito miseramente, oppure – se i partner non ci stanno – l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei e inizia a organizzare in modo diverso la propria società, auspicando in tutte le sedi possibili un processo costituzionale e federativo. Non è molto difficile né da dire né da spiegare alla pubblica opinione. Per farlo, però, bisogna appunto avere quel coraggio che hanno avuto personaggi come Rosselli, Palme e Sankara.Coraggio che manca ai nostri politicanti di oggi, tutti preoccupati di abbaiare e di litigare per avere qualche percentuale irrisoria in più alle elezioni europee. Ma poi – una volta al potere – si limitano a vegetare, facendo i propri affari, dimenticandosi di quello che avevano promesso per raccogliere il consenso elettorale. Palme e Sankara sono stati assassinati quando il neoliberismo non voleva ostacoli davanti a sé, nemmeno ideologici, e men che meno da parte di statisti influenti e capaci di bloccare quello che doveva accadere all’inizio degli anni ‘90. Oggi, soffiare sul fuoco della violenza per fermare una rivoluzione anti-neoliberista non appare più una soluzione percorribile, per tante ragioni. C’è ormai una platea di cittadini, in Italia e nel mondo, che vedono ormai con chiarezza quello che non funziona. Tutti i politici che parlano di cambiamento, e poi si dimostrano essere dei bluff, ci mettono poco a essere sbugiardati dal corpo elettorale.Paolo Becchi, già ideologo dei 5 Stelle, oggi – con il libro “Italia sovrana” – si presenta come ideologo di un nuovo sovranismo, interessante nella sua declinazione intellettuale: la contrapposizione tra globalismo e sovranismo. Ma una volta scelto il sistema, globale o nazionale, poi tutto cambia se viene gestito con presupposti neoliberisti o keynesiani, post-democratici o democratici, liberal-conservatori o social-liberali. Di quale ideologia e cultura politica vogliamo nutrire il nostro futuro, nel XXI secolo? Quella dell’inganno neoliberista, secondo cui socialismo e liberalismo sono antitetici, e quella dell’inganno neoaristocratico, secondo cui basta servire su un piatto ai cittadini la ritualità della democrazia, dimenticando la sostanza? Oppure vogliamo richiedere un’idea equilibrata di gestione delle nostre società, nella quale il libero mercato e lo stesso capitalismo non siano demonizzati, ma trovino una complementarità nelle istanze sociali, cioè in un socialismo che è fatto di integrazioni, contrappesi e di una ritrovata autorevolezza di ciò che è pubblico?Pubblico e privato non sono antitetici. La narrazione neoliberista è stata all’insegna della svalutazione di ciò che è pubblico e statuale, della lentezza dei processi democratici rispetto all’esigenza di trattare la cosa pubblica come un’azienda che produce efficienza e profitti. Il mondo della libera impresa, che è storicamente collegato all’affermarsi delle democrazie, è un mondo diverso da quello della sfera pubblica, dove il core business non è la produttività in senso economicistico, bensì quella rete di servizi sociali, civili e materiali, infrastrutturali, che consente lo sviluppo di una vita felice, equilibrata. Le istituzioni pubbliche sono adatte a offrire un’uguaglianza delle opportunità, distinguendosi così dalle (giuste) leggi competitive del libero mercato. Le istituzioni pubbliche parlano di cooperazione, non di competitività.Il Movimento Roosevelt intende offrire un orizzonte ideologico nuovo, da abitare, per i cittadini del XXI secolo. Serve una rivoluzione culturale, perché non basta una semplice riforma dell’esistente. C’è bisogno di affrontare, pacificamente ma in modo deciso e forte, tutta una serie di poteri che non gradiscono questa conversione verso la democrazia sostanziale. La globalizzazione in atto è un processo che offre, piano piano, una disabitudine alla democrazia. E le contrapposizioni violente – su scala locale e internazionale – servono proprio a impedire un approccio di pace e armonia sociale. Quelli come noi vogliono costruire un orizzonte di eliminazione del conflitto sociale, attraverso una compesazione per le diseguaglianze prodotte dal mercato: va bene la disparità generata dal merito individuale, ma in cambio bisogna offrire a tutti i cittadini del globo gli elementi di base che consentono di avere un progetto di vita dignitoso. E’ una cosa che sembra semplice, ma in realtà oggi è rivoluzionaria. Esiste una nuova ideologia, il socialismo liberale, declinabile anche da angolazioni politiche diverse. E l’Italia può fare con orgoglio quello che ha già fatto nei secoli passati: offrire per prima una pietanza politico-culturale e ideologica agli altri popoli, agli altri paesi.Dall’Italia sono sempre partite le primizie – buone e cattive – che poi hanno influenzato il resto del mondo: la civiltà giuridica promana da Roma, l’universalismo giuridico viene dall’Italia romanizzata. E non dimentichiamo la lezione del Rinascimento, una sorta di manifesto ideologico-culturale che diventò poi storia concreta, trasformando le istituzioni e il modo stesso di concepire la realtà. Quel grande italiano che fu Giovanni Pico della Mirandola, con la “Oratio de hominis dignitate” costruì una nuova antropologia: l’antropologia dell’uomo artista, mago e scienziato, che non si limita a chinare il capo come creatura peccaminosa, bisognosa di redenzione, che quindi non ardisce conoscere e mettersi in rapporto dialettico con la natura. Da lì nasce l’idea dell’uomo che può trasformare le cose – la società, la natura stessa. Poi c’è il Risorgimento: i nostri eroi risorgimentali erano presi a modello in tutto il mondo, da popoli che anelavano all’autodeterminazione.C’è stato anche il fascismo, naturalmente: altra primizia italiana. Una dottrina post-democratica e di fatto neoaristocratica, tuttavia affascinante per i tanti che si lasciarono influenzare da quella che – per me, che sono fieramente democratico – non è che una perversione. Siamo orogliosi di essere italiani, senza che questo ci spinga a pensare che abbia davvero un futuro la contrapposizione tra sovranismo e globalismo. Sto molto apprezzando il libro di Paolo Becchi, “Italia sovrana”, e il senso in cui lui parla di sovranismo. Però credo che la sfida vera sia quella di “glocalizzare” la democrazia, uscendo da questo film che contrappone i nazionalismi alle oligarchie globali, come se globalizzare i rapporti fosse per ciò stesso sinonimo di diminuzione della democrazia. Io credo piuttosto che si possano globalizzare anche i diritti universali. Ma come fare, se non si ha una visione globale di questi diritti, e se ciascuno si preoccupa soltanto di recuperare la sovranità del proprio Stato e del proprio popolo?Alla fine, questo è un nazionalismo non aggressivo, teso a sottrarre alle oligarchie apolidi il controllo della moneta, dell’economia, della società e delle istituzioni. Ma come possiamo però immaginare un XXI secolo in cui non ci curiamo di tanti territori, dove le popolazioni non sono mai nemmeno passate per processi democratici?In fondo, anche il processo risorgimentale italiano metteva insieme più Stati e staterelli coi propri usi, tradizioni, dialetti e lingue. Eppure c’era un sentimento di italianità che univa tutti. Ma la lingua italiana era quasi artificiale, creata per unire popoli che parlavano lingue diverse, e si è affermata definitivamente solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, grazie alla Rai. Il Movimento Roosevelt è convinto che l’Italia possa insegnare molto a molti, e che l’orgoglio patriottico (non nazionalistico) del nostro paese possa essere un fattore coesivo, per una proposta politico-culturale convincente.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella video-chat su YouTube del 6 maggio 2019. Presidente del Movimento Roosevelt, Magaldi ripercorre le tappe di quella che chiama “rivoluzione rooseveltiana”: dopo il convegno a Londra il 30 marzo sul New Deal keynesiano di cui avrebbe bisogno l’Europa, è seguita l’assise milanese del 3 maggio sul socialismo liberale, in omaggio a Rosselli, Palme e Sankara. Il 14 luglio, a Roma, lo stesso Magaldi sarà tra i promotori del “Partito che serve all’Italia”, cantiere politico per offrire un’alternativa agli elettori, superando le timidezze del governo gialloverde, incapace di opporsi al paradigma neoliberista del rigore Ue).Da Berlusconi in avanti, passando per Monti e soprattutto per Renzi, sono tutti piuttosto bravini a raccogliere il consenso, ma poi non sanno che farne: per impiegarlo in modo utile, e soprattutto mantenerlo, bisognerebbe operare con coraggio in direzioni precise – e questo non accade. Se oggi si può avere coraggio senza rischiare la vita, come invece Olof Palme e Thomas Sankara, è perché si è seduti sulle spalle di questi giganti: loro sono stati assassinati, ma le loro idee sono qui, pronte per essere usate. Un governo italiano che avesse davvero coraggio e determinazione dovrebbe dire, agli altri paesi e alle istituzioni Ue: in democrazia si parte da una Costituzione e da politiche unitarie, e questo oggi in Europa non c’è. Quindi: o avviamo una fase costituente di questo tipo, tenendo conto del fatto che il modello dell’austerità neoliberista ha fallito miseramente, oppure – se i partner non ci stanno – l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei e inizia a organizzare in modo diverso la propria società, auspicando in tutte le sedi possibili un processo costituzionale e federativo. Non è molto difficile né da dire né da spiegare alla pubblica opinione. Per farlo, però, bisogna appunto avere quel coraggio che hanno avuto personaggi come Rosselli, Palme e Sankara.
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Cosa ci manca per essere come Rosselli, Palme e Sankara
Quando parliamo di costruire il futuro, spesso facciamo uso di sogni e visioni. Oggi, qui, invece, possiamo partire dalla realtà, che non di rado è meno piacevole. La realtà ci dice che Thomas Sankara è morto giovane e non è diventato il padre nobile di un’Africa democratica, più consapevole ed economicamente evoluta, che infatti ancora non c’è. La realtà ci dice che Carlo Rosselli non è sopravvissuto al fascismo e non ha potuto contribuire direttamente a rendere l’Italia e l’Europa postbelliche più libere e felici. E la realtà dice anche che Olof Palme non è diventato segretario generale delle Nazioni Unite. Sono stati assassinati e, soprattutto, nessuno ha potuto, o saputo, prendere il loro posto. Eppure sono stati degli esempi, per noi. Prendiamo Sankara: ha realizzato un piano tutto interno al Burkina Faso, coinvolgendo per quattro anni sette milioni di africani abbandonati a sé stessi e alla propria povertà. Ha fatto costruire scuole, ospedali, pozzi, dighe, strade, campi sportivi. Ha promosso la piantumazione del Sahel, e lo sviluppo agricolo e dell’allevamento. Ha esteso le cure sanitarie a tutti, consentito un aumento della vita media e favorito la prevenzione dell’Aids. Ha reso possibile l’istruzione diffusa e ha consentito a tutti di dire il proprio pensiero alla radio nazionale, senza filtri e senza mediazioni.Ha impegnato l’esercito in opere civili, e convertito parte dei fondi militari destinandoli a progetti di sviluppo. Ha liberato la donna dal giogo culturale maschile e proibito le mutilazioni genitali femminili, valorizzando quindi gli aspetti culturali costruttivi del suo paese e intervenendo su quelli deteriori. Ha chiesto di cancellare il debito estero di origine coloniale. Un presidente non ancora quarantenne ha realizzato tutto ciò in quattro anni. L’emozione che sentiamo di fronte alle azioni di Sankara è un pugno nello stomaco per la nostra coscienza, perché ci fa vedere quanto e quanto in fretta è possibile cambiare. Palme ha proposto un mondo senza dittature, che controlla le armi nucleari, cancella l’apartheid, distribuisce la ricchezza e rende i lavoratori piccoli azionisti delle aziende per le quali prestano la propria opera. Rosselli ha insegnato a coinvolgere tutti, nelle decisioni che riguardano tutti, al fine di raggiungere il benessere per tutti: liberalismo come metodo, socialismo come fine.Potremmo forse considerare questi tre leader degli idealisti o, peggio, degli ingenui. Ingenuo sarebbe colui che guarda solo i propri ideali, incapace di comprendere il mondo per quello che è. Si dice che in politica il contrario dell’ingenuità sia invece il realismo, cioè la capacità di guardare la dura realtà e governare le masse di conseguenza, senza illusioni, per raggiungere quello che si può. Eppure, Sankara per conoscere il suo paese girava le città e le campagne anche in bicicletta, pagava il mutuo e quando morì c’erano pochissimi soldi sul suo conto corrente; aveva ben presenti i suoi nemici e sapeva quale pericolo rappresentavano per lui; Palme si oppose alla guerra in Vietnam (che gli Usa persero, e tale sconfitta dimostrò quanto fossero falsi i motivi per i quali era stata combattuta); Rosselli previde che l’esito della parabola nazifascista sarebbe stato una guerra fratricida. Che cosa accomuna questi tre leader? Tutti hanno usato in modo costruttivo le risorse materiali e mentali a disposizione, per raggiungere obiettivi di valore. Usare la cooperazione al posto della competizione, che ha nella guerra la sua fine più stupida e ingloriosa, non è certo mancanza di realismo politico.Il vero realismo politico è conoscere la miseria della nostra razza e, con i propri principi spirituali, trovare soluzioni per modificarla (la miseria, non la razza). Se siamo dunque qui a parlare di Rosselli, Palme e Sankara come dei “nostri esempi” è perché abbiamo perso quegli stessi esempi per strada considerandoli inconsciamente “idealistici”, e abbiamo dormito il sonno della ragione e della coscienza: tutti noi, sia le masse dei governati sia le élite dei cosiddetti leader, progressisti compresi. Il problema è proprio che Palme, Rosselli e Sankara sono ancora i nostri fari (fuori di noi) e non parte del nostro Dna (dentro di noi). È questo il paradosso della leadership: dichiariamo di seguirla ma non l’abbiamo interiorizzata. Guardiamo i nostri capi attuali. Non soltanto i soliti Kim, Putin, Trump, Erdogan, Orban, Bolsonaro, Maduro, Macron, Merkel, May e così via. Mi riferisco anche alle alte cariche dello Stato in Italia, nazionali e locali, rappresentanti della Costituzione che loro dovrebbero difendere. Quando siamo chiamati a un referendum si dimenticano di ricordare che, proprio secondo la Costituzione, l’esercizio del voto è dovere civico (guadagnato per noi da milioni di soldati e civili morti nell’ultimo conflitto mondiale).E noi non pensiamo che, se anche i politici “tradiscono le decisioni referendarie”, in Parlamento noi possiamo votare ancora (e ancora, e ancora) per ribaltare quei tradimenti, informandoci e dedicando mezz’ora del nostro tempo per mettere una croce sulla scheda. Gli stessi politici naturalmente non ricordano ai giornalisti il loro dovere di informare i cittadini prima del voto perché possano conoscere per deliberare. Tutti tacciono e, quando i parlamentari alterano l’esito referendario, la volta dopo noi ce ne stiamo a casa “per protestare”, come bambini incapricciati. È normale che, appena prima del referendum sulla Brexit, il “Sun” titolasse dando ancora indicazioni su come votare? Una decisione così importante avrebbe dovuto essere stata presa dai lettori di quel tabloid settimane prima del voto: un voto che non può essere cambiato dopo cinque anni, come nelle elezioni generali, ma che avrà impatto per decenni sulla vita del Regno Unito. Come è possibile che gli elettori abbiano deciso sulla base di un titolo di giornale?I nostri politici non hanno più, o non hanno mai avuto, la spiritualità di Sankara, Rosselli e Palme. E noi non abbiamo quel livello di spiritualità che, se fosse presente, ci farebbe rendere conto che avere capi politici come i nostri non è normale. Diceva Oscar Wilde che il coraggio è sparito dalla nostra razza o forse non lo abbiamo mai avuto veramente… perché, aggiungeva, ci facciamo governare dal terrore della società (che è la base della morale) e dal terrore di Dio (che è la base della religione). In un mondo governato dai principi spirituali, un presidente come Sankara sarebbe considerato un buon amministratore della cosa pubblica, e non un rivoluzionario; un politico normale, che con il cuore e la ragione dei buoni padri di famiglia favorisce la felicità di quelli che dipendono da lui. I politici diversi sarebbero visti come anomalie geneticamente modificate, involucri privi della coscienza, cioè della capacità di distinguere ciò che crea sofferenza da ciò che produce benessere. Il modello di leadership delle nostre società è invece quello del capobranco con il suo gregge, modello che produce povertà e dolore e che nessun essere spirituale accetterebbe mai come “normale”.Molti nostri predecessori sono morti sperando che noi avremmo raccolto la loro eredità di cambiamento. Finora non lo abbiamo fatto a sufficienza. Ma le crisi della coscienza sono salutari perché la risvegliano. Che cosa possiamo fare noi oggi di diverso? Quando ci troviamo di fronte a un problema, una crisi, un conflitto, qualcosa che non ci piace, possiamo guardarci dentro e interpellare la nostra scala dei valori, e se riusciamo anche la nostra scintilla divina; poi possiamo ripensare alla scintilla divina che ha animato persone come Palme, Rosselli e Sankara, collegarci ad essa e chiederci: “Ma io, lasciando perdere tutte le distorsioni che mi hanno raccontato sul realismo politico, che cosa farei in questa situazione seguendo i miei principi?”. E poi, possiamo agire di conseguenza. Se lo facessimo, a quel punto ci accorgeremmo che, come non siamo rivoluzionari noi, non lo erano nemmeno Rosselli, Palme e Sankara. Erano uomini con la U maiuscola e la schiena dritta, che hanno fatto semplicemente ciò che andava, ragionevolmente, fatto.(Zvetan Lilov, “Rosselli, Palme, Sankara e noi: il paradosso della leadership”, intervento al convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli, Thomas Sankara e contro la crisi globale della democrazia” organizzato dal Movimento Roosevelt il 3 maggio 2019 a Milano).Quando parliamo di costruire il futuro, spesso facciamo uso di sogni e visioni. Oggi, qui, invece, possiamo partire dalla realtà, che non di rado è meno piacevole. La realtà ci dice che Thomas Sankara è morto giovane e non è diventato il padre nobile di un’Africa democratica, più consapevole ed economicamente evoluta, che infatti ancora non c’è. La realtà ci dice che Carlo Rosselli non è sopravvissuto al fascismo e non ha potuto contribuire direttamente a rendere l’Italia e l’Europa postbelliche più libere e felici. E la realtà dice anche che Olof Palme non è diventato segretario generale delle Nazioni Unite. Sono stati assassinati e, soprattutto, nessuno ha potuto, o saputo, prendere il loro posto. Eppure sono stati degli esempi, per noi. Prendiamo Sankara: ha realizzato un piano tutto interno al Burkina Faso, coinvolgendo per quattro anni sette milioni di africani abbandonati a sé stessi e alla propria povertà. Ha fatto costruire scuole, ospedali, pozzi, dighe, strade, campi sportivi. Ha promosso la piantumazione del Sahel, e lo sviluppo agricolo e dell’allevamento. Ha esteso le cure sanitarie a tutti, consentito un aumento della vita media e favorito la prevenzione dell’Aids. Ha reso possibile l’istruzione diffusa e ha consentito a tutti di dire il proprio pensiero alla radio nazionale, senza filtri e senza mediazioni.
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Guai a chi parla: l’arresto di Assange minaccia i giornalisti
L’immagine di Julian Assange trascinato fuori dall’ambasciata ecuadoriana a Londra è un emblema dei tempi. Il potere contro il diritto. La forza contro la legge. L’indecenza contro il coraggio. Sei poliziotti hanno malmenato un giornalista malato, con gli occhi che si contraevano alla prima luce naturale dopo quasi sette anni. Che questo oltraggio si sia verificato nel cuore di Londra, nella terra della Magna Carta, dovrebbe far vergognare e arrabbiare tutti quelli che temono per la “democrazia”. Assange è un rifugiato politico protetto dal diritto internazionale, che gode del diritto di asilo secondo una precisa convenzione di cui la Gran Bretagna è firmataria. Le Nazioni Unite lo hanno chiarito nella sentenza del loro Working Group sulla detenzione arbitraria. Ma al diavolo. Che i criminali vadano avanti. Diretta dai semi-fascisti della Washington di Trump, in combutta con l’ecuadoriano Lenin Moreno, un ebreo latinoamericano bugiardo che cerca di nascondere il suo regime marcio, l’élite britannica ha abbandonato il suo ultimo mito imperiale: quello dell’equità e della giustizia. Immaginate Tony Blair trascinato fuori dalla sua casa da diversi milioni di sterline in Connaught Square, a Londra, in manette, pronto per la spedizione all’Aia. Secondo le regole di Norimberga, il “massimo crimine” di Blair è la morte di un milione di iracheni. Il crimine di Assange è il giornalismo: chiamare in causa i responsabili, esporre le loro bugie ed emancipare il popolo in tutto il mondo attraverso la verità.L’arresto scioccante di Assange porta con sé un avvertimento per tutti coloro che, come scrisse Oscar Wilde, «seminano il seme del malcontento [senza il quale] non ci sarebbe alcun progresso verso la civiltà». L’avvertimento è esplicito nei confronti dei giornalisti. Quello che è successo al fondatore ed editore di WikiLeaks può capitare a voi su un giornale, in uno studio televisivo, alla radio, quando fate un podcast. Il principale persecutore mediatico di Assange, il “Guardian”, un collaboratore dello Stato segreto, questa settimana ha dimostrato il suo nervosismo con un editoriale che ha raggiunto vette finora inviolate di subdola astuzia. Il “Guardian” ha sfruttato il lavoro di Assange e WikiLeaks in quello che il suo precedente direttore chiamava «il più grande scoop degli ultimi 30 anni». Il giornale ha decantato le rivelazioni di WikiLeaks e ha rivendicato i riconoscimenti e le ricchezze che gliene sono derivate. Senza che un solo penny sia andato a Julian Assange o a WikiLeaks, un libro pubblicato dal “Guardian” ha portato poi a un fruttoso film di Hollywood. Gli autori del libro, Luke Harding e David Leigh, hanno abusato della loro fonte rivelando la password segreta che Assange aveva dato in confidenza al giornale, il quale avrebbe dovuto proteggere un file digitale contenente documenti trapelati dell’ambasciata Usa.Mentre Assange era intrappolato nell’ambasciata ecuadoriana, Harding ha raggiunto la polizia che stava là fuori e ha gongolato sul suo blog, dicendo che «Scotland Yard potrebbe essere quello che ride per ultimo». Da allora il “Guardian” ha pubblicato una serie di falsità su Assange, non ultimo una dichiarazione poi smentita che un gruppo di russi e l’uomo di Trump, Paul Manafort, avevano fatto visita ad Assange nell’ambasciata. Gli incontri non sono mai avvenuti; era falso. Il tono ora è cambiato. «Il caso Assange è una intricata questione morale», commenta il giornale. «Lui (Assange) crede nella pubblicazione di cose che non si dovrebbero pubblicare… Ma ha sempre gettato luce su cose che non avrebbero mai dovuto essere nascoste». Queste “cose” sono la verità sul sistema omicida con cui l’America conduce le sue guerre coloniali, le menzogne del Foreign Office britannico sulla privazione dei diritti delle persone vulnerabili, come gli Chagos Islanders, l’esposizione di Hillary Clinton come sostenitrice e beneficiaria dello jihadismo in Medio Oriente, la descrizione dettagliata da parte degli ambasciatori americani su come riuscire a rovesciare i governi in Siria e in Venezuela, e molto altro ancora. È tutto disponibile sul sito WikiLeaks.Il “Guardian” è comprensibilmente nervoso. La polizia segreta ha già visitato il giornale e ha chiesto e ottenuto la distruzione rituale di un disco rigido. Su questo, il giornale ha il documento della richiesta. Nel 1983, un funzionario del Foreign Office, Sarah Tisdall, fece trapelare alcuni documenti del governo britannico che mostravano quando sarebbero arrivate in Europa le armi nucleari Cruise americane. Il “Guardian” fu inondato di elogi. Quando un’ingiunzione del tribunale chiese di conoscere la fonte, non è stato il direttore a farsi arrestare in nome del fondamentale principio di proteggere la sua fonte, ma la Tisdall è stata tradita, perseguita e ha scontato sei mesi in carcere. Se Assange viene estradato in America per aver pubblicato ciò che il “Guardian” definisce “cose” veritiere, cosa impedisce che lo segua l’attuale direttore, Katherine Viner, o il precedente direttore, Alan Rusbridger, o il prolifico propagandista Luke Harding? Che cosa deve impedire [che lo seguano] i direttori del “New York Times” e del “Washington Post”, che hanno anche loro pubblicato pezzi di quella verità che ha avuto origine da WikiLeaks, e il direttore di “El Pais” in Spagna, e “Der Spiegel” in Germania e del “Sydney Morning Herald” in Australia? L’elenco è lungo.David McCraw, legale del “New York Times”, ha scritto: «Penso che l’azione penale [contro Assange] sarebbe un pessimo precedente per gli editori… a quanto posso capire, egli si trova in qualche modo nella stessa posizione di un editore classico e sarebbe molto difficile da un punto di vista legale distinguere tra il “New York Times” e WikiLeaks». Anche se i giornalisti che hanno pubblicato i documenti trapelati da WikiLeaks non sono stati convocati da un gran giurì americano, l’intimidazione di Julian Assange e Chelsea Manning sarà sufficiente. Il vero giornalismo viene criminalizzato da delinquenti alla luce del sole. Il dissenso è diventato una debolezza. In Australia, l’attuale governo filo-americano sta perseguendo due informatori che hanno rivelato che delle spie di Canberra hanno installato microspie nella sala delle riunioni del nuovo governo di Timor Est, con il preciso scopo di sottrarre con l’inganno alla piccola e povera nazione la sua giusta quota di petrolio e le risorse di gas nel mare di Timor. Il loro processo si terrà in segreto. Il primo ministro australiano, Scott Morrison, è tristemente famoso per aver contribuito alla creazione di campi di concentramento per rifugiati nelle isole del Pacifico di Nauru e Manus, dove i bambini si feriscono e si suicidano. Nel 2014, Morrison ha proposto campi di detenzione di massa per 30.000 persone.Il vero giornalismo è il nemico di queste disgrazie. Una decina di anni fa, il ministero della difesa a Londra ha prodotto un documento segreto che descriveva le tre «principali minacce» all’ordine pubblico: terroristi, spie russe e giornalisti investigativi. Questi ultimi erano considerati la minaccia più grave. Il documento è stato debitamente divulgato da WikiLeaks, che lo ha pubblicato. «Non avevamo scelta», mi ha detto Assange. «È molto semplice: le persone hanno il diritto di sapere e il diritto di mettere in discussione e sfidare il potere: questa è la vera democrazia». Cosa succederebbe se Assange e Manning ed altri sull’onda – se ce ne fossero altri – fossero messi a tacere e «il diritto di conoscere, mettere in discussione e sfidare» fosse eliminato? Negli anni ’70 incontrai Leni Reifenstahl, intima amica di Adolf Hitler, i cui film contribuirono a lanciare l’incantesimo nazista sulla Germania. Mi disse che il messaggio nei suoi film, la propaganda, non dipendeva da «ordini dall’alto», ma da quello che lei chiamava la «vuota sottomissione» del pubblico. «Questa vuota sottomissione include la borghesia liberale e istruita?», le chiesi. «Certamente», disse lei, «specialmente l’intellighenzia… Quando le persone non si pongono più domande serie, diventano sottomesse e malleabili. Tutto può succedere». Ed è successo. Il resto, avrebbe potuto aggiungere, è storia.(John Pilger, “L’arresto di Assange è un avvertimento della storia”, dal blog di Pilger del 13 aprile 2019; articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).L’immagine di Julian Assange trascinato fuori dall’ambasciata ecuadoriana a Londra è un emblema dei tempi. Il potere contro il diritto. La forza contro la legge. L’indecenza contro il coraggio. Sei poliziotti hanno malmenato un giornalista malato, con gli occhi che si contraevano alla prima luce naturale dopo quasi sette anni. Che questo oltraggio si sia verificato nel cuore di Londra, nella terra della Magna Carta, dovrebbe far vergognare e arrabbiare tutti quelli che temono per la “democrazia”. Assange è un rifugiato politico protetto dal diritto internazionale, che gode del diritto di asilo secondo una precisa convenzione di cui la Gran Bretagna è firmataria. Le Nazioni Unite lo hanno chiarito nella sentenza del loro Working Group sulla detenzione arbitraria. Ma al diavolo. Che i criminali vadano avanti. Diretta dai semi-fascisti della Washington di Trump, in combutta con l’ecuadoriano Lenin Moreno, un ebreo latinoamericano bugiardo che cerca di nascondere il suo regime marcio, l’élite britannica ha abbandonato il suo ultimo mito imperiale: quello dell’equità e della giustizia. Immaginate Tony Blair trascinato fuori dalla sua casa da diversi milioni di sterline in Connaught Square, a Londra, in manette, pronto per la spedizione all’Aia. Secondo le regole di Norimberga, il “massimo crimine” di Blair è la morte di un milione di iracheni. Il crimine di Assange è il giornalismo: chiamare in causa i responsabili, esporre le loro bugie ed emancipare il popolo in tutto il mondo attraverso la verità.
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Rosselli, Palme e Sankara: rivoluzione, se oggi fossero qui
Puoi avere tutte le ragioni del mondo; ma a che serve, se nessuno ti ascolta? Quanti sapevano chi fosse, Carlo Rosselli, quando fu assassinato? Mezzo secolo dopo, al grande pubblico italiano del 1986, diceva qualcosa di particolare il nome del leader svedese Olof Palme? Ma certo: un elegante signore del Nord Europa, barbaramente ucciso da qualche folle terrorista, più o meno come quelli che avevano appena finito di mettere a ferro e fuoco l’Italia. E alzi la mano chi ricorda come la nostra stampa nazionale diede la notizia dell’omicidio dell’allora più che oscuro Thomas Sankara. Era il giovane leader di un paese africano che, per moltissimi europei, poteva ancora chiamarsi Alto Volta: all’epoca, Nelson Mandela stava ancora a spaccare pietre a Robben Island, e l’espressione “Burkina Faso” non era ancora entrata nell’ordinario lessico geografico dell’uomo bianco. Ci vollero anni – Internet, YouTube – per trasformare Sankara in una specie di star della politica: è l’ex ragazzo in camicia verde che, al vertice panafricano di Addis Abeba, svela la schiavitù del debito e propone all’Occidente di smettere di “aiutare” l’Africa.Per far uscire Thomas Sankara dalle catacombe della memoria collettiva c’è stato bisogno dell’11 Settembre, lo choc che ha costretto gradualmente milioni di persone a interrogarsi sulla natura del cosiddetto Deep State. Strana nebulosa, a geometria variabile: domina il pianeta manipolando i governi o scavalcandoli, al limite azzerandone i leader più scomodi – già rarissimi ieri, e oggi pressoché introvabili. Tuttora, comunque, vastissimi strati dell’opinione pubblica continuano a restare scettici di fronte alla denuncia della manipolazione della storia e dell’attualità: tendono ad allinearsi al mainstream che reputa fantasiosa la teoria del complotto, boccia le verità alternative sull’11 Settembre, si rassegna alle campagne sanitarie di massa come il Tso infantile dei vaccini imposti senza spiegazioni. E ovviamente deride chi “crede alle scie chimiche”, preferendo non domandarsi per quale ragione il cielo non sia più blu, ma vistosamente rigato, ogni giorno, dalle tracce persistenti rilasciate dagli aerei. Ci si rifugia dietro comodi neologismi (complottismo, cospirazionismo) per liquidare domande fastidiose, anche col provvidenziale contributo degli stessi “complottisti”, spesso prontissimi a sfornare risposte grottesche, surreali e sensazionalistiche.A monte, però, le domande restano sempre inevase: e questo spiega il fiorire delle narrazioni recenti, anche le più improbabili. Cosa sta succedendo, davvero? Nessuno può garantire di saperlo con precisione. Molti si rendono conto, onestamente, di esserne all’oscuro. Per questo smettono di seguire i telegiornali – tempestivi nel dar conto degli eventi, ma senza mai spiegarli. Se oggi riapparisse in televisione Thomas Sankara, quale anchorman sarebbe in grado di intervistarlo? Vespa e Floris, Formigli e Gruber: da che parte comincerebbero, dovendo fare domande all’avatar di Olof Palme? La nostra attuale comunicazione – smart, ultra-semplificata, a risposta immediata – non prevede più il modulo dell’analisi: ce ne manca il tempo. Nel mainstream risulterebbe semplicemente favolistico il racconto sul Memorandum di Lewis Powell, a cui l’élite occidentale chiese – nel remoto 1971 – un vademecum per “riprendersi tutto”, sbaraccando la democrazia dei diritti sociali. Facile: dall’altra parte del mondo c’era ancora il gigantesco freezer dell’Unione Sovietica, e di lì a poco i neoliberisti avrebbero potuto agevolmente indossare la maschera reaganiana dei liberatori, dei vincitori definitivi, ritagliandosi persino il ruolo di tronfi celebranti della “fine dalla storia”.Da dove ricomincia, la storia? Dall’alfabetizzazione politica di massa, probabilmente. In parte sta avvenendo, nella macro-nicchia del web (che infatti l’Unione Europea si è affrettata ad arginare, con la legge-bavaglio sul copyright a cui nessun governo si è finora opposto). La buona notizia, forse, è che l’invisibile Deep State in fondo ha paura dei sudditi, visto che si affanna a mantenerli nella quiete apparente della false certezze, nonostante i colpi mortali di una crisi che sta letteralmente cancellando la classe media in Europa, al punto da riempire le strade francesi di gilet gialli. Economia, moneta, guerre, energia, clima, crisi regionali. Scampoli di verità? Su qualche libro, nei risvolti del web, in mezzo alle smancerie dei social. Per gli ottimisti, l’umanità si starebbe risvegliando da una sorta di letargo. Non che manchino segnali di consapevolezza, ma sono sovrastati dal fragore del mainstream. Oggi finalmente si ascoltano relazioni acutissime da economisti onesti, che però non saranno mai ospitati in prima serata, con piena facoltà di parola. Si saranno divertiti, gli arconti impalpabili, nel vedere che l’Italia della gloriosa rivoluzione gialloverde non si è nemmeno ribellata al diktat medievale di Bruxelles sul piccolo deficit invocato per il 2019. Il potere imperiale, neo-feudale, ha incassato una vittoria piena. E si è persino goduto le passeggiate di Macron e Juncker sui teleschermi della Rai, tra gli inchini dello sconcertante anti-italiano Fabio Fazio.Ha davvero paura della maggioranza, il famoso 1% contro cui naufragò la pletorica protesta di Occupy Wall Street? Di certo, scrive Franco Fracassi nel saggio “G8 Gate”, aveva una paura matta dei NoGlobal, il cui sanguinoso funerale fu organizzato a Genova nel 2001, due mesi prima della mattanza di Manhattan (3.000 morti nelle Torri Gemelle e altri 12.000 americani uccisi dal cancro, poco dopo, a causa dell’immensa nube d’amianto). A dire che le maggiori multinazionali planetarie temessero così tanto i NoGlobal è Wayne Madsen, all’epoca dirigente dell’intelligence Usa: racconta di 1500 agenti della Nsa, più 700 dell’Fbi, al lavoro per essere certi che nel capoluogo ligure tutto andasse secondo i piani, cioè malissimo. Deep State, appunto. All’occorrenza, la legge del terrore: Al-Qaeda e poi l’Isis, dalla Siria all’Europa. Di fronte a questo cos’hanno da dire, i novelli sovranisti? Come se la caverebbero, Salvini e Di Maio, al cospetto di personaggi come Rosselli, Palme e Sankara? Cosa inventerebbero, il leader della Lega e quello dei 5 Stelle, per tentare di spiegare come riesumare il socialismo liberale nell’Europa di oggi? Che figura farebbe, Di Maio, nel presentare il suo reddito di cittadinanza al gigante Olof Palme, inventore del miglior welfare europeo? E cosa racconterebbe, il mini-sceriffo Salvini, al sorriso luminoso dello stratega che sapeva di giocarsi la pelle nell’eroico tentativo di metter fine alla razzia bianca a spese del continente nero, da cui l’esodo tanto spettacolarizzato dalle opposte tifoserie odierne?Davvero è inquieto, il mitico 1%, nel dubbio che i popoli si sveglino? Ammesso che sia vero, sembra che gli ultimi a saperlo siano proprio gli abitanti dell’umanità sottostante, il 99%. Al massimo, votiamo per l’ultima protesta offerta dal supermarket della politica, una specie di discount ingombro di sottomarche low cost. Per ora ha stravinto l’impeccabile Lewis Powell: il suo Memorandum è stato applicato alla lettera. I pochi dominano sui molti, che infatti non sanno nemmeno chi fosse, quell’avvocato di Wall Street. Il pericolo, semmai, siamo abituati a riconoscerlo nel sorriso sornione di personaggi come l’anziano Kissinger, l’architetto del golpe cileno, l’uomo che minacciò di morte Aldo Moro. Che sospiro di sollievo, quando il fenomenale Obama prese il posto di Bush. Ennesima illusione, durata lo spazio di un mattino: quasi solo teatro, ancora e sempre Deep State. Da dove ricominciare? Da ciascuno di noi, verrebbe da dire, nel dubbio che l’ipotetico “mostro” tema, sul serio, il risveglio dei dormienti. Primo passo, scovare idee che possano camminare. E poi raccontarle, in modo semplice: il Memorandum Powell, che ha cambiato la faccia della Terra, era lungo appena 11 paginette. Parlava chiaro anche Rosselli, così come Palme e Sankara: nessuno deve restare indietro, mai. L’italiano, lo svedese, il burkinabè: veri e propri monumenti, postumi, all’umanità che non si volle far nascere. Li si potrà riascoltare a Milano il 3 maggio, a patto però di non dimenticarli più. Morirono, tutti e tre, perché il 99% non era al loro fianco. E non è un testamento, quello che ci hanno lasciato: è un programma politico, e sembra scritto oggi.(Giorgio Cattaneo, “Una rivoluzione della verità: nel nome di Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 aprile 2019. Il convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli e Thomas Sankara, contro la crisi globale della democrazia”, in programma il 3 maggio 2019 a Milano, Palazzo Moriggia, via Borgonuovo 23, dalle ore 10 alle 17.30, sarà trasmesso in diretta da Radio Radicale).Puoi avere tutte le ragioni del mondo; ma a che serve, se nessuno ti ascolta? Quanti sapevano chi fosse, Carlo Rosselli, quando fu assassinato? Mezzo secolo dopo, al grande pubblico italiano del 1986, diceva qualcosa di particolare il nome del leader svedese Olof Palme? Ma certo: un elegante signore del Nord Europa, barbaramente ucciso da qualche folle terrorista, più o meno come quelli che avevano appena finito di mettere a ferro e fuoco l’Italia. E alzi la mano chi ricorda come la nostra stampa nazionale diede la notizia dell’omicidio dell’allora più che oscuro Thomas Sankara. Era il giovane leader di un paese africano che, per moltissimi europei, poteva ancora chiamarsi Alto Volta: all’epoca, Nelson Mandela stava ancora a spaccare pietre a Robben Island, e l’espressione “Burkina Faso” non era ancora entrata nell’ordinario lessico geografico dell’uomo bianco. Ci vollero anni – Internet, YouTube – per trasformare Sankara in una specie di star della politica: è l’ex ragazzo in camicia verde che, al vertice panafricano di Addis Abeba, svela la schiavitù del debito e propone all’Occidente di smettere di “aiutare” l’Africa.
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Finti nemici, già finti amici: la recita di Salvini e Di Maio
«Io e Matteo Salvini abbiamo fatto grandi cose insieme» (Luigi Di Maio). Leghisti e grillini, il governo Grilloverde ha due facce. Entrambe come il culo. Infatti i Gemelli Diversi che adesso fingono di litigare, per gli stessi squallidi motivi opportunistici per i quali prima fingevano d’andare d’accordo, sono entrambi prodotti della stessa linea commerciale. Secondo la propaganda, Salvini è un leader naturale, sorto dal popolo per mano del popolo. È una stronzata. Salvini è al 100% un prodotto della propaganda. Fin da quando ha ereditato la Lega dal clan Bossi, è stato sistematicamente ospitato tutte le sere da tutti i talk show esistenti, e lasciato padrone di sparare qualsiasi cazzata per ore senza contraddittorio, fra gli applausi scroscianti della claque. Intanto, politologi ed editorialisti già elogiavano in coro il suo “acume politico” e il suo “irresistibile carisma”, definendolo l’unica alternativa possibile a Renzi. Salvini è stato costruito come “fail safe” di Renzi. È un Renzi riuscito. Finora. È la faccia (semi)nuova del solito vecchio sistema di potere politico-affaristico.Mentre lui secerne le sue stronzate quotidiane sui social, malcelati dietro il suo faccione ghignante tutti gli affari continuano esattamente come prima. Il Movimento 5 Stelle finora ha fatto finta di niente solo per restare al governo. Se adesso Pupazzetto Di Maio, prodotto dalla Casaleggio come Ken dalla Mattel, improvvisamente sembra essersene accorto, è nel tentativo di recuperare qualche punto nei sondaggi. Mentre l’Ilva, che il M5S aveva promesso di riconvertire, continua a intossicare e uccidere peggio di prima. Ignorata finora dai media mainstream e dall’opposizione, perché quello firmato da Di Maio per l’llva è il piano Calenda. Del Pd, che sta recuperando qualche punto nei sondaggi.Il consenso si controlla coi media. I media si controllano col denaro. In un regime capitalista, la democrazia non può funzionare. Può soltanto sfornare prodotti, pupazzi acchiappavoti, diversi solo nella maschera, nel rivestimento, nell’etichetta, identici nella sostanza. Senza principi, senza ideali, senza neanche idee proprie che non siano decise da un algoritmo Facebookinaro, o da un generatore automatico di motti del Duce. “Noi molleremo dritto”. “Molti nemici, molti boia”. Contractor di governo, complici e/o nemici a seconda delle convenienze del momento. Droni, smontabili e rimontabili fra loro come pezzi d’un ingranaggio. Un ingranaggio che uccide. Prodotti d’un sistema di potere e di pensiero che tutto considera, e tutto punta a trasformare in un prodotto di consumo. Per consumarlo.(Alessandra Daniele, “Caino e Caino”, da “Carmilla” del 28 aprile 2019).«Io e Matteo Salvini abbiamo fatto grandi cose insieme» (Luigi Di Maio). Leghisti e grillini, il governo Grilloverde ha due facce. Entrambe come il culo. Infatti i Gemelli Diversi che adesso fingono di litigare, per gli stessi squallidi motivi opportunistici per i quali prima fingevano d’andare d’accordo, sono entrambi prodotti della stessa linea commerciale. Secondo la propaganda, Salvini è un leader naturale, sorto dal popolo per mano del popolo. È una stronzata. Salvini è al 100% un prodotto della propaganda. Fin da quando ha ereditato la Lega dal clan Bossi, è stato sistematicamente ospitato tutte le sere da tutti i talk show esistenti, e lasciato padrone di sparare qualsiasi cazzata per ore senza contraddittorio, fra gli applausi scroscianti della claque. Intanto, politologi ed editorialisti già elogiavano in coro il suo “acume politico” e il suo “irresistibile carisma”, definendolo l’unica alternativa possibile a Renzi. Salvini è stato costruito come “fail safe” di Renzi. È un Renzi riuscito. Finora. È la faccia (semi)nuova del solito vecchio sistema di potere politico-affaristico.
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Quale 25 Aprile e quale Liberazione, nella Colonia Italia?
Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.Insomma, discorsi da Balcone, dalla cui pomposa prosopopea cerimoniale, nel caso specifico del tutto abusiva, immancabilmente esalano i vapori dell’ipocrisia e dell’autorità fondata su chiacchiere e distintivo. E a volte, su felpe e giubbotti, abusivi pure questi. Tutte cose che con i fasti evocati da lontano, sempre senza averne i titoli, abusivamente, hanno il compito di coprire i nefasti del presente e dei presenti. Non ho partecipato ad alcuna celebrazione, ufficiale o ufficiosa, trovandole tutte spurie e inquinate. Dal Quirinale a un’Anpi che condivide con tutte le sinistre la perdita di sé e che si mette ad arzigogolare sull’equivalenza tra nazifascismo e quello che i superrazzisti dell’Impero e delle sue marche definiscono razzismo. Mistificando per tale quello di chi smaschera l’operazione colonialista, detta globalizzazione, ai danni dei dominati del Sud e del Nord. Gli sciagurati sovranisti, identitari, refrattari alla levigatezza dell’uniformato. Seppure lo definiscano tale, non ne fa sicuramente parte Matteo Salvini, sovranista farlocco e sfascia-Italia del “prima gli italiani”, purchè si tratti di trafficoni eolici, trivellatori di terre e mari, sfondatori di valli e montagne, magna magna di ogni genere, cravattai lombardoveneti, insomma tutti i missi dominici dell’Impero.Genìa che è stata decisiva perché i risultati del 25 aprile fossero consegnati nelle mani e nelle borse dei nuovi invasori. Genìa maledetta. E’ stato lo spirito dei tempi coronati dal 25 aprile e subito successivi che ha innalzato l’Italia – dal fascismo squadrista frantumata in giovani obnubilati, popolo plebeizzato e impecoranato, federali in stivali e loro mignotte, intellettualità sedotta, asservita e abbandonata, brutalità ed elementarietà di azione e pensiero (salvo grandi architetti) – ai livelli di un passato come quello dei Leopardi e dei moti ottocenteschi. Che ha prodotto i Fenoglio, Calvino, Pavese, i De Sica, Rossellini, Monicelli, giganti che hanno nanificato, moralmente e culturalmente, tutto quello che è venuto dopo e che formicola a petto in fuori nei Premi Strega e Bancarella. Si può dire, e spiacerà ai nonviolenti, di vocazione o altro, che quello Zeitgeist, così generoso, è uscito dalla canna di un fucile.Da ex-direttore responsabile e inviato di guerra del quotidiano “Lotta Continua” e militante (a lungo latitante) di quell’organizzazione, che contro il fascismo aggiornato del consociativismo di regime, con il suo terrorismo di Stato, pure qualcosa ha fatto, mi permetto, nel mio piccolo e intimo, di ringraziare i partigiani tutti. Formazione di popolo. Più di tutti quelli garibaldini, e rigettare nel buco nero dell’esecrazione gli Alleati, che ai primi hanno sottratto e pervertito la vittoria, poi procedendo a sottrarre e pervertire ciò che di ogni vivente fa quello che è: la sovranità sua, della sua comunità, del suo passato, presente, futuro, nome. Di questo gli antifascisti da terrazzo, antisovranisti del re di Prussia, non sanno e non dicono, bisognosi come sono dei cartonati in camicia nera e saluto romano per occultare il fascismo global-digital-finanziario che li ha reclutati e di cui si sono inoculato il virus. Il che non mi impedisce, sia detto per inciso, di trasecolare a fronte di chi insiste a definire Piazzale Loreto “giustizia di popolo”.Stessa matrice. Oggi si vedono sul palcoscenico della commedia nazionale e occidentale, in grande spolvero, nuovi “antifascisti”. Ce ne sono addirittura di patrocinati da George Soros, che non si fa scrupoli di affiancarli all’altra sua creatura: “Me too”. Come sempre quando il pifferaio riesce a riunire e riconciliare in un’unica truppa ratti e bambini ignari, li si trovano, schiamazzoni e autocertificati, dall’estrema sinistra a quella vera destra che si dice vuoi centrosinistra, vuoi centrodestra. Virgulti, balilla e giovani italiane del Nuovo Ordine Mondiale, puntano quello che in artiglieria viene chiamato “falso scopo” (e il puntamento indiretto verso un obiettivo non individuabile a vista). In parole semplici, additando un chihuahua ringhiante nei bassifondi ideologici urbani, si urla “al lupo, al lupo”, con l’effetto di distogliere la nostra mira dal lupo mannaro vero che tiene al guinzaglio chi urla. (Chiedendo scusa al lupo per la becera metafora fiabesca. E ricordando che il ministro dell’ambiente 5 Stelle, Costa, proibisce di abbattere i lupi, mentre Salvini, forte di mitraglietta, ne autorizza l’abbattimento: fatto che contiene in nuce tutto il significato delle temperie in cui il post-25 aprile, tradito come nemmeno il presunto Giuda il presunto Gesù, ci ha ingabbiato e nelle quali, o i 5 Stelle staccano la spina, o rischiamo il corto circuito e il black out loro e di tutti noi).Il discorso della Liberazione va ripreso ab imis fundamentis. E’ per questo che ho spostato le mie commemorazioni-celebrazioni a due giorni dopo, il 27 maggio del 1937. E il giorno tristissimo della morte di Antonio Gramsci (io c’ero già e ricordo una serie di quaderni di mio padre con sopra, imparai dopo, le immagini, tra altre, di Marinetti, D’Annunzio, Gozzano, Leopardi e Gramsci). Non significa niente, ma sono contento di esserci già stato quando ancora viveva Gramsci. E’ insensato, ma mi pare che così sono in qualche modo contemporaneo e, quindi, più partecipe di quel “popolo” a cui questo sardo degno della sua terra ha ridato un nome, un’identità, un progetto, nel tempo che più lo ha visto conculcato, mistificato, sviato da una storia che era iniziata con Dante, che aveva serpeggiato per secoli e che si era rifatta prorompente con la Repubblica Romana e le altre affini, incancellabili madri dei nostri partigiani. Come Anita Garibaldi, che, sul colle Gianicolo, sparava ai francesi rinnegati, lo è specificamente delle nostre partigiane. E come lo era anche delle brigate femminili alla Comune di Parigi (dove c’erano pure i dai neoborbonici esecrati garibaldini!). Che nessun movimento o gruppo femminista ricorda e onora, preferendo icone tipo Hillary o Boldrini.(Fulvio Grimaldi, “Quale 25 aprile. Quale 27 aprile. Quale liberazione”, dal blog di Grimaldi del 26 aprile 2019).Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.
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A Milano tutta la verità sulla scomparsa di Federico Caffè
Nella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987 lasciò la sua casa di Roma, dove viveva con il fratello. Non fu mai ritrovato: la scomparsa di Federico Caffè rimane tuttora un mistero irrisolto. Non per tutti, però: «La sua sparizione è strettamente connessa con due omicidi eccellenti, quello di Olof Palme e quello di Thomas Sankara». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che illumina insospettabili retroscena sulla massoneria di potere che ha imposto l’attuale globalizzazione. Clamorose rivelazioni in vista, a quanto pare, nell’ambito del convegno promosso a Milano il 3 maggio dal Movimento Roosevelt. Del professor Caffè – vero e proprio cervello dell’economia keynesiana nel dopoguerra – parlerà anche un suo illustre allievo, l’economista Nino Galloni, svelando ulteriori dettagli inediti sul giallo della sua scomparsa. Tema dell’assise: presentare pubblicamente il Movimento Roosevelt come laboratorio politico nato per uscire dal tunnel del neoliberismo e riconquistare la perduta sovranità democratica. La ricetta? Il socialismo liberale di Carlo Rosselli, marginalizzato già durante il fascismo dagli stessi socialisti. Due eredi di questa dottrina – lo svedese Palme e l’africano Sankara – furono assassinati nel giro di pochi mesi, a cavallo della sparizione di Caffè.Cosa c’era in ballo? Il nuovo assetto del mondo: l’imminente crollo dell’Urss e l’avvento della “dittatura” tecnocratica di Bruxelles, fondata sull’austerity. Fino al dilagare del neoliberismo globalizzato, dominato dalla finanza predatoria. Nel saggio “Il più grande crimine”, Paolo Barnard indica una data precisa per l’inizio della grande restaurazione, da parte dell’élite antidemocratica: il 1971, anno in cui a Wall Street l’avvocato d’affari Lewis Powell fu incaricato dalla Camera di Commercio Usa di redigere il famigerato Memorandum per la riconquista del potere da parte dell’oligarchia, costretta sulla difensiva per decenni in tutto l’Occidente grazie alla storica avanzata del progressismo liberale, socialista e sindacale. Era il segnale della “fine della ricreazione”: da allora, sempre meno diritti – per tutti. Ci vollero anni, naturalmente, per passare ai fatti. E’ del 1975 il manifesto “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale a Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki. La tesi: troppa democrazia fa male. Parola d’ordine: togliere agli Stati il potere di spesa, necessario per alimentare il welfare e quindi il benessere diffuso.Cinque anni dopo esplosero Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher nel Regno Unito. Cattivi maestri: l’austriaco Friedrich von Hayek e l’americano Milton Friedman, economista della Scuola di Chicago. Stesso dogma: tagliare il debito pubblico, rinunciare al deficit. Pareggio di bilancio: meno soldi al popolo, all’economia reale. Un incubo, culminato con i recentissimi orrori del rigore europeo, capace di martirizzare la Grecia lasciando gli ospedali senza medicine per i bambini. Come si è potuti arrivare a tanto? In molti modi, e attraverso infiniti passaggi. Il primo dei quali è tristemente noto: la demolizione di John Maynard Keynes, il più eminente economista del ‘900. Se il lascito di Marx aveva forgiato la coscienza sociale degli operai, sfruttati dal capitalismo selvaggio, l’inglese Keynes escogitò un sistema perfetto per rimettere in equilibrio capitale e lavoro, attraverso la leva finanziaria strategica dello Stato. Ereditando un’America messa in ginocchio dalla Grande Depressione del 1929, Roosevelt con il New Deal fece esattamente il contrario di quanto gli aveva consigliato la destra economica: anziché tagliare la spesa per “risanare” i conti pubblici, mise mano a un deficit illimitato per creare lavoro.L’altra mossa, decisiva, fu il Glass-Steagall Act: netta separazione tra banche d’affari e credito ordinario, per evitare che i risparmi di famiglie e imprese finissero ancora una volta nella roulette della Borsa. Un atto eroico, la guerra contro la finanza speculativa, rinnegato – a distanza di mezzo secolo – dal “progressista” Bill Clinton, subito dopo il famoso sexgate che l’aveva travolto, l’affare Monica Lewinsky. Nel frattempo, in Europa, era stato Tony Blair a rottamare il socialismo liberaldemocratico dei laburisti, inaugurando – con Clinton – la sciagurata “terza via” che avrebbe condotto l’ex sinistra a smarrire se stessa. Desolante il caso italiano: passando per Romano Prodi, lo smantellatore dell’Iri, si va dal Massimo D’Alema che nel 1999 si vantava di aver trasformato Palazzo Chigi in una merchant bank, realizzando il record europeo delle privatizzazioni, per arrivare all’infimo Bersani, capace nel 2011 si sottomettere il Pd al governo Monti, sottoscrivendo i tagli senza anestesia, il Fiscal Compact, la legge Fornero sulle pensioni e il pareggio di bilancio in Costituzione.Una pesca miracolosa, quella condotta dall’élite tra le fila dell’ex sinistra: a partire dallo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la regia di Ciampi, la vera “notte della Repubblica” (attacco ai diritti del lavoro, flessibilità e precarizzazione) è stata condotta con la complicità di personaggi come Visco, Bassanini, Padoa Schioppa, Amato, lo stesso Ciampi e altri baroni della nuova tecnocrazia “incoronata” da Mani Pulite, al servizio delle potenze straniere intenzionate a saccheggiare il Belpaese grazie alla “cura” finto-europeista. Lo spiegò lo stesso Galloni in una memorabile intervista a “ByoBlu”: la deindustrializzazione dell’Italia fu pretesa della Germania come compensazione, in cambio della rinuncia al marco. Era stata la Francia di Mitterrand a imporre l’euro ai tedeschi, pena il veto francese alla riunificazione delle due Germanie. Cominciava una festa, per molta parte d’Europa, caduta la Cortina di Ferro grazie a Gorbaciov. Per l’Italia, invece, il sogno si sarebbe trasformato in un incubo. Supremo regista della grande illusione, Mario Draghi: a bordo del Britannia di mise a disposizione dei poteri che progettavano la svendita del paese, venendo poi premiato prima come governatore di Bankitalia e poi come presidente della Bce.Oggi, grazie a tutto questo, è diventato “normale” che un governo italiano non riesca a ottenere un deficit del 2,4% (irrisorio), ed è “fisiologico” che il fantasma dell’ex sinistra – il Pd – trovi giusto che siano i commissari Ue, non eletti da nessuno, a poter calpestare un esecutivo regolarmente eletto. Peggio: è stato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a spiegare – bocciando la nomina di Paolo Savona come ministro dell’economia – che sono i mercati, e non gli elettori, ad avere l’ultima parola. Contro questa palude si muove il laboratorio politico rappresentato dal Movimento Roosevelt. Obiettivo: ribaltare il tavolo delle convenzioni dogmatiche degli ultimi trent’anni, risvegliando la politica dormiente fino a portarla a riscrivere le regole. La prima: Europa o meno, il popolo deve tornare sovrano. Tradotto: le elezioni devono poter decidere chi governerà davvero, e come. E a dire di no a un governo eletto potrà essere solo, domani, un governo federale europeo a sua volta emanato democraticamente dall’Europarlamento, sulla base di una Costituzione democratica che oggi l’Ue non sa neppure cosa sia. Chi l’ha detto che il deficit non può superare il 3% del Pil? Il Trattato di Maastricht va gettato nella spazzatura, ecco il punto. Bel problema: da dove cominciare?La prima cosa da fare è dire finalmente la verità: lo sostiene Magaldi, che il Movimento Roosevelt l’ha creato. Rivelazioni e denunce continue, da parte sua. Mattarella? Un paramassone che obbedisce al massone Visco di Bankitalia, a sua volta un burattino del massone Draghi. Di Maio che omaggia la Merkel, dopo aver ceduto sul deficit gialloverde? Brutto segno: tenta di accreditarsi presso le superlogge come la Golden Eurasia, quella della Cancelliera, sperando così di sopravvivere al prevedibile declino dei 5 Stelle. Grande occasione perduta, il governo del non-cambiamento, di fatto prono ai diktat della Disunione Europea che sta mandando in malora l’economia del continente. Fenomeno vistoso: si sta impoverendo la classe media alla velocità della luce, come dimostrano i Gilet Gialli in Francia, dove qualcuno – dice sempre Magaldi – ha pensato bene di dare alle fiamme persino un simbolo nazionale come Notre-Dame. Sono sempre loro, i registi occulti della strategia della tensione europea: hanno seminato il terrore nelle piazze per spianare la strada all’austerity dei governi.Rosselli, Palme e Sankara: ecco, da dove ripartire. Socialismo liberale: il grande premier svedese voleva “tagliare le unghie al capitalismo”. Stava per essere eletto segretario generale dell’Onu: poltrona da cui avrebbe vegliato anche sull’Europa, impedendo che si arrivasse a questo aborto di Unione Europea. Certo, c’è dell’altro: qualcuno nel frattempo avrebbe fatto entrare la Cina nel Wto senza pretendere nessuna garanzia, da Pechino, sui diritti dei lavoratori. Risultato: concorrenza sleale sui prezzi delle merci e grande crisi della manifattura occidentale. E qualcun altro, l’11 settembre del 2001, avrebbe fatto saltare in aria le Torri Gemelle a New York. Obiettivo: poter invadere l’Iraq e l’Afghanistan, fabbricando il fantasma del terrorismo jihadista (Al-Qaeda, Isis) con cui ricattare il mondo. Bagni di sangue (Libia, Siria) o rivoluzioni colorate (Georgia, Ucraina), o magari primavere arabe (Tunisia, Egitto): il risultato non cambia, si punta sempre sul caos. Così l’Italia si scanna sui migranti e il Pd attacca Salvini anziché Macron. E nessuno guarda al di là del mare.Lo fa Ilaria Bifarini, anche lei attesa al convegno di Milano con il suo saggio “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Negli anni ‘80, quando Olof Palme faceva della Svezia il paradiso europeo del welfare, l’africano Thomas Sankara trasformava l’Alto Volta coloniale nel coraggiosissimo Burkina Faso, il “paese degli uomini liberi”, con una promessa: nessuno, qui, morirà più di fame. Lo disse ad alta voce, nel 1987, davanti ai leader africani: chiediamo all’Occidente di cancellare il debito dell’Africa. Tre mesi dopo fu ucciso, su mandato francese. In Africa, il giovane Sankara godeva di un prestigio immenso, pari a quello di Palme in Europa. Con loro ancora al potere, non avremmo visto né questa Ue né i barconi dei migranti. Il premier svedese era stato freddato un anno prima, da un killer rimasto sconosciuto. Non così i mandanti: “La palma svedese sta per cadere”, telegrafò alla vigilia dell’omicidio Licio Gelli, il capo della P2, avvertendo il parlamentare statunitense Philip Guarino. Lo scrive, nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, lo stesso Gianfranco Carpeoro, altro esponente “rooseveltiano” impegnato nell’assise milanese, da cui ora si attendono precise rivelazioni sulle connessioni tra i delitti Palme e Sankara e la scomparsa di Caffè. Erano uomini da eliminare: troppo ingombranti, per chi voleva instaurare – in Europa e nel mondo – il regno del caos e dei profitti stellari, al prezzo dell’impoverimento generale.Tutto questo, purtroppo, è molto massonico. Lo sostiene Gioele Magaldi, che nel suo saggio spiega che nel 1980 tutte le superlogge – anche quelle progressiste – aderirono al patto “United Freemasons for Globalization”. Una tregua armata, dopo che negli anni Sessanta erano stati uccisi Bob Kennedy e Martin Luther King: un ticket fantastico, che le Ur-Lodges democratiche avrebbero voluto alla Casa Bianca, come presidente e vice. E’ come se la stessa mano provvedesse a uccidere gli avversari che non si possono corrompere né intimidire. Per inciso, aggiunge Magaldi, erano massoni anche Palme e Sankara, così come Gandhi, Mandela e lo stesso Yitzhak Rabin, assassinato da manovalanza estremista. Quanto al convegno di Milano, chiosa Magaldi, non si tratta di limitarsi a celebrare la memoria di giganti come Rosselli e Palme, Sankara e Caffè: l’intenzione è quella di creare una nuova agenda politica, in base alla quale nessuno possa più fingere di essere progressista mentre soggiace alla post-democrazia Ue. Una sfida a viso aperto: c’è da fare una rivoluzione culturale. Il pareggio di bilancio? E’ un crimine politico contro il popolo. Sarebbe ben lieto di spiegarlo autorevolmente lo stesso Caffè, se fosse ancora qui, in questa Italia le cui televisioni spacciano per verità le frottole quotidiane di personaggi come Elsa Fornero e Carlo Cottarelli, mestieranti nostrani del peggior neoliberismo.(Il convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli, Thomas Sankara e contro la crisi globale della democrazia” è promosso dal Movimento Roosevelt venerdì 3 maggio 2019 a Milano, col patrocinio del Comune, presso la sala conferenze del Museo del Risorgimento a Palazzo Moriggia, via Borgonuovo 23 (zona Brera), dalle ore 10 alle 17.30. Interverranno Angelo Turco, Gioele Magaldi e l’ambasciatore italiano in Svezia Marco Cospito, insieme a Felice Besostri, Nino Galloni, Paolo Becchi, Gianfranco Carpeoro, Otto Bitjoka, Marco Moiso, Sergio Magaldi, Egidio Rangone, Danilo Broggi, Pierluigi Winkler, Giovanni Smaldone, Michele Petrocelli, Aldo Storti, Marco Perduca e Lorenzo Pernetti. Nel corso dell’evento, introdotto da brevi rappresentazioni teatrali su Sankara e Rosselli offerte da Ricky Dujany e Diego Coscia, verrà presentato il bestseller di Ilaria Bifarini “I coloni dell’austerity”, mentre Carlo Toto e Paolo Mosca anticiperanno il trailer del docu-film “M: il Back-Office del Potere”. Tra i dirigenti del Movimento Roosevelt interverranno anche Daniele Cavaleiro, Roberto Alice, Fiorella Rustici, Zvetan Lilov, Alberto Allas, Roberto Luongo, Roberto Hechich, Massimo Della Siega e Roberto Peron. Per informazioni: segreteria generale e presidenza del MR. Coordinamento ufficio stampa e relazioni esterne: Monica Soldano, 348.2879901).Nella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987 lasciò la sua casa di Roma, dove viveva con il fratello. Non fu mai ritrovato: la scomparsa di Federico Caffè rimane tuttora un mistero irrisolto. Non per tutti, però: «La sua sparizione è strettamente connessa con due omicidi eccellenti, quello di Olof Palme e quello di Thomas Sankara». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che illumina insospettabili retroscena sulla massoneria di potere che ha imposto l’attuale globalizzazione. Clamorose rivelazioni in vista, a quanto pare, nell’ambito del convegno promosso a Milano il 3 maggio dal Movimento Roosevelt. Del professor Caffè – vero e proprio cervello dell’economia keynesiana nel dopoguerra – parlerà anche un suo illustre allievo, l’economista Nino Galloni, svelando ulteriori dettagli inediti sul giallo della sua scomparsa. Tema dell’assise: presentare pubblicamente il Movimento Roosevelt come laboratorio politico nato per uscire dal tunnel del neoliberismo e riconquistare la perduta sovranità democratica. La ricetta? Il socialismo liberale di Carlo Rosselli, marginalizzato già durante il fascismo dagli stessi socialisti. Due eredi di questa dottrina – lo svedese Palme e l’africano Sankara – furono assassinati nel giro di pochi mesi, a cavallo della sparizione di Caffè.