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Archivio del Tag ‘Financial Times’

  • Meglio la mafia perfetta, Wall Street: non ammazza i giudici

    Scritto il 29/7/17 • nella Categoria: idee • (48)

    Are you ready for a ride? Pronti a stirare il cervello? Alla celebrazione per Paolo Borsellino ho portato due ‘visioni’: una sul perché Borsellino e Falcone sono stati ammazzati in quel modo, e l’altra su come far sparire le mafie, e su come mettere il Vero Potere con le spalle al muro, in un colpo solo. Piuttosto controversa la seconda, vi avviso. Parto dalla conclusione del ragionamento, poi ve lo spiego. Borsellino e Falcone sono stati ammazzati in quel modo apocalittico perché sono rimasti schiacciati da un sistema politico-mafioso “imperfetto” e allo stesso tempo cavernicolo, subumano, demente. Ok, parto. La domanda da farsi è questa: perché negli Usa – dove girano poteri e denari duemila volte maggiori di quelli del mafioso pollitalico pollaio, e dove la violenza armata dilaga come la peste – i giudici importanti non vengono trucidati? Eh? Dall’era Nixon all’ultimo giudice ucciso, cioè ai tempi di Bush Jr., sono stati ammazzati in America 4 giudici importanti, e tutti per motivi futili (vendette di ex carcerati, razzisti ecc). Be’? Eppure in Usa di giudici che hanno messo le mani dentro al più spietato potere del mondo ce ne sono stati, sappiamo i nomi. Allora? Ancora un attimo.
    Parliamo di affari e veramente vediamone le proporzioni. Le tre mafie italiane messe assieme, si stima, incassano (lordi? netti?) dagli 80 ai 120 miliardi di dollari all’anno. Nel 2008 un hedge fund di New York chiamato John Paulson (complice di Goldman Sachs) incassò in una singola scommessa 15 miliardi di dollari. In pochi giorni. Ed è solo uno delle centinaia di squali finanziari in quel mostro. Un tal Larry Fink, Ceo di BlackRock che gestisce fondi d’investimento, maneggia ogni anno 5.400 miliardi di dollari, ripeto, cinque-mila-quattrocento-miliardi. Ehm… cos’erano pure quegli spiccioli del panettiere di prima? Ottanta… centoventi all’anno? Il tizio sopra fa 15 miliardi in 10 giorni, l’altro ne maneggia 5.400. Cominciamo a capire le proporzioni. La sola Deutsche Bank ha in teoria le mani su investimenti speculativi pari a 20 (venti) volte il Pil di tutta la Germania. Poverini i caproni puzzosi delle nostre mafie, che fanno i polletti con gli spiccioli del distributore di caffè… Mafia, ‘ndrangheta e camorra non ci arriveranno neppure in 2 secoli a fare i soldi che i sopraccitati e affini fanno in un quinquennio.
    Diversi anni fa io stavo a Londra, una sera ero sul divano con la Tv accesa e vedo un noto programma d’inchiesta della “Bbc” che annuncia un servizio sulla mafia in Gran Bretagna. Ma va’? Lo guardo, ecco come si svolge: il reporter è in un taxi con un informatore che non si vede, e gli chiede di portarlo nei quartieri di Londra dove dominano le cosche e la malavita. L’esperto dà il nome di una via al taxista. Passano diversi minuti, e il taxi si ferma in piena City finanziaria sotto al grattacielo futuristico del gigante assicurativo Lloyd’s. Questa è la “Bbc”, non trasmettono buffonate. Be’, il giornalista, interdetto, non dice nulla per qualche secondo e l’altro gli sputa fuori: «Ma ancora non l’avete capito dove sono i boss, i padrini, qui a Londra? Hanno fatto carriera, altro che puttane, esplosivi o morti ammazzati e latitanze. Questi che stanno in ’sti grattacieli sono i mafiosi più potenti e rispettati del mondo, e incassano come un milione di gang di teste di cazzo messe assieme. Si sono evoluti, lo ha capito?».
    Parliamo di crimini, e davvero vediamone le proporzioni. Mafia, ‘ndrangheta e camorra non potranno mai fare neppure in 2 secoli ciò che due soli umani hanno fatto al pianeta intero pochi anni fa. Richard Fuld e Joseph Cassano, rispettivamente Ceo di Lehman Bank e della filiale dell’Aig a Londra, hanno trascinato il pianeta intero nella più grave crisi finanziaria dal 1929, cioè ne sono stati i due detonatori, a proposito di via D’Amelio e Capaci. Vogliamo per favore contare i morti per: A) depauperata assistenza sanitaria; B) impoverimento; C) alcolismo/droghe; D) fame; E) suicidio (con la stessa Gran Bretagna che denuncia un calo dell’aspettativa di vita degli inglesi per colpa di ’sta crisi), assieme a F) sofferenze di generazioni di giovani e bambini condannate da oggi per decenni a redditi minimi; G) crollo della dignità sovrana d’intere nazioni… causati da quei due uomini e da ciò che hanno scatenato perché appartenenti alla “mafia perfetta”?
    Qualcuno che sia sano di mente pensa che un sub-umano rintanato in un casolare, nascosto come un sorcio e con un tumore, che scribacchiava pizzini patetici su foglietti, o un gorilla analfabeta oggi in galera, avrebbero mai avuto il potere di fare un dolo (e molto di più) come quello che ho elencato sopra? Dai… Parliamo di proporzioni fra mafie, quella dei sorci coi pizzini e le ‘ponghe’ politiche del Tevere a Roma chiamati mafie “imperfette” e la mafia “perfetta” che sto descrivendo, e siamo seri, ok? Ma non siamo ancora al punto di tutto. Dopo Lehman (ma anche prima, come nel caso dello scandalo Savings&Loans anni ’80-’90) abbiamo scoperchiato una pentola dell’inferno scoprendo una criminalità immane che infettò quasi tutto il mondo finanziario sulla Terra. Uscirono prove, fatti, reati di proporzioni stellari… E allora chi, dei padrini della mafia “perfetta”, è finito in galera Nessuno. (Madoff sconta 3mila ergastoli ma solo perché ha fottuto una élite di miliardari, vi è chiaro?). Ma non avevamo detto che ci sono stati fior di giudici e magistrati senior che hanno indagato su ’sti criminali planetari? Sì, ma ancora un po’ di pazienza.
    Ricapitoliamo. Una mafia rozza e “imperfetta” è composta da sti sorci umani alla Casalesi o Corleonesi, col codazzo delle ‘ponghe’ del Tevere a Roma politica, una specie di fossa biologica da cantiere turco che fa esplodere un’autostrada per ammazzare un magistrato e che vive di latitanze con le pustole alla prostata, e il tutto per gestire due soldi da resto del salumiere confronto ai Signori del Mondo. Una mafia “perfetta” è quella che invece, appunto, fa duemila volte i profitti di quegli ‘scarrafoni’ del sud Italia e delle ponghe del Tevere; ma sono tutti uomini liberi, osannati da mezzo mondo, rispettati dai leader della Terra, dormono sonni di platino ogni notte: si chiama Big Finance. E se gli viene un cancro micidiale, come a Lloyd Blankfein, chissà come mai guariscono, mentre il sorcio beccato nel casolare coi pizzini no. I magistrati che indagano la mafia “perfetta” ci sono, o meglio c’erano. Ecco i nomi di quelli del livello di carriera di un Borsellino o di un D’Ambrosio: Mary Jo White, Gary Lynche, Linda Thompson, Paul Berger. Cosa fecero negli anni di platino che portarono al crimine mondiale dopo Lehman?
    Un cazzo, aprirono fascicoli falsi, e rispondevano a un altro ‘magistrato’ di livello immenso, tal Robert Khuzami della Securities and Exchange Commission americana che privatamente chiamava i banchieri Signori del Mondo prima e dopo Lehman e gli diceva (come da atti del Congresso Usa): «Hey, datemi uno squillo, se siete indagati per i crimini contro gli Stai Uniti ve lo dico prima e in privato, così aggiustiamo le cose con patteggiamenti e non ergastoli». Mary Jo White, Gary Lynche, Linda Thompson, Paul Berger al termine delle indagini di cartapesta che aprirono, si dimisero e indovinate dove sono oggi a prendere centinaia di milioni di dollari all’anno? Da Goldman Sachs, Jp Morgan, Citi, Bank of America ecc. Ma non abbiamo sentito di mega-multe in America, o di audizioni del Congresso di fuoco? Sì. Ma quando? Quando le agenzie di rating, che l’amico Pm Michele Ruggiero ha invano indagato nel paese dei sorci, fecero i dispetti alla mafia “perfetta”. Capitò che, così come sostenne Ruggiero nella sua eccellente requisitoria sul loro operato criminoso in Italia, la agenzie di rating (quelle che con una bocciatura affondano decine di milioni di umani a botta) andarono a pestare i piedi anche e per coincidenza alla mafia “perfetta”, e allora sì che la mafia “perfetta” li bastonò.
    L’ex ministro della giustizia Eric Holder multò Standard & Poor’s per la cifretta di 1 miliardo e 375 milioni di dollari, ops!, e S&P’s belò in ginocchio «Siii, Uaaaaa! Abbiamo barato, pietaaà!». Stessa cosa con Moody’s, multina da 864 milioni. Ops! La mafia “perfetta” è riuscita nell’intento di far passare indenne in America la seguente battuta (che è sulla bocca di tutti): «Gli Usa sono governati da Government-Sachs». A Washington non esiste una quota di commistione con ste mafie “perfette”, come a Roma con le cosche; no, a Washington mafie “perfette” e governo sono la stessa cosa al 100%, ed è tutto è ‘legale’. Jamie Dimon, padrino di Jp Morgan, non sta in un casolare nascosto come un sorcio e con un tumore, a scribacchiare pizzini patetici su foglietti, e non sarà mai un gorilla analfabeta in galera. Questi sono i nomi degli uomini o donne del governo americano che negli ultimi 17 anni sono venuti da un’unica banca, Goldman Sachs (poi ci sono gli altri) e furono tutti ministri o consiglieri della Casa Bianca: Stephen Bannon, Gary Cohn, Steven Mnuchin,  James Donovan, Dina Powell, William Dudley, Gary Gensler, Stephen Friedman, Joshua Bolten, Robert Steel, Henry Paulson, Robert Rubin, Kenneth Brody.
    E torniamo a quel reportage della “Bbc” che vidi a Londra molti anni fa. Là dove il mondo si è evoluto al di sopra degli australopitechi o dei mungi-capre (camorra, ‘ndrangheta, Cosa Nostra), le mafie si sono trasformate. Non più armi, non più depositi di esplosivi, pizzi, ragliate sulla spartizione del territorio, non più discariche di veleni dietro casa propria, non più puttane, droga, o appalti del valore totale, fra mafia, ‘ndrangheta e camorra, di un pomeriggio di ‘bets’ al solo John Paulson Hedge Fund a Ny. Le mafie nei paesi che ‘giustamente’ Marco Travaglio definisce «i paesi seri» (povero idiota) hanno capito che si può essere un Provenzano alla quindicesima potenza e con in pugno… non gli appalti, ma una trentina di nazioni del mondo, e allo stesso tempo stare davanti al presidente degli Stati Uniti con la “Cbs”, “Msnbc”, “Cnn” a stuoino a fare domande, con onori sul “New York Times” o sul “Financial Times”, e sonni di platino. Insomma, please welcome… la mafia “perfetta”. E qui arrivo al punto di maggior importanza di questo articolo.
    Dopo aver esposto queste cose al convegno, il Pm Ruggiero in totale buonafede ha esclamato: «Barnard, allora sinceramente io mi devo ritenere fortunato di appartenere a un paese dove le mafie sono “imperfette”, se no… be’, se no manco sarei qui!». E lì io sono arrivato con l’inimmaginabile, eccolo: «Caro Ruggiero, no, noi dobbiamo AUGURARCI augurarci che anche le sozze topaie di scarrafoni politico-mafiosi italiane si evolvano in mafie “perfette”. E sa perché?». Tremore della platea, mormorrii… Barnard: «Lei lo sa, dottor Ruggiero, di cosa NON non si sono resi conto i mafiosi americani o inglesi di Wall Street e della City divenuti onnipotenti mafie “perfette”? Non si sono resi conto che passando dalle latitanze, appalti, pizzi, spaccio droga/armi… a fortune inimmaginabili e prive di reali pericoli d’indagine, essi si stavano… mettendo nella legalità. Certo, è una legalità perennemente violata e che gli dà il potere di svegliarsi la mattina ed essere il governo stesso al 100% e senza nessun rischio, e accumulando fortune cosmiche che la malavita australopiteca italiana neppure immagina. MA E’ COMUNQUE LEGALITA’. Ma è comunque legalità».
    «E fermi tutti: quando un macro-sistema criminale, senza rendersene conto perché ubriaco di un potere e di profitti divini che da latitanti non avrebbero mai avuto, quando, dicevo, quel macro-sistema criminale si ritrova distrattamente dentro le regole, allora E’ FOTTUTO è fottuto. E sapete perché?… Perché alla fine della giostra è sempre lo Stato che comanda, anche se non se ne rende conto. E se le opinioni pubbliche, una volta rinchiusa la mafia “perfetta” dentro le regole della legalità, cominciano a ruggire, la politica è costretta ad agire, ad applicare le regole, perché la politica non può vivere solo di banche, DEVE deve vivere dei vostri voti, e quando a quel punto la politica è costretta dal TERRORE DEL NON VOTO terrore del non-voto ad agire, la mafia “perfetta”, che si è auto-rinchiusa in una legalità di diamanti e platino, ma pur sempre legalità, è messa… CON LE SPALLE AL MURO con le spalle al muro».
    «Cosa credete che faranno quell’ipotetico giorno del ruggito delle opinioni pubbliche i vari Jamie Dimon e Lloyd BLankfein o John Paulson? Credete che torneranno alle lupare, spaccio, puttane e ai casolari coi tumori e i pizzini? Torneranno forse agli spiccioli del macellaio, sozzi di applatini, discariche, ponti fatti con la sabbia, e traffici porci, puzzolenti di sudore e latitanze dopo essere stati alla Casa Bianca riveriti come imperatori? No. Indietro non potranno mai più tornare, e sono fottuti. Basterà allora, con la mafia “perfetta” tronfia di iper-potere-cosmico ma dentro LE REGOLE le regole, che i popoli si muovano, e li fotteranno tutti. Al contrario, dottor Ruggiero e lettori, se le mafie rimarranno sorci, blatte, scarrafoni e ponghe, cioè mafie “imperfette”, quelli non li stermineremo mai, mai e poi mai. Infatti sorci, blatte, scarrafoni e ponghe esistono da millenni».
    Auguriamoci che le tre mafie italiane compiano l’evoluzione da mafie “imperfette” a mafie “perfette” come in Usa o in Gran Bretagna. Anzi, invochiamo una trattativa aperta Stato-mafie dove Roma incentiva le cosche da una parte a fare duemila volte gli affari di oggi, ma dall’altra a rientrare nella legalità della mafia “perfetta”. Certo, dovremo soffrire un’epoca d’imperiosi bastardi legali che penseranno di avere in pugno non solo il 100% di Senati e Parlamenti, ma ogni singolo centimetro quadrato di istituzioni e business esistente, con profitti da Mille e una Notte. Ma poi, ripeto, quando saranno loro malgrado nella LEGALITA legalità delle regole, poiché come in Usa sono divenuti mafia “perfetta”, allora il popolo degli elettori, se veramente coeso, potrà fotterli spalle al muro, come spiegato sopra. E ci saremo sbarazzati di mafie “imperfette” e “perfette” in un colpo solo. Sorry, è l’unica via. Non ce ne sono altre. I veri statisti hanno ‘visioni’ a lunghissimo termine e incredibilmente azzardate. Non c’è altra scelta. Stirate il cervello, e… Think.
    (Paolo Barnard, “Auguriamoci la mafia perfetta”, dal blog di Barnard del 25 luglio 2017).

    Are you ready for a ride? Pronti a stirare il cervello? Alla celebrazione per Paolo Borsellino ho portato due ‘visioni’: una sul perché Borsellino e Falcone sono stati ammazzati in quel modo, e l’altra su come far sparire le mafie, e su come mettere il Vero Potere con le spalle al muro, in un colpo solo. Piuttosto controversa la seconda, vi avviso. Parto dalla conclusione del ragionamento, poi ve lo spiego. Borsellino e Falcone sono stati ammazzati in quel modo apocalittico perché sono rimasti schiacciati da un sistema politico-mafioso “imperfetto” e allo stesso tempo cavernicolo, subumano, demente. Ok, parto. La domanda da farsi è questa: perché negli Usa – dove girano poteri e denari duemila volte maggiori di quelli del mafioso pollitalico pollaio, e dove la violenza armata dilaga come la peste – i giudici importanti non vengono trucidati? Eh? Dall’era Nixon all’ultimo giudice ucciso, cioè ai tempi di Bush Jr., sono stati ammazzati in America 4 giudici importanti, e tutti per motivi futili (vendette di ex carcerati, razzisti ecc). Be’? Eppure in Usa di giudici che hanno messo le mani dentro al più spietato potere del mondo ce ne sono stati, sappiamo i nomi. Allora? Ancora un attimo.

  • Ma il Renzi francese finirà tra i fischi, come quello italiano

    Scritto il 12/5/17 • nella Categoria: idee • (5)

    Durante la campagna elettorale francese e nelle ore successive alla vittoria di Emmanuel Macron, i media nostrani hanno tessuto paragoni, molto innocenti, tra il candidato di “En Marche!” e l’ex-premier Matteo Renzi. Utilizziamo l’aggettivo “innocente” perché, ovviamente, ci si è guardati dall’evidenziare le incredibili analogie tra le carriere di due 39enni che, con stucchevole celerità, hanno scalato (o addirittura fondato) un partito, per poi essere catapultati nella stanza dei bottoni saltando a piè pari il classico cursus honorum della politica. Entrambi sponsorizzati da una grande banca d’affari (la Rothschild per Macron e la Jp Morgan per Renzi), entrambi aiutati da scandali giudiziari (il Penelopegate che affossa Fillon e “l’affare stadio” che spiana la strada di Renzi verso il Comune di Firenze), entrambi benedetti da Washington e dal “luogotenente” Angela Merkel, entrambi incensati dal milieu intellettuale-mediatico, entrambi aiutati dalla “fortuna” nella loro conquista del potere (la scissione tra socialisti e “France Insoumise” nel caso Macron, la defenestrazione tutta extra-parlamentare di Enrico Letta nel caso di Renzi).
    No, non era interesse dei media soffermarsi su questi curiosi, ma scomodi, particolari: la loro volontà era piuttosto quella di evidenziare come entrambi incarnino il rinnovamento, la modernità, l’europeismo, l’apertura agli ideali liberali. Soprattutto, si è tentato in Italia di sfruttare la vittoria di Emmanuel Macron per rilanciare Renzi, quasi che l’ex-premier potesse ricevere in dono dal nuovo inquilino dell’Eliseo una seconda vita politica. “L’Espresso” di Carlo De Debenetti è arrivato addirittura a scrivere, lo scorso 5 aprile: «La nuova sfida di Renzi: diventare Macron. L’ex premier guarda al candidato centrista francese. Perché una sua vittoria avrebbe effetti anche in Italia. E gli lancerebbe la volata verso la riconquista di partito e governo». Viviamo, si sa, un’epoca in cui cadono le illusioni sulla democraticità delle nostre istituzioni, un’epoca di massiccia e costante guerra psicologica, un’epoca in cui la razionalità è una merce sempre più rara. Sono tempi in cui si potrebbe leggere sul giornale: “La nuova sfida della frittata: diventare uovo”.
    Già. Non c’è alcun dubbio che la narrazione dei media su Macron e Renzi sia deliberatamente invertita dal punto di vista cronologico. Non è l’ex-premier italiano che può diventare Macron (perché il momento magico che quest’ultimo ora vive, Renzi lo ebbe nella lontana primavera del 2014), quanto piuttosto è il nuovo presidente francese ad essere probabilmente ossessionato dal triste epilogo dell’ex-presidente del Consiglio. L’Italia, infatti, si colloca rispetto alla Francia un passo in avanti in termini di crisi economica/politica: l’esperienza del giovane “rottamatore” appartiene non al nostro presente, ma al nostro passato, ed è stata brutalmente archiviata il 4 dicembre scorso con la bocciatura del referendum costituzionale. Sono bastati mille giorni (Job Acts, privatizzazioni, inasprimenti fiscali, immigrazione incontrollata, disoccupazione a due cifre, stagnazione economica) perché l’indice di gradimento di Renzi scivolasse sotto il 30% e gli italiani decidessero di sbarazzarsi di lui, ricordando l’infausta promessa “se perdo il referendum, lascio la politica”.
    Constata l’identità tra l’agenda di Renzi e quella di Macron, è facile prevedere che lo stesso tempo sia sufficiente per annichilire politicamente l’ex-Rothschild: data la maggiore dose di “mercato” che Macron deve introdurre in Francia, l’assenza di un saldo partito di riferimento e la bellicosità della società francese, è addirittura ipotizzabile che l’enfant prodige della politica francese entri in crisi addirittura nel secondo anno di presidenza. Il “Financial Times” a suo tempo descrisse Renzi come “the last hope for the italian élite”: noi possiamo senza alcun indugio descrivere Macron come “l’ultima speranza dell’establishment francese”. Dopo il quinquennio dell’ex-Rothschild, non ci sarà più nessuna presidenza socialista, né centrista, né repubblicana: sarà l’ora delle forze anti-sistema, che si chiamino Front National o con un altro nome, che a guidarle sia ancora Marine Le Pen od un’altra figura. Il pendolo ha ripreso il suo viaggio verso la dissoluzione economica dell’Unione Europea e, in ordine cronologico, sono tre le prossime tappe salienti: il precipitare della situazione italiana, complice anche la prossima instabilità politica; una nuova recessione globale che cova sotto le ceneri; il rialzo dei tassi da parte dalla Fed e/o della Bce. Come direbbero in Francia: nous avons perdu une bataille, on gagnera la guerre!
    (Federico Dezzani, estratto dal post “La Francia ha scelto il suo Matteo Renzi, e già sappiamo che fine farà”, dal blog di Dezzani dell’8 maggio 2017).

    Durante la campagna elettorale francese e nelle ore successive alla vittoria di Emmanuel Macron, i media nostrani hanno tessuto paragoni, molto innocenti, tra il candidato di “En Marche!” e l’ex-premier Matteo Renzi. Utilizziamo l’aggettivo “innocente” perché, ovviamente, ci si è guardati dall’evidenziare le incredibili analogie tra le carriere di due 39enni che, con stucchevole celerità, hanno scalato (o addirittura fondato) un partito, per poi essere catapultati nella stanza dei bottoni saltando a piè pari il classico cursus honorum della politica. Entrambi sponsorizzati da una grande banca d’affari (la Rothschild per Macron e la Jp Morgan per Renzi), entrambi aiutati da scandali giudiziari (il Penelopegate che affossa Fillon e “l’affare stadio” che spiana la strada di Renzi verso il Comune di Firenze), entrambi benedetti da Washington e dal “luogotenente” Angela Merkel, entrambi incensati dal milieu intellettuale-mediatico, entrambi aiutati dalla “fortuna” nella loro conquista del potere (la scissione tra socialisti e “France Insoumise” nel caso Macron, la defenestrazione tutta extra-parlamentare di Enrico Letta nel caso di Renzi).

  • Come (non) uscire dall’euro, versione 5 Stelle

    Scritto il 31/3/17 • nella Categoria: idee • (14)

    L’unica lezione veramente importante che possiamo trarre dall’episodio di Varoufakis nel 2015 è che, se si vuole lasciare l’euro, si deve essere preparati – sia politicamente che dal punto di vista logistico. Lasciare l’euro non è un semplice punto di programma in una piattaforma politica, un qualcosa di cui parlare con nonchalance in una tavola rotonda o su cui tenere un referendum. È una questione più grossa della stessa Brexit. L’uscita da una moneta unica non può mai essere un processo ordinato, ovunque e in qualsiasi circostanza. Nel leggere questo resoconto di Gavin Jones su “Reuters” a proposito della conferenza stampa di Luigi Di Maio, ci ha colpito il fatto che il vicepresidente della Camera dei deputati, l’uomo che ha le maggiori probabilità di diventare primo ministro italiano nel caso le tendenze attuali dovessero persistere, si sta preparando a un fallimento monumentale. Di Maio, 30 anni, è un  giovane uomo senza nessuna esperienza di crisi valutarie. Il modo in cui prefigura l’uscita dall’euro è incredibilmente ingenuo – attraverso un ordinato iter legislativo. In una conferenza stampa ha dichiarato che l’uscita dall’euro non è una priorità assoluta per il suo partito.
    E’ un po’ come dire che si sta progettando di lanciare una guerra nucleare, è vero, solo che non è in cima all’agenda. Ha detto: «Non è vero che il Movimento 5 Stelle vuole portare l’Italia fuori dall’euro… vogliamo che siano gli italiani a decidere». Ha detto che il referendum dovrebbe essere preceduto da un iter legislativo che prepari il terreno. E potrebbero anche non tenerlo, se le istituzioni europee si dimostrano assennate. L’ha messa così, senza entrare nei dettagli di cosa intende. Lo interpretiamo come voler tenere una porta aperta alla decisione di rimanere nella zona euro. Ma, purtroppo, in pratica non è così che funzionerà. Il futuro di lungo periodo dell’Italia nell’euro è davvero incerto, e si può facilmente pensare a tutta una serie di scenari, inclusi gli scenari di uscita. Ma c’è uno scenario che possiamo escludere con assoluta certezza: l’uscita dall’euro attraverso un referendum.
    Se i 5 Stelle vincono, il che è possibile, ci vorranno dai 2 ai 5 secondi dal primo exit poll perché i tassi di interesse italiani si impennino fino a livelli di crisi, o anche oltre, perché gli investitori dovranno scontare nel prezzo la probabilità non trascurabile di un default, dato che i referendum sono intrinsecamente imprevedibili. Nel momento in cui diventa primo ministro, Di Maio si troverà a gestire una crisi finanziaria. Non possiamo escludere un’uscita dell’Italia dall’euro a seguito di una situazione di panico nei mercati. Né si può escludere lo scenario di un governo italiano che tira fuori un piano, a lungo preparato, per introdurre una moneta parallela, con chiusura delle banche durante un lungo week-end. Ma possiamo escludere un processo ordinato grazie al quale l’Italia cambia la sua Costituzione, e quindi consente di procedere a un referendum sull’euro. Non ci si arriverà mai. Gli eventi precipiteranno ben prima.
    Una ragione per cui siamo così certi di questo è che la Banca Centrale Europea, che ha la capacità definitiva di mettere a tappeto qualsiasi attacco dei mercati alla zona euro, non sarà disposta o non potrà aiutare un governo che non si considera vincolato all’euro. Non potrebbe dare avvio al programma Omt per sostenere un governo non conforme. Una più probabile sequenza politica di eventi è quella che chiamiamo lo scenario Huey Long, dal nome del governatore della Louisiana che, a quanto si dice, la notte delle elezioni dichiarò ad un suo assistente la sua intenzione di non mantenere la promessa di tagliare le tasse: «Dite loro che ho mentito». Di Maio o dovrà fare come Huey Long, o dovrà preparare una legislazione di emergenza per uscire dall’euro. In ogni caso, ciò che risulta molto chiaro dall’intervista è che questo giovane uomo è del tutto impreparato. Lasciare l’euro sarebbe la più importante decisione per l’Italia dalla firma del Trattato di Roma, sessant’anni fa. Sarebbe meglio essere pronti. Non è certo un punto secondario nella lista della cose da fare.
    (Wolfgang Munchau, “Eurointelligence: come ‘non’ uscire dall’euro, versione 5 Stelle”, dal “Financial Times” del 24 marzo 2017, articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).

    L’unica lezione veramente importante che possiamo trarre dall’episodio di Varoufakis nel 2015 è che, se si vuole lasciare l’euro, si deve essere preparati – sia politicamente che dal punto di vista logistico. Lasciare l’euro non è un semplice punto di programma in una piattaforma politica, un qualcosa di cui parlare con nonchalance in una tavola rotonda o su cui tenere un referendum. È una questione più grossa della stessa Brexit. L’uscita da una moneta unica non può mai essere un processo ordinato, ovunque e in qualsiasi circostanza. Nel leggere questo resoconto di Gavin Jones su “Reuters” a proposito della conferenza stampa di Luigi Di Maio, ci ha colpito il fatto che il vicepresidente della Camera dei deputati, l’uomo che ha le maggiori probabilità di diventare primo ministro italiano nel caso le tendenze attuali dovessero persistere, si sta preparando a un fallimento monumentale. Di Maio, 30 anni, è un  giovane uomo senza nessuna esperienza di crisi valutarie. Il modo in cui prefigura l’uscita dall’euro è incredibilmente ingenuo – attraverso un ordinato iter legislativo. In una conferenza stampa ha dichiarato che l’uscita dall’euro non è una priorità assoluta per il suo partito.

  • Marine Le Pen in testa anche tra i giovani e sui social media

    Scritto il 29/3/17 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    Siamo sicuri che Macron abbia in pugno la vittoria alle presidenziali? Come già accaduto per la Brexit e in occasione dell’elezione di Trump, l’immagine proiettata dai sondaggi e amplificata dai media mainstream rischia di essere, ancora una volta, ingannevole. Che cosa dicano lo sapete: Macron va bene, è alla pari con la Le Pen e, naturalmente, ha vinto il dibattito televisivo con i candidati all’Eliseo. Scremando la propoganda, la realtà appare diversa. Non si tratta di fare il tifo per un candidato o per l’altro ma di analizzare, per capire. Diciamola tutta: Marine Le Pen, oggi, è largamente in testa. Per tre ragioni. La prima è emersa nei giorni scorsi e qualche commentatore l’ha già prontamente rilevata. E’ accaduto che un giornalista di “Le Figaro” si lasciasse sfuggire che, secondo i sondaggi segreti, ben diversi da quelli diffusi ogni giorno, la Le Pen sarebbe in testa con il 34% dei voti, dunque almeno 8 punti in più rispetto al 26% di cui è acceditato Macron. La seconda ragione trova ispirazione in un’altra fonte autorevole, il “Financial Times”, che rivela come il 40% dei giovani francesi sia intenzionato a votare per la candidata del Fronte Nazionale. Macron raccoglie la metà dei consensi, appena il 20%. Come si spiega?
    Ascoltiamo il “Ft”: «La frustrazione tra i giovani per la mancanza di lavoro e le cattive prospettive economiche costituiscono gran parte del fascino del Fn. Sotto il governo socialista di François Hollande la disoccupazione è rimasta ostinatamente alta, il doppio del livello di Regno Unito e Germania. La disoccupazione giovanile è al 25% – dal 18% del 2008. “In Francia per un numero crescente di giovani meno istruiti il fatto che passeranno buona parte delle loro vite in una situazione economica precaria è quasi una certezza,” dice il politologo Joël Gombin». Inoltre, ed è molto significativo, oggi Marine Le Pen non viene più percepita, soprattutto dai giovani, come un candidato xenofobo. Cito ancora il “Financial Times”: «Negli ultimi dieci anni, e in particolare a partire dal 2011 sotto la guida di Marine Le Pen, il partito ha cercato di rimodellare la propria immagine. I funzionari, per esempio, ora parlano di “immigrazione”, piuttosto che di “immigrati”, e si oppongono all’“Islam radicale”, piuttosto che all’“Islam”, mentre i temi sui quali il partito organizza le sue campagne si sono ampliati oltre la sicurezza e l’immigrazione, per includere un messaggio anti-globalizzazione focalizzato sull’economia».
    Dunque da forza di estrema destra, il Fronte Nazionale si è trasformato in un movimento di protesta che non si lascia più imbrigliare negli schemi politici classici. Certo, difende l’identità, i valori della nazione francese, ma presentandosi sempre più come forza neogollista, ovvero come legittima erede di una corrente che il centrodestra tradizionale ha progressivamente abbandonato. In un’epoca in cui i programmi della destra moderata e socialisti tendono a convergere, elidendosi, e in cui i partiti di sinistra, contaminati dai disastri della presidenza Hollande, appaiono in crisi di credibilità, la Le Pen si propone come colei che sa interpretare il forte malessere sociale di una parte importante della società francese. E’ conservatrice e al contempo sociale. Crede nel libero mercato ma attacca una globalizzazione che privilegia le multinazionali. Non eccede mai nei toni, per non spaventare l’elettorato borghese, e dimostra un notevole livello di preparazione, ad esempio nella critica all’euro e all’Unione Europea. Si è riposizionata sul centrodestra, occupando lo spazio lasciato libero da Sarkozy e ora da un Fillon azzoppato dagli scandali, e oggi Marine Le Pen riesce a presentarsi come un leader di rottura ma credibile, in grado di catalizzare, oltre ai voti della vecchia Francia iperconservatrice, anche quelli, nuovi e arrabbiati, di una gioventù che un tempo votava per la gauche. Di fatto può pescare in ogni area politica.
    La terza ragione è un po’ tecnica ma fondamentale. Lo sappiamo: Donald Trump ha vinto le elezioni grazie al sostegno conquistato sui siti Internet e sui social media. E oggi in tutti i paesi occidentali la capacità di persuasione del web è almeno pari, ma in certi casi addirittura superiore, a quella della tv e dei media tradizionali. Immagino già l’obiezione: la Francia non è l’America. Vero, però è la patria del Minitel, ovvero di quello che è stato il primo vero social media, ed è un paese assai digitalizzato. Ecco perché, anche a Parigi, per valutare il peso di un candidato bisogna non lasciarsi condizionare dal “rumore mediatico” che – in Francia oggi, come in America ieri – dà per sicura l’elezione di un solo candidato. Là era Hillary, qui è Macron. Sui social media i ruoli si ribaltano. Macron è indietro, mentre Marine batte tutti, come rileva un’altra fonte insospettabile, l’“Huffington Post”, a margine del dibattito tra i candidati dell’altro giorno che, secondo i media, è stato vinto dal giovane ex ministro dell’economia di Hollande, ma che, stando al sentiment di Facebook e di Twitter, è andato alla Le Pen.
    Un responso che riflette la presenza complessiva sui social. Marine si è mossa per tempo e decisamente bene. Su Twitter conta 1,34 milioni di follower e ha molto più seguito di Mélenchon (1 milione di follower), di Macron (577mila), di Fillon (461mila) e di Hamon (348mila). Su Facebook il distacco è ancora più ampio: ha 1.258.777 fan, rispetto a Mélenchon (709.130 fan), Fillon (311.377), Macron (228.398) e Hamon (148.107). Numeri che sono importanti ma che da soli non sono del tutto significativi. Per valutarne il peso occorre stimare la capacità di mobilitazione – e dunque di “contagio digitale” – che è determinata dalla quantità dei post e dall’assiduità dei fan. E anche qui, pochi dubbi: la motivazione dei sostenitori di Marine appare molto più elevata di quella degli altri candidati e soprattutto di Macron. Questo significa che la Le Pen conquisterà l’Eliseo? Non corriamo, qualunque previsione è prematura, tanto più in un sistema elettorale a due turni. Significa, però, che la sua vittoria non può più essere esclusa, perché la sua candidatura è molto più strutturata politicamente, e molto più radicata socialmente, di quanto i suoi avversari siano disposti ad ammettere. I quali preferiscono far finta di non vedere e continuano a confidare nella propaganda tradizionale, amplificata dai media, tutti schierati contro Marine. Una situazione che ricorda, ancora una volta, quella delle presidenziali americane. Attenti alle sorprese…
    (Marcello Foa, “Marine Le Pen vola e non solo nei sondaggi segreti. Attenti alle sorprese…”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 24 marzo 2017).

    Siamo sicuri che Macron abbia in pugno la vittoria alle presidenziali? Come già accaduto per la Brexit e in occasione dell’elezione di Trump, l’immagine proiettata dai sondaggi e amplificata dai media mainstream rischia di essere, ancora una volta, ingannevole. Che cosa dicano lo sapete: Macron va bene, è alla pari con la Le Pen e, naturalmente, ha vinto il dibattito televisivo con i candidati all’Eliseo. Scremando la propoganda, la realtà appare diversa. Non si tratta di fare il tifo per un candidato o per l’altro ma di analizzare, per capire. Diciamola tutta: Marine Le Pen, oggi, è largamente in testa. Per tre ragioni. La prima è emersa nei giorni scorsi e qualche commentatore l’ha già prontamente rilevata. E’ accaduto che un giornalista di “Le Figaro” si lasciasse sfuggire che, secondo i sondaggi segreti, ben diversi da quelli diffusi ogni giorno, la Le Pen sarebbe in testa con il 34% dei voti, dunque almeno 8 punti in più rispetto al 26% di cui è accreditato Macron. La seconda ragione trova ispirazione in un’altra fonte autorevole, il “Financial Times”, che rivela come il 40% dei giovani francesi sia intenzionato a votare per la candidata del Fronte Nazionale. Macron raccoglie la metà dei consensi, appena il 20%. Come si spiega?

  • De Benedetti: entro 5 anni l’Unione Europea sarà morta

    Scritto il 16/3/17 • nella Categoria: segnalazioni • (61)

    Per farsi un’idea dell’incertezza che aleggia sul destino dell’Unione Europea, basta leggere il “libro bianco” di Jean-Claude Juncker riguardo il futuro dell’Europa. Mercoledì questo documento del presidente della Commissione Europea è stato reso pubblico, e conteneva addirittura cinque possibili scenari per l’evoluzione dell’Ue da qui al 2025: “tirare avanti”, “nient’altro che il mercato unico”, “quelli che vogliono fare di più fanno di più”, “fare meno in maniera più efficiente” e “fare molto di più insieme”. La vaghezza e genericità del “libro bianco” è comprensibile. Mentre si avvicinano le elezioni in Olanda, Bulgaria, Francia, Germania e in Repubblica Ceca, non c’è praticamente nessun governo che abbia voglia di seguire le ambiziose iniziative di Juncker. Tuttavia, i governi si rendono conto che l’Europa sta creando rischi al mondo intero in una maniera che non si era più verificata dalla fine della guerra fredda negli anni 1989-91. Gli strateghi di politica estera a Berlino, Parigi e nelle altre capitali stanno rivedendo le loro posizioni a lungo condivise sull’inevitabilità dell’integrazione europea e la stabilità dell’alleanza Europa-Usa nell’ambito della sicurezza.
    L’Europa “a più velocità”, che incoraggia alcuni paesi a integrarsi più velocemente di altri, è tornata di moda. Questa idea, attraente in special modo per alcune parti dell’Europa occidentale, ha ricevuto sostegno da Jean-Marc Ayrault e Sigmar Gabriel, i ministri degli esteri di Francia e Germania. Un’altra idea è di aumentare la collaborazione nella difesa, in modo che in questo campo l’Ue diventi per gli Stati Uniti un partner più credibile. Al di là di queste proposte relativamente prudenti, alcuni responsabili politici e analisti indipendenti stanno pensando l’impensabile. Un esempio è il report di MacroGeo, una società di consulenza presieduta da Carlo De Benedetti, un veterano della comunità imprenditoriale italiana. Il report “L’Europa al tempo di Trump e della Brexit: disintegrazione e riorganizzazione”, arriva a conclusioni coraggiose. Afferma che l’Ue nella sua forma attuale con ogni probabilità va incontro alla decomposizione, anche se dovessero vincere le elezioni di quest’anno politici pro-integrazione come Emmanuel Macron, il centrista indipendente francese, e Martin Schulz, il socialdemocratico tedesco.
    «Per il ciclo elettorale 2021-22, l’Ue potrebbe entrare negli ultimi cinque anni della sua ‘reale’ esistenza», dice il report, che considera che le strutture legali formali dell’Unione con sede a Bruxelles potrebbero resistere più a lungo. Il report sostiene che, al di là di shock quali il voto britannico per l’uscita dall’Ue, i trend geopolitici di lungo termine stanno portando l’unione valutaria all’atrofia. Ai confini orientali e meridionali dell’Unione si affacciano molti problemi: l’immigrazione clandestina, Stati prossimi al fallimento, terrorismo, cambiamenti climatici e revisionismo russo. Nel frattempo, gli Stati Uniti si stanno lentamente disimpegnando dall’Europa per focalizzarsi sulla Cina e l’estremo oriente. La Germania non occuperà il posto degli Stati Uniti come potenza egemone di riferimento per l’Europa: non lascerà mai che l’eurozona diventi una “unione di trasferimenti fiscali” e, nonostante le speculazioni riguardo a un deterrente nucleare tedesco, il suo passato nel ventesimo secolo dice chiaramente che né la Germania né i suoi vicini vogliono che essa diventi la potenza militare dominante dell’Europa.
    La disintegrazione dell’Ue scatenerebbe «i pericolosi demoni nazionalistici del passato europeo», come teme Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga? Gli autori del report di MacroGeo prevedono che non si avrà un’anarchica competizione tra gli Stati-nazione, bensì «l’affermazione di un nucleo centrale geoeconomico intorno alla Germania». Questo sarebbe formato dalla Germania e dai paesi che ne costituiscono la filiera industriale, cui si addice la cultura fiscale e monetaria tedesca. In maniera disarmante, gli autori suggeriscono che, «se l’Italia dovesse dividersi», l’Italia del Nord potrebbe unirsi al gruppo formato da Olanda, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e alcuni paesi scandinavi. Questa evoluzione presuppone la disgregazione dell’Eurozona a 19 paesi. I ministri delle finanze e i banchieri centrali europei ci ripetono che questo passo sarebbe devastante per le economie europee e per la stabilità finanziaria globale.
    Tuttavia, questa prospettiva è in discussione, e non solo nei circoli del partito di estrema destra francese, il Front National, o nel partito anti-estabilishment italiano M5S. Mediobanca, una banca d’investimenti che una volta era l’emblema del capitalismo del nord Italia, a gennaio ha pubblicato un rapporto controverso in cui suggeriva che, in termini di debito pubblico, l’Italia non soffrirebbe particolarmente lasciando l’Eurozona. Il mese scorso il Parlamento olandese ha votato per l’istituzione di una commissione d’inchiesta sui pro e contro dell’appartenenza olandese all’Eurozona, una mossa che riflette la frustrazione nei confronti della politica di tassi ultra-bassi e del programma Qe della Banca Centrale Europea. Nel valutare il futuro dell’Europa, questi sviluppi vanno presi attentamente in considerazione – forse più attentamente del “libro bianco” di Juncker.
    (Tony Barber, “L’Europa inizia a pensare l’impensabile, smantellare l’Eurozona”, dal “Financial Times” del 3 marzo 2017, articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).

    Per farsi un’idea dell’incertezza che aleggia sul destino dell’Unione Europea, basta leggere il “libro bianco” di Jean-Claude Juncker riguardo il futuro dell’Europa. Mercoledì questo documento del presidente della Commissione Europea è stato reso pubblico, e conteneva addirittura cinque possibili scenari per l’evoluzione dell’Ue da qui al 2025: “tirare avanti”, “nient’altro che il mercato unico”, “quelli che vogliono fare di più fanno di più”, “fare meno in maniera più efficiente” e “fare molto di più insieme”. La vaghezza e genericità del “libro bianco” è comprensibile. Mentre si avvicinano le elezioni in Olanda, Bulgaria, Francia, Germania e in Repubblica Ceca, non c’è praticamente nessun governo che abbia voglia di seguire le ambiziose iniziative di Juncker. Tuttavia, i governi si rendono conto che l’Europa sta creando rischi al mondo intero in una maniera che non si era più verificata dalla fine della guerra fredda negli anni 1989-91. Gli strateghi di politica estera a Berlino, Parigi e nelle altre capitali stanno rivedendo le loro posizioni a lungo condivise sull’inevitabilità dell’integrazione europea e la stabilità dell’alleanza Europa-Usa nell’ambito della sicurezza.

  • Rottamati la Merkel e Draghi, addio all’euro entro 18 mesi

    Scritto il 24/2/17 • nella Categoria: idee • (3)

    L’Europa due velocità? E’ la carta della disperazione prima del crollo dell’euro, moneta alla quale Ted Malloch, portavoce Usa in Ue, non concede più di 18 mesi di vita. La Merkel e Draghi? Sono gli ultimi due baluardi del vecchio establishment. E soccomberanno, stritolati da una tenaglia: da una parte Trump, dall’altra gli euroscettici alle urne nei prossimi mesi. Lo sostiene Federico Dezzani, osservando il fatale deteriorarsi del quadro generale in Europa: «Senza la morfina iniettata dalla Bce, i mercati finanziari sarebbero in preda a convulsioni peggiori del 2012». L’amministrazione Trump si sarebbe saldata con le forze populiste europee, il “Gruppo di Coblenza”. E anche se da Washington piovono duri attacchi contro la Germania e i suoi saldi commerciali record, «persino i nazionalisti tedeschi, i falchi della Cdu-Csu, viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda della Casa Bianca». Ormai, «solo due superstiti del vecchio establishment liberal, Angela Merkel e Mario Draghi, oppongono ancora resistenza al processo di euro-dissoluzione», ma «difficilmente riusciranno però a salvarsi».
    La situazione è critica: capitali congelati, denaro in fuga verso “l’area marco”, banche del Sud Europa in crisi, finanze pubbliche in evidente stress, agenzie di rating che declassano senza sosta i titoli di Stato. «Molti investitori scommettono ormai sull’implosione della moneta unica». Di qui la contromossa di Angela Merkel, «proconsole europeo dell’oligarchia finanziaria»: l’Europa a due velocità. Per la cancelliera sarebbe il colpo d’ala per uscire dal pantano in cui sta sprofondando l’euro. Due velocità, ovvero: «Un nocciolo di paesi che procede con l’integrazione fiscale e politica. Tesoro unico, bilancio comune, dissoluzione dei Parlamenti nazionali in un’entità sovranazionale: dopotutto l’euro, un banale regime a cambi fissi calato su un’area monetaria non ottimale, non è stato studiato proprio per questo obiettivo? Strappare i massonici Stati Uniti d’Europa con una lancinante crisi economica e finanziaria?». Abbiamo bisogno di più Europa, ripete la Merkel al “Financial Times”. L’unione monetaria non basta, dice la cancelliera: per uscire dalle sabbie mobili servono l’unione fiscale e politica: bisogna cedere ancora più sovranità all’Europa.
    «È musica per le orecchie del milieu finanziario-politico che ha scommesso tutto sulla federazione del continente: alla cancelliera federale, gongolano soddisfatti, siede una preziosa alleata che segue con cura il copione». Sono gli stessi, aggiunge Dezzani, che nel 2012 si affrettarono a firmare il “Manifesto per gli Stati Uniti d’Europa” promosso dal “Sole 24 Ore”: Romano Prodi, Antonio Tajani, George Osborne, Jacques Delors, Joschka Fischer. Era l’epoca del “whatever it takes” pronunciato da Mario Draghi per puntellare l’euro. Da allora, «i Btp hanno subito una raffica di declassamenti, le sofferenze bancarie in Italia sono esplose, la Grecia è stata a un passo dall’abbandonare l’euro, la presidenza Hollande è nata ed è morta, l’Eurozona è sprofondata nella deflazione, la Bce ha varato l’allentamento quantitativo attirandosi le ire di Berlino». E i “populismi” sono cresciuti, fino a conquistare percentuali maggioritarie dell’elettorato. «Parlare nuovamente di “Europa a due velocità”, corrobora la tesi di Karl Marx che la storia si ripeta sempre due volte: la prima in tragedia e la seconda in farsa», commenta Dezzani, secondo cui «ridicola è anche la reazione di quegli stessi personaggi che cinque anni anni fa firmarono il manifesto del “Sole 24 Ore”», che erano «terrorizzati dall’idea di essere risucchiati dal cesso della storia insieme alla moneta unica e ai palazzi di Bruxelles».
    Intervistato dalla “Repubblica”, Romano Prodi, per il quale «Trump e Le Pen sono i due volti dello stesso pericolo: non capisco come mai non si siano ancora sposati», ha così commentato “l’Europa a due velocità” proposta dalla Merkel: «E’ la risposta che aspettavo, anche se avrei preferito che nascesse da un più ampio dibattito politico. Finalmente la Germania sembra cominciare ad assumersi quel ruolo di leadership che non aveva mai voluto esercitare. Va bene così». Ma davvero, obietta Dezzani, qualcuno crede ancora che un manipolo di paesi volenterosi decida, nel 2017, dopo quasi sette anni di eurocrisi, di fondersi in una federazione? «Probabilmente non ci crede neppure Prodi, considerato che altri illustri tecnocrati illuminati hanno già gettato la spugna nel corso del 2016», come lo stesso: Juncker: «Basta parlare di Stati Uniti d’Europa, la gente non li vuole», L’Eurozona è oggi dilaniata dalle forze centrifughe. E se sui mercati regna un relativa calma è solo grazie alla morfina iniettata da Draghi, al ritmo di 80 miliardi al mese: «E’ un oppiaceo, che lenisce il dolore ma non risolve le cause della malattia». Considerato poi che il “quantitative easing” è stato prorogato per tutto il 2017, «è ormai evidente che la moneta unica non cadrà sotto i colpi degli assalti speculativi, ma sotto quelli della politica». Meglio ancora: «Cadrà vittima di una precisa strategia politica: una manovra a tenaglia, progettata dall’amministrazione Trump e dalle forze nazionaliste europee per liquidare i superstiti dell’establishment liberal e, con loro, l’Unione Europea e la moneta unica».
    Dezzani lo deduce osservando la nascita di «una tacita, ma ben visibile, alleanza delle forze “populiste” americane ed europee contro l’élite finanziaria mondialista: non sbaglia Romano Prodi quando definisce Trump e Le Pen come “due volti dello stesso pericolo”, perché rappresentano effettivamente una declinazione della stessa corrente politica, quella dei movimenti nazionali che insorgono contro l’oligarchia liberal e le sue istituzioni: le Nazioni Unite (vedi i tagli ai finanziamenti operati da Trump), le agenzie sovranazionali che predicano il cambiamento climatico, la Chiesa di Jorge Mario Bergoglio, i paladini dell’immigrazione indiscriminata, la Nato, l’Unione Europea e la sua colonna portante, la moneta unica». Il neo-presidente americano «non può certo presentare una formale dichiarazione di guerra alle istituzioni di Bruxelles», è ovvio, «ma tutte le azioni sinora intraprese vanno il quel senso: il duro attacco sferrato dall’amministrazione Trump contro la Germania, accusata di macinare esportazioni record ai danni degli altri membri dell’Eurozona e degli Usa stessi, sfruttando l’euro debole, equivale a mettere nel mirino le due figure chiave dell’impalcatura europea», Angela Merkel e il governatore della Bce, «senza le quali l’euro si sarebbe già dissolto da almeno due anni».
    La Merkel è stata «la garante politica dell’integrità dell’Eurozona, respingendo a suo tempo l’ipotesi di una Grexit caldeggiata dai falchi tedeschi», mentre Draghi «ha “sedato” l’eurocrisi iniettando massicce dosi di liquidità e svalutando l’euro, attraverso quell’allentamento quantitativo osteggiato sempre dai falchi tedeschi». Aggiunge Dezzani: «Si noti come i “duri” tedeschi, capeggiati da Wolfgang Schaeuble, siano in perfetta sintonia con la retorica di Trump», perché «entrambi lavorano, neppure troppo velatamente, per lo smantellamento dell’Eurozona per come è configurata oggi». Secondo Dezzani, Schaeuble «viaggia sulla stessa lunghezza d’onda dell’amministrazione Trump anche su altro dossier che sta tornando alla ribalta in questi giorni, il salvataggio della Grecia: i falchi tedeschi, sempre in opposizione ad Angela Merkel, si oppongono a qualsiasi riduzione del debito pubblico greco, invitando la Grecia ad abbondare l’euro per alleviare il fardello del debito». Così facendo, «si pongono così sulle stesse posizioni dell’amministrazione Trump». E il probabile, futuro ambasciatore americano presso la Ue, “l’euroscettico” Malloch, si è già espresso a favore dell’uscita di Atene dalla moneta unica, definendo «un inutile e doloroso spreco di tempo» il tentativo di evitare la Grexit.
    A un’analisi più approfondita, continua Dezzani, la politica europea dell’amministrazione Trump non è quindi un “attacco alla Germania”, ma l’ennesima prova di un’alleanza tra la Casa Bianca e le forze nazionaliste (compresi i falchi della Cdu-Csu) contro gli ultimi esponenti superstiti dell’establishment “liberal”, caduti i quali «si spianerebbe la strada alla dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea». Sempre secondo Dezzani, «il fulmineo e misterioso vertice svoltosi alla cancelliera di Berlino il 9 febbraio tra Angela Merkel e Mario Draghi», nel quale i due avrebbero discusso “sul futuro dell’Europa”, altro non sarebbe che «il disperato tentativo di coordinamento tra due sopravvissuti, che studiano come coprirsi le spalle a vicenda di fronte all’attacco concentrico: nazionalisti tedeschi, populismi europei e amministrazione Trump». La “Stampa” titola, infatti: «Vertice in cerca di alleanza tra Merkel e Draghi». Al termine dell’incontro, «la cancelliera ha dovuto addirittura rimangiarsi l’ipotesi dell’Europa a due velocità lanciata appena pochi giorni prima: già, perché procedere verso la creazione di nocciolo di paesi federati presuppone almeno due o più volontari. Ma chi potrebbe seguire la cancelliera Merkel nel febbraio del 2017 in quest’impresa?».
    Certamente, risponde Dezzani, non lo farebbe nessuno di quei paesi che si avvicinano alle elezioni, promettendo ottimi risultati al “Gruppo di Coblenza”: «Ci riferiamo a quei movimenti nazionalisti che il 21 gennaio, all’indomani dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, si sono ritrovati nella città tedesca per lanciare la loro sfida congiunta all’Unione Europea». Agli «amanti dei retroscena», l’analista ricorda che proprio Coblenza fu la base dei monarchici francesi dopo la Rivoluzione del 1789, massonica e illuministica, che invece Dezzani definisce «coordinata da quegli Illuminati che avevano la propria base a Francoforte». Tornando a oggi: al vertice di Coblenza hanno presenziato Matteo Salvini, la tedesca Frauke Petry di “Alternative für Deutschland”, l’olandese Geert Wilders e Marine Le Pen. «Con quale paese la cancelliera Angela Merkel potrebbe quindi procedere verso la creazione di una federazione europea? Con la “germanica” Olanda? Molto difficilmente, considerato che il populista Partito della Libertà è dato in testa ai sondaggi e ha promesso di indire un referendum sulla permanenza nell’Unione Europea. Oppure con l’altra metà del “motore franco-tedesco”, quella Francia dopo il Front National è il primo partito e la “populista” Marine Le Pen avrà gioco facile a sconfiggere al ballottaggio il candidato della banca Rothschild, Emmanuel Macron?».
    Per Dezzani «ci sono pochi dubbi sulla dinamica dell’Eurozona all’indomani della vittoria di Marine Le Pen, tanto che il suo consulente economico, Bernard Monot, ha già svelato il piano da attuare nelle ore successive al voto del 7 maggio». Un’agenda di guerra: immediata convocazione di un vertice europeo d’emergenza. Sostituzione dell’euro con un paniere di valute, paragonabile al vecchio Ecu. Libera fluttuazione del “nuovo franco” fino ad massimo del 20% rispetto al paniere. E poi: ridenominazione del debito pubblico in franchi, abolizione della legge del 1973 per riportare la Banca di Francia sotto il controllo del Parlamento, a supporto di una politica monetaria espansiva per stimolare l’economia. Ecco le premesse per la “profezia” di Malloch, intervistato dalla “Bbc: addio all’euro, entro 18 mesi. «Previsione più che realistica», secondo Dezzani, considerata la “manovra a tenaglia” studiata dall’amministrazione Trump e dal “Gruppo di Coblenza” per liquidare gli ultimi due pilastri dell’establishment “liberal” in Europa, cioè l’Ue e il suo corrispettivo militare, la Nato. «Gli stessi centri di potere, per inciso, che avrebbero preferito la vittoria di Hillary Clinton e la conseguente escalation militare con la Russia, pur di sopravvivere». Tra i vecchi oligarchi euroatlantici resistono Draghi e la Merkel: «Chiusa la tenaglia, non ne rimarrà in piedi nessuno».

    L’Europa a due velocità? E’ la carta della disperazione prima del crollo dell’euro, moneta alla quale Ted Malloch, portavoce Usa in Ue, non concede più di 18 mesi di vita. La Merkel e Draghi? Sono gli ultimi due baluardi del vecchio establishment. E soccomberanno, stritolati da una tenaglia: da una parte Trump, dall’altra gli euroscettici alle urne nei prossimi mesi. Lo sostiene Federico Dezzani, osservando il fatale deteriorarsi del quadro generale in Europa: «Senza la morfina iniettata dalla Bce, i mercati finanziari sarebbero in preda a convulsioni peggiori del 2012». L’amministrazione Trump si sarebbe saldata con le forze populiste europee, il “Gruppo di Coblenza”. E anche se da Washington piovono duri attacchi contro la Germania e i suoi saldi commerciali record, «persino i nazionalisti tedeschi, i falchi della Cdu-Csu, viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda della Casa Bianca». Ormai, «solo due superstiti del vecchio establishment liberal, Angela Merkel e Mario Draghi, oppongono ancora resistenza al processo di euro-dissoluzione», ma «difficilmente riusciranno però a salvarsi».

  • Stress test, la Bce imbroglia per salvare Deutsche Bank

    Scritto il 22/10/16 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    È l’ultimo scandalo emerso sul caso Deutsche Bank. Il “Financial Times” scrive che «al maggiore istituto di credito tedesco è stato permesso di imbrogliare – ops, scusate! – che gli è stato riservato un “trattamento speciale” da parte della Bce durante gli stress test di luglio», riporta “Zero Hedge”. Nei risultati di questi stress test, che promettevano di “ripristinare la fiducia nelle banche europee tramite una valutazione uguale e omogenea della situazione finanziaria di ciascuna banca”, i risultati per Deutsche Bank sono stati gonfiati da una “concessione speciale” accordata da Mario Draghi: i risultati di Deutsche Bank includevano i 4 miliardi di profitti dovuti alla vendita delle azioni dell’istituto di credito cinese Hua Xia, nonostante l’accordo non fosse ancora concluso alla fine del 2015, cioè la data limite di inclusione delle transazioni in questi stress test. Sebbene l’accordo con Hua Xia fosse stato concordato nel dicembre 2015, non è ancora stato completato e sarà probabilmente ritardato ulteriormente dopo aver mancato la scadenza regolamentare dello scorso mese. Ciononostante, la banca tedesca è ancora fiduciosa che l’accordo si concluda entro l’anno in corso.
    Come osserva il “Financial Times”, il trattamento “Hua Xia” è stato rivelato in una nota a pie’ di pagina nei risultati degli stress test per Deutsche Bank, e aggiunge che «nessuna delle altre 50 banche sottoposte a stress test ha simili note riportate, sebbene molte avessero accordi decisi ma non ancora completati alla fine del 2015», continua “Zero Hedge”, in un post tradotto da “Voci dall’Estero”. Come mostrato dallo stress test condotto in estate dalla banca centrale, il patrimonio di classe 1 di Deutsche Bank (la componente primaria del capitale bancario) crolla al 7,8% dopo essere stato «soggetto allo stress test del peggiore dei casi, considerando multe, bassi tassi di interesse e bassa crescita economica». Tuttavia, senza l’aiuto speciale dato da Hua Xia, il rapporto sarebbe sceso ulteriormente al 7,4%, un livello comunque superiore al minimo regolamentare. Perché dunque questo trattamento? «Perché pubblicare risultati migliori aiuta a rassicurare gli investitori, che stanno diventando sempre più nervosi sull’adeguatezza del capitale bancario».
    Ma altre banche non sono state così fortunate, prosegue “Zero Hedge”: l’istituto di credito spagnolo Caixabank ha completato una vendita di asset esteri per 2,65 miliardi di dollari verso la sua società madre, Criteria Holding, a marzo, ma comunque non gli è stato permesso di includere l’impatto di questa vendita nei propri risultati degli stress test effettuati in estate. Il trattamento speciale verso Deutsche Bank ha provocato sollevamenti di sopracciglia tra gli analisti del mercato: «Questo trattamento desta perplessità», afferma Chris Wheeler, analista all’Atlantic Equities. «Questa circostanza implica che gli osservatori dei mercati saranno inevitabilmente sospettosi e avranno dei dubbi sulla veracità dei risultati». Nicolas Véron di Bruegel, il think-tank con sede a Bruxelles, ha detto che è importante che sia la Bce che l’autorità bancaria europea che ha supervisionato i test, «spieghino e difendano le proprie scelte metodologiche», specialmente date le preoccupazioni del mercato verso Deutsche Bank. «Le metodologie degli stress test dovrebbero essere applicate uniformemente e senza alcun trattamento speciale: questo ovviamente vale anche per le banche di importanza sistemica, come Deutsche Bank».
    L’unico commento rilasciato dalla Bce al “Financial Times” è che la banca centrale «tratta tutte le banche nello stesso modo, in accordo col proprio regolamento», sebbene da questo tentativo di mettere una pezza al bilancio patrimoniale di Deutsche Bank sia apparso che non è affatto così. La Bce non commenta su Deutsche Bank nello specifico. E l’Autorità Bancaria Europea ha detto che ci sono stati oltre 20 casi “una tantum” approvati negli stress test. «Queste eccezioni sono pensate per evitare ovvie anomalie nelle previsioni degli stress test, se gli eventi si sono già svolti nel 2015», ha dichiarato. Secondo il “Financial Times”, altre eccezioni sono state rivelate citando una clausola nella metodologia che permette alcune limitate concessioni sulle “spese amministrative, i profitti o le perdite dovute alle operazioni discontinue e altre operazioni di spesa”. Come risultato del report, le azioni di Deutsche Bank, che prima erano crollate di -3% nel giorno dopo il fine settimana in cui è stato rilasciato il report che mostrava che le trattative dell’istituto di credito tedesco non erano riuscite, sono rimbalzate e tornate quasi immutate nel giorno in cui i trader hanno letto che la Bce avrebbe violato le proprie regole per permettere a Deutsche Bank di mantenersi stabile.

    È l’ultimo scandalo emerso sul caso Deutsche Bank. Il “Financial Times” scrive che «al maggiore istituto di credito tedesco è stato permesso di imbrogliare – ops, scusate! – che gli è stato riservato un “trattamento speciale” da parte della Bce durante gli stress test di luglio», riporta “Zero Hedge”. Nei risultati di questi stress test, che promettevano di “ripristinare la fiducia nelle banche europee tramite una valutazione uguale e omogenea della situazione finanziaria di ciascuna banca”, i risultati per Deutsche Bank sono stati gonfiati da una “concessione speciale” accordata da Mario Draghi: i risultati di Deutsche Bank includevano i 4 miliardi di profitti dovuti alla vendita delle azioni dell’istituto di credito cinese Hua Xia, nonostante l’accordo non fosse ancora concluso alla fine del 2015, cioè la data limite di inclusione delle transazioni in questi stress test. Sebbene l’accordo con Hua Xia fosse stato concordato nel dicembre 2015, non è ancora stato completato e sarà probabilmente ritardato ulteriormente dopo aver mancato la scadenza regolamentare dello scorso mese. Ciononostante, la banca tedesca è ancora fiduciosa che l’accordo si concluda entro l’anno in corso.

  • Se Renzi perde si tiene il Pd, a Palazzo Chigi un altro Monti

    Scritto il 20/10/16 • nella Categoria: idee • (1)

    Se dovesse perdere il referendum, «Renzi sarebbe ridotto a mal partito, ma non spacciato: per liberarcene occorrerà ancora altro», sostiene Aldo Giannuli, che prova a valutare le mosse del premier in caso di bocciatura, visti i sondaggi che ormai danno vincente il No, nonostante i tanti indecisi. In caso di sconfitta, «è prevedibile che Renzi rassegni le dimissioni del governo già il giorno 5 dicembre e prima che glielo chieda chiunque», perché «in un paese in cui non si dimettono nemmeno i morti e dove nessuno tiene fede alla parola data, un politico che si dimette come aveva promesso ci fa un figurone». Ma attenzione, sarebbe una scelta dovuta a un calcolo molto preciso: «Mantenere la poltrona di segretario del partito e guadagnare tempo». Infatti, «difficilmente gli converrebbe andare alle elezioni subito: dopo la botta del referendum, il Pd probabilmente perderebbe». Anche se la Corte Costituzionale dovesse lasciare immutato l’Italicum, infatti, «la bocciatura del referendum imporrebbe di ripensare la legge elettorale», magari per differenziarla: turno unico al Senato e doppio turno alla Camera. Ci vorrà tempo: e Renzi preferirà cedere temporaneamente Palazzo Chigi a «un altro Monti», dedicandosi nel frattempo alla definitiva “pulizia etnica” nel Pd, divenendone il padrone assoluto.
    Sempre che, naturalmente, i poteri forti glielo consentano. A decidere, in realtà, sarebbe il Vaticano, scommette l’ex ministro socialista Rino Formica. Il “Financial Times” lascia capire che la finanza anglosassone sta già mollando il Rottamatore: le sue riforme sarebbero «un ponte verso il nulla», scrive il giornale della City. Fin dall’inizio, Renzi è stato sostenuto dall’élite di potere che guida la globalizzazione in senso neo-feudale, predicando il taglio dello Stato a favore delle multinazionali privatizzatrici. La riforma costituzionale sottoposta a referendum sembra recepire alla lettera il “monito” di Jamie Dimon, che dal vertice della Jp Morgan avvertì che la nostra Costituzione è “troppo sensibile” alla tutela dei diritti sociali. Da sempre, Renzi si è affidato a consiglieri strategici non esattamente di sinistra: da Marco Carrai, un uomo con saldi interessi nella finanza di Tel Aviv, a Yoram Gutgeld, economista italo-israeliano e vera “mente” del governo. Per non parlare del consigliere-ombra per la politica estera, il politologo americano Michael Ledeen, esponente dell’ultra-destra atlantista. «Ledeen appartiene alla massoneria internazionale di potere che ha condizionato lungamente la politica italiana», racconta Gianfranco Carpeoro nel libro “Dalla massoneria al terrorismo”: «Ha sponsorizzato prima Craxi, poi Di Pietro, poi Grillo».
    Stesso schema: sostenere un leader e, al tempo stesso, il suo “demolitore” – ieri Craxi e Di Pietro, oggi Renzi e Grillo. Sempre secondo Carpeoro, il grillino “gestito” da Ledeen sarebbe Luigi Di Maio, ipotetico premier del dopo-Renzi in caso di elezioni. L’evoluzione della crisi italiana preoccupa moltissimo i super-poteri finanziari che governano l’Europa attraverso l’Ue, la Bce e la Germania: il referendum italico segue di poco il terremoto-Brexit e sarà celebrato all’indomani del voto americano, dove il vertice dell’oligarchia teme la vittoria di Trump. Poi, in Europa, seguiranno elezioni delicatissime, a partire da quella di un paese-cardine come la Francia, sempre più ostile all’egemonia di Bruxelles. Se questa è la cornice internazionale nella quale maturano anche gli eventi italiani, per ora Giannuli preferisce concentrarsi sulle mosse del piccolo Renzi: se perdesse il referendum, dice l’analista dell’ateneo milanese, il premier cercherà di evitare lo scioglimento immediato delle Camere (e qui il caos sulla legge elettorale lo soccorrerebbe) e proverà a domare la rivolta nel partito. «Infatti, è più che plausibile che Franceschini, De Luca, Emiliano, e forse i piemontesi (Fassino e Chiamparino) gli si getteranno addosso reclamandone la testa». E, insieme a «quei morti di sonno della minoranza di sinistra», potrebbero «rovesciare il segretario», anche se lo statuto del Pd imporebbe un “regolare processo”, cioè un congresso del partito.
    «Il disegno di Renzi è facilmente indovinabile: fare un governo di scopo, di larghe intese, proprio perché bisogna rifare la legge elettorale e, di conseguenza, un governo presieduto da un tecnico non iscritto a nessun partito (insomma, un altro Monti)». Questo sia per guadagnare tempo, sia per evitare che su quella poltrona possa andarci Franceschini o un altro esponente Pd che poi, magari, diventerebbe il candidato alla presidenza del Consiglio. «In questo modo, invece – continua Giannuli – la poltrona di Palazzo Chigi sarebbe “sterilizzata” ai fini delle prossime elezioni». Una volta “sistemato” il governo in questo modo, Renzi potrebbe dedicarsi al congresso del partito. Obiettivo: estinguere la minoranza bersaniana, che il segretario non ricandiderebbe più alle elezioni. «Qui l’azione di D’Alema sarebbe perfettamente convergente, perché il Conte Max ragionevolmente userebbe la rete dei comitati per il No come base di un nuovo partito». Ma attenzione, anche qui, ai retroscena: D’Alema, scrive Gioele Magaldi nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, milita nella galassia delle logge sovra-massoniche internazionali di destra, come la storica “Three Eyes”, che annoverebbe tra i suoi autorevoli esponenti personalità come Henry Kissinger e Giorgio Napolitano. Un giurista vicinissimo all’ex capo dello Stato, Valerio Onida, ex presidente della Consulta, sta tentando di far bloccare (per eccesso di quesiti) un referendum che Renzi rischia di perdere. Come dire: il gioco è grande, molto più di Renzi.

    Se dovesse perdere il referendum, «Renzi sarebbe ridotto a mal partito, ma non spacciato: per liberarcene occorrerà ancora altro», sostiene Aldo Giannuli, che prova a valutare le mosse del premier in caso di bocciatura, visti i sondaggi che ormai danno vincente il No, nonostante i tanti indecisi. In caso di sconfitta, «è prevedibile che Renzi rassegni le dimissioni del governo già il giorno 5 dicembre e prima che glielo chieda chiunque», perché «in un paese in cui non si dimettono nemmeno i morti e dove nessuno tiene fede alla parola data, un politico che si dimette come aveva promesso ci fa un figurone». Ma attenzione, sarebbe una scelta dovuta a un calcolo molto preciso: «Mantenere la poltrona di segretario del partito e guadagnare tempo». Infatti, «difficilmente gli converrebbe andare alle elezioni subito: dopo la botta del referendum, il Pd probabilmente perderebbe». Anche se la Corte Costituzionale dovesse lasciare immutato l’Italicum, infatti, «la bocciatura del referendum imporrebbe di ripensare la legge elettorale», magari per differenziarla: turno unico al Senato e doppio turno alla Camera. Ci vorrà tempo: e Renzi preferirà cedere temporaneamente Palazzo Chigi a «un altro Monti», dedicandosi nel frattempo alla definitiva “pulizia etnica” nel Pd, divenendone il padrone assoluto.

  • I poteri forti voglion sfrattare Renzi. Il motivo? Terrificante

    Scritto il 17/10/16 • nella Categoria: idee • (8)

    Tutto cominciò cinque anni fa alla Leopolda quando sul palcoscenico della stazione ferroviaria di Firenze si affacciava quello che all’epoca era considerato poco più di un giovanotto rampante e piuttosto arrogante, uno di quelli con la parlata svelta ma che non si preoccupa troppo di quello che dice. Matteo Renzi esordiva così nella politica italiana, parlando della necessità di una rottamazione della vecchia classe dirigente del Pd, incapace di interpretare al meglio i cambiamenti del futuro e ormai troppo legata ad un passato fatto di effigi e simboli che non appartengono più alla sinistra moderna. Dentro il Pd, non fu accolto bene. D’Alema, Marini e Bersani non hanno mai visto con favore l’avvento di questo giovane spregiudicato e arrampicatore, ma hanno ingoiato il rospo della sua ascesa perché così era stato deciso dai piani alti dell’Europa e di Washington. Quando Renzi venne scelto come sostituto di Enrico Letta, l’intera stampa italiana e internazionale si schierò tutta come un sol uomo a favore dell’ex sindaco di Firenze. La presenza del rottamatore nei media era bulimica, e invadeva tutti gli spazi delle principali reti nazionali a ogni ora del giorno.
    Confindustria e De Benedetti ne decantavano le lodi, vedevano nella sua figura l’uomo che avrebbe una volta per tutte infranto quei tabù che tutti i governi precedenti non avevano osato sfidare. È stato così per la riforma dell’articolo 18, un passaggio storico che ha inferto un duro colpo al già provato edificio dello Stato sociale e ha concesso un potere ancora maggiore al grande capitale dell’industria italiana. Nessuno era riuscito in questo, né i vecchi ex compagni di una volta come D’Alema avrebbero potuto riuscirci. Il motivo è apparentemente intuitivo quanto semplice: per approvare delle riforme del genere occorreva costruire un logos di novità, di immagine giovane e fresca di cui la classe dirigente del Pd era del tutto priva. I media hanno contribuito e alimentato quel logos falso e artificiale per permettere di descrivere le riforme renziane come un enorme passo in avanti per la società italiana, quando esse rappresentano un salto all’indietro di 60 anni, azzerando decenni di conquiste e lotte sindacali.
    Da qui la fiducia in bianco al rottamatore da tutti gli ambienti che contano: dalla finanza anglosassone per mezzo del “Financial Times”, dalla cancelliera Angela Merkel che vedeva in Renzi una garanzia che l’Italia non violasse il teorema dell’austerità e rimanesse ben salda all’euro, fino alle istituzioni europee sicure che il Belpaese nelle mani del governo Renzi non fosse più una minaccia per la stabilità dell’Ue. Ora l’idillio sembra essere finito. La Commissione Europea solamente pochi mesi fa ha descritto Renzi come un personaggio «inaffidabile», l’ingegner De Benedetti si schiera per il No al referendum e il “Financial Times” condanna la riforma costituzionale definendola come «un ponte verso il nulla». Dunque il potere attrattivo dell’uomo nuovo sembra esaurito, gli ambienti un tempo di casa lo considerano ora un ospite indesiderato al quale va mostrata l’uscita per fare spazio ad altri invitati più graditi. Se dunque gli sponsor di Renzi gli voltano le spalle, e preferiscono schierarsi apertamente per il No al referendum, appare evidente che l’intenzione è quella di provocare un cambio nella politica italiana.
    Sebbene le riforme costituzionali siano state pensate principalmente per dare ancora più potere alle istituzioni europee e abrogare il titolo V (ultimo ostacolo per le privatizzazioni delle municipalizzate ancora in mano agli enti locali) i poteri esteri e italiani preferiscono adesso votare No per favorire così una probabile crisi di governo i cui esiti porteranno a tutto tranne che a elezioni anticipate. Negli anni passati il Quirinale ha sempre rimandato l’opzione delle urne, viste come fonte di instabilità dai mercati, e ha preferito sempre cercare una soluzione per mantenere in vita la legislatura. Da Monti in poi, è stato impedito ai cittadini italiani di potersi esprimere nel nome di logiche sovranazionali che chiedevano la prosecuzione delle legislature, così da mantenere inalterato lo status quo e guadagnare terreno sullo smantellamento dello Stato sociale italiano.
    Ora però per continuare su quel cammino è necessario un altro cambio perché il tempo di Renzi è finito. E il referendum pare quasi diventato lo strumento migliore per dare il benservito a Renzi. In caso di un’eventuale sconfitta al referendum farà di tutto per restare al suo posto ma non ci riuscirà. È molto più probabile l’entrata in scena di un governo tecnico o di larghe intese: in entrambi i casi sarebbero approvate altre “riforme” che il premier precedente governo non aveva la forza di approvare. Il cammino degli ultimi 5 anni è stato così, si designa un premier dall’esterno e si giustifica la sua ascesa con la situazione interna di emergenza indotta. Una volta che lo scopo è stato raggiunto e occorre passare alla fase successiva, gli si dà il benservito e si passa al nuovo personaggio da sostenere, che può essere anche un vecchio riciclato. Monti, Letta e Renzi sono saliti al potere con questo schema. Chi verrà dopo di loro dovrà portare a termine il lavoro iniziato da questi. Svendere completamente gli asset più importanti dello Stato e aggredire il risparmio degli italiani.
    (Paolo Becchi e Cesare Sacchetti, “Ai poteri forti serve un nuovo governo. Il motivo? Terrificante”, da “Il Giornale” del 7 ottobre 2016).

    Tutto cominciò cinque anni fa alla Leopolda quando sul palcoscenico della stazione ferroviaria di Firenze si affacciava quello che all’epoca era considerato poco più di un giovanotto rampante e piuttosto arrogante, uno di quelli con la parlata svelta ma che non si preoccupa troppo di quello che dice. Matteo Renzi esordiva così nella politica italiana, parlando della necessità di una rottamazione della vecchia classe dirigente del Pd, incapace di interpretare al meglio i cambiamenti del futuro e ormai troppo legata ad un passato fatto di effigi e simboli che non appartengono più alla sinistra moderna. Dentro il Pd, non fu accolto bene. D’Alema, Marini e Bersani non hanno mai visto con favore l’avvento di questo giovane spregiudicato e arrampicatore, ma hanno ingoiato il rospo della sua ascesa perché così era stato deciso dai piani alti dell’Europa e di Washington. Quando Renzi venne scelto come sostituto di Enrico Letta, l’intera stampa italiana e internazionale si schierò tutta come un sol uomo a favore dell’ex sindaco di Firenze. La presenza del rottamatore nei media era bulimica, e invadeva tutti gli spazi delle principali reti nazionali a ogni ora del giorno.

  • Clamoroso, il Financial Times molla l’inutile Matteo Renzi

    Scritto il 10/10/16 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    All’inizio furono i buoni uffici di Davide Serra, fondo Algebris e tessera Pd, il finanziere che è stato ripagato con un inside trading che ha permesso di guadagnare sul rialzo delle Popolari dopo un decreto e sul crollo di Mps dopo una serie di misure interne. Renzi andava bene sul “Financial Times”: prometteva di fare la sponda liberista a Cameron, un approdo italiano per i capitali in cerca di affari e di essere un bastione contro l’austerità tedesca (quella che, nella lettura angloamericana della crisi impedisce la proliferazione dei capitali). Insomma, un’Italia dove la città tipo è molto più simile a Manchester che a Pescara. Una apertura di credito, da parte del quotidiano finanziario londinese, di proprietà giapponese, nella speranza di una rottura definitiva con i rigidi assetti di quel blocco di potere (dalle grandi opere al management bancario, all’amministrazione dello Stato, al ceto politico) visto come un impedimento per un compiuto sbocco della globalizzazione in Italia.
    In effetti Matteo, per compiacere quel mondo, di diplomazia ne ha messa tanta. Solo che il renzismo è un veloce movimento di parole, un compulsivo movimento di poteri quanto un immobile movimento politico. Tutta l’innovazione politico-finanziaria si è concretizzata nella richiesta di “flessibilità” a Bruxelles, qualche miliardata di sforamento del deficit per tirare a campare; e Cameron, a suo tempo, è stato lasciato solo come uno Tsipras qualsiasi. La polpa che interessa alla City (dalle opere pubbliche, alle partecipate, alla spesa sanitaria) è rimasta o virtuale (vedi la vicenda della spending review) o in mano ai soliti soggetti. Per non parlare delle banche e dei tentativi, che alla City parranno davvero demode’, di mantenere i Patuelli (in oggetto, ex segretario del Pli e oggi presidente delle banche italiane) o i Profumo al timone degli istituti bancari.
    Alla City piace un’Italia spartita tra grossi fondi di investimento, non tra reduci di cene con Carrai e la Boschi. Eppure a capodanno 2015, dopo una decina di mesi di avventure del guitto di Rignano, Tony Barber, uno degli editorialisti più importanti del “Financial Times”, tuonava convinto: «Renzi è l’ultima speranza per l’Italia». Per non parlare del corsivo del “Financial Times”, sempre di Tony Barber, che campeggia sulle pagine del comitato del Sì da luglio: «La salvezza dell’unione monetaria dipende dall’esito del referendum costituzionale italiano». Insomma, sembrava tutto vero, specie se visto da un’Italia a reti unificate (grave problema democratico minimamente non affrontato) dove parla solo Renzi: da Matteo dipendono i destini dell’Italia e dell’Europa. Nemmeno De Gasperi aveva avuto tanta buona stampa nella City. Ma, nel mondo finanziario di oggi, la regola è la volatilità, e questo vale anche per la politica.
    Passano infatto solo quattro mesi e il salvatore dell’Italia e dell’Europa viene rappresentato dallo stesso Tony Barber, sempre sul “Financial Times”, come l’architetto di riforme costituzionali che «sono un ponte verso il nulla»!!! Da non credere se non fosse tutto vero. Barber punta il dito contro l’assetto dell’amministrazione pubblica, visto come simile a un mandarinato (impermeabile quindi alla City), l’apertura a Berlusconi sul ponte di Messina (conferma di un assetto di potere nelle opere pubbliche anch’esso impermeabile alla City) e intravede più rischiosa, per l’Italia, la crisi bancaria che il No al referendum (la verità, seppure rivelata con tardivo interesse). Oggi persino la vittoria di Renzi pare indigesta al quotidiano anglo-giapponese e all’editorialista che, ancora poche settimane fa, incoronava come novello Giovanni Sobieski (il salvatore dell’Europa dai turchi durante l’assedio di Vienna) proprio il presidente del consiglio italiano.
    Tony Barber, con la disinvoltura di un Alfano qualsiasi, oggi conclude infatti l’editoriale dicendo che una vittoria del Sì sarebbe un qualcosa di folle che salverebbe gli interessi tattici di Renzi e non quelli del paese. E’ evidente che non c’è più un grosso fondo che crede, dal punto di vista strategico, in Renzi, alla vigilia di tante mutazioni in Europa. E, ricordiamo, se l’aumento dei tassi della Fed in dicembre avviene (il presidente della Fed di Chicago lo dà come certo) e innesca una dinamica di rialzo dei bond italiani, ci sarà da ballare parecchio, sul fronte del debito pubblico. Un ballo che, comunque vada, il “Financial Times” non vorrebbe fare con Matteo Renzi. Alla notizia è stata messa, ovviamente, la sordina. Al contrario, se Tony Barber avesse finito di incoronare Renzi, avremo visto la scena sulle consuete reti unificate. La saldatura Renzi-Mediaset-Rai non pare preoccupare un granché. Auguri comunque a tutti loro, visto lo scenario.
    (“Clamoroso, il Financial Times molla Matteo Renzi”, da “Senza Soste” del 5 ottobre 2016).

    All’inizio furono i buoni uffici di Davide Serra, fondo Algebris e tessera Pd, il finanziere che è stato ripagato con un inside trading che ha permesso di guadagnare sul rialzo delle Popolari dopo un decreto e sul crollo di Mps dopo una serie di misure interne. Renzi andava bene sul “Financial Times”: prometteva di fare la sponda liberista a Cameron, un approdo italiano per i capitali in cerca di affari e di essere un bastione contro l’austerità tedesca (quella che, nella lettura angloamericana della crisi impedisce la proliferazione dei capitali). Insomma, un’Italia dove la città tipo è molto più simile a Manchester che a Pescara. Una apertura di credito, da parte del quotidiano finanziario londinese, di proprietà giapponese, nella speranza di una rottura definitiva con i rigidi assetti di quel blocco di potere (dalle grandi opere al management bancario, all’amministrazione dello Stato, al ceto politico) visto come un impedimento per un compiuto sbocco della globalizzazione in Italia.

  • Il potere è guerra. E pretende il nostro Sì al referendum

    Scritto il 03/10/16 • nella Categoria: idee • (4)

    Pensate che si tratti di un referendum normale, di quelli indetti in tempo di pace? «Cari amici, poiché ho 85 anni devo dirvi come sono andate le cose», premette Raniero La Valle, veterano della sinistra italiana. Molti credono che il mondo abbia cambiato volto dopo l’11 Settembre? Errore. Tutto è esploso almeno dieci anni prima, quando – alla caduta dell’Urss – si è deciso di «rispondere alla fine del comunismo portando un capitalismo aggressivo fino agli estremi confini della terra», promuovendolo «da ideologia a legge universale, da storicità a trascendenza». Vi spaventa Renzi con la sua riforma, da cui la battaglia sul referendum? Non è che l’ultimo gradino di una lunghissima scala in discesa: «Avevamo preteso di superare il conflitto di classe smontando i sindacati», e di «sfruttare la fine della contrapposizione militare tra i blocchi facendo del Terzo Mondo un teatro di conquista». La scelta decisiva? «Restauratrice e totalmente reazionaria». Questa: «Disarmare la politica e armare l’economia – non in un solo paese, ma in tutto il mondo». Globalizzazione a mano armata. Inaugurata da un sacrificio simbolico: la Guerra del Golfo del 1991. L’era della guerra totale come nuova normalità: la guerra dell’Occidente contro il resto del mondo.
    In un lungo intervento su “Repubblica” ripreso da “Micromega”, La Valle parte dall’Italia, dove «succede che undici persone al giorno muoiono annegate o asfissiate nelle stive dei barconi nel Mediterraneo, davanti alle meravigliose coste di Lampedusa». Qualcuno dice che nel 2050 i trasmigranti saranno 250 milioni. «E l’Italia che fa? Sfoltisce il Senato». L’ex parlamentare della Sinistra Indipendente non usa giri di parole: «E’ in corso una terza guerra mondiale non dichiarata, ma che fa vittime in tutto il mondo. Aleppo è rasa al suolo, la Siria è dilaniata, l’Iraq è distrutto, l’Afganistan devastato, i palestinesi sono prigionieri da cinquant’anni nella loro terra, Gaza è assediata, la Libia è in guerra». In Africa, in Medio Oriente e anche in Europa «si tagliano teste e si allestiscono stragi in nome di Dio. E l’Italia che fa? Toglie lo stipendio ai senatori». Nel resto del mondo, peraltro, lo spettacolo non è migliore: è appena fallito il G20 ad Hangzhou, in Cina. I “grandi della terra”, «che accumulano armi di distruzione di massa e si combattono nei mercati in tutto il mondo», non sanno che fare «per i profughi, per le guerre», non vogliono «evitare la catastrofe ambientale», né tantomeno «promuovere un’economia che tenga in vita sette miliardi e mezzo di abitanti della terra».
    L’unica cosa che decidono «è di disarmare la politica e di armare i mercati, di abbattere le residue restrizioni del commercio e delle speculazioni finanziarie, di legittimare la repressione politica e la reazione anticurda di Erdogan in Turchia e di commiserare la Merkel che ha perso le elezioni amministrative in Germania». E in tutto questo l’Italia che fa? «Fa eleggere i senatori dai consigli regionali». Ed è l’Italia a crescita zero, col 39% di giovani disoccupati, il lavoro precario, i licenziamenti in aumento: «I poveri assoluti sono quattro milioni e mezzo, la povertà relativa coinvolge tre milioni di famiglie e otto milioni e mezzo di persone». Il governo Renzi «fa una legge elettorale che esclude dal Parlamento il pluralismo ideologico e sociale, neutralizza la rappresentanza e concentra il potere in un solo partito e una sola persona». Si dice: ce lo chiede l’Europa, cioè il fantasma di un sogno lontano e completamente abortito. «Se questa è la distanza tra la riforma costituzionale e i bisogni reali del mondo, dell’Europa, del Mediterraneo e dell’Italia, la domanda è perché ci venga proposta una riforma così».
    La verità è rivoluzionaria, certo, ma bisogna conoscerla per tempo: «Il guaio della verità è che essa si viene a sapere troppo tardi, quando il tempo è passato». Esempio: «Se si fosse saputa in tempo la bugia sul mai avvenuto incidente del Golfo del Tonchino, la guerra del Vietnam non ci sarebbe stata, l’America non sarebbe diventata incapace di seguire la via di Roosevelt, di Truman, di Kennedy, e avrebbe potuto guidare l’edificazione democratica e pacifica del nuovo ordine mondiale inaugurato venti anni prima con la Carta di San Francisco». Idem: «Se si fosse conosciuta prima la bugia di Bush e di Blair, e saputo che le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein non c’erano, non sarebbe stato devastato il Medio Oriente, il terrorismo non avrebbe preso le forme totali dei combattenti suicidi in tutto il mondo». E ancora: «Se si fosse saputa la verità sul delitto e sui mandanti dell’uccisione di Moro, l’Italia si sarebbe salvata dalla decadenza in cui è stata precipitata».
    Dunque, insiste La Valle, la verità del referendum anti-Renzi va conosciuta “finché si è in tempo”. Il vantato risparmio sui costi della politica? Ridicolo: per la Ragioneria Generale dello Stato, il taglio della paga dei senatori vale appena 58 milioni, mentre il costo del Senato resta. Il risparmio sui tempi della politica? Illusione: il bicameralismo rimane, perché «si introducono sei diversi tipi di leggi e di procedure che ricadono su ambedue le Camere», creando «un intrico di passaggi tra Camera e Senato e un groviglio di competenze». Non è la legge Boschi il vero oggetto della consultazione: la verità è nascosta dietro le urne. Il referendum è «un evento di rivelazione che squarcia il velo sulla situazione com’è: è uno svelamento della vera lotta che si sta svolgendo nel mondo e della posta che è in gioco». Il voto è rivelatore dello stato del mondo. Bisogna trovare la sua verità nascosta, il suo vero “movente”, la sua vera premeditazione, partendo proprio da Renzi: ha ammesso che la riforma gli è stata “suggerita” da Napolitano. E prima ancora dalla Jp Morgan, che già nel 2013 accusava la nostra Costituzione di tutelare eccessivamente i diritti del lavoro e «la libertà di protestare contro le scelte non gradite del potere».
    E’ il diktat storico della Commissione Trilaterale fondata da Rockefeller: limitare la democrazia. «La stessa cosa vogliono ora i grandi poteri economici e finanziari mondiali, tanto è vero che sono scesi in campo i grandi giornali che li rappresentano, il “Financial Times” e il “Wall Street Journal”, i quali dicono che il No al referendum sarebbe una catastrofe come il Brexit inglese». Ci si è messo anche l’ambasciatore americano a Roma: se in Italia vincesse il No, gli “investitori” scapperebbero. I diritti del lavoro Renzi li ha già “sistemati” col Jobs Act. “Spegnendo” il Senato diverrebbe padrone dell’agenda parlamentare. E con l’Italicum – 340 deputati su 615 al partito di maggioranza, a prescindere dal numero di voti ottenuti – ne farebbe “un uomo solo al comando”: sfiduciare il governo, se pessimo, sarebbe prerogativa esclusiva del partito stesso, non più degli eletti. In più le nuove procedure introdotte «renderanno più difficili le forme di democrazia diretta come i referendum o le leggi di iniziativa popolare». Risultato: «Ci sarà una diminuzione della possibilità per i cittadini di intervenire nei confronti del potere». Si accorgeranno, “i cittadini”, che sono stati proprio loro a spingere Renzi fin lassù?
    Tra gli “indizi” che svelano la vera natura della sfida, Raniero La Valle cita la risposta di Romano Prodi, interrogato sul voto: non mi pronuncio, ha detto, perché altrimenti turbo i mercati e destabilizzo l’Italia in Europa. «Dunque non è una questione italiana, è una questione che riguarda l’Europa, è una questione che potrebbe turbare i mercati. Insomma è qualcosa che ha a che fare con l’assetto del mondo». Mondo che, continua La Valle, era già cambiato – in modo drastico – ben prima dell’11 settembre 2001. Per lo storico britannico Eric Hobsbawm, il “secolo breve” finì già nel 1991: lì fu dato inizio «a un nuovo secolo, a un nuovo millennio e a un nuovo regime che nella follia delle classi dirigenti di allora doveva essere quello definitivo», tant’è vero che l’economista Francis Fukuyama, beniamino della Trilaterale, lo definì come la “fine della storia”: il capitalismo senza più freni, che si finanziarizza e impone in tutto il mondo la legge del più forte. Un potere totalitario che abbatte diritti, conquiste sociali e sovranità democratiche. E attenzione: secondo La Valle «c’è una teoria molto attendibile secondo cui all’inizio di un’intera epoca storica, all’inizio di ogni nuovo regime, c’è un delitto fondatore».
    Ed ecco il punto: il sacrificio simbolico. Secondo l’antropololo francese René Girard, fin dall’inizio della storia della civiltà, il “delitto fondatore” è l’uccisione della vittima innocente. «Ossia c’è un sacrificio, grazie al quale viene ricomposta l’unità della società dilaniata dalle lotte primordiali». Per un padre dell’Illuminismo come il filosofo inglese Thomas Hobbes, lo Stato stesso viene fondato dall’atto di violenza con cui il Leviatano assume il monopolio della forza, ponendo fine alla lotta di tutti contro tutti e assicurando ai sudditi la vita in cambio della libertà. Anche secondo Freud, all’origine della società civile c’è un “delitto fondatore”: quello dell’uccisione del padre. «Se poi si va a guardare la storia – continua La Valle – si trovano molti “delitti fondatori”. Cesare molte volte viene ucciso, il delitto Matteotti è il delitto fondatore del fascismo, l’assassinio di Kennedy apre la strada al disegno di dominio globale della destra americana che si prepara a sognare, per il Duemila, “il nuovo secolo americano”». Da noi, «l’uccisione di Moro è il “delitto fondatore” dell’Italia che si pente delle sue conquiste democratiche e popolari».
    E qual è il “delitto fondatore” dell’attuale regime del capitalismo globale? Qual è il crimine sacrificale che “battezza” il nuovo regime planetario basato sul governo del denaro? Quale grande evento sdogana questa “economia che uccide”, istituzionalizzando un sistema in base al quale, perché qualcuno stia meglio, altri “devono” stare peggio? E’ la guerra, naturalmente: per la precisione la prima Guerra del Golfo, quella del 1991. «È a partire da quella svolta che è stato costruito il nuovo ordine mondiale», scrive Raniero La Valle, che cita una data precisa: il 26 novembre 1991. Quel giorno, il nuovo “regime” si presentò in Italia. Il ministro della difesa Rognoni illustrò in commissione, alla Camera, il Nuovo Modello di Difesa. La “nuova” guerra, quella di oggi. Svanito il nemico sovietico, la vecchia Nato non serviva più: tramontata la guerra fredda, veniva meno anche la deterrenza nucleare. Opportunità storica: investire nella pace e nello sviluppo i miliardi fino ad allora destinati ad armamenti ormai inutili. «Ma l’Occidente fa un’altra scelta: si riappropria della guerra e la esibisce a tutto il mondo nella spettacolare rappresentazione della prima Guerra del Golfo del 1991».
    Ci siamo: cambia la natura della Nato, il nemico non è pià l’Est ma il Sud. L’Occidente «cambia la visione strategica dell’alleanza e ne fa la guardia armata dell’ordine mondiale cercando di sostituirla all’Onu». Tramontano anche «gli ideali della comunità internazionale, che erano la sicurezza e la pace». Meglio la guerra, per assicurarsi in modo permanente l’accesso privilegiato alle materie prime, come il petrolio. Riflesso italiano: via l’esercito di leva, serve una milizia di professionisti. Da impiegare non più in Italia ma all’estero, nelle missioni “umanitarie”. Mediterraneo, Somalia, Medio Oriente, Golfo Persico: «La nuova contrapposizione è con l’Islam», a partire dal conflitto israelo-palestinese. «Chi ha detto che non abbiamo dichiarato guerra all’Islam? Noi l’abbiamo dichiarata nel 1991». Col Nuovo Modello di Difesa imposto all’Italia «non cambia solo la politica militare ma cambia la Costituzione, l’idea della politica, la ragion di Stato, le alleanze, i rapporti con l’Onu: viene istituzionalizzata la guerra e annunciato un periodo di conflitti ad alta probabilità di occorrenza che avranno l’Islam come nemico». In Parlamento «non si dovrebbe parlare d’altro», e invece «nessuno se ne accorge, il Modello di Difesa non giungerà mai in aula».
    Un modello-fantasma, sotterraneo ma pienamente operativo da subito: «Tutto quello che è avvenuto in seguito – dalla guerra nei Balcani alle Torri Gemelle all’invasione dell’Iraq, alla Siria, fino alla terza guerra mondiale a pezzi che oggi, come dice il Papa, è in corso – ne è stato la conseguenza e lo svolgimento». E allora, meglio si capisce, oggi, la verità del referendum renziano: «La nuova Costituzione è la quadratura del cerchio», avverte La Valle. «Gli istituti della democrazia non sono compatibili con la competizione globale, con la guerra permanente: chi vuole mantenerli è considerato un conservatore. Il mondo è il mercato; il mercato non sopporta altre leggi che quelle del mercato. Se qualcuno minaccia di fare di testa sua, i mercati si turbano». La politica? Si faccia da parte: «Non deve interferire sulla competizione e i conflitti di mercato. Se la gente muore di fame, e il mercato non la mantiene in vita, la politica non può intervenire, perché sono proibiti gli aiuti di Stato. Se lo Stato ci prova, o introduce leggi a difesa del lavoro o dell’ambiente, le imprese lo portano in tribunale e vincono la causa. Questo dicono i nuovi trattati del commercio globale».
    Si scrive referendum, ma si legge: ultimo appello. Per Raniero La Valle, votare No «è l’unica speranza di tenere aperta l’alternativa, di non dare per compiuto e irreversibile il passaggio dalla libertà della democrazia costituzionale alla schiavitù del mercato globale». Perché «sia la società selvaggia che, con il No, sia dichiarata in difetto e attraverso la lotta sia rimessa in pari con la Costituzione, la giustizia e il diritto». E’ toccato a Renzi indossare quella maschera, ma al suo posto poteva esseci chiunque altro. Certo, l’attuale premier si è dimostrato l’uomo giusto al posto giusto: «Ci vogliono poteri spicci e sbrigativi», per sgombrare il campo dagli ultimi inciampi rappresentati dalle Costituzioni che “ripudiano la guerra”. Tutto è guerra, ormai. Questa economia è guerra. Pefettamente mondializzata, a partire dal fatidico 1991, l’anno del “sacrificio” dell’Iraq che spalancò le porte alla nuova epoca fondata sulla violenza internazionale. Da allora, «la guerra è lo strumento supremo per difendere il mercato e far vincere nel mercato».

    Pensate che si tratti di un referendum normale, di quelli indetti in tempo di pace? «Cari amici, poiché ho 85 anni devo dirvi come sono andate le cose», premette Raniero La Valle, veterano della sinistra italiana. Molti credono che il mondo abbia cambiato volto dopo l’11 Settembre? Errore. Tutto è esploso almeno dieci anni prima, quando – alla caduta dell’Urss – si è deciso di «rispondere alla fine del comunismo portando un capitalismo aggressivo fino agli estremi confini della terra», promuovendolo «da ideologia a legge universale, da storicità a trascendenza». Vi spaventa Renzi con la sua riforma, da cui la battaglia sul referendum? Non è che l’ultimo gradino di una lunghissima scala in discesa: «Avevamo preteso di superare il conflitto di classe smontando i sindacati», e di «sfruttare la fine della contrapposizione militare tra i blocchi facendo del Terzo Mondo un teatro di conquista». La scelta decisiva? «Restauratrice e totalmente reazionaria». Questa: «Disarmare la politica e armare l’economia – non in un solo paese, ma in tutto il mondo». Globalizzazione a mano armata. Inaugurata da un sacrificio simbolico: la Guerra del Golfo del 1991. L’era della guerra totale come nuova normalità: la guerra dell’Occidente contro il resto del mondo.

  • Referendum: la super-finanza teme per il suo uomo, Renzi

    Scritto il 15/9/16 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    «Se il referendum controcostituzionale in Italia è più importante della Brexit e se a sostenerlo è il “Wall Street Journal” è proprio il caso di dire che nel nostro paese il gioco si va facendo duro». Lo sostiene Sergio Cararo in un editoriale su “Contropiano”, partendo dal monitoraggio che “Repubblica” ha effettuato sulla stampa inglese: il quadro che emerge non è sorprendente ma decisamente inquietante, scrive Cararo, ricordando il monito di Jamie Dimon, Ceo di Jp Morgan, contro le costituzioni “troppo socialiste” dei paesi euromediterranei, senza contare «gli articoli terroristici prima del referendum britannico sulla Brexit». Se la grande stampa anglosassone – dall’“Economist” al “New York Times” – rispecchia la voce del massimo potere finanziario mondiale, dopo «una serie di articoli preoccupati della situazione economica italiana», adesso a far paura è l’incerta sopravvivenza del governo Renzi, con le possibili ripercussioni sull’Unione Europea. E il grande timore, naturalmente, si chiama referendum.
    Per il “Wall Street Journal”, il voto d’autunno in Italia è «probabilmente più importante del Brexit». Infatti, «i mercati sono concentrati sulla posta in gioco politica del referendum». Una bocciatura degli elettori – altamente probabile, stando ai sondaggi – potrebbe travolgere Renzi. Il vero costo per l’Italia? Il prolungamento della stagnazione economica, col peggioramento del debito pubblico e delle sofferenze bancarie. Se la “Reuters” parla di «stabilità a rischio in Italia», il “New York Times” evidenzia tre possibili scenari negativi connessi al referendum sulla Costituzione. Primo scenario: il referendum viene bocciato, Renzi si dimette, il Senato sopravvive e il sistema elettorale diventa proporzionale, rendendo ancora più difficile capire chi comanda: nuove elezioni, con Camera e Senato potenzialmente in mano a maggioranze diverse, e quindi ingovernabilità assoluta. Oppure: Renzi sopravvive, ma deve accordarsi con Forza Italia sulla legge elettorale, trascurando l’economia e facendo “volare” i 5 Stelle. O ancora, terzo scenario: se Renzi non riesce a risollevare l’economia, il M5S vince nel 2018. O meglio stravince, «vista la debolezza del nuovo Senato».
    Amche per il “Financial Times” Renzi ha sbagliato a personalizzare il referendum: «Molti italiani coglieranno l’occasione per votare contro», sperando di mandarlo a casa. Unica via d’uscita: Bruxelles deve concedere a Renzi più spazio, allentando la morsa dell’austerity sull’Italia. «Avrà effetto questa campagna di pressione e allarmismo dei giornali legati alle corporations sul referendum di autunno?», si domanda Cararo. «Alla luce di come è andata con la Brexit potrebbe non funzionare. Ma gli inglesi, prima di arrivare al compromesso con la monarchia, almeno la testa di un re l’avevano tagliata. Altrettanto è accaduto in Francia. Si tratta di paesi dove la forza dell’identità del citoyen che ha diritto di decidere sulle sorti del proprio Stato è ancora molto consistente». In Italia invece non siamo andato oltre i referendum, come quello – pur decisivo – del 1946, su monarchia o repubblica. «Facciamo in modo che vada come nel 1946 – auspica “Contropiano” – e che anche questo monarca, peraltro del tutto privo di “investiture divine” o popolari, si tolga dai coglioni».

    «Se il referendum controcostituzionale in Italia è più importante della Brexit e se a sostenerlo è il “Wall Street Journal” è proprio il caso di dire che nel nostro paese il gioco si va facendo duro». Lo sostiene Sergio Cararo in un editoriale su “Contropiano”, partendo dal monitoraggio che “Repubblica” ha effettuato sulla stampa inglese: il quadro che emerge non è sorprendente ma decisamente inquietante, scrive Cararo, ricordando il monito di Jamie Dimon, Ceo di Jp Morgan, contro le costituzioni “troppo socialiste” dei paesi euromediterranei, senza contare «gli articoli terroristici prima del referendum britannico sulla Brexit». Se la grande stampa anglosassone – dall’“Economist” al “New York Times” – rispecchia la voce del massimo potere finanziario mondiale, dopo «una serie di articoli preoccupati della situazione economica italiana», adesso a far paura è l’incerta sopravvivenza del governo Renzi, con le possibili ripercussioni sull’Unione Europea. E il grande timore, naturalmente, si chiama referendum.

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