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Archivio del Tag ‘finanza’

  • Smith: un nuovo 11 Settembre firmato Isis, cioè Cia

    Scritto il 06/9/14 • nella Categoria: idee • (4)

    L’Isis è una creatura dell’Occidente al 100%: perché non aspettarsi che siano proprio gli “alleati coperti” del Califfato Islamico a firmare l’eventuale prossimo replay dell’11 Settembre? Se lo domanda Brandon Smith, in una lucida analisi nella quale mette a fuoco la storia recente e recentissima. «Il terrorismo “false flag” architettato dai governi è un fatto storico accertato: per secoli, le élite politiche e finanziarie hanno affondato navi, incendiato edifici, assassinato diplomatici, rimosso leader eletti e fatto saltare la gente per aria, per poi incolpare di questi disastri un conveniente capro espiatorio, così da generare paura nel pubblico e acquisire più potere». Gli scettici potranno discutere se una qualche specifica calamità sia stata o meno un evento terroristico “sotto falsa bandiera”, ma nessuno può negare che queste tattiche, in passato, siano state usate puntualmente, in tutto l’Occidente. «I governi hanno ammesso apertamente di creare tragedie sanguinarie e catalizzatrici con falsi pretesti, come l’Operazione Gladio, un programma false-flag in Europa, supportato dai servizi segreti europei e americani, che durò per decenni, dagli anni ’50 ai ’90».

  • Se il mondo esplode, entro un anno supermarket vuoti

    Scritto il 06/9/14 • nella Categoria: idee • (3)

    «Qualsiasi influenza che l’America dovrebbe lasciare in Iraq dovrebbe focalizzarsi sulla ricostruzione della credibilità delle istituzioni nazionali» (editoriale del “New York Times”). Accidenti, non era per questo che in otto anni abbiamo perso 4.500 uomini e speso un miliardo e settecentomila dollari? E a che è servito tutto questo sforzo? La guerra in Iraq è diventata come il sistema finanziario americano, chi l’ha gestita non è stato capace nemmeno di immaginarsi quanto ci sarebbe costata. Cosa, questa, che dal punto di vista politico ha visto gli Usa che si affannavano a scavare buche ovunque e da ognuna di quelle buche uscivano fuori tanti di quei sorci, che è diventato difficile trovare un pezzo di terra dove si possa stare tranquilli e fermarsi a riposare. Saremo fortunati se la vita degli americani non arriverà a somigliare a quella de “La vendetta degli uomini-talpa”.
    Tutto l’arco di questa storia tende solo a una probabile conclusione: il giorno terribile in cui l’Isis (abbreviazione di quello che vogliono) prenderà possesso della Green Zone Usa di Baghdad. Non credete che quello sarà uno spettacolo nauseante? Forse avverrà giusto in tempo per le elezioni Usa del 2014. E che cosa pensate si potrà dire alla prima riunione politica nella “war room” della Casa Bianca il giorno dopo (l’elezione del prossimo presidente)? Credete che ci sarà qualcuno che comincerà a spiegare che gli Usa si sono voluti prendere una pausa prima di intraprendere altre operazioni in tutto il Medio Oriente e nella Regione del Nord-Africa? Personalmente raccomandarei di restare dietro le quinte, di non fare niente, di aspettare per vedere cosa succede – perché tutto quello che abbiamo fatto finora ha solo portato distruzione per uomini e cose.
    Facciamo una ipotesi: l’Isis finisce per consolidare il suo potere in Iraq, Siria, e in qualche altro posto. Nell’intera regione si vivrà una dimostrazione molto colorata di quello che significa vivere sotto un dispotismo psicopatico in stile 11° secolo. A fine dimostrazione la gente – quella che sarà sopravvissuta a un’orgia di decapitazioni e di crocifissioni – potrà decidere se gli piace. Una esperienza che potrebbe chiarire meglio le idee. In ogni caso, quello a cui stiamo assistendo in Medio Oriente – a quanto pare all’insaputa di giornali e  telegiornali – è che la maggioranza della popolazione ha ormai ha superato ogni limite: caos, omicidi, collasso dell’economia. La popolazione umana di questo angolo desolato del mondo è vissuta finora grazie ad una alimentazione artificiale dipendente solo dai profitti del petrolio, profitti che hanno permesso ai governi di continuare a far mangiare la gente e a mantenere una classe media artificiale che lavorava in uffici burocratici che non avevano nessun senso, dove nella migliore delle ipotesi non facevano niente, e nel peggiore dei casi vessavano il resto della popolazione con la loro corruzione e richieste di mazzette.
    Non c’è nessuna nazione sulla terra che si stia preparando con intelligenza per la fine dell’era del  petrolio – e con questo intendo: 1) alla fine del petrolio a prezzi bassi, a prezzi accessibili; 2) alla destabilizzazione permanente degli attuali canali di fornitura del petrolio. Entrambe queste condizioni dovrebbero essere ben visibili durante questa evoluzione dinamica della geopolitica, ma nessuno sembra volerlo vedere, o sentire, come ad esempio quel frastuono che arriva dall’Ucraina. Quella nazione irresponsabile, infelice, che vive una situazione tragica per colpa dei burattinai della Ue e degli Usa, che ha appena risposto alle ultime reazioni della Russia alle sanzioni commerciali, dichiarando che potrebbe bloccare le forniture di gas russo verso l’Europa, chiudendo le condotte che passano sul suo territorio. Spero che tutti quelli che abitano oltre Dnepropetrovsk siano pronti a bruciare i mobili di casa a novembre prossimo.
    Ma queste dichiarazioni insensate riescono solo a dimostrare quanto la situazione sia diventata assolutamente irrazionale… e quanto quello che succede sia sempre più lontano dal quello che penso. La cosa peggiore che potrebbe succedere sarebbe che l’Isis riuscisse a instaurare un Califfato tentacolare, che potrebbe sfuggire loro di mano provocando solo episodi sanguinosi e impressionanti dopo il collasso della società esistente. Cosa che è molto probabile in quella zona che ora si chiama Arabia Saudita, dove vive una classe dirigente sclerotica e aggrappata al potere. Se e quando vedremo arrivare quei maniaci dell’Isis protagonisti di video su YouTube dove fanno rotolare le teste, con quante probabilità i tecnici che oggi lavorano nelle compagnie petrolifere resteranno attaccati al loro posto di lavoro? E allora l’Isis sarebbe capace di svolgere lo stesso lavoro e di usare quegli stessi macchinari? Io non ci conterei.
    E non conterei nemmeno sul fatto che l’intera catena di fornitura mondiale di petrolio possa continuare a produrre come siamo abituati adesso. Se stiamo cercando dove potrebbe accendersi la scintilla per una Terza Guerra Mondiale, cominciamo a cercare da qui. In ogni caso non è che gli Usa si siano dimostrati meno idioti degli ucraini. Noi ci siamo raccontati la storialla che lo “shale oil” – il petrolio estratto dalle rocce sotterranee frantumate – ci potrà trasformare in un’isola felice, fuori dai conflitti che scoppieranno in tutto il resto del mondo, dopo la dissoluzione del paradigma-economico-del-petrolio. La storiella dello “shale oil” è falsa. Secondo i miei calcoli ci resterà ancora un annetto per continuare a spendere tranquillamente nei supermercati, prima che la gente prenda veramente coscienza del guaio in cui ci troviamo. La cosa sorprendente è la gente comune possa arrivare a capirlo anche prima della sua classe politica. Questa dinamica di pensiero porta direttamente a pensare all’impensabile (non certo per i prossimi 150 anni) crollo degli Stati Uniti.
    (James Kunstler, “Una scintilla per la Terza Guerra Mondiale”, dal blog di Kunstler del 12 agosto 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).

    «Qualsiasi influenza che l’America dovrebbe lasciare in Iraq dovrebbe focalizzarsi sulla ricostruzione della credibilità delle istituzioni nazionali» (editoriale del “New York Times”). Accidenti, non era per questo che in otto anni abbiamo perso 4.500 uomini e speso un miliardo e settecentomila dollari? E a che è servito tutto questo sforzo? La guerra in Iraq è diventata come il sistema finanziario americano, chi l’ha gestita non è stato capace nemmeno di immaginarsi quanto ci sarebbe costata. Cosa, questa, che dal punto di vista politico ha visto gli Usa che si affannavano a scavare buche ovunque e da ognuna di quelle buche uscivano fuori tanti di quei sorci, che è diventato difficile trovare un pezzo di terra dove si possa stare tranquilli e fermarsi a riposare. Saremo fortunati se la vita degli americani non arriverà a somigliare a quella de “La vendetta degli uomini-talpa”.

  • Rubarci acqua, luce e gas: ecco la riforma del Titolo V

    Scritto il 05/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Acqua, luce e gas: oggi la riscossione delle tariffe è italiana, domani potrebbe non esserlo più. Proprio i servizi vitali, che valgono «moltissimi miliardi» secondo il Tesoro, sono il vero bottino della grande privatizzazione, spacciata per “riforma”. Obiettivo per il quale sono stati all’opera, ininterrottamente, i tre governi messi in pista da Napolitano, senza elezioni: prima Monti, poi Letta, ora Renzi. Missione comune: svendere il paese, usando l’emergenza-spread e l’alibi del debito. Facilissimo: il boom del debito pubblico è la diretta conseguenza dell’austerity. Meno Pil, meno consumi, meno entrate fiscali. L’Italia, costretta a elemosinare gli euro attraverso i titoli di Stato filtrati dal sistema bancario che ha accesso alla Bce, va rapidamente in rosso. Col diktat del rigore, il debito pubblico esplode. Così il momento si fa propizio: il Giorno dello Sciacallo si avvicina. All’asta Poste Italiane e Telecom, poi si parla di Eni, Enel, Finmeccanica. Ma il boccone grosso è un altro: rete elettrica, acquedotti, gas. Reti e servizi da svendere. Prima, però, bisogna scipparli ai legittimi proprietari: Comuni e Regioni. Ed ecco in arrivo la “riforma” del Titolo V della Costituzione, cavalcata da Renzi.
    Tutto già denunciato, a suo tempo, dalla trasmissione “La Gabbia” condotta su “La7” da Gianluigi Paragone, molto prima del “Patto del Nazareno” che ha reso evidente il piano oligarchico Renzi-Berlusconi per archiaviare il “rischio” della democrazia, amputando il Senato e soprattutto varando una legge elettorale “ad personam”. Il blog “Senza Soste” segnala l’ottimo servizio realizzato a settembre 2013 da Filippo Barone: “Italia, un paese in svendita”. In tre minuti, il trucco delle “riforme” è svelato: «Siccome la svendita delle quote statali di Eni, Enel e Finmeccanica farebbe racimolare solo 12 miliardi di euro, il governo e i tecnici dei ministeri hanno individuato nelle “utilities”, cioè le società di proprietà di Comuni e Regioni che gestiscono beni comuni e vitali – acqua, luce e gas – come la vera miniera d’oro da vendere ai privati per fare cassa». Con la “riforma del Titolo V” della Costituzione, in poche parole, «lo Stato scipperebbe i territori della gestione di questi beni, da poter poi vendere: tutto questo sarà fatto da un governo illegittimo formato da persone non elette,  grazie a Napolitano».
    Il video è fulminante. Parla l’economista ed ex banchiere centrale Fabrizio Saccomanni, allora ministro dell’economia del governo Letta. Saccomani, al G-20 del luglio 2013 a Mosca, è «impegnato a spiegare agli italiani che ci servono altri soldi, altri sacrifici, perché non sappiamo come reggere il debito». Lo intervista un giornalista dell’emittente finanziaria americana “Bloomberg”. Domanda al ministro: come pensate di ridurre il debito? «Stiamo anche considerando la possibilità di vendere le nostre partecipazioni in aziende controllate dallo Stato». Dunque Eni, Enel, Finmeccanica? «Sì, stiamo considerando questo». Quando, dopo alcuni minuti, la notizia arriva in Italia, il ministero si affretta a smentire. «Peccato che il video sia finito su Internet». Un paese in vendita ha bisogno di una vetrina dove esporre la mercanzia, riassume il reporter de “La Gabbia”. E allora, quale migliore occasione di una fiera? Bari, 14 settembre. Ci sono «rappresentanti del ministero dell’economia, il capo della Cassa Depositi e Prestiti (cassaforte del patrimonio italiano), esperti di fondi sovrani e rappresentanti di governi stranieri». Tutti d’accordo: svendere l’Italia è essenziale, urgente.
    «L’Italia è stata colpita dalla crisi più di altri paesi», dice Franco Bassanini, presidente della Cdp. «Quindi, in Italia, oggi si possono fare investimenti e finanziamenti a condizioni molto favorevoli: ci sono ottime opportunità di investimento, in Italia». Bassanini, un tempo esponente della sinistra “riformista” italiana, è oggi un super-tecnocrate passato armi e bagagli ai “signori del mercato”, ai quali propone «ottime opportunità di investimento». Dall’ufficialità del forum di Bari, il servizio de “La Gabbia” si trasferisce nel party organizzato in un circolo privato, «al riparo da occhi e orecchie indiscrete». Mentre l’Italia precipita, «si organizzano incontri con uomini d’affari e fondi sovrani per vendere il vendibile». E dato che l’appetito vien mangiando, dice il reporter Filippo Barone, ecco il gran galà ben nascosto nel cuore del porto pugliese. Ricompare Bassanini, impegnato a spolverare un piatto del buffet: «Io non mi appassiono alle privatizzazioni», confida il capo della Cassa Depositi e Prestiti. E ammette: «Le privatizzazioni vanno fatte con molta cautela, perché il rischio della svendita è altissimo». Domanda: la cessione di Finmeccanica, Eni ed Enel era solo una boutade di Saccomani oppure corrisponde ai piani del governo? E qui arriva il colpo del ko: la svendita delle migliori aziende di Stato non basta, bisognerà strappare acqua, luce e gas alla gestione pubblica, regionale e comunale, e poter vendere i servizi vitali, la vera preda a cui ambiscono i “mercati”.
    Nel chiaroscuro felpato del party, la risposta – chiarissima – arriva dal “numero uno” dei tecnici del ministero del Tesoro, Lorenzo Codogno. Le cessioni di Eni, Enel e Finmeccanica «hanno un senso», certamente, «ma il problema è che non prendi tantissimo, perché – ho fatto un calcolo un po’ di tempo fa – sono 12 miliardi, meno di 1 punto di Pil». Parola del responsabile della direzione analisi economico-finanziaria del dipartimento, ieri retto da Saccomanni e oggi da Padoan. Secondo Codogno, per abbattere il debito non bastano Finmeccanica, le altre maxi-imprese dello Stato, gli immobili pubblici. Serve, soprattutto, «il resto». E cioè «acqua, luce e gas», o meglio, le “utilities” che ogni Comune gestisce per i propri cittadini. «La vera risorsa – dice Codogno all’inviato de “La Gabbia” – sono le “utilities” a livello locale: lì sono veramente tanti, tanti miliardi».
    Il problema – aggiunge il tecnocrate – è che quei servizi «non sono nostri, dello Stato: sono dei Comuni, delle Regioni. E quindi bisogna cambiare il Titolo V della Costituzione, ed espropriare i Comuni e le Regioni». Letteralmente: “espropriare”. Conclude l’inviato di Paragone: «Sindaci, preparatevi. Le aziende di servizio devono finire in mano araba o cinese, poche storie». Gli italiani? Non protesteranno, non se ne accorgeranno nemmeno. A loro provvederà l’ottimismo di Matteo Renzi: servirà a presentare come “vecchiume da rottamare” anche il Titolo V della Costituzione, cioè il dispositivo legale che assegna agli enti locali l’autonomia finanziaria per creare e gestire le reti di distribuzione dei servizi pubblici vitali. Quelle che fanno così gola agli “investitori” esteri. Perché, come dice il dottor Codogno, valgono «tanti, tanti miliardi». Basterà gonfiare le tariffe, per incamerare utili stratosferici. E a quel punto, l’Italia – come Stato – sarà tecnicamente estinta. E i cittadini, in balia degli “usurai” di mezzo mondo, futuri padroni del paese.

    Acqua, luce e gas: oggi la riscossione delle tariffe è italiana, domani potrebbe non esserlo più. Proprio i servizi vitali, che valgono «moltissimi miliardi» secondo il Tesoro, sono il vero bottino della grande privatizzazione, spacciata per “riforma”. Obiettivo per il quale sono stati all’opera, ininterrottamente, i tre governi messi in pista da Napolitano, senza elezioni: prima Monti, poi Letta, ora Renzi. Missione comune: svendere il paese, usando l’emergenza-spread e l’alibi del debito. Facilissimo: il boom del debito pubblico è la diretta conseguenza dell’austerity. Meno Pil, meno consumi, meno entrate fiscali. L’Italia, costretta a elemosinare gli euro attraverso i titoli di Stato filtrati dal sistema bancario che ha accesso alla Bce, va rapidamente in rosso. Col diktat del rigore, il debito pubblico esplode. Così il momento si fa propizio: il Giorno dello Sciacallo si avvicina. All’asta Poste Italiane e Telecom, poi si parla di Eni, Enel, Finmeccanica. Ma il boccone grosso è un altro: rete elettrica, acquedotti, gas. Reti e servizi da svendere. Prima, però, bisogna scipparli ai legittimi proprietari: Comuni e Regioni. Ed ecco in arrivo la “riforma” del Titolo V della Costituzione, cavalcata da Renzi.

  • Cremaschi: agonia-deflazione, il capolavoro dell’euro

    Scritto il 04/9/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Ha molto contribuito al disastro economico attuale un falso storico e ideologico. Quando in Italia e in Germania alla fine degli anni ‘70 si adottarono le politiche liberiste e si definì come prioritaria la lotta alla inflazione, fu spesso usato il monito che essa era all’origine del fascismo e soprattutto del nazismo. Falso. L’ascesa del fascismo da noi con l’inflazione non c’entra nulla e con quella del nazismo ancora meno. L’iper-inflazione degli anni ‘20 in Germania, usata come babau per giustificare tutto, persino lo statuto della Banca Centrale Europea, fu domata in pochi mesi dai governi di centrosinistra di quel paese e dal banchiere Schacht. Fu invece la disoccupazione di massa dopo la crisi del ‘29 a far crescere a dismisura il consenso ai nazisti, che fino ad allora era stato in percentuali bassissime. E quel consenso si alimentava del fatto che i governi democratici affrontavano la crisi con le politiche del rigore e dell’austerità, esattamente come oggi.
    Sulla base di questo falso storico le politiche deflazionistiche, che al massimo possono essere usate come emergenza per brevi periodi, sono diventate da più di trenta anni la politica economica ufficiale di tutti i paesi europei, Italia e Germania in testa. Da questo punto di vista, tutta la classe dirigente dovrebbe esultare per il fatto che ora l’obiettivo è stato raggiunto: l’inflazione è stata soppressa e al suo posto abbiamo la stagnazione o il calo dei prezzi. La separazione della Banca d’Italia dal Tesoro, per impedire allo Stato di stampare moneta per finanziarsi e per costringerlo a ricorrere al mercato, cioè in primo luogo alle banche, con il conseguente aumento a dismisura del debito e dei suoi vincoli. La distruzione del potere d’acquisto dei salari, avviata con la cancellazione della scala mobile e completata con l’euro. La precarizzazione e la flessibilità del lavoro, le privatizzazioni, tutte le politiche economiche e sociali attuate senza distinzioni da tutti i governi fino a quello attuale, son state giustificate nel nome della lotta all’inflazione. E ora abbiamo 6 milioni di disoccupati.
    Ora è immaginabile che parta il solito coro delle litanie auto giustificanti, mentre si continuerà a proporre in concreto la continuità di queste politiche trentennali, corretta solo dalla iniezione di un poco di liquidità nel sistema. Che fallirà nel proposito di far ripartire la crescita. Non si é sentito nessun effetto economico, ma non quello elettorale, degli 80 euro di Renzi. Draghi, che probabilmente aveva suggerito quella misura al presidente del Consiglio, ora fa capire che vuol introdurre liquidità nel sistema finanziario. Se glielo lasceranno fare il risultato sarà uguale a quello degli ottanta euro, zero. Perché alla base della crisi attuale sta proprio la continuità delle politiche liberiste e deflazionaste che durano da 35 anni. E se quelle non vengono messe in discussione alla radice, le iniezioni periodiche di liquidità sono acqua sparsa nel deserto. Qui però sta la difficoltà vera. Perché le classi dirigenti economiche, politiche e sindacali sono state selezionate in questi anni sulla base della priorità della lotta all’inflazione.
    Un’altra politica non la vogliono e neppure la sanno fare. Come ben dimostra l’ottusa tracotanza del ministro del Tesoro Padoan, che tranquillamente ha affermato di aver sbagliato tutte le previsioni, ma che ne sta preparando altre. Anche l’opinione pubblica è stata educata al tabù della lotta all’inflazione. Per cui oggi spera nelle riforme liberiste e autoritarie di Renzi, che, se realizzate effettivamente, aggraveranno la crisi. Per cambiare ci vuole una rottura di fondo. Ci vuole il ritorno alla gestione pubblica della moneta, con una banca centrale che la stampi invece che ricorrere alla finanza internazionale. Ci vogliono grandi investimenti pubblici in deficit e politiche di pubblicizzazione e non di privatizzazione. I salari devono crescere senza il vincolo-capestro delle produttività e della redditività d’impresa. Il lavoro deve riconquistare sicurezza e dignità rompendo la gabbia della precarietà.
    Queste sono le politiche non convenzionali necessarie, le stesse che presero gli Stati dopo gli anni Trenta del secolo scorso dopo il fallimento del rigore. Queste politiche romperebbero sicuramente gli equilibri e i poteri della globalizzazione, ma lo farebbero dal lato della pace. L’alternativa è che la globalizzazione salti per aria comunque, ma dal lato della guerra, come ci ricorda il Papa. Non c’è niente da fare, o si mettono in discussione i cardini della politica deflazionistica di questi decenni o la crisi si aggraverà sempre più, trasferendosi dal campo economico a quello sociale e da questo al campo della democrazia e della stessa convivenza, come la storia insegna a chi da essa vuole imparare.
    (Giorgio Cremaschi, “Il fallimento di trent’anni di deflazione”, da “Micromega” del 29 agosto 2014).

    Ha molto contribuito al disastro economico attuale un falso storico e ideologico. Quando in Italia e in Germania alla fine degli anni ‘70 si adottarono le politiche liberiste e si definì come prioritaria la lotta alla inflazione, fu spesso usato il monito che essa era all’origine del fascismo e soprattutto del nazismo. Falso. L’ascesa del fascismo da noi con l’inflazione non c’entra nulla e con quella del nazismo ancora meno. L’iper-inflazione degli anni ‘20 in Germania, usata come babau per giustificare tutto, persino lo statuto della Banca Centrale Europea, fu domata in pochi mesi dai governi di centrosinistra di quel paese e dal banchiere Schacht. Fu invece la disoccupazione di massa dopo la crisi del ‘29 a far crescere a dismisura il consenso ai nazisti, che fino ad allora era stato in percentuali bassissime. E quel consenso si alimentava del fatto che i governi democratici affrontavano la crisi con le politiche del rigore e dell’austerità, esattamente come oggi.

  • Guerra: ma Pechino sarà pronta a morire per Mosca?

    Scritto il 02/9/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Gli Usa restano l’unica superpotenza imperiale, in una architettura a piramide, a carattere neofeudale, a cui gli altri Stati si associano, a vario rango, in condizione di vassallaggio. I grandi Stati vassalli avrebbero aree di influenza di loro pertinenza: alla Cina l’Asia orientale, alla Germania l’Europa, al Brasile il Sudamerica. Le nazioni che non volessero sottomettersi spontaneamente sarebbero affrontate con la forza. In questo schema, sembrerebbe naturale che la struttura neofeudale si riflettesse anche all’interno dei singoli Stati, con strutture sociali piramidali e con potere e grandi ricchezze detenute da piccole élite. «L’appello a tutti coloro che ritenessero un tale scenario almeno possibile, e non volessero ad esso assoggettarsi – scrive Simone Santini – è di considerare in questa fase la Russia come la terra di confine di un autentico scontro di civiltà». Quindi, si prospetta «una scelta di campo tra la civiltà umana e la civiltà della barbarie». Superfluo aggiungere che «si accettano scommesse sul rango di vassallaggio riservato all’Italia».
    Secondo l’analisi di Santini, pubblicata da “Megachip”, si è ormai diffusa la percezione (fuorviante, erronea) che l’ordine “imperiale” costituito dagli Stati Uniti dopo la caduta dell’Urss sia giunto sul viale del tramonto. Si esalta l’ascesa economica dei Brics, si cita la grande crisi finanziaria di Wall Street del 2007, si ricordano le defaillance militari americane in Afghanistan e in Iraq, seguite all’11 Settembre. «A questi fattori va aggiunto un panorama mondiale, specialmente negli ultimi anni, che sembra farsi sempre più caotico e privo di guida, con tensioni o addirittura guerre che si susseguono nelle cerniere fondamentali del pianeta». La rapidità dell’evoluzione in effetti «suggerisce la possibilità di un Impero allo sbando, in preda a una crisi sistemica senza uscita», ma non è detto che tutte le criticità possano determinare un esito univoco, avverte Santini. L’alternativa dei Brics è ancora «in fieri», la loro super-banca – alternativa a Fmi e Banca Mondiale – è una creatura neonata, ed non è scontato che nell’alleanza pesino ancora rivalità storiche, come quelle tra Cina e India, «su cui gli Usa potrebbero intervenire per determinarne la disgregazione».
    La crisi finanziaria, «originata dai limiti dello sviluppo del sistema capitalistico», con «mercati ormai saturi» e incapaci di garantire i maxi-profitti del passato, ha fatto volare la speculazione pura, la «finanza creativa» che genera denaro direttamente dal denaro, saltando l’economia reale: «Una enorme bolla di soldi virtuali che vale, a seconda delle stime, decine di volte il Pil mondiale», e che prima poi «scoppierà o verrà sgonfiata in qualche modo: vedremo chi ne pagherà il prezzo». Nel frattempo, però, questa immensa massa di denaro «può essere impiegata dai “Masters of Universe” per fare shopping tra i pezzi industriali pregiati dei sistemi economici in crisi (vedasi in Italia) o fare letteralmente incetta di terra coltivabile in Africa o America Latina». Di riflesso, la crisi è diventata «crisi dei debiti sovrani» nell’Europa che non è più “sovrana” della propria moneta. Se a soffrire sono innanzitutto i cosiddetti Piigs, lo scenario non è affatto sfavorevole agli Usa, perché – proprio grazie alla recessione dell’Eurozona – si sta staccando l’Europa dalla Russia.
    Il più grande successo di questa fase per l’Impero? «Scongiurare ogni tentazione di costituire un blocco europeo continentale, da Lisbona a Mosca, indipendente politicamente, autosufficiente dal punto di vista economico», scrive Santini. Un blocco «culturalmente e territorialmente coeso, avanzato tecnologicamente, armato nuclearmente, complessivamente il più ricco e dinamico del pianeta, più degli stessi Stati Uniti. Altro che Brics». Quanto alle non-vittorie militari americane in Iraq e Afghanistan, «sono tali solo se viste nell’ottica della classica conquista coloniale». Al contrario, diventano tappe-chiave della “geopolitica del caos”, «una metodologia imperiale più oscura e complessa», ma molto efficace, «propugnata da alcuni settori dell’establishment americano che hanno il loro pubblico rappresentante più noto in Zbigniew Brzezinski, già segretario di Stato durante la presidenza di Jimmy Carter e allora ideatore della “trappola afghana”». Una tecnica, che se ben condotta, è utile per «tenere divisi i popoli “barbari”» e «impedire la nascita di potenze regionali» che possano disturbare gli Usa.
    I focolai di crisi in Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Ucraina e Palestina potrebbero sembrare il sintomo di «un mondo in preda alla pazzia, senza più gendarmi in grado di imporre l’ordine», ma se invece «si ammette la possibilità, terribile e dunque da sottacere, di una regia di fondo», allora diventa lampante «un quadro complessivo lucido e atroce, in cui il destino dei popoli è giocato come su una “grande scacchiera”». Emblematico il caso ucraino, «attraverso cui gli Usa – continua Santini – stanno ottenendo il risultato storico di dividere in uno spazio temporale decisivo la Russia dal resto d’Europa, colpendo al contempo Mosca e Berlino, costringendo la Ue a votare sanzioni contro un possibile alleato strategico e contro i propri stessi interessi, contorcendosi e ripiegandosi su se stessa». Dove siamo diretti? Secondo Aldo Giannuli, gli Usa potrebbero arroccarsi sulla difensiva, sfruttando i vantaggi strategici che ancora detengono, oppure potrebbero “assorbire” l’Europa nel blocco commerciale euroatlantico protetto dalla Nato. O magari accettare un “nuovo ordine bipolare” con la Cina, persino aprendo a nuove potenze emergenti, in un Consiglio di Sicurezza dell’Onu riformato in base a un nuovo “ordine multipolare”. Davvero gli Usa lo accetterebbero?
    «È sorprendente – replica Santini – che il professor Giannuli non preveda, al di fuori di questi schemi, altri sbocchi che non siano “il progressivo degenerare verso un disordine mondiale sempre più caotico”. Ovvero, nemmeno prenda in considerazione la possibilità che l’attuale situazione si consolidi, mutatis mutandis, con gli Stati Uniti che rimangono l’unica superpotenza imperiale», ipotesi tutt’altro che da scartare. Al contrario, è la condizione «che ha maggiori probabilità di prosecuzione, almeno nel medio termine», perché «nessuna nazione appare in grado non solo di soppiantare, ma nemmeno di sfidare gli Stati Uniti con la forza». Per Santini, quella degli Usa non è affatto una “ritirata”, ma un’offensiva. In Medio Oriente, con possibilità di proiezione anche in Africa, Israele rimane l’unica vera potenza regionale, insieme all’Iran, mentre ad Est gli accadimenti ucraini accelerano «l’accerchiamento della Russia e il controllo sempre più stretto sull’Europa da parte americana». Cina e Russia «vedono sempre più comprimersi i rispettivi spazi di manovra». Per resistere, dovranno “compenetrarsi”: «Ma, davanti alle sfide che lancerà l’Impero, Mosca sarà pronta a morire per Pechino e Pechino sarà pronta a morire per Mosca?».

    Gli Usa restano l’unica superpotenza imperiale, in una architettura a piramide, a carattere neofeudale, a cui gli altri Stati si associano, a vario rango, in condizione di vassallaggio. I grandi Stati vassalli avrebbero aree di influenza di loro pertinenza: alla Cina l’Asia orientale, alla Germania l’Europa, al Brasile il Sudamerica. Le nazioni che non volessero sottomettersi spontaneamente sarebbero affrontate con la forza. In questo schema, sembrerebbe naturale che la struttura neofeudale si riflettesse anche all’interno dei singoli Stati, con strutture sociali piramidali e con potere e grandi ricchezze detenute da piccole élite. «L’appello a tutti coloro che ritenessero un tale scenario almeno possibile, e non volessero ad esso assoggettarsi – scrive Simone Santini – è di considerare in questa fase la Russia come la terra di confine di un autentico scontro di civiltà». Quindi, si prospetta «una scelta di campo tra la civiltà umana e la civiltà della barbarie». Superfluo aggiungere che «si accettano scommesse sul rango di vassallaggio riservato all’Italia».

  • Se arriva la Troika: prepariamoci alla fine dell’Italia

    Scritto il 01/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    C’è gente in Italia che si augura che arrivi. La Troika, s’intende, ovvero la struttura mista Commissione Ue, Bce e Fondo Monetario Internazionale che, in cambio di prestiti, impone ai governi la sua ricetta politica. Eugenio Scalfari l’ha persino scritto in una delle sue omelie domenicali. Matteo Renzi, ogni volta che gli capita, dice che non succederà, eppure un certo umore circola in giro: le banche d’affari invitano a non comprare italiano, il Pil cala, “Moody’s” vede nero, Mario Draghi chiede “cessioni di sovranità”. Non siamo ancora all’estate 2011, quando la Troika s’affacciò per la prima volta da noi, ma anche allora le cose precipitarono assai in fretta: ad aprile lo spread era 122 punti, più basso di adesso, ad agosto 400, a novembre 552 e i rendimenti sui Btp decennali oltre il 7%. Al tempo arrivò Mario Monti, stavolta il commissariamento sarebbe completo.
    Non è che la Troika si presenti così e suoni al palazzo del governo: arriva su invito, a seguito di eventi che sono quasi sempre identici. Funziona così. Il paese X, per qualche motivo, comincia ad avere difficoltà a finanziarsi sul mercato: gli investitori chiedono interessi troppo alti. È qui, quando il paese X teme di non poter pagare stipendi e pensioni, che arriva la Troika proponendo un bel prestito e sostenendo che il problema è il debito pubblico. Per avere i soldi, però, bisogna firmare un bel “Memorandum”, una lista assai nutrita di cose da fare. La ricetta è sempre la stessa per tutti i paesi: tagli di spesa pubblica, stipendi e pensioni; licenziamenti nel settore statale; aumenti di tasse; privatizzazioni e liberalizzazioni selvagge (servizi pubblici in primis); riforme del mercato del lavoro (libertà di licenziare). Al termine della “cura” – aiutata da cospicue pressioni sull’opinione pubblica – il paziente è più malato di prima, il welfare e i beni pubblici un ricordo.
    In sostanza, e per paradosso, l’arrivo della Troika europea coincide con la distruzione del modello sociale europeo. Non solo: i debiti pubblici – causa di ogni male – aumentano in maniera esponenziale. Non c’è da sorprendersi: il fine non è comprimere il debito dello Stato, ma quello estero, bloccando le importazioni attraverso un taglio dei redditi disponibili. È in questo modo che i creditori (spesso banche del Nord) rientrano dei soldi prestati negli anni di vacche grasse. In principio fu la Grecia: un debutto, e neanche troppo felice. Ad aprile 2010 il debito pubblico greco è ormai classificato “spazzatura” dalle agenzie di rating: la Germania aveva nel frattempo fatto sapere che i debiti dei singoli paesi dell’Eurozona non sono garantiti dalla Bce. È a quel punto che arriva la Troika con la sua borsa: promette un prestito da 110 miliardi, poi divenuti oltre 300 negli anni. Piccola notazione: i soldi non sono gratis – e nemmeno prestati all’1% come la Bce fece coi mille miliardi dati alle banche – ma concessi al ragguardevole interesse del 5,5%. In cambio, la Troika ha preteso tagli strutturali per 30 miliardi di euro a regime. Per capirci: il Pil greco ammonta a 180 miliardi, quindi è come se all’Italia chiedessero una manovra da 250 miliardi.
    Atene procede a rilento, ma comunque ha già licenziato 8.500 statali e altri 6.500 seguiranno entro quest’anno (alla fine saranno 30.000 su 750.000 totali). La tv pubblica è stata chiusa dalla sera alla mattina, la rete degli ambulatori specialistici pure; scuola, università e ospedali sono stati falcidiati. L’ultimo Memorandum, questa primavera, ha imposto alla Grecia di vendersi pure le spiagge (110 per la precisione) e un piano di privatizzazioni capillari da qui al 2020. La Troika, peraltro, non si occupa solo di spesa pubblica, ma di ogni aspetto della vita economica: pretende, per dire, che la Grecia cambi le leggi su come si pastorizza il latte (a vantaggio delle multinazionali). I risultati, però, non sono brillanti: quest’anno se n’è accorto persino l’Europarlamento. Il reddito disponibile delle famiglie dal 2009 è diminuito del 40%, gli stipendi del 34%, servizi e benefit sociali del 26%. La disoccupazione era al 9% cinque anni fa e ora supera il 27%, il Pil s’è ridotto di un quarto. Pure i conti pubblici, ovviamente, non migliorano: il rapporto deficit-Pil nel 2013 era al 12,7%, il debito pubblico al 175% (dal 129% del 2009).
    Il secondo paese a essere curato dalla Troika è stato l’Irlanda, messa nei guai a fine 2010 dal fallimento del suo sistema bancario e costretta a chiedere un prestito di 78 miliardi di euro. La struttura economica dell’Irlanda (un sistema basato sul esportazioni, tassazione irrisoria e poco welfare) sembrava fatta apposta per applicare i diktat dei Memorandum, eppure “l’allievo modello” non se la passa così bene come si vorrebbe far credere: dopo una sostanziosa sforbiciata dei salari e manovre per il 19% del Pil, il debito pubblico – che nel 2008 era solo al 44% del Pil – oggi sfora il 125%. E ancora: la crescita degli ultimi due anni è stata solo dello 0,2% nonostante la spinta di un deficit che l’anno scorso s’è attestato al 7,6%. Il valore degli immobili è il 57% in meno rispetto a cinque anni fa, il debito delle famiglie il 200% del reddito. La disoccupazione nel 2013 è passata dal 14,5 al 12,6%, ma il calo è dovuto in larga parte all’emigrazione (lo stesso discorso vale per Spagna, Portogallo e Grecia).
    Il Consiglio d’Europa, infine, ha denunciato che l’Irlanda non offre garanzie minime per malattia, disoccupazione, sopravvivenza, infortuni sul lavoro e benefici di invalidità. Sarà per questo che – a dicembre 2013 – quando Fmi, Bce e Ue hanno proposto all’Irlanda un nuovo prestito – il governo di Dublino ha risposto subito: “No, grazie”. In realtà, i funzionari della Troika continueranno a fare ispezioni biennali fino al 2031. Sei anni in meno di quel che toccano al Portogallo, uscito anche lui formalmente dall’ombrello della Troika nel dicembre scorso. Il panorama è lo stesso degli esempi precedenti: dopo tre anni di “cura” 1,9 milioni di persone (il 18% circa della popolazione) vivono sotto la soglia di povertà e i conti pubblici sono un disastro. Una vicenda simbolica: il governo di Lisbona, per realizzare le richieste dei Memorandum, voleva vendersi 85 quadri di Joan Mirò all’asta (ma un giudice, per ora, ha bloccato tutto). Va citato, infine, almeno il caso di Cipro, dove per la prima volta è stato applicato il principio, ora comunitario, che i fallimenti bancari li pagano anche i correntisti. Esagera, Bruno Amoroso, del centro studi Federico Caffè, quando li chiama “i sicari dell’economia”?
    (Marco Palombi, “Ecco come la triade Bce-Fmi-Ue potrebbe commissariare l’Italia e cosa ci sarebbe da aspettarsi”, da “Il Fatto Quotidiano” del 13 agosto 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).

    C’è gente in Italia che si augura che arrivi. La Troika, s’intende, ovvero la struttura mista Commissione Ue, Bce e Fondo Monetario Internazionale che, in cambio di prestiti, impone ai governi la sua ricetta politica. Eugenio Scalfari l’ha persino scritto in una delle sue omelie domenicali. Matteo Renzi, ogni volta che gli capita, dice che non succederà, eppure un certo umore circola in giro: le banche d’affari invitano a non comprare italiano, il Pil cala, “Moody’s” vede nero, Mario Draghi chiede “cessioni di sovranità”. Non siamo ancora all’estate 2011, quando la Troika s’affacciò per la prima volta da noi, ma anche allora le cose precipitarono assai in fretta: ad aprile lo spread era 122 punti, più basso di adesso, ad agosto 400, a novembre 552 e i rendimenti sui Btp decennali oltre il 7%. Al tempo arrivò Mario Monti, stavolta il commissariamento sarebbe completo.

  • Della Luna: moneta sovrana per legge, in Costituzione

    Scritto il 29/8/14 • nella Categoria: idee • (3)

    La Camera approva ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. Per il fabbisogno della Repubblica, lo Stato emette direttamente moneta legale in forma cartacea o metallica, senza contrarre debito e senza emissione di titoli di debito. Lo Stato non riconosce altra moneta legale che questa. L’emissione avviene attraverso un apposito istituto nazionale, detto Istituto per la Moneta e il Credito, nei tempi e nelle quantità stabilite da una apposita commissione bicamerale paritetica permanente presieduta dal Ministro del Tesoro, il cui voto vale doppio in caso di parità. L’offerta monetaria primaria e i pubblici investimenti dovranno essere regolati e orientati all’incremento della produzione utile di beni e servizi secondo criteri di efficienza della spesa in funzione del risultato produttivo.
    Dovranno tendere alla piena occupazione e all’attivazione del potenziale produttivo nazionale, avendo riguardo alla tutela del potere d’acquisto reale dei redditi e del risparmio, alla moderazione delle spinte inflazionistiche, nonché alla sostenibilità ecologica al perseguimento del costante ammodernamento scientifico e tecnologico. Il predetto istituto, sotto la direzione della predetta commissione bicamerale, vigila e regola l’attività bancaria e creditizia, assicurando l’adeguata disponibilità di mezzi monetari nel Paese e l’accesso al credito a condizioni eque e sostenibili da parte dei soggetti economici, nonché contrastando la formazione di monopoli e cartelli. A tali fini, possono essere istituite banche di credito di capitale pubblico e di diritto pubblico.
    I soggetti abilitati all’esercizio del credito e alla raccolta del risparmio non possono esercitare in proprio, nemmeno attraverso altre imprese o attraverso persone fisiche o giuridiche, attività di speculazione finanziaria o di arbitraggio o trading. I depositi bancari, salva diversa pattuizione, avranno la natura giuridica di depositi regolari. L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.
    (Marco Della Luna, estratto dalla “Proposta di Costituzione 2014” – Art. 81 Sovranità monetaria e assicurazione della liquidità necessaria al Paese – presentata sul blog di Della Luna il 3 agosto 2014).

    La Camera approva ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. Per il fabbisogno della Repubblica, lo Stato emette direttamente moneta legale in forma cartacea o metallica, senza contrarre debito e senza emissione di titoli di debito. Lo Stato non riconosce altra moneta legale che questa. L’emissione avviene attraverso un apposito istituto nazionale, detto Istituto per la Moneta e il Credito, nei tempi e nelle quantità stabilite da una apposita commissione bicamerale paritetica permanente presieduta dal Ministro del Tesoro, il cui voto vale doppio in caso di parità. L’offerta monetaria primaria e i pubblici investimenti dovranno essere regolati e orientati all’incremento della produzione utile di beni e servizi secondo criteri di efficienza della spesa in funzione del risultato produttivo.

  • Voto, Scozia indipendente? Londra: scordatevi la sterlina

    Scritto il 29/8/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    La Scozia starebbe meglio economicamente se fosse un paese indipendente? Non è così secondo la stragrande maggioranza degli intervistati della terza indagine mensile del Cfm, il “Centre for Macroeconomics” finanziato da università inglesi. Data fatidica: 18 settembre 2014. Referendum sull’indipendenza della Scozia. Gli elettori scozzesi verranno chiamati a rispondere alla seguente domanda: “La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?”. In caso di una vittoria del “Sì”, il piano è che la Scozia diventi indipendente nel marzo 2016: dopo 307 anni non sarebbe più una nazione costitutiva del Regno Unito. Sarebbe un cambiamento fondamentale non solo per il governo della Scozia, ma anche per Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord, che continuerebbero a costituire lo “United Kingdom”. Altri paesi con forti identità regionali, scrive “LaVoce.info”, potrebbero essere influenzati dal referendum scozzese, che potrebbe quindi avere conseguenze sulle relazioni internazionali della Gran Bretagna. A cominciare dalla Spagna, che teme per la perdita della Catalogna.
    I sondaggi mostrano una consistente maggioranza contraria allo strappo da Londra, ma il vantaggio si è andato riducendo fino al 5%, esclusi i “non so”. «Favorevoli e contrari all’indipendenza della Scozia concordano comunque sul fatto che le questioni economiche sono al centro del referendum», come confermano i quesiti posti dal “Cfm”. Primo tema: i benefici economici dell’indipendenza. La Scozia ha 5,3 milioni di abitanti, l’8,3% della popolazione totale del Regno Unito. Pil pro capite: 20.571 sterline in Scozia, contro le 21.295 sterline nella Gran Bretagna nel suo insieme. Scozia e Regno Unito hanno la medesima produttività del lavoro, mentre la disoccupazione è del 6,4% in Scozia rispetto al 6,8% della media britannica. Il governo scozzese stima il rapporto deficit-Pil al 14%, a fronte di un disavanzo del 7,3% nel Regno Unito. «Se alla Scozia venisse destinato l’84% (una quota “geografica”) delle imposte derivanti dall’estrazione di petrolio e gas del Mare del Nord, si stima che il suo deficit potrebbe scendere all’8,3%».
    Con il regime fiscale attuale, continua “LaVoce.info”, il governo scozzese è responsabile per il 60% della spesa pubblica totale in Scozia e per il 16% del gettito fiscale. «Se la Scozia diventasse indipendente, il suo governo sarebbe responsabile di tutta la spesa pubblica e delle entrate fiscali, mentre i prestiti e i trasferimenti fiscali transfrontalieri cesserebbero». Il governo scozzese ha detto che accetterà una congrua parte del debito sovrano del Regno Unito e che intende formare una unione monetaria formale con il Regno Unito, ipotesi che però Londra ha escluso. «C’è inevitabilmente più di un’incertezza su quelle che sarebbero le condizioni finali di un accordo tra una Scozia indipendente e il resto del Regno Unito». Il “Cfm” ha quindi invitato gli intervistati a rispondere alla prima domanda «in base alla loro percezione di quali potrebbero essere questi termini», specificando che la voce “condizioni economiche” comprende innanzitutto il reddito pro capite, più altri aspetti del progresso economico.
    Prima domanda: “Sei d’accordo che la Scozia starebbe meglio in termini economici se fosse un paese indipendente?”. Hanno 28 esperti su 46. «Tre quarti degli intervistati ha detto di non essere d’accordo o di essere fortemente in disaccordo con la proposta». Solo uno dei 28 intervistati è d’accordo o fortemente d’accordo. Se si escludono gli indecisi, il 95% del campione si dichiara preoccupato dal futuro economico della Scozia in caso di secessione. «Le principali preoccupazioni sono sulle prospettive di bilancio di una Scozia indipendente: George Buckley (Deutsche Bank) la descrive come esposta a entrate fiscali più deboli». Pesano le incognite dell’esaurimento delle risorse petrolifere e lo stesso profilo demografico, più fragile di quello britannico. John Driffill (Birkbeck) rileva che «una Scozia indipendente potrebbe sì impostare politiche più adatte alle sue preferenze, ma potrebbe essere comunque svantaggiata dall’indipendenza perché potrebbero emergere problemi di coordinamento su quegli aspetti che invece vanno gestiti congiuntamente fra Scozia e Regno Unito». Sia Michael Wickens (York) sia Martin Ellison (Oxford) dicono che la Scozia «potrebbe pagare oneri finanziari più elevati rispetto al Regno Unito».
    Diversi intervistati mettono in dubbio la saggezza di disfare molte istituzioni quando non si conosce l’efficacia di quelle che le sostituiranno. David Cobham (Heriot-Watt) si chiede se abbia senso «separare i cittadini di nazioni così integrate». Jagjit Chadha (Kent) segnala i possibili rischi derivanti dalla «possibile mancanza di nuovi equilibri politici ed economici robusti». Michael McMahon (Warwick) pensa che ci sarebbero «notevoli costi di transizione». In parecchi si dicono preoccupati per l’incertezza dei tempi in cui la Scozia indipendente potrebbe rientrare nell’Unione Europea (dalla quale peraltro la stessa Gran Bretagna potrebbe uscire, visto il referendum all’orizzonte per il 2017). Marco Bassetto (Ucl) sostiene che la questione legata al processo di adesione all’Ue è «più importante di quella legata all’unione monetaria», mentre Anche Richard Portes (Lbs) e Nicholas Oulton (Lse) esprimono preoccupazione che «l’incertezza riguardo l’adesione alla Ue potrebbe essere dannosa per l’economia».
    Nel caso la Scozia diventasse indipendente, il Regno Unito sarebbe costituito da Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord. Tutte le attuali istituzioni dello Stato, a eccezione di quelle situate fisicamente in Scozia, resterebbero britanniche. In primis la Banca d’Inghilterra: soggetta al Parlamento di Londra, rimarrebbe la banca centrale del Regno Unito senza alcuna competenza per una Scozia indipendente, salvo diverso accordo. Le esportazioni dalla Scozia verso il resto del Regno Unito sono stimate intorno ai 48 miliardi di sterline, il 38% del Pil scozzese previsto nel 2012 (esclusi petrolio e gas). Le stime dicono che il resto della Gran Bretagna abbia esportato tra i 50 e i 60 miliardi di sterline in Scozia, circa il 4% del Pil. «Sia la Scozia sia il Regno Unito hanno grandi settori finanziari con il valore degli asset del sistema bancario molte volte più grande dei rispettivi Pil. Se la Scozia indipendente assumesse una quota di debito pubblico proporzionata alla sua quota di popolazione, il rapporto debito-Pil potrebbe arrivare all’86% nel 2016».
    Gli scozzesi vorrebbero un’unione monetaria? Il governatore della Bank of England, Mark Carney, risponde – in piena consonanza coi politici di Londra – che «le unioni monetarie di successo richiedono unioni fiscali, bancarie e alcune cessione di sovranità nazionale». Nel sondaggio “Cfm”, alla domanda – giusto escludere gli scozzesi dalla sterlina? – hanno risposto in 34, con pareri più equamente divisi ma un prevalente consenso verso la posizione di Londra. Secondo Martin Ellison (Oxford) la recente crisi dell’euro «mostra come sia difficile creare un’unione monetaria senza l’unione politica, fiscale e bancaria». Per David Cobham (Heriot-Watt) i vincoli all’unione monetaria britannica sarebbero difficilmente accettabili per una Scozia indipendente. Luis Garicano (Lse) ritiene che un impegno di non-salvataggio per la Scozia indipendente non sarebbe credibile verso il mondo e il governo scozzese, sicché il Regno Unito «finirebbe per subire il peggio dei due mondi: la mancanza di disciplina di mercato e l’azzardo morale». Altri tecnici ritengono che i contribuenti di ciascuno Stato sovrano potrebbero essere isolati dai rischi dell’altro. Troppa pretattica, però, rischia di inquinare l’opinione pubblica, come denunciano Christopher Pissarides (Lse) e John Driffill (Birkbeck), secondo cui «l’attuale posizione del Regno Unito», contraria all’unione monetaria con gli scozzesi, «è puramente motivata dalla volontà di influenzare il referendum», scoraggiando l’indipendenza della Scozia.

    La Scozia starebbe meglio economicamente se fosse un paese indipendente? Non è così secondo la stragrande maggioranza degli intervistati della terza indagine mensile del Cfm, il “Centre for Macroeconomics” finanziato da università inglesi. Data fatidica: 18 settembre 2014. Referendum sull’indipendenza della Scozia. Gli elettori scozzesi verranno chiamati a rispondere alla seguente domanda: “La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?”. In caso di una vittoria del “Sì”, il piano è che la Scozia diventi indipendente nel marzo 2016: dopo 307 anni non sarebbe più una nazione costitutiva del Regno Unito. Sarebbe un cambiamento fondamentale non solo per il governo della Scozia, ma anche per Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord, che continuerebbero a costituire lo “United Kingdom”. Altri paesi con forti identità regionali, scrive “LaVoce.info”, potrebbero essere influenzati dal referendum scozzese, che potrebbe quindi avere conseguenze sulle relazioni internazionali della Gran Bretagna. A cominciare dalla Spagna, che teme per la perdita della Catalogna.

  • Riforme eversive: sabotare l’Italia, registi e complici

    Scritto il 28/8/14 • nella Categoria: idee • (4)

    In tutta Europa, con le prime riforme della fine degli anni ‘70, il modello di sviluppo favorevole al lavoro e alla crescita, di stampo keynesiano, è stato sostituito con «un modello neomonetarista, diretto al trasferimento di redditi, ricchezza, diritti e potere politico dalla popolazione generale e dalle classi produttive alla élite finanziaria apolide», con un fine apertamente «antisociale e incompatibile coi principi costituzionali». Questo disegno, già ampiamente realizzato dall’Ue e dalla politica italiana, «è la radicale eversione del fondamento di legittimità dello Stato», sancito dalla Costituzione italiana, che fonda la Repubblica sul “lavoro”, sulla democraticità, sull’eguaglianza giuridica e sostanziale. Come documenta il giurista Luciano Barra Caracciolo, l’insieme delle riforme e dei trattati introdotti in esecuzione di questo piano è radicalmente anticostituzionale, oltre che «penalmente illecito», in quanto «attentato contro la Costituzione commesso con mezzi violenti», cioè il rischio provocato di default pubblico e la diffusione deliberata di «disoccupazione, allarme e grave sofferenza sociale».
    “Il grande mutuo”, saggio di Antonino Galloni (Editori Riuniti) già nel 2007 preannunciava l’imminente esplosione di un’imponente crisi finanziaria e di liquidità dopo l’inizio, anni prima, delle problematicità nell’economia reale. Quasi contemporaneamente, «in epoca di grandi promesse europeiste al pubblico», un altro saggio, “Basta con questa Italia”, firmato da Marco Della Luna (Arianna Editrice, 2008), anticipava che l’Italia, come sistema-paese, con le sue aziende pubbliche e private meno competitive di quelle straniere, sotto-capitalizzate, sotto-finanziate e strozzinate, vessate da fisco e pubblica amministrazione, incapaci di significativi avanzamenti tecnologici, sarebbe stata «rilevata dal capitale straniero, che la avrebbe riformata e gestita secondo i propri interessi, e certo non secondo quelli degli italiani». Esattamente questo sta avvenendo, scrive oggi Della Luna nel suo blog, grazie alla piena collaborazione tra la politica italiana, l’Ue e la Bce, «che hanno creato ad arte le condizioni affinché ciò avvenisse». Problema capitale: la grave carenza di liquidità, «che si pretende di combattere con misure fiscali e budgetarie che invece la aggravano, gettando il paese nelle mani del capitalismo imperialista appoggiato dalla Bce».
    «L’eversione costituzionale – scrive Della Luna – consiste essenzialmente nel sostituire, con l’inganno e le crisi create ad hoc, il sistema socioeconomico legittimante stabilito nella Costituzione con uno incompatibile con esso perché antidemocratico e oligarchico». Questa manomissione prende oggi il nome di “riforme”, corrompendo nel modo più subdolo anche il vocabolario italiano. Insieme allo stesso Nino Galloni, Della Luna mette a fuoco il quadro, regolarmente trascurato dai media: l’Italia è ko grazie al piano europeo nonostante la sua economia sia virtualmente ancora sana, e grazie alla disonestà organica della Germania, che bara clamorosamente. Primo appunto: «Nonostante tutto, le imprese italiane esportano più di quanto il sistema Italia importi: quindi hanno un buon potenziale medio di profitto, sono interessanti, fanno gola». Secondo punto: «La Germania ha fatto e fa imbrogli di tutti i generi», anche se – almeno fino a due anni fa, grazie a un ceto politico-imprenditoriale meno rapace di quello italiano – ha investito in innovazione tecnologica per abbassare il costo del lavoro. Terzo problema: da due anni, la stessa Germania sta contenendo la propria domanda interna.
    «E’ uno squilibrio dovuto a eccesso di avanzo commerciale, che corrisponde al disavanzo di altri», scrivono Galloni e Della Luna. «E’ vero che a tale avanzo non corrisponde un disavanzo dell’Italia, ma nondimeno quell’avanzo è utilizzabile per comperare, in Italia, servizi in via di privatizzazione». Si tengano presenti, poi, le intenzioni annunciate da Draghi: sostenere il credito bancario verso l’economia reale, «nei limiti del mandato della Bce». Si tratta di «espressioni allusive, indeterminate, ambigue, che prospettano una variabile ad oggi ancora tale». A pesare, intanto, è la realtà. Il capitale straniero ha potuto comprare a prezzo di saldo moltissime aziende italiane soprattutto grazie all’euro: la moneta unica agevola l’export tedesco sfavorendo quello italiano, e inoltre aumenta l’indebitamento dell’Italia, rendendo più difficile – per il nostro paese – ottenere crediti. Poi pesa anche la riduzione tedesca del costo del lavoro: «La Germania, aiutandosi slealmente con lo sforamento del limite del 3% del deficit sul Pil (autorizzato dall’Italia), nonché con trucchi contabili e con illeciti aiuti di Stato alle imprese, ha ridotto prima di Italia e altri paesi il suo costo del lavoro per unità di prodotto. Lo ha fatto anche introducendo forme di impiego a 250 e 450 euro al mese, dette minijob e midijob».
    Grazie a questi vantaggi strategici – moneta favorevole e minor costo produttivo, ottenuto anche “barando” – la Germania ha potuto esportare verso la periferia (Italia compresa) molto più di quanto prima importava da essa, «realizzando così per molti anni forti saldi attivi della bilancia dei pagamenti, e indebitando quei paesi verso di sé, tanto più che prestava loro soldi per importare i suoi prodotti (caso estremo: la Grecia)». Questo ha permesso a Berlino di «rastrellare a basso costo aziende valide o potenzialmente produttive e redditizie di quei paesi, per integrarle nei propri cicli produttivi», lasciando ai paesi d’orgine – come l’Italia – soltanto «le briciole dei margini di utile», o addirittura chiudendo aziende concorrenti di quelle tedesche. «Gli utili di queste aziende rastrellate – scrive Della Luna – vengono trattenuti o deportati in Germania». Di male in peggio: nel settore dei servizi pubblici, l’operazione di “rastrellamento” si sta estendendo con la partecipazione della Francia.
    Beneficiando di posizioni di monopolio e contando su una domanda costante, quello dei servizi pubblici – nel quale è facilissimo incrementare le tariffe – è un settore che produce fortissimi utili e rendite. Soldi, continuano Galloni e Della Luna, che «saranno sempre più raccolti dalle tasche dei cittadini e delle imprese italiane per essere deportati in Germania e in Francia: probabilmente l’asse franco-tedesco per dominare l’Ue si basa su accordi di questo tipo». Al fine di massimizzare l’utile di questa operazione, sia sul settore manifatturiero che su quello dei servizi, «questo capitalismo mercantilista e imperialista ha bisogno di fare le cosiddette riforme, le quali in sostanza sono riduzioni dei diritti economici e non economici dei lavoratori anche autonomi, aumento della loro sudditanza al datore di lavoro, aumento dei livelli di precariato, di disoccupazione e sotto-occupazione in funzione di battere la forza contrattuale dei lavoratori». Analogamente, «vengono colpiti i piccoli e piccolissimi imprenditori, artigiani, commercianti, che non si prestano al piano di conquista dell’imperialismo mercantile franco-tedesco».
    Ed ecco il trucco finale: «Per realizzare pienamente questa operazione di take-over sui servizi pubblici, è necessario farli privatizzare. A questo fine essi vengono, attraverso opportune campagne mediatiche, presentati come inefficienti, corrotti, dispendiosissimi, costosi, parassitari». Inoltre, «non si dice che investire in essi aumenterebbe la loro efficienza, in quanto li doterebbe di strumenti oggi mancanti e avrebbe un sicuro effetto di moltiplicatore del Pil, mentre il togliere loro fondi ha un effetto demoltiplicatore». Non è tutto: «Come ulteriore strumento per sabotarli, li si sta sovraccaricando di oneri e spese anche attraverso la politica di immigrazione di massa senza limitazioni, che sta ponendo un onere crescente e potenzialmente enorme alla spesa pubblica per l’accoglienza, mantenimento, cure sanitarie, alloggio, ricongiungimenti familiari». Profezia: «Quando la situazione diverrà esplosiva per i crescenti costi così suscitati da una parte e per la crescente disoccupazione e recessione dall’altra, con ulteriori maggiorazioni delle tasse, la popolazione stessa chiederà la privatizzazione estesa dei servizi sociali ora ancora in mano pubblica. A quel punto, capitali stranieri entreranno e occuperanno queste posizioni di mercato collegate a rendite monopolistiche».
    In altre parole, la fine dello Stato sociale. «Sottolineo che la Germania e i suoi satelliti riescono a sfruttare questo processo perché hanno eseguito prima dell’Italia e di altri paesi le riforme consistenti nella riduzione del costo del lavoro e dei diritti dei lavoratori», precisa Della Luna. In questo modo, anticipando i “concorrenti” europei, Berlino ha acquisito «quei vantaggi commerciali, quegli attivi negli scambi con l’Italia, quei conseguenti crediti verso di essa», che ora spende «per rastrellare le imprese e i servizi italiani». La Bce, l’Ue, Maastricht, l’euro, i vertici istituzionali: «Tutti concorrono a questo scopo strategico, spingendo per le “riforme” che l’Europa ci chiede». Tutti questi soggetti «lavorano per cedere e trasferire al capitale straniero le risorse e le aziende del paese, e insieme per trasformare i lavoratori italiani in forza lavoro sottopagata e sottomessa dei nuovi padroni finanziari stranieri». Tutto ciò accade per una ragione semplicissima: la politica italiana glielo consente. «In compenso di questa prestazione di tradimento, la nostra casta politica si riserva il ruolo di complice dei capitali stranieri, onde mantenere le sue poltrone e i suoi privilegi».
    Ecco perché, intorno a questo progetto, «la partitocrazia italiana si è ora saldamente unita in modo trasversale, destra e sinistra, per realizzare di corsa le famose riforme», che ovviamente «non c’entrano col rilancio economico». L’Italicum, per esempio, «è stato concordato tra Renzi e Berlusconi per sopprimere i partiti piccoli e autonomi, non radicati nel controllo della spesa pubblica». La casta punta soprattutto sulla nuova legge elettorale e sul nuovo Senato, «che hanno la funzione di blindarla contro la protesta, il dissenso, il potenziale voto contrario dei cittadini traditi e derubati dai partiti». Non a caso il Senato ridisegnato dal Patto del Nazareno «viene preposto alla regolazione della spesa pubblica e consegnato agli uomini degli apparati partitici regionali, ossia la parte peggiore, più vorace, della partitocrazia: potranno mangiare più che mai, spalleggiati e legittimati anche dagli interessi stranieri». Naturalmente è già in programma anche una riforma della giustizia, «per mettere al guinzaglio quei giudici che restano fedeli alla Costituzione e alla Repubblica». Scontato: «La voteranno tutti insieme, trasversalmente. Sono già d’accordo. E poi qualcuno avrà diritto alla grazia».
    Scoperto il gioco, c’è da mettersi a piangere: «Le promesse di risanamento e rilancio entro il modello economico vigente sono pura menzogna», sottolinea Della Luna. «Per tornare alla crescita e all’occupazione è indispensabile, innanzitutto, spiegare il complotto alla gente, specialmente agli imprenditori e ai lavoratori, uscire dalla struttura sopra descritta, dall’euro, dall’Ue, e disfarsi dei personaggi politici e istituzionali che la assecondano». In parallelo, dicono Della Luna e Galloni, occorre «avviare una revisione del concetto di moneta oggi in uso, la “fiat currency”, e far capire, con tutte le conseguenze, che essa non è una merce né una materia prima, ma un simbolo, generato col computer e senza costi». Che senso ha, dunque, parlare di scarsità o mancanza di mezzi finanziari per gli investimenti necessari e utili alla società? Al contrario: «E’ un crimine eversivo e contro l’umanità fingere che vi sia una tale scarsità o mancanza, e usare questa finzione per impadronirsi di un paese e della sua economia reale, e per deprimere i salari e i livelli occupazionali». Raccontare la menzogna suprema – dire cioè che ci sia scarsità di moneta, e che la moneta abbia un costo di produzione – significa solo imporre un progetto di dominio, per trasferire la ricchezza reale strappandola a cittadini, imprese, famiglie e lavoratori, per consegnarla  «nelle mani del cartello dei produttori dei mezzi monetari che in cambio non produce e non dà alcuna ricchezza reale alla società».

    In tutta Europa, con le prime riforme della fine degli anni ‘70, il modello di sviluppo favorevole al lavoro e alla crescita, di stampo keynesiano, è stato sostituito con «un modello neomonetarista, diretto al trasferimento di redditi, ricchezza, diritti e potere politico dalla popolazione generale e dalle classi produttive alla élite finanziaria apolide», con un fine apertamente «antisociale e incompatibile coi principi costituzionali». Questo disegno, già ampiamente realizzato dall’Ue e dalla politica italiana, «è la radicale eversione del fondamento di legittimità dello Stato», sancito dalla Costituzione italiana, che fonda la Repubblica sul “lavoro”, sulla democraticità, sull’eguaglianza giuridica e sostanziale. Come documenta il giurista Luciano Barra Caracciolo, l’insieme delle riforme e dei trattati introdotti in esecuzione di questo piano è radicalmente anticostituzionale, oltre che «penalmente illecito», in quanto «attentato contro la Costituzione commesso con mezzi violenti», cioè il rischio provocato di default pubblico e la diffusione deliberata di «disoccupazione, allarme e grave sofferenza sociale».

  • Meyssan: il Califfato Usa, le trame per rovesciare Putin

    Scritto il 26/8/14 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Gli Usa hanno organizzato il caos in Medio Oriente creando il Califfato Islamico, cioè l’ultima versione di Al-Qaeda: un pretesto perfetto per riprendere i bombardamenti. Obiettivo: destabilizzare Russia e Cina, agitando le loro popolazioni musulmane. Grande obiettivo americano: imporre il dollaro come moneta unica sul mercato del gas, la fonte energetica del XXI secolo, così come fu per il petrolio. Di qui la doppia offensiva in corso da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele: attacco simultaneo in Iraq, Siria, Libano e Palestina, e offensiva nell’Est Europa per separare Mosca dall’Ue, attraverso la crisi promossa in Ucraina, di cui i media non raccontano le reali proporzioni (entità dei combattimenti, vittime, presenza di militari Usa, mezzo milione di profughi già accolti da Mosca). Nel mirino, scrive Thierry Meyssan, c’è la Russia, ovvero «la principale potenza in grado di guidare la resistenza all’imperialismo anglosassone». Con la Russia si schierano i Brics, protagonisti di una spettacolare contromossa: la creazione di una loro banca in alternativa al Fmi e alla Banca Mondiale, cioè al sistema basato sul dollaro.
    «Già prima di questo annuncio – rileva Meyssan in un’analisi tradotta da “Megachip” – gli anglosassoni avevano messo in atto la loro risposta: la trasformazione della rete terroristica di Al-Qa’ida in un califfato». Per questo, gli Usa e i loro alleati hanno proseguito la loro offensiva in Siria, espandendola poi contemporaneamente sia in Iraq che in Libano, mentre hanno fallito nell’espulsione di una parte dei palestinesi verso l’Egitto e nel destabilizzare la regione ancor più profondamente. «Infine, si tengono lontani dall’Iran per dare la possibilità al presidente Hassan Rohani di indebolire la corrente anti-imperialista dei Khomeinisti». Due giorni dopo l’annuncio dei Brics, gli Stati Uniti hanno accusato la Russia di aver abbattuto il volo Mh17 della Malaysia Airlines nel Donbass, uccidendo 298 persone. «Su questa base, puramente arbitraria, hanno imposto agli europei di intraprendere una guerra economica contro la Russia». Come fosse un tribunale, l’Ue ha processato e condannato Mosca, «senza alcuna prova e senza darle la possibilità di difendersi», promulgando “sanzioni” contro il sistema finanziario russo.
    «Consapevole del fatto che i governanti europei non lavorano nell’interesse dei propri popoli, ma di quello degli anglosassoni – prosegue Meyssan – la Russia ha morso il freno e si è trattenuta fino ad ora dall’entrare in guerra in Ucraina. Sostiene con armi e intelligence gli insorti, e accoglie più di 500.000 rifugiati, ma si astiene dall’inviare truppe e dall’entrare nell’ingranaggio. È probabile che non interverrà prima che la grande maggioranza degli ucraini si ribelli al presidente Poroshenko, a costo di entrare nel paese soltanto dopo la la caduta della Repubblica popolare di Donetsk». Di fronte alla guerra economica, aggiunge Meyssan, Mosca ha scelto di rispondere con misure analoghe, ma riguardanti l’agricoltura e non la finanza. «A breve termine, gli altri paesi Brics possono mitigare le conseguenze delle cosiddette “sanzioni”». Poi, a medio e lungo termine, «la Russia si prepara alla guerra e intende ricostruire completamente la sua agricoltura per poter vivere in autarchia».
    Intanto, Mosca dovrà vedersela con le trame Usa per destabilizzare il Cremlino, a cominciare dalla contestazione mediatica in occasione delle elezioni municipali del 14 settembre. «Considerevoli somme di denaro sono state fornite a tutti i candidati di opposizione nelle circa 30 grandi città interessate, mentre almeno 50.000 agitatori ucraini, mescolati ai rifugiati, si stanno raggruppando a San Pietroburgo». La maggior parte di loro ha doppia cittadinanza, ucraina e russa. «Si tratta chiaramente di replicare nella provincia le proteste che erano seguite alle elezioni a Mosca nel dicembre 2011 – aggiungendoci la violenza – e di impegnare il paese in un processo di “rivoluzione colorata”, al quale una parte dei funzionari e della classe dirigente è favorevole». Per fare questo, spiega Meyssan, Washington ha nominato un nuovo ambasciatore in Russia: John Tefft, lo stesso che aveva preparato la “rivoluzione delle rose” in Georgia e il colpo di stato in Ucraina. Per Putin sarà quindi fondamentale poter contare sul suo primo ministro, Dmitry Medvedev, «che Washington sperava di reclutare per rovesciarlo».
    Considerando l’imminenza del pericolo, sostiene Meyssan, Mosca sarebbe riuscita a convincere Pechino ad accettare l’adesione dell’India in cambio di quella dell’Iran (ma anche quelle di Pakistan e Mongolia) all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Mossa che «dovrebbe porre fine al conflitto che oppone da secoli India e Cina e impegnarle in una cooperazione militare». Un cambiamento che «metterebbe ugualmente fine alla luna di miele tra Nuova Delhi e Washington, che sperava di allontanare l’India dalla Russia dandole, com’è noto, accesso alle tecnologie nucleari». L’adesione di Nuova Delhi è anche una scommessa sulla sincerità del suo nuovo primo ministro, Narendra Modi. Inoltre, l’adesione dell’Iran – che per Washington è una provocazione – dovrebbe portare russi e cinesi a controllare finalmente i movimenti jihadisti, togliendo agli Usa una decisiva pedina terroristica. L’Iran di Rohani rinncerà dunque a «negoziare una tregua con il “Grande Satana”»? Sarebbe una scommessa sull’autorità del capo supremo della Rivoluzione Islamica, l’ayatollah Ali Khamenei. Di fatto, dice Meyssan, queste gigantesche evoluzioni geopolitiche segnerebbero l’inizio di una spettacolare inversione di rotta, spostando verso Oriente il baricentro del mondo.

    Gli Usa hanno organizzato il caos in Medio Oriente creando il Califfato Islamico, cioè l’ultima versione di Al-Qaeda: un pretesto perfetto per riprendere i bombardamenti. Obiettivo: destabilizzare Russia e Cina, agitando le loro popolazioni musulmane. Grande obiettivo americano: imporre il dollaro come moneta unica sul mercato del gas, la fonte energetica del XXI secolo, così come fu per il petrolio. Di qui la doppia offensiva in corso da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele: attacco simultaneo in Iraq, Siria, Libano e Palestina, e offensiva nell’Est Europa per separare Mosca dall’Ue, attraverso la crisi promossa in Ucraina, di cui i media non raccontano le reali proporzioni (entità dei combattimenti, vittime, presenza di militari Usa, mezzo milione di profughi già accolti da Mosca). Nel mirino, scrive Thierry Meyssan, c’è la Russia, ovvero «la principale potenza in grado di guidare la resistenza all’imperialismo anglosassone». Con la Russia si schierano i Brics, protagonisti di una spettacolare contromossa: la creazione di una loro banca in alternativa al Fmi e alla Banca Mondiale, cioè al sistema basato sul dollaro.

  • Troika, rottamare l’Italia: a Renzi restano solo 100 giorni

    Scritto il 25/8/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Troppo grande per fallire. E troppo grande per essere “salvata” alla maniera della Troika, cioè col prestito a usura che depreda quella che, nonostante tutto, è ancora la terza economia europea. Renzi? Troppo difficile da rimpiazzare subito, perché il quarto primo ministro non eletto sarebbe un azzardo persino per l’ex demoocrazia italiana. Ma se il premier chiede “mille giorni” per completare le “riforme”, sarà già tanto se gliene concederanno cento. Lo sostiene il blog del californiano Wolf Richter, che ospita un post di “Don Quijones”, freelance di Barcellona, dopo l’intervista che Renzi ha rilasciato al “Financial Times”. Non è facile essere al governo di un paese dell’Eurozona: la pressione può essere insostenibile, «stretti tra le nuove impopolari norme e legislazioni che vengono fuori da Bruxelles e Francoforte e i mercati finanziari in bilico su una lama di coltello». Quattro regole d’oro: obbedire sempre alla Merkel, mai ventilare un referendum su alcunché, mai criticare la Troika e «mai menzionare – e nemmeno coltivare – l’idea dell’uscita dall’euro».
    Secondo il blog, che per Maria Grazia Bruzzone della “Stampa” ha «occhi sempre aperti sull’Europa», il primo ministro italiano «ha lanciato un messaggio pericoloso: ha rotto la regola numero 3». Non è stato il primo leader nazionale a farlo, e sappiamo quanto salato sia «il prezzo della trasgressione». Il primo fu il premier greco Andreas Papandreou, che ruppe la “regola numero 2” annunciando nell’ottobre 2011 l’intenzione del suo governo di tenere un referendum sul nuovo accordo di salvataggio dell’Eurozona. «In due settimane venne rimpiazzato dall’ex banchiere centrale ed ex “goldmaniano” Lucas Papademos. Come se non bastasse, uscirono indiscrezioni sul fatto che sua madre avrebbe avuto su un conto svizzero 500 milioni di euro non dichiarati. Un prezzo pesante per un momento di coraggio». Il secondo fu l’allora primo ministro Silvio Berlusconi: nel settembre 2011 «osò discutere in incontri privati con leader dell’Eurozona, presumibilmente Merkel e Sarkozy, l’uscita dell’Italia dall’Eurozona». Risultato: «Prima di dicembre Berlusconi era fuori, rimpiazzato dal tecnocrate Mario Monti, già commissario europeo e “goldmaniano” pure lui».
    Il messaggio agli altri leader era chiaro: non pensate di mettere a repentaglio il Progetto. Da allora, scrive la Bruzzone citando il blog, la disciplina è stata ripristinata e nessun leader ha più osato infrangere le regole. Fino a Renzi. Che nell’intervista al “Financial Times” «ha pericolosamente rotto» la disposizione numero 3, «che impone di non criticare mai le azioni della Troika o dei suoi componenti». Nemici pericolosi: il bersaglio di Renzi, scrive “La Stampa”, era il presidente della Bce Mario Draghi, «il più intoccabile dei membri della Troika (e rappresentante senior di Goldman Sachs in Europa)». La sua chiacchierata fuori dalle righe – continua il post – era l’ultima escalation in una “guerra verbale” scoppiata dopo l’insinuazione (leggi: minaccia) di Draghi verso l’Italia, da commissariare perché caduta in recessione, visto che non ha fatto abbastanza per “riformare” mercato del lavoro, burocrazie e sistema giudiziario. Il risultato è «un clima sfavorevole per gli investimenti».
    In altre parole, quello di cui l’Italia avrebbe bisogno, per Draghi, è «una bella dose di intervento amministrato dalla Troika, che magari  finisca per accelerare la spirale del debito arricchendo gli investitori internazionali». Renzi è sembrato avere altre idee: «Il nostro modello non è la Spagna ma la Germania», ha detto al “Financial Times”. Il blog di Richter ricorda che il premier è arrivato in febbraio promettendo di far uscire l’Italia dalla stagnazione che dura da un decennio. Ma i progressi sono stati lenti: finora si è limitato a togliere 80 euro di tasse ai salari più bassi. Dovrebbe arrivare una riforma della giustizia, ma non ci sono garanzie. E col poco da rivendicare su riforma fiscale e del lavoro, la comunità imprenditoriale si sta innervosendo: temono che Renzi sia solo «un piccolo manager, che punta troppo su un gruppo di amici fidati mentre avrebbe bisogno di consiglieri con esperienza», ha osservato il giornale. Magari alludendo a consiglieri come Carlo Cottarelli, «lo zar della “spending revew”». Un tipo «perfetto, in quel ruolo, dopo una vita al Fmi», dove ha diretto il Dipartimento Affari Fiscali. Ma Cottarelli incontra resistenze: «Spetta a Renzi decidere dove fare i tagli, non a un tecnocrate», ha detto il primo ministro italiano al “Ft” parlando in terza persona.
    Renzi se l’è presa con le lobby degli affari: «Roma è una città piena di lobbisti. In Italia vige un capitalismo di relazioni. Io non sono parte di quel sistema che ha distrutto il paese. Sono solo col 20% degli italiani che mi hanno votato, con gli 11 milioni che hanno votato il mio partito, e soltanto con loro e con la mia squadra il paese cambierà». Questione di principio, arroganza, ingenuità o un mix di tutto questo? Se lo chiede il blogger arrivando alle conclusioni: «Può essere una frase a effetto da dare in pasto al pubblico, o il prodotto di un calcolo molto astuto: vale a dire che attualmente lui – Renzi – riveste in Europa una posizione molto più forte di quanto molti credano». Motivo: «Come terza economia dell’Ue, la debole performance dell’Italia è un grattacapo per Bruxelles tanto quanto, o anche di più, di quanto lo è per Roma. Con 2 trilioni di debito pubblico – il 133% del Pil – l’Italia non è solo troppo grande per fallire, è troppo grande per essere salvata».
    «Deporre Renzi – scrive il blog – si rivelerebbe ben più difficile che togliere di mezzo Berlusconi. Dopotutto, anche in un paese che vanta una storia politica moderna come l’Italia quattro leader non eletti in tre anni sarebbero probabilmente un po’ eccessivi: la gente comincerebbe a chiedersi che fine ha fatto la democrazia». Per cui, «se la Troika mirasse a sferrare un altro colpo senza spargimento di sangue, dovrebbe quasi certamente farlo seguire a nuove elezioni». E i maggiori beneficiari della tornata elettorale «potrebbero essere il Pdl di Berlusconi e il M5S di Grillo», cioè «due partiti che non vorrebbero nient’altro che scrivere l’epilogo della breve storia dell’euro». Dunque la Troika «deve per forza riporre eventuali piani nel freezer, almeno per ora». Nel frattempo, «il suo coraggioso (o forse solo pazzo) giovane leader pretende mille giorni per fare i cambiamenti economici e politici che ritiene necessari per il suo paese. Sarà fortunato se ne ottiene cento». Come che sia, conclude “La Stampa”, dopo aver «fatto lo spavaldo» col “Financial Times”, Renzi ha voluto fugare l’impressione di dissapori con la Troika volando subito in elicottero da Draghi e poi incontrando Napolitano. «Sarà anche più forte in Europa di quel che si crede – per mancanza di alternative. Ma è meglio non esagerare».

    Troppo grande per fallire. E troppo grande per essere “salvata” alla maniera della Troika, cioè col prestito a usura che depreda quella che, nonostante tutto, è ancora la terza economia europea. Renzi? Troppo difficile da rimpiazzare subito, perché il quarto primo ministro non eletto sarebbe un azzardo persino per l’ex demoocrazia italiana. Ma se il premier chiede “mille giorni” per completare le “riforme”, sarà già tanto se gliene concederanno cento. Lo sostiene il blog del californiano Wolf Richter, che ospita un post di “Don Quijones”, freelance di Barcellona, dopo l’intervista che Renzi ha rilasciato al “Financial Times”. Non è facile essere al governo di un paese dell’Eurozona: la pressione può essere insostenibile, «stretti tra le nuove impopolari norme e legislazioni che vengono fuori da Bruxelles e Francoforte e i mercati finanziari in bilico su una lama di coltello». Quattro regole d’oro: obbedire sempre alla Merkel, mai ventilare un referendum su alcunché, mai criticare la Troika e «mai menzionare – e nemmeno coltivare – l’idea dell’uscita dall’euro».

  • Industrie e banche agli stranieri, per Renzi va bene così

    Scritto il 25/8/14 • nella Categoria: idee • (3)

    La vendita della Indesit a Whirpool è solo l’ultimo caso: si sta verificando nel silenzio generale la fine dell’Italia industriale, come predetto da Luciano Gallino. Il pericolo imminente è quello di cedere al capitale estero non solo le industrie ma anche le grandi banche, e di svendere completamente il risparmio italiano. A causa del declino verticale dell’industria e della sofferenza delle banche italiane, e a causa della colpevole inerzia governativa e dei pesanti vincoli europei, il capitalismo nazionale sta diventando un servile vassallo di quello internazionale. E l’Italia rischia così di precipitare definitivamente nel Terzo Mondo. Se l’“Economist” definisce “untangled” (sciolto, smembrato) il capitalismo italiano, sfugge il peso della svolta forzata di Mediobanca, che ha deciso di sciogliere gli accordi incrociati tra le maggiori aziende nazionali: da allora, secondo Enrico Grazzini, il capitalismo italiano si è votato a una sorta di suicidio irreversibile.
    Al cosiddetto capitalismo di relazione, «cioè all’intreccio tra capitalismo (semifallito) delle grandi famiglie, capitalismo finanziario e capitalismo (quasi dismesso) di Stato, si è sostituito l’arrembaggio dell’industria e della finanza internazionale, con la benedizione del governo Renzi», scrive Grazzini su “Micromega”. Intervistato dal “Corriere della Sera”, il premier ha definito «un’operazione fantastica» la vendita dell’Indesit di Merloni alla concorrente Whirpool: «Ho parlato personalmente io con gli americani a Palazzo Chigi. Non si attraggono gli investimenti esteri riscoprendo una visione autarchica e superata del mondo. Noi vogliamo portare aziende da tutto il mondo a Taranto come a Termini Imerese. Il punto non è il passaporto, ma il piano industriale. Gli imprenditori stranieri sono i benvenuti in Italia se hanno soldi e idee per creare posti di lavoro». Così, commenta Grazzini, il liberista Renzi esulta di fronte al fatto che il capitalismo industriale italiano non è più competitivo e si sta smembrando a favore dei capitali stranieri.
    Ovvio che gli investimenti esteri sono benvenuti, non si possono proteggere a tutti i costi le società nazionali, «ma bisognerebbe assolutamente evitare di cedere le industrie strategiche indispensabili per il futuro industriale del nostro paese». Quasi sempre, continua Grazzini, le cessioni all’estero arricchiscono solo le grandi famiglie, come i Merloni e i Tronchetti Provera (vedi i casi di Pirelli e Telecom Italia). L’ondata di cessioni industriali non comporta solo la riduzione drastica dell’occupazione, ma anche l’impossibilità di mantenere le condizioni per uno sviluppo economico autonomo e democratico. L’Italia, «cedendo le sue industrie e le sue banche», di fatto «mina le basi del suo sviluppo». E, da domani, «peserà come il due di picche nel turbolento scenario economico e politico europeo e mondiale». Parla da sola la “fuga” americana della Fiat, «propiziata dai miliardi concessi da Obama per proteggere l’industria americana dell’auto e dal silenzio criminale e assurdo dei governi italiani».
    De-italianizzata anche Telecom, che non ha più pesanti azionisti italiani e «dietro lo schermo ideologico della public company guidata dai manager è sostanzialmente in vendita», sono rimasti pochissimi i grandi gruppi italiani in grado di competere sul mercato internazionale. «E sono praticamente tutti statali, ovvero Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri e pochi altri». Nonostante i peccati mortali attribuiti (spesso giustamente) ai boiardi di Stato, quel che resta della nostra industria pubblica sa competere meglio di quella privata, rileva Grazzini. «Anche per queste industrie strategiche il governo prevede però una disgraziata privatizzazione a favore dei capitali esteri, con l’obiettivo (falso) di diminuire il debito pubblico e rispettare i vincoli di deficit pubblico posti dall’Unione Europea». La verità è ben altra: «L’euro ci strozza e la Ue vuole farci vendere i gioielli di famiglia. Ma anche un grullo capisce che non si può alleggerire un debito di 2.100 miliardi con la vendita di quote di società da cui ricavare al massimo qualche decina di miliardi».
    All’opposto, lo Stato francese difende il controllo della sua industria nucleare e dell’energia, diventando il maggiore azionista di Areva per impedirne la completa acquisizione da parte dell’americana General Electric. «L’ideologia liberista di Renzi non è più praticata neppure presso i paesi più liberisti», scrive Grazzini. «Obama protegge gelosamente le sue industrie strategiche, l’auto, l’hi-tech e la finanza. La Fed, la banca centrale americana, stampa decine di miliardi di dollari al mese grazie ai quali le banche d’affari e le industrie statunitensi possono acquistare facilmente i concorrenti esteri. Anche grazie al “privilegio esorbitante” del dollaro facile, il 40% circa della Borsa italiana è in mano a banche d’affari, fondi pensione e fondi speculativi e di private equity americani, arabi, europei, fondi sovrani di Stati esteri». Esempio: il fondo BlackRock, gigante della finanza Usa, è uno dei principali azionisti non solo di Telecom Italia ma anche di Unicredit e Intesa, cioè delle due principali banche nazionali in cui confluisce gran parte del risparmio degli italiani.
    Ma non è solo il governo americano a intervenire a favore della sua industria: secondo uno studio di Mediobanca, il governo britannico e quello tedesco hanno speso rispettivamente 1.213 e 446 miliardi di euro per salvare le loro banche nazionali dalla crisi. Angela Merkel fa di tutto per proteggere e sviluppare l’industria tedesca dell’auto e della meccanica. La Germania, inoltre, «manovra l’euro come se fosse il marco per favorire le sue esportazioni e la proiezione internazionale della sua industria». E il governo bianco-rosa della cancelliera finanzia (giustamente) con denaro pubblico la sua industria delle energie alternative, contrastando duramente l’Unione Europea che vorrebbe impedire gli aiuti di Stato anti-competitivi. «I paesi emergenti – a partire da Cina, India e Brasile – sono riusciti a svilupparsi negli ultimi decenni attirando gli investimenti industriali esteri, ma anche proteggendo le industrie strategiche grazie allo stretto controllo dei capitali stranieri».
    Solo una politica pubblica attiva e intelligente, conclude Grazzini, può infatti difendere l’economia nazionale dall’assalto dei grandi enti finanziari che divorano le industrie, sviluppando ricerca, infrastrutture, aziende hi-tech e energie alternative. «Purtroppo il governo Renzi sembra avere una visione di politica economica completamente subordinata all’ideologia del “lasciar fare” ai mercati finanziari. Il governo interviene solo “a babbo morto” quando un’azienda è completamente fallita, come Alitalia, per cederla ai capitali esteri, cercando solo, per quanto possibile, di salvare le grandi banche creditrici (Intesa e Mps innanzitutto, nel caso Alitalia)». A fermare la slavina basterebbe un intervento deciso della Cassa Depositi e Prestiti, «l’unico ente nazionale simile a una banca pubblica». Meglio ancora: «Il governo dovrebbe nazionalizzare e gestire una grande banca, e finanziare (con profitto pubblico) le piccole aziende italiane in grave crisi di liquidità», nonché «le medie aziende del cosiddetto “quarto capitalismo” in grado di competere sui mercati internazionali».
    Un fondo pubblico specializzato, continua Grazzini, dovrebbe inoltre co-finanziare massicciamente le società private di “venture capital”, per sponsorizzare l’avvio e lo sviluppo globale di nuove start-up nei campi promettenti ma incerti dell’hi-tech. Peccato che politica sia praticamente inesistente, a cominciare da sinistra e sindacati, pur sapendo che «l’intervento statale non basta assolutamente per salvare e sviluppare l’industria nazionale: nell’economia dell’innovazione e delle conoscenze occorre mobilitare soprattutto l’intelligenza e la partecipazione dei lavoratori». Democrazia dal basso, per consentire alla forza lavoro – come avviene in Germania – di eleggere i suoi rappresentanti nei consigli di amministrazione delle grandi imprese, come l’Ilva e Telecom. Per Grazzini, «il pericolo maggiore – e imminente – è che non solo le industrie manifatturiere ma anche le banche nazionali vengano cedute all’estero (come è già successo con Mps, la terza banca nazionale) e che il risparmio degli italiani vada ad alimentare completamente lo sviluppo delle economie estere». Con soddisfazione sospetta, l’“Economist” annuncia che dal 2010 le fondazioni nazionali (lottizzate, ma pur sempre semi-pubbliche) abbiano perso la presa sulle banche italiane quotate in Borsa, che ormai dipendono dal “libero” mercato azionario per il 77%, con investitori stranieri padroni dell’11% del credito italiano, cioè il doppio rispetto a pochi anni fa.
    L’unificazione bancaria europea decisa dalla Ue genera la necessità di ricorrere al mercato per ricapitalizzare le banche nazionali colme di debiti in sofferenza a causa della crisi, e spesso dei crediti erogati agli “amici”. «L’apertura del mercato bancario nazionale sollecitata dall’Unione Europea è una fortuna per la speculazione internazionale», spiega Grazzini. «Le ricapitalizzazioni sono una manna per gli investitori esteri che con pochi soldi potranno acquistare il risparmio nazionale: ma senza il minimo controllo sul risparmio non ci saranno nuovi investimenti e prospettive di sviluppo più o meno sostenibile». L’Italia? «Diventerà irrimediabilmente un paese del terzo mondo». Ama conclusione: «L’economia italiana avrebbe bisogno di democrazia economica dal basso, di una avanzata politica industriale, di capitani d’industria come Enrico Mattei e Adriano Olivetti, di innovatori come Steve Jobs, di banchieri come Raffaele Mattioli, e di politici della statura di De Gaulle per difendere e sviluppare l’economia nazionale. Purtroppo invece in Italia hanno prevalso i Marchionne, i Berlusconi e i Renzi».

    La vendita della Indesit a Whirpool è solo l’ultimo caso: si sta verificando nel silenzio generale la fine dell’Italia industriale, come predetto da Luciano Gallino. Il pericolo imminente è quello di cedere al capitale estero non solo le industrie ma anche le grandi banche, e di svendere completamente il risparmio italiano. A causa del declino verticale dell’industria e della sofferenza delle banche italiane, e a causa della colpevole inerzia governativa e dei pesanti vincoli europei, il capitalismo nazionale sta diventando un servile vassallo di quello internazionale. E l’Italia rischia così di precipitare definitivamente nel Terzo Mondo. Se l’“Economist” definisce “untangled” (sciolto, smembrato) il capitalismo italiano, sfugge il peso della svolta forzata di Mediobanca, che ha deciso di sciogliere gli accordi incrociati tra le maggiori aziende nazionali: da allora, secondo Enrico Grazzini, il capitalismo italiano si è votato a una sorta di suicidio irreversibile.

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