Archivio del Tag ‘Forza Italia’
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“Bergoglio fa il globalista? Oscura il suo passato fascista”
C’era una volta in Argentina un gesuita, Jorge Mario Bergoglio, che era schierato contro la teologia della liberazione, vicina al castrismo e negli anni ’70 aderì alla Guardia de Hierro, un’organizzazione peronista, di stampo nazionalista, cattolica, ferocemente anticomunista. In quegli anni a chi gli faceva notare che l’organizzazione a cui aderiva si richiamasse alla Guardia di Ferro, il movimento romeno del comandante Corneliu Zelea Codreanu, nazionalista e fascista, Bergoglio replicava: «Meglio così». Della sua vicinanza alla Guardia de Hierro ne parlò dopo la sua elezione il quotidiano argentino “Clarin”, mentre a Buenos Aires apparivano manifesti che ricordavano Bergoglio peronista. Per la cronaca, la Guardia di Ferro era un movimento di legionari, molto popolare in Romania negli anni trenta, ritenuto antisemita e filonazista, di cui si innamorarono in molti, non solo in Romania. Uno di questi fu Indro Montanelli che pubblicò sul “Corriere della Sera” una serie di entusiastici reportage pieni di ammirazione per Codreanu, nell’estate del 1940, a guerra inoltrata, smentendo la sua tesi postuma che dopo il ’38 si fosse già convertito all’antifascismo. Testi ripubblicati di recente, “Da inviato di guerra” (ed. Ar).Evidentemente anche nell’Argentina dei Peron il mito di Codreanu, barbaramente assassinato, e del suo integralismo cristiano, aveva proseliti. Nel ’74, dopo la morte di Peron, il movimento legionario si sciolse. Era un gruppo di 3.500 militanti e 15mila attivisti. Si opponevano ai guerriglieri di sinistra peronisti infiltrati dai castristi, seguaci di Che Guevara; loro erano, per così dire, l’ala di estrema destra del giustizialismo. Il gruppo della Guardia de Hierro era stato fondato da Alejandro Gallego Alvarez. Era un movimento che teneva molto alla formazione culturale dei suoi militanti e alla presenza tra i diseredati e gli ultimi. A Bergoglio fu poi affidata un’istituzione in difficoltà, l’Università del Salvador. Bergoglio la risanò e l’affidò a due ex-camerati della Guardia de Hierro, Francisco José Pinon e Walter Romero. In quegli anni Bergoglio era avversario dichiarato dei gesuiti di sinistra da posizioni nazionaliste e populiste. La sua avversione alla teologia della liberazione gli procurò l’accusa di omertà da parte del Premio Nobel Perez Esqivel e poi di collaborazionismo con la dittatura dei generali argentini, dal 1976 a 1983.Lo storico Osvaldo Bayer dichiarò ai giornali: «Per noi è un’amara sconfitta che Bergoglio sia diventato Papa». E Orlando Yorio, uno dei gesuiti filocastristi catturato e torturato dai servizi segreti del regime militare, accuserà: «Bergoglio non ci avvisò mai del pericolo che correvamo. Sono sicuro che egli stesso dette ai marinai la lista coi nostri nomi». Solo dopo la caduta della dittatura militare Bergoglio iniziò a prendere le distanze dal peronismo nazionalista. Ho tratto fedelmente questa ricostruzione dalle pagine del libro di Emidio Novi, “La riscossa populista”, appena uscito per le edizioni Controcorrente (pp.286, 20 euro). Novi sostiene che la deriva progressista e mondialista di Francesco nasca da questo passato rimosso. Secondo Novi, «Papa Bergoglio vuol farsi perdonare il suo passato “fascista” durato fino al 1980». Per questo non perde occasione di compiacere il politically correct, il partito progressista dell’accoglienza, l’antinazionalismo radicale.Novi, giornalista di lungo corso e senatore di Forza Italia, è morto lo scorso 24 agosto investito da un camion della nettezza urbana in retromarcia mentre era al suo paese natale, S.Agata di Puglia. Il suo libro è uscito postumo, con una prefazione di Amedeo Laboccetta e a cura di suo figlio Vittorio Alfredo. Novi si definiva populista già decenni prima che sorgesse in Italia l’onda populista. Era populista al cubo, perché proveniva dall’ala più “movimentista” dell’Msi ispirata dal fascismo sociale: poi perché proveniva dal sud e da Napoli, ed era un interprete genuino dell’antico populismo meridionale, a cavallo tra la rivolta popolana e la nostalgia borbonica; e infine era populista perché considerava l’oligarchia finanziaria, la dittatura dei banchieri e degli eurocrati, il nemico principale dei popoli nel presente. Perciò amava definirsi nazionalpopulista, e sovranista ante litteram.In questo suo ultimo libro Novi si occupa in più pagine del «papulismo» di Bergoglio, della sua teologia «improvvisata e arruffona», della sua resa all’Islam, della sua ossessione migrazionista fino a definire Gesù, la Madonna e San Giuseppe come una famiglia di immigrati clandestini in fuga. Lo reputa «uno strumento dell’anticristo», funzionale sia al progressismo radical dell’accoglienza che al mondialismo laicista della finanza, mescolando il vecchio terzomondismo, l’internazionalismo socialista con il disegno global che ci vuole nomadi, senza radici, senza patria e senza frontiere. Ma del suo passato argentino, al tempo di Peron, del giustizialismo e poi della dittatura militare, Bergoglio preferisce non parlare. Anche gli estroversi a volte tacciono.(Marcello Veneziani, “Camerata Bergoglio”, da “La Verità” del 31 gennaio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).C’era una volta in Argentina un gesuita, Jorge Mario Bergoglio, che era schierato contro la teologia della liberazione, vicina al castrismo e negli anni ’70 aderì alla Guardia de Hierro, un’organizzazione peronista, di stampo nazionalista, cattolica, ferocemente anticomunista. In quegli anni a chi gli faceva notare che l’organizzazione a cui aderiva si richiamasse alla Guardia di Ferro, il movimento romeno del comandante Corneliu Zelea Codreanu, nazionalista e fascista, Bergoglio replicava: «Meglio così». Della sua vicinanza alla Guardia de Hierro ne parlò dopo la sua elezione il quotidiano argentino “Clarin”, mentre a Buenos Aires apparivano manifesti che ricordavano Bergoglio peronista. Per la cronaca, la Guardia di Ferro era un movimento di legionari, molto popolare in Romania negli anni trenta, ritenuto antisemita e filonazista, di cui si innamorarono in molti, non solo in Romania. Uno di questi fu Indro Montanelli che pubblicò sul “Corriere della Sera” una serie di entusiastici reportage pieni di ammirazione per Codreanu, nell’estate del 1940, a guerra inoltrata, smentendo la sua tesi postuma che dopo il ’38 si fosse già convertito all’antifascismo. Testi ripubblicati di recente, “Da inviato di guerra” (ed. Ar).
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India, reddito universale in arrivo. L’Italia può sognarselo
In India sta partendo un esperimento di reddito universale da far impallidire il nostro misero reddito di cittadinanza: succede nello Stato himalayano del Sikkim. Si tratta della seconda più piccola entità statale della federazione indiana, al confine con la Cina. Nel Sikkim, all’avanguardia socialmente, tutti i 610.577 abitanti riceveranno un reddito-base universale, come riportato dal “Washington Post”. «Al posto di un insieme anche piuttosto confuso di contributi sociali, tutti riceveranno una somma di denaro», scrive Guido da Landriano su “Scenari Economici”. In questo, modo nessuno dovrà più preoccuparsi dei propri bisogni di base: saranno “stipendiati” tutti, indipendentemente dal reddito. Il Sikkim è un paese avanzato, per molti aspetti: «Con un tasso di alfabetizzazione del 98%, da diversi anni ha bandito completamente le borse di plastica: di recente è diventato il primo paese “biologico” al mondo, avendo messo al bando anche pesticidi e concimi chimici». Il piccolo Sikkim, aggiunge “Scenari Economici”, ha anche un tasso di povertà piuttosto basso, «soprattutto se comparato con il resto dell’India, in quanto solo l’8% della popolazione è in uno stato di indigenza, contro il 30% dell’India e il 10% dell’Italia».Il Sikkim ha un’economia basata sul un turismo di élite e sulla vendita dell’energia derivante dalle risorse idriche di cui dispone, alimentate dai ghiacciai dell’Himalaya. Lo Stato inolte garantisce la casa a tutti i cittadini, a cui ora darà anche un reddito. «La finalità della decisione è quella di accorciare il gap economico fra i cittadini, con la speranza che, almeno localmente, non segua il trend mondiale che vede i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri», spiega Guido da Landriano. “Scenari Economici” fa notare che esistono altri esperimenti in corso, nel mondo, sul reddito universale o reddito di cittadinanza: a Stockton, in California, tutti cittadini senza lavoro hanno ricevuto 630 dollari per 18 mesi. «Solo che nel Sikkim a ricevere il denaro saranno tutti i cittadini, indipendentemente dal fatto che ricevano un reddito o meno». Proprio la difficoltà nel dedurre l’identità degli aventi diritto ha invece paralizzato il governo italiano, a cui l’Unione Europea ha peraltro accorciato ulteriormente la “coperta” disponibile per soccorrere le fasce sociali più deboli.«A questo punto, viste le affermazioni dei politici italiani – chiosa “Scenari Economici” – ci sarà da attendere un boom di vendite della catena “Divani & Divani”, perché tutti i cittadini cesseranno di lavorare». Aggiunge, Guido da Landriano: «Tutti, poveri e ricchi, smetteranno di lavorare perché avranno un reddito minimo». C’è da sperare che, su quei divani, «si trasferiscano un po’ di deputati di Forza Italia e del Pd che, purtroppo, infestano il dibattito politico italiano». Se la cosiddetta opposizione spara a man salva sui provvedimenti sociali dell’esecutivo Conte, va però ricordato che gli stessi gialloverdi – dopo aver promesso un vero reddito di cittadinanza, nel “contratto di governo” – non hanno osato resistere al diktat neoliberista dell’Ue, votato al rigore più suicida: prima hanno proposto nel Def 2019 un timidissimo deficit al 2,4% (inferiore al tetto del 3% fissato arbitrariamente da Maastricht) e poi hanno rinunciato pure a quello, ripiegando sull’umiliante 2,04%. Tradotto: l’Italia non può fare come il Sikkim. Anche perché l’India è un paese sovrano, dotato di propria moneta: non deve rispondere a nessuna Ue, né tantomeno pagare per avere il denaro che le serve.In India sta partendo un esperimento di reddito universale da far impallidire il nostro misero reddito di cittadinanza: succede nello Stato himalayano del Sikkim. Si tratta della seconda più piccola entità statale della federazione indiana, al confine con la Cina. Nel Sikkim, all’avanguardia socialmente, tutti i 610.577 abitanti riceveranno un reddito-base universale, come riportato dal “Washington Post”. «Al posto di un insieme anche piuttosto confuso di contributi sociali, tutti riceveranno una somma di denaro», scrive Guido da Landriano su “Scenari Economici”. In questo, modo nessuno dovrà più preoccuparsi dei propri bisogni di base: saranno “stipendiati” tutti, indipendentemente dal reddito. Il Sikkim è un paese avanzato, per molti aspetti: «Con un tasso di alfabetizzazione del 98%, da diversi anni ha bandito completamente le borse di plastica: di recente è diventato il primo paese “biologico” al mondo, avendo messo al bando anche pesticidi e concimi chimici». Il piccolo Sikkim, aggiunge “Scenari Economici”, ha anche un tasso di povertà piuttosto basso, «soprattutto se comparato con il resto dell’India, in quanto solo l’8% della popolazione è in uno stato di indigenza, contro il 30% dell’India e il 10% dell’Italia».
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Reddito e pensioni, la truffa gialloverde che piace a Juncker
Finalmente abbiamo il decreto su reddito di cittadinanza e sulla “cosiddetta” (lo dice anche il testo della legge) quota 100. Vengono tutte confermate le peggiori anticipazioni di questi giorni, che spesso sui social erano state bollate come “fake news” dai fanatici del governo. Purtroppo non è così. Vediamo i punti cardine dei due provvedimenti. Cominciamo dal reddito. Di cittadinanza ce ne è davvero poca, e anche di reddito; naturalmente non si può che essere contenti se lo Stato dà dei soldi ai poveri, tuttavia non possiamo certo chiamare dignitoso e civile un sistema che sottopone il povero disoccupato a clausole sempre più vessatorie fino a diventare insopportabili. Questo è il modello Thatcher che vediamo denunciato nei film di Ken Loach: ti dò dei soldi ma tu sei a disposizione della burocrazia e delle imprese. Vediamo. Il reddito viene assegnato a chi ha un Isee inferiore a 9.360 euro, i famosi 780 euro mensili che rappresenterebbero la soglia della povertà assoluta. Il principio è che lo stato concorre con quanto manca per raggiungere quella cifra. Quindi hai Isee zero? Allora prenderai tutti i 9.360 euro, ma tutto ciò che guadagni (o il valore della casa che eventualmente possiedi) ti verrà scalato da quella cifra.Naturalmente qui faccio un esempio limite; ci sono spese, c’è la famiglia, si possono cumulare più redditi se in una famiglia ci sono più disoccupati maggiorenni, insomma bisogna andare al Caf e poi all’Inps con una pila di documenti, ad esempio per dimostrare quanto è vecchia l’auto, se se ne ha una. Tuttavia alla fine il concetto è chiaro: saranno davvero pochi coloro che incasseranno tutti i 780 euro mensili, che titolano il provvedimento. Anche il governo, per chiarire, ha scritto che comunque nessuno degli aventi diritto potrà avere meno di 480 euro all’anno, 40 al mese. Il reddito viene assegnato a tutti i residenti in Italia che ne abbiano diritto. Attenzione però, perché bisogna essere residenti da almeno 10 anni. Questo vale per i migranti, ma anche per cittadini italiani che siano andati a lavorare all’estero e poi siano tornati avendo perso lì il lavoro. Il limite avrebbe dovuto essere di soli 5 anni, ma Salvini è intervenuto per evitare che troppi migranti avessero il reddito. Così, per togliere soldi ai migranti, li hanno tolti anche agli italiani in difficoltà. Meditate, razzisti, meditate.Il reddito va anche ai pensionati con più di 65 anni che prendano meno di 780 euro mensili. Siccome questi sono milioni e si prevede di sostenerne solo una piccola quota, spetterà all’Inps fare una selezione sociale (come, lo vedremo). Il reddito verrà versato in una social card che ha degli obblighi di spesa. Chi la detiene potrà prelevare solo 100 euro al mese in contanti. Il resto dovrà essere speso direttamente e mensilmente. Ci sarà un controllo su come vengono spesi i soldi. In ogni caso i soldi sono sempre quelli, quanti che siano coloro che ne avrebbero diritto. In una clausola chiaramente concordata con Bruxelles, il governo si impegna a tenere fissa la spesa per il reddito. Per capirci: se alla fine ne avesse diritto un milione di persone, la spesa è 6 miliardi. Se però fossero tre i milioni a fare domanda, la spesa sarebbe sempre di 6 miliardi, quindi gli stessi soldi sarebbero divisi tra più persone. Altro che 780 euro. “Rimodulare”, si chiama, nel linguaggio del governo.Tutti gli interessati al reddito che hanno meno di 65 anni dovranno rendersi disponibili al cosiddetto Patto di Lavoro. Esso è indispensabile per ottenere il reddito, e chi lo sottoscrive entra nel gorgo della collocabilità. Che ha il doppio scopo di costringere le persone ad accettare lavori purchessia, o di far risparmiate tanti soldi allo Stato. Infatti il reddito dura 18 mesi, poi si salta un mese e successivamente lo si può riavere, ma a terribili condizioni. La principale delle quali è che non si può rifiutare nessuna proposta di lavoro in tutto il territorio nazionale. Un disoccupato calabrese che rifiuti un lavoro di 800 euro a Milano perderà il reddito. Ma la tagliola scatterà anche prima. Infatti solo la prima proposta di lavoro “congruo” (chissà che vuol dire) sarà entro 100 km e nei primi 6 mesi di reddito, poi scatteranno 250 km, che sono tanti, implicano già il trasferimento, e dopo 12 mesi questa proposta non potrà essere rifiutata. Insomma, alla fine o emigri o perdi tutto. Salvini odia i migranti esteri e vuole rimpiazzarli con tanti migranti interni.Il Patto di Lavoro implica 35 ore mensili medie di lavori socialmente utili, partecipazione obbligata a corsi di formazione e una partecipazione quotidiana alle piattaforme informatiche di collocamento istituite apposta. Il tutto sotto gli occhi di un tutore-collocatore. Le aziende che assumeranno i titolari di reddito riceveranno un premio se non li licenziano prima di 24 mesi; questo, per il governo, è l’assunzione a tempo indeterminato. Il premio sarà pari almeno a 5 mensilità di reddito. Lo stesso premio lo riceveranno i tutori-collocatori o gli enti bilaterali tra sindacati e imprese, che avranno un ruolo centrale in tutto il percorso formativo e che riceveranno almeno 5 mensilità per ogni lavoratore collocato. Sa un po’ di caporalato di Stato, ma tanti termini inglesi aggiusteranno tutto. In conclusione, il reddito di cittadinanza era stato presentato come un strumento atto a rendere più forti le persone nel mercato del lavoro, per impedire la concorrenza al ribasso sui salari. Qui invece si fa l’opposto, si usa il reddito per l’avviamento coatto al lavoro alle condizioni peggiori, “o mangi ’sta minestra o salti dalla finestra” è il motto che guida il reddito di cittadinanza sfruttata di Di Maio.Vediamo ora la “cosiddetta” quota 100. Come era chiaro da tempo, non c’è nessuna abolizione e neppure riforma della legge Fornero, che resta pienamente in vigore con alcuni interventi temporanei e con una finestra di pensionamenti anticipati e penalizzati che si chiuderà. Dal 1° aprile cominceranno ad andare in pensione coloro che hanno già maturato il requisito di 62 anni di età e 38 anni di contributi. Si procederà per scaglioni e, tra la maturazione del diritto e l’effettivo pensionamento, dovranno passare almeno tre mesi per i privati, sei mesi per i pubblici. Il provvedimento vale per il 2019, 2920 e 2021, poi scatterà l’innalzamento in base al legame con l’aspettativa di vita. Cioè è una finestra una tantum. La pensione viene penalizzata sulla base dei meccanismi, che restano in vigore, della legge Fornero. Cioè: si svalutano i contributi in proporzione alla distanza anagrafica dalla pensione di vecchiaia. Il governo riconosce questo, e pertanto favorisce gli accordi tra aziende e sindacati per integrare la pensione. Per capirci: così si aiutano banche e grandi aziende a svecchiare il personale. Per questo Confindustria & C sono felici del provvedimento: via dipendenti anziani e costosi, dentro giovani pagati la metà e senza articolo 18.Viene soppresso l’aumento di 5 mesi dell’età della pensione di vecchiaia e di quella d’anzianità, scattato il primo gennaio. Però c’è anche qui il trucco dei tre mesi. Chi arriva all’età della pensione deve aspettare almeno in questa misura. Così viene abolito l’aumento di cinque, ma se ne introduce uno di tre mesi, per giunta non pagato. Non so quanto convengano i due mesi risparmiati rispetto alla Fornero. Vengono confermate opzione-donna ed Ape Social, che però sono state fatte proprio da chi ha votato la legge Fornero e non hanno cambiato in nulla le iniquità del sistema pensionistico. I dipendenti pubblici che andranno in pensione a 62 anni dovranno aspettare quasi cinque anni per avere la liquidazione, anche qui in base alla legge Fornero. Tuttavia potranno farsi prestare i soldi da banche con cui le amministrazioni pubbliche dovrebbero definire apposite convenzioni, con i relativi interessi. Cambiano i governi, ma porcate con le banche si fanno sempre.E a proposito di porcate, non ci saranno sostituzioni per chi esce, visto che le assunzioni pubbliche sono bloccate fino a novembre, cioè fino alla prossima finanziaria lacrime e sangue. Tutto qui, solo la propaganda menzognera del governo, con la stupidità complice delle opposizioni di Pd e Forza Italia, può far credere che qui si sia davvero istituito il reddito di cittadinanza o che sia stata colpita la legge Fornero, che invece continuerà a far danni. Salvini e Di Maio hanno solo varato una versione povera e feroce della legge tedesca Hartz IV e hanno concesso un prepensionamento per alcune generazioni di impiegati, cosa che fanno tutti i governi in tutti i paesi. Per questo Juncker ha messo il suo bollino sulla manovra: essa è perfettamente compatibile con le politiche liberiste della Ue. Anzi le realizza, finanziandole con un poderoso aumento dell’Iva e con i tagli alla scuola e allo stato sociale. Che naturalmente andranno in vigore dopo le elezioni europee. Intanto la montagna di promesse di Salvini e Di Maio ha partorito il topolino di Juncker.(Giorgio Cremaschi, “E la montagna di promesse di Salvini e Di Maio partorì il topolino di Juncker”, da “Micromega” del 9 gennaio 2019).Finalmente abbiamo il decreto su reddito di cittadinanza e sulla “cosiddetta” (lo dice anche il testo della legge) quota 100. Vengono tutte confermate le peggiori anticipazioni di questi giorni, che spesso sui social erano state bollate come “fake news” dai fanatici del governo. Purtroppo non è così. Vediamo i punti cardine dei due provvedimenti. Cominciamo dal reddito. Di cittadinanza ce ne è davvero poca, e anche di reddito; naturalmente non si può che essere contenti se lo Stato dà dei soldi ai poveri, tuttavia non possiamo certo chiamare dignitoso e civile un sistema che sottopone il povero disoccupato a clausole sempre più vessatorie fino a diventare insopportabili. Questo è il modello Thatcher che vediamo denunciato nei film di Ken Loach: ti dò dei soldi ma tu sei a disposizione della burocrazia e delle imprese. Vediamo. Il reddito viene assegnato a chi ha un Isee inferiore a 9.360 euro, i famosi 780 euro mensili che rappresenterebbero la soglia della povertà assoluta. Il principio è che lo stato concorre con quanto manca per raggiungere quella cifra. Quindi hai Isee zero? Allora prenderai tutti i 9.360 euro, ma tutto ciò che guadagni (o il valore della casa che eventualmente possiedi) ti verrà scalato da quella cifra.
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Sì Tav: Salvini sta con i partiti che hanno sfasciato l’Italia
Non mi interessa quello che racconti, non voglio nemmeno sentirlo. Così è Torino, con chi ripete – per la milionesima volta – che la linea ferroviaria Tav Torino-Lione sarebbe un doppione inutile della linea esistente, deserta. Una nuova manifestazione promossa dai partiti che hanno sfasciato l’Italia (più la Lega di Salvini) è tornata a riempire di slogan demenziali la centralissima piazza Castello, il 12 gennaio, stavolta con anche i sindaci di mezzo Piemonte, per lo più arruolati tra le macerie del Pd su cui campeggia il redivivo Sergio Chiamparino, presidente della Regione e già sindaco del capoluogo, transitato – tra un incarico e l’altro – alla guida della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria. In piazza i peones piemontesi della Lega, impegnata in un braccio di ferro coi 5 Stelle, ma anche il presidente ligure Giovanni Toti, il fantasma ufficiale del Pd (Maurizio Martina) e vari yesmen di Forza Italia. In pratica: la Seconda Repubblica al gran completo, i commissari fallimentari che hanno gestito la bancarotta politica ed economica del paese negli ultimi 25 anni. Sono loro, ancora e sempre, a voler azzannare – a tutti i costi – la maxi-torta degli appalti per l’opera faraonica più inutile del pianeta.I difensori del buon senso – in questo caso i 5 Stelle con il ministro Toninelli – appaiono deboli e accerchiati. L’alleato Salvini non esita a schierarsi con l’opposizione, pur di riuscire (anche lui) a veder passare l’inutile super-treno per la valle di Susa, destinato – secondo tutte le previsioni – a restare fatalmente vuoto, senza merci da trasportare. Lo stesso Toninelli, ben sapendo che il Tav Torino-Lione è una specie di tragica barzelletta, ha dovuto inscenare la manfrina della commissione speciale, incaricata di valutare il rapporto costi-benefici dell’opera, come se il risultato non lo si conoscesse già, dopo decenni di analisi. Il presidente della commissione è il più autorevole trasportista italiano, il professor Marco Ponti del politecnico di Milano, autore di saggi estremamente dettagliati nei quali si dimostra che la Torino-Lione sarebbe perfettamente superfua, oltre che devastante per il suo impatto (un traforo di 57 chilometri) e per il suo costo miliardario. Ma non c’è speranza che i grandi media – giornali e televisioni – facciano il minimo sindacale, se non altro per decenza professionale, per riassumere anche le ragioni del “no”, nel raccontare l’ennesima mobilitazione a favore del “sì”, promossa dai poteri che hanno spolpato e piegato l’Italia.Non una delle argomentazioni NoTav è citata, nella narrazione ufficiale di quella che è descritta come “onda Sì Tav”, programmata dalle opposizioni per approfittare della debolezza politica del governo, sulla quale si avventa lo stesso Salvini, proponendosi in questo caso come nuovo garante del peggior affarismo politico, quello della cantieristica per le grandi opere. Zero trasparenza, come sempre, dalle forze ibride – politico-finanziarie – che hanno svenduto il paese negli ultimi decenni. Parla da sola la maschera di Chiamparino, che oggi intima al governo di sbrigarsi a capitolare, minacciando di indire un referendum (sul quale lo stesso Chiamparino costruirebbe le basi per il rilancio delle sue ambizioni politiche). Il peggio è che, oggi, Matteo Salvini è schierato al fianco dell’oppositore Chiamparino, che attacca Toninelli e Di Maio. Non una parola – né da Salvini, né da Chiamparino – per motivare, seriamente, l’infrastruttura. Si deve fare, punto e basta. Sviluppo, progresso. Slogan vuoti e fuori luogo, come quelli che la cattiva politica ha usato per rovinare gli italiani. Europa, flessibiltà, sacrifici, privatizzazioni: i mantra della post-democrazia. Sì-Tav, dunque. Ma perché? Perché sì. Lo dice, senza vergogna, anche Salvini.Non mi interessa quello che racconti, non voglio nemmeno sentirlo. Così è Torino, con chi ripete – per la milionesima volta – che la linea ferroviaria Tav Torino-Lione sarebbe un doppione inutile della linea esistente, deserta. Una nuova manifestazione promossa dai partiti che hanno sfasciato l’Italia (più la Lega di Salvini) è tornata a riempire di slogan demenziali la centralissima piazza Castello, il 12 gennaio, stavolta con anche i sindaci di mezzo Piemonte, per lo più arruolati tra le macerie del Pd su cui campeggia il redivivo Sergio Chiamparino, presidente della Regione e già sindaco del capoluogo, transitato – tra un incarico e l’altro – alla guida della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria. In piazza i peones piemontesi della Lega, impegnata in un braccio di ferro coi 5 Stelle, ma anche il presidente ligure Giovanni Toti, il fantasma ufficiale del Pd (Maurizio Martina) e vari yesmen di Forza Italia. In pratica: la Seconda Repubblica al gran completo, i curatori fallimentari che hanno gestito la bancarotta politica ed economica del paese negli ultimi 25 anni. Sono loro, ancora e sempre, a voler azzannare – a tutti i costi – la maxi-torta degli appalti per l’opera faraonica più inutile del pianeta.
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Magaldi: siamo in guerra, siate eroi o finirete come Renzi
Oggi, dalle parti del governo, ci si può ancora godere qualche buon sondaggio: qualunque manovra, ancorché modesta, è pur sempre meglio dell’esercizio provvisorio. Ma fra sei mesi o un anno, la gente guarderà le proprie scarpe. E se saranno rotte com’erano un anno fa o due anni fa, prima che arrivasse il governo gialloverde, quelle scarpe se le toglierà e inizierà a tirarle, insieme ai pomodori, addosso ai presunti eroi del cambiamento. Quindi attenzione, cari amici gialloverdi del governo Conte: o si fa sul serio, a partire dal 2019, oppure farete – purtroppo – la fine che hanno fatto i vostri predecessori, cioè tutti quelli che di cambiamento hanno solo e sempre parlato. I governi dell’ultimo quarto di secolo hanno governato secondo i dettami di oligarchie massoniche neo-aristocratiche: si sono appecoronati, lasciandosi comprare un tanto al chilo, e hanno eseguito copioni scritti per loro da altri. Adesso il governo gialloverde ha al suo interno anche dei massoni sedicenti progressisti, e all’esecutivo – dal mondo massonico progressista – arriva il seguente messaggio: abbiate il coraggio di essere degli eroi, anche perché ci guadagnereste pure in termini elettorali e di durata, sul palcoscenico politico.Non sappiamo se questi suggerimenti saranno accolti. Certo, qualcuno potrebbe dire che il governo si è barcamenato, tra suggerimenti di segno opposto. In una prospettiva di autentico cambiamento, Paolo Savona al Senato ha evocato l’esigenza di un nuovo corso rooseveltiano, recependo appieno la narrativa politico-economica proposta dal mondo massonico progressista. Purtroppo però la manovra varata non si traduce in massicci piani di rilancio delle infrasttrutture, dell’occupazione, della sicurezza idrogeologica. Si resta invece in balia di una sorta di timore reverenziale verso la minaccia di tirate d’orecchie da parte dell’Europa. E così, per evitare la procedura d’infrazione, si assottiglia il già magro piano di misure volte ad abbandonare il paradigma del rigore e dell’austerità. Sembra che il governo Conte, schiacciato tra istanze opposte e contrarie – quelle dei massoni progressisti e quelle dei massoni neo-aristocratici – cerchi di barcamentarsi. Però questa cosa non funziona: barcamenarsi significa, alla fine, dar ragione ai massoni neo-aristocratici, che (attraverso i propri maggiordomi e camerieri) occupano indebitamente le istituzioni dell’attuale Disunione Europea. Opporsi a questi signori, invece, significa andare verso una vera Europa, e impegnarsi – come Italia – a costruirla, questa vera Europa, da protagonisti.La manovra del governo Conte è molto al di sotto delle aspettative, ma molti esponenti dell’area gialloverde annunciano di volerla migliorare nel 2019. A noi del Movimento Roosevelt farebbe piacere vedere un’evoluzione del governo Conte, più in linea con quelle che erano le attese. Della Seconda Repubblica diamo un giudizio storico, di fallimento complessivo. La Terza Repubblica comincerà solo col ritorno allo spirito originario della Costituzione, eliminando le cattive modifiche introdotte e vivificando le parti della Carta non adeguatamente declinate (e magari introducendo anche qualche perfezionamento). Avremo una Terza Repubblica quando al governo ci sarà qualcuno che lancerà finalmente un paradigma alternativo a quello neoliberista, egemone da troppi decenni, e quando – da parte dei governanti – ci sarà un atteggiamento consapevole della grandezza dell’Italia, potenziale ma anche attuale. L’Italia è un grande paese, che vive rappresentato al di sotto delle sue possibilità. L’Italia potrebbe recitare un ruolo leader nel Mediterraneo, in Africa e nel Medio Oriente. E potrebbe recitare un ruolo importante nel continente europeo, per costruire un’Europa veramente forte, democratica e popolare – ma non lo fa. L’Italia potrebbe essere anche un ponte tra Oriente e Occidente: lo è stata storicamente, ma riesce a esserlo solo a intermittenza, senza lungimiranza e senza valorizzare queste sue attitudini.In una Terza Repubblica, avremmo discorsi dei presidenti della Repubblica meno fasulli, meno retorici, meno gonfi di fumo e poveri di arrosto. Avremmo discorsi in cui il capo dello Stato si farebbe carico di interpretare le esigenze della nazione, parlando una lingua riconoscibile dai cittadini, senza menare il can per l’aia ingannando la platea. Mattarella dovrebbe fare autocritica, anzitutto, per come ha gestito il suo rapporto con la formazione del governo Conte e per come ha mortificato ingiustamente una fugura come quella di Paolo Savona impedendo che accedesse al ministero dell’economia. Mattarella ha presentato se stesso come il garante di un atteggiamento appecoronato, del sistema-Italia, verso diktat che non sono europei, non sono europeisti: sono solo il frutto contingente di una pessima ideologia, quella neoliberista, che ha corrotto qualunque sogno di integrazione politica europea. Mattarella si è fatto ragioniere occhiuto, e ha partecipato allo spavento per i risparmi degli italiani – messi in discussione da cosa? Se fosse stato un vero europeista, semmai, il presidente della Repubblica si sarebbe dovuto adoperare per promuovere l’eliminazione del problema dello spread alla radice, puntando a un’integrazione dei buoni del Tesoro (eurobond). Avrebbe dovuto, semmai, chiedere un surplus di democrazia nelle istituzioni europee.Queste cose Mattarella non le fa, ma non le ha fatte nessun suo predecessore. Non solo: Mattarella e i costituzionalisti del Qurinale non hanno detto una parola su quei profili dubbi del “decreto sicurezza” di Salvini. Invece partecipano, Mattarella e altri, al fiume di delegittimazione di Salvini sul piano di presunte xenofobie – che non ci sono mai state: la Lega ha eletto il primo parlamentare di colore in Italia. In questo triste crepuscolo di Forza Italia, del Pd e di altri partiti ormai in putrefazione, tutti epigoni di quella che è stata la Seconda Repubblica, la credibilità è davvero ai minini termini. Lo confermano i sondaggi: magari aumentano i cittadini disillusi dal troppo poco che ha fatto il governo, ma non cresce certo il consenso delle forze che vi si oppongono. La situazione è tale, che un capo dello Stato serio dovrebbe dire, oggi, agli italiani: scusatemi, perché forse ho attentato alla Costituzione quando (per un mio pregiudizio politico e ideologico) ho impedito che diventasse ministro dell’economia un galantuomo come Paolo Savona. Scusatemi, dovrebbe dire Mattarella, perché non ho fatto i giusti rilievi costituzionali (e non ho rimandato quindi alle Camere) il “decreto sicurezza” di Salvini, che forse contiene elementi illiberali – e lo dico io, che difendo Salvini da ogni attacco strumentale, e credo ancora che Salvini possa maturare politicamente, con tutta la Lega, verso una cifra politica adeguata alle sfide del XXI Secolo.Il vero punto è questo: Salvini è stato più muscolare degli altri, ma solo a parole. Il governo Conte, la Lega e i 5 Stelle vanno spronati a fare di più e di meglio. Questa manovra è riuscita male, così come l’atteggiamento con l’Europa. Si vuol dire che ogni tanto bisogna anche saper ripiegare e essere diplomatici? Va bene, staremo a vedere. Ma attenzione ai cortigiani, che oggi sono adulatori anche di Salvini: ricordo la fine che ha fatto Renzi, che era corteggiato e adulato, osannato e presentato nei sondaggi come l’uomo dell’anno (e degli anni). Ecco un’altra cosa che il presidente della Repubblica dovrebbe dire: italiani, cessate di essere servili e cortigiani. Cessate di essere stupidamente tifosi, com’è accaduto negli ultimi raccapriccianti episodi attorno al mondo calcistico: se proprio uno deve avere il coraggio di andare incontro alla morte, lo faccia per degli ideali importanti, non per una sciarpa e il tifo per una squadretta di calcio – con tutto il rispetto per la grande passione sportiva italiana. Italiani, siate seri: così dovrebbe dire un presidente della Repubblica autentico (lo disse Garibaldi in una delle sue avventure eroiche, e l’ultima stagione eroica dell’Italia è stata proprio il Risorgimento, pur tra mille retoriche).Insomma, il presidente della Repubblica dovrebbe dire: forse ho sbagliato, in questi anni, ma vi prometto che d’ora in avanti il mio ruolo di garante delle istituzioni sarà quello, anche in sede europea e mediterranea, di chi si adopera per favorire un reale Piano Marshall per l’Africa e un ruolo importante dell’Italia nel Mediterraneo. Tanto più che Mattarella proviene da quella sinistra democristiana che aveva in Aldo Moro un grandissimo esponente e un uomo di Stato che – fino a che non l’hanno ammazzato – aveva sicuramente gestito da par suo, insieme ad altri, un ruolo importante del nostro paese in varie questioni mediorientali e internazionali. Mattarella dovrebbe dire: mi adopererò perché l’Europa sia vera, democratica, popolare, con istituzioni non post-democratiche, non oligarchiche, non tecnocratiche. Questo dovrebbe dire: mi adopererò perché in Italia tornino la giustizia e la mobilità sociale, perché si vada verso il diritto al lavoro inserito nella Costituzione, cosicché il dibattito non sia più arenato tra reddito di cittadinanza (farlocco) o redditi integrativi di incerta applicazione. Questo dovrebbe dire: mi adopererò, come presidente della Repubblica, per far fare un salto di qualità a questa nazione.Noto peraltro che le persone sono più attente, alla questione della “res publica”: ne parlano di più, sono più smaliziate. Anche tra le persone semplici le antenne sono ben ritte. Quindi bisogna essere ottimisti, per il 2019 e per gli anni che verranno, perché forse l’Italia potrà davvero riannodare i fili della sua storia, e gli italiani potranno forse tornare a vivere qualche stagione eroica, com’è accaduto in secoli passati. Il governo Conte? Se sceglie la via del barcamenarsi farà la fine di Matteo Renzi, un grande “barcamenatore”: faceva la voce grossa e parlava di rinnovamento ma non rinnovava niente; stava lì a tenere buoni tutti, lanciando speranze poi tutte disattese. I rappresentanti del governo Conte sanno bene cosa dicono gli uni e gli altri, i progressisti e i neo-aristocratici, ma la scelta di barcamenarsi non è possibile. Questa è una guerra: lo dico con mitezza, perché è una guerra che si può combattere pacificamente e democraticamente. Ma è una guerra, nella quale si scontrano due visioni diverse della società. Una è una visione democratica e progressista, imperniata sulla giustizia, sulla mobilità sociale e sulle prosperità diffusa. L’altra visione è invece imperniata sulla post-democrazia, cioè su una neo-aristocrazia (che va a braccetto, sul piano economico, con quella ideologia neoliberista che ha ammorbato l’orbe planetario negli ultimi decenni). Per il bene di tutti, l’Italia deve tornare a recitare un ruolo importante. E faccio questa previsione: il 2019 vedrà un’accelerazione di parecchi processi.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming su YouTube “Gioele Magaldi Racconta” del 31 dicembre 2018. Autore del bestseller “Massoni”, nonché esponente del circuito massonico progressista internazionale, Magaldi annuncia per il 2019 un’intensa offensiva mediatica da parte del Movimento Roosevelt, di cui è presidente, e parallelamente prevede un’incisiva attività politica da parte del costruendo “Partito che serve all’Italia”, i cui attivisti torneranno a riunirsi a Roma il 10 febbraio, dopo l’assemblea prenatalizia alla quale hanno partecipato, a vario titolo, personalità come quelle di Nino Galloni, Claudio Quaranta, Antonio Maria Rinaldi e Ilaria Bifarini).Oggi, dalle parti del governo, ci si può ancora godere qualche buon sondaggio: qualunque manovra, ancorché modesta, è pur sempre meglio dell’esercizio provvisorio. Ma fra sei mesi o un anno, la gente guarderà le proprie scarpe. E se saranno rotte com’erano un anno fa o due anni fa, prima che arrivasse il governo gialloverde, quelle scarpe se le toglierà e inizierà a tirarle, insieme ai pomodori, addosso ai presunti eroi del cambiamento. Quindi attenzione, cari amici gialloverdi del governo Conte: o si fa sul serio, a partire dal 2019, oppure farete – purtroppo – la fine che hanno fatto i vostri predecessori, cioè tutti quelli che di cambiamento hanno solo e sempre parlato. I governi dell’ultimo quarto di secolo hanno governato secondo i dettami di oligarchie massoniche neo-aristocratiche: si sono appecoronati, lasciandosi comprare un tanto al chilo, e hanno eseguito copioni scritti per loro da altri. Adesso il governo gialloverde ha al suo interno anche dei massoni sedicenti progressisti, e all’esecutivo – dal mondo massonico progressista – arriva il seguente messaggio: abbiate il coraggio di essere degli eroi, anche perché ci guadagnereste pure in termini elettorali e di durata, sul palcoscenico politico.
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L’Ue ha già smontato il “governo di distrazione di massa”
Dopo aver promesso di battere i pugni, pestare i piedi, digrignare i denti e strabuzzare gli occhi, i Grilloverdi hanno calato le braghe. Inflessibili coi naufraghi anche la notte di Natale, a 90° coll’Ue. Dopo tanti “Me ne frego” e “Noi tireremo dritto”, ovviamente hanno mollato. Mentre il prestanome Conte, e Tria di Forza Italia riscrivevano la “Manovra del Popolo” sotto dettatura dei commissari europei – blocco della rivalutazione delle pensioni, blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione, tagli, tasse, sanguinose clausole di salvaguardia – Di Maio e Salvini cercavano di distrarre gli italiani con la solita propaganda ridicola, e le abituali Mosse Kansas City. A ben vedere, tutto il Grilloverde è una Mossa Kansas City, un governo di distrazione di massa che fa credere agli italiani d’essere riusciti a ottenere qualche cambiamento, per impedirgli d’incazzarsi sul serio in stile Gilets Jaunes.Il trucco però funziona sempre meno, anche se dai sondaggi si nota poco: se il consenso elettorale del governo rimane intorno al 60% degli aspiranti elettori, aumentano però progressivamente indecisi e astenuti, il che significa che quel presunto 60% rappresenta un numero assoluto di voti sempre minore. Fin da bambini veniamo condizionati a credere a ogni sorta di cazzate. Babbo Natale, Mary Poppins, il Santo Graal, Giove in Sagittario. Chi non crede a nulla viene emarginato, considerato cinico, arido, immorale. Così i Cazzari professionisti hanno gioco facile a illudere le masse, sia per vendergli un’alga dimagrante che un Governo del Cambiamento. Nell’era della comunicazione sempre più fitta e accelerata però il Velo di Maya si sgrana in fretta.Il Grilloverde non manterrà nessuna delle sue iperboliche promesse – nazionalizzazione della società autostrade, abolizione della legge Fornero, 600.000 rimpatri, cinque milioni di sussidi – e presto anche ai credenti più devoti toccherà aprire gli occhi. E la fine del quantitative easing s’avvicina. La resa ai diktat di Bruxelles difficilmente salverà il Grilloverde da quello che pare comunque il suo destino manifesto, la sua principale funzione: essere d’esempio agli elettori europei di ciò che si rischia a votare il Cazzaro “sbagliato”. Perché il Grilloverde non è il figliol prodigo. È il vitello grasso.(Alessandra Daniele, “Boia che molla”, da “Carmilla” del 23 dicembre 2018).Dopo aver promesso di battere i pugni, pestare i piedi, digrignare i denti e strabuzzare gli occhi, i Grilloverdi hanno calato le braghe. Inflessibili coi naufraghi anche la notte di Natale, a 90° coll’Ue. Dopo tanti “Me ne frego” e “Noi tireremo dritto”, ovviamente hanno mollato. Mentre il prestanome Conte, e Tria di Forza Italia riscrivevano la “Manovra del Popolo” sotto dettatura dei commissari europei – blocco della rivalutazione delle pensioni, blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione, tagli, tasse, sanguinose clausole di salvaguardia – Di Maio e Salvini cercavano di distrarre gli italiani con la solita propaganda ridicola, e le abituali Mosse Kansas City. A ben vedere, tutto il Grilloverde è una Mossa Kansas City, un governo di distrazione di massa che fa credere agli italiani d’essere riusciti a ottenere qualche cambiamento, per impedirgli d’incazzarsi sul serio in stile Gilets Jaunes.
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Magaldi: senza paura, ecco il “partito che serve all’Italia”
Toh, se n’è accorta anche la televisione: il “partito che serve all’Italia” è entrato nel piccolo schermo grazie a “Coffee Break”, il talkshow mattutino condotto su La7 da Andrea Pancani. Ottima notizia, prende nota Gioele Magaldi, finora tenuto a debita distanza dalle dirette televisive. “Colpa” delle rivelazioni contenute nel suo bestseller, “Massoni”, che mette in piazza l’identità supermassonica di tanti player del massimo potere. Fatto sta che la prima riunione operativa verso il futuro partito, il 22 dicembre, è salita agli onori della cronaca nonostante fosse un incontro informale, neppure annunciato da comunicati stampa. Oltre a Magaldi, all’assise romana c’era Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, nonché Claudio Quaranta, da mesi al lavoro per far convergere su una piattaforma unitaria le tante voci dell’altra Italia, quella che non riesce a vedersi rappresentata politicamente. Con loro c’era l’economista Antonio Maria Rinaldi di “Scenari Economici”, reduce da una visita al ministro Paolo Savona. E c’era Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” e ormai volto televisivo, spesso chiamata – come Rinaldi – a fare da contraltare al pensiero unico neoliberista, quello del rigore santificato da Bruxelles come una sorta di teologia dogmatica imposta da invisibili divinità tecnocratiche. Ma nel caso la nuova formazione politica dovesse davvero sorgere, nei prossimi mesi, l’Italia sarebbe pronta a ricevere l’offerta del “partito che serve all’Italia”?Tutto può succedere, confida Magaldi a Fabio Frabetti di “Border Nights”, in una diretta web-streaming prenatalizia su YouTube. Esponente del circuito massonico progressista internazionale, il presidente del Movimento Roosevelt ha sostenuto a lungo il governo gialloverde: per mesi è stato l’unico, in Europa, a tentare di rompere l’incantesimo dell’austerity. Poi, la prima delusione: troppo timido, il 2,4% di deficit inizialmente previsto per il Def 2019. E ora, la Caporetto del governo Conte: se già il 2,4 era troppo poco per rianimare l’economia, figurarsi il 2,04 cui l’Ue ha costretto l’esecutivo italiano, che alla fine si è piegato al diktat. Sta tutta qui, probabilmente, la tempistica del rilancio del “partito che serve all’Italia”: davanti ai signori di Bruxelles non si può piegare la testa in questo modo. Anche perché – come Magaldi si incarica spesso di spiegare – dietro alla “disciplina di bilancio” non c’è un disegno orientato al benessere europeo, ma solo il piano delle oligarchie finanziarie supermassoniche di segno reazionario, che manovrano i burattini della Commissione Europea. Il vero senso della “punizione” inflitta ai gialloverdi? Dimostrare, davanti a tutti, che nell’Ue non ci si può ribellare all’autocrazia “aliena” di una nuova “aristocrazia del denaro” ben poco nobile, quella degli eurocrati non-eletti, longa manus del potere economico che ha sottomesso la politica.E’ il momento di essere eretici: non sta scritto da nessun parte che il deficit affossi l’economia. Al contrario: di contrazione della spesa si muore. Meno disavanzo vuol dire più tasse, meno consumi, meno lavoro. Come spiega il post-keynesiano Galloni, un investimento oculato in termini di spesa pubblica può “rendere” tre o quattro volte tanto, a partire dall’anno seguente, a patto però che non sia esiguo. Tradotto: già nella prossima primavera l’Italia avrebbe visto effetti benefici, sull’economia, se avesse avuto il coraggio di alzare il deficit almeno al 4%. Al governo Conte, ora che si è sostanzialmente arreso, vengono avanzate «critiche pretestuose e strumentali da parte delle pseudo-opposizioni», dalla Bonino al Pd, fino a Forza Italia. «Il governo Conte suscita simpatia – ammette Magaldi – se addirittura Monti lo rimprovera di essersi fatto scrivere la legge di bilancio dalla Commissione Europea». Aggiunge: «Con malafede e con ipocrisia plateale si contesta al governo Conte quello che hanno fatto tutti i governi della Seconda Repubblica, e in particolare quelli che si sono succeduti da Monti in poi». Governi che, naturalmente, «non facevano la manfrina che ha fatto il governo gialloverde». Non ci provavano neppure, a inscenare la rivolta contro il mortale rigore (ideologico) imposto da Bruxelles.Monti e Letta, Renzi e Gentiloni: nessuno di loro «osava dire che si sarebbe preoccupato di fare l’interesse del popolo italiano, anche scontrandosi coi vertici della tecnocrazia europea». Non hanno mai neppure finto di «fare la voce grossa e assumere atteggiamenti muscolari, per poi calarsi le braghe: se le erano già calate prima». Quindi, aggiunge Magaldi, non hanno titolo, oggi, per contestare il governo Conte. «Questi cialtroni, poi, in Parlamento lamentano presunte mancanze: Emma Bonino ha parlato di esautoramento antidemocratico delle funzioni dell’Aula». Magaldi si dice sbalordito dalla leader di “+Europa”, data la stima nella “vita precedente” dell’ex dirigente radicale: «Sono esterrefatto da questa deriva risibile e ipocrita». La Emma nazionale «è tra quelli che inneggiano a un sistema in cui il Parlamento Europeo non ha i poteri che in un qualunque contesto democratico dovrebbe avere». E, inutile negarlo, «ha fatto il cane da guardia di questa Europa». Tanti sedicenti europeisti, sostiene Magaldi, in realtà sono anti-europeisti: «Nessuno di loro, la Bonino in primis, ha mosso un dito per contestare l’attuale forma di Disunione Europea, antidemocratica o post-democratica che dir si voglia».E ora, «adusi ai meccanismi post-democratici delle istituzioni europee», i nostri finto-europeisti «vengono a fare il pianto greco, in Italia, dove il Parlamento ha comunque una sua sovranità garantita dalla Costituzione», nonostante la camicia di forza dell’Ue. Tutto ciò premesso, ribadisce Magaldi, «è chiaro che il governo Conte se le è calate, le braghe». Salvini dà segnali di malumore e fa trapelare di non essere contento? Lui e Di Maio «lanciano il sasso e nascondono la mano». Hanno preso parzialmente le distanze dallo stesso Conte: «E questo, francamente, è un modo poco dignitoso di agire», sottolinea Magaldi, «visto che Conte non era a Bruxelles per conto proprio, ma in quanto portavoce di una maggioranza parlamentare di cui Salvini e Di Maio sono i leader». Salvini diceva: «Non mi preoccupano i numeri, contano le cose che facciamo». Non è così, purtroppo: «I numeri sono le cose che fai o non fai, perché proprio da quei numeri discende la possibilità di avere risorse per fare le cose che hai promesso».Per Magaldi, questa manovra è «gravemente insufficiente». Non produrrà l’auspicato aumento del Pil, in relazione al deficit e al debito. Non ridarà dinamismo all’economia italiana, né conforto «a tutti quelli che vorrebbero una drastica riduzione delle tasse e un massiccio piano di investimenti pubblici, tale da garantire l’assorbimento della disoccupazione». E la mancanza di lavoro «è una delle cose più gravi che una generazione può subire: siamo pieni di giovani disoccupati, male occupati o rassegnati a un impiego precario». Quindi, intile nasconderselo, «questa manovra è davvero il classico topolino partorito dalla montagna: non c’è proprio di che essere contenti, e non si può certo dire di aver corrisposto alle promesse elettorali». Voltare pagina? Senz’altro: con il “partito che serve all’Italia”. Non per rinnegare gli sforzi comunque prodotti dai gialloverdi, ma per dare risposte più chiare. Imperativo categorico: muoversi a testa alta, senza più piegarsi ai diktat dei soliti noti. Brutto spettacolo, infatti, quello degli elettori delusi. Sondaggi impietosi: Lega in calo, dopo il cedimento a Bruxelles.Tutto cambia velocemente, ormai: Salvini aveva portato il partito al 36%, dopo averlo resuscitato partendo dal 4%. L’importante, dice Magaldi, è che i media non facciano finta di non saperlo: è un errore dare spazio solo a chi oggi ha più voti. «Più che sui numeri, sempre fluttuanti, i media dovrebbero basarsi sulle idee in campo, permettendo al pubblico di ascoltarle tutte. Cosa che invece – segnala Magaldi – continua a non avvenire, ad esempio riguardo ai contenuti di strettissima attualità da me portati all’attenzione del pubblico con il libro “Massoni”, uscito a fine 2014». Una specie di scandalo nazionale: un bestseller “silenziato”, che dopo quattro anni è ancora in testa alla classifica Ibs tra i saggi di argomento politico. «Eppure non c’è stato un cane che ne abbia parlato, in televisione», aggiunge l’autore. Sul piccolo schermo è invitata «gente che scrive libretti e libracci, peraltro poco letti». Sul suo libro, invece, «evidentemente c’è una circolare per tutte le televisioni del regno, in cui si dice: non invitate l’autore e non parlate del libro». Perché fa tanta paura, “Massoni”? Perché fa nomi e cognomi, ma senza scadere nel complottismo: offre un filo rosso, storico, per rileggere il Novecento tenendo conto dell’aspetto meno visibile del potere, quello incarnato dalle 36 superlogge sovranazionali che, di fatto, decidono i destini del pianeta. E oggi più che mai cercano di condizionare anche quello dell’Italia, nello scontro con l’Ue.«Sappiamo che quel libro l’hanno letto in tantissimi: tutti gli addetti al lavori». Perché Magaldi non viene invitato a parlarne nei principali talkshow? «La risposta temo sia questa: anche solo pochi minuti miei, in una qualunque trasmissione di punta, avrebbero conseguenze non digeribili dal sistema. Per cui vengono invitate persone che, anche quando dissonanti, fanno meno paura». Eppure, le idee dell’area attorno al Movimento Roosevelt non passano inosservate, se è vero che La7 ha segnalato l’assemblea del 22 dicembre a Roma: i fatti, annota Magaldi, «sembrano dare ragione al conduttore David Gramiccioli, secondo cui i media mainstream – anche senza citare la fonte – affrontavano spesso i temi toccati il lunedì, con me, nella sua trasmissione radiofonica “Massoneria On Air”». Ora, però, “Coffee Break” sembra aver sdoganato, giornalisticamente, l’ambiente politico nel quale è impegnato Magaldi. Che commenta: «Accolgo con sorpresa e compiacimento questa attenzione, non richiesta, da parte de La7: forse si stanno aprendo le maglie di un certo muro di omertà? Forse qualche giornalista televisivo ritiene di poter avere la libertà di parlare anche di progetti politici legati al sottoscritto?».Magaldi si mostra ottimista: si stanno muovendo «élite al servizio della democrazia» ma anche «molti cittadini, che dal basso vogliono rivendicare la loro sovranità». Anche i media mainstream potrebbero quindi decidersi a smettere di censurare tutto il pensiero sgradito ai padroni del vapore? Innanzitutto servono spiegazioni: se il Movimento Roosevelt è aperto a esponenti di qualsiasi partito, il “partito che serve all’Italia” vuol essere un soggetto plurale, senza protagonismi narcisistici. «Posto che in Italia c’è una crisi dei partiti e dei movimenti, ormai da tantissimi anni, e che anche Lega e 5 Stelle non appaiono più tanto convincenti, ci siamo detti che forse è il caso di perseguire anche la strada della costruzione di un partito». Ma attenzione, avverte Magaldi: non esiste ancora neppure un soggetto giuridico, c’è solo la proposta di iscriversi a una futura assemblea costituente del “partito che serve all’Italia” (nome provvisorio, in attesa che il nuovo soggetto venga poi battezzato dai suoi stessi costituenti). «In questa iniziativa sono coinvolte tante persone di pregio». Per sé, Magaldi non prenota alcun ruolo preminente: «Vogliamo contribuire a una casa comune di cittadini e rappresentati di associazioni, partiti e movimenti preesistenti, che vogliono fondersi in un nuovo progetto unitario».Quella del 22 dicembre è stata un’ottima partenza, assicura Magaldi: molti entusiasmi e parecchia concretezza. Prossima tappa, il 10 febbraio: un altro passo verso l’assemblea costituente del futuro partito. «Sarà una riunione ancora più allargata, dove verrà messa a punto un’agenda più definita». C’è anche chi annuncia l’imminente comparsa di Gilet Gialli all’italiana: «Ottima cosa, specie se tutto fosse fatto con razionalità e sapienza, cioè senza quel caos che in passato ha caratterizzato movimenti come quello dei Forconi». In altre parole: a stimolare il governo potrebbe anche servire «una protesta pacifica, forte e ferma, ma mai violenta», proprio in nome di quella democrazia che si rivendica, lungi dalle convulsioni che, in passato, sono state cavalcate dalla strategia della tensione al servizio di poteri oscuri. Eventuali Gilet Gialli a parte, secondo Magaldi «questa Italia a cavallo tra 2018 e 2019 promette bene: credo si stiano aprendo nuovi margini di manovra, e mi fa piacere che il “partito che serve all’Italia” si vada arricchendo di entusiasmi e di sguardi incuriositi, anche da parte del mainstream». Forse, nell’attuale caos politico, le maglie si diradano.In ogni caso, sul cambio di passo necessario, Magaldi ha le idee chiare: «Io credo che il riscatto democratico – per l’Italia, per l’Europa, per il mondo – nasce se gente la smette di rimproverare semplicemente gli altri, gli oligarchi, i cattivoni, i buratttinai che gestiscono male la globalizzazione e l’Europa, insieme alla casta politica che ammorba l’Italia, e così i ladroni e i corrotti, i banchieri». Lo stesso Magaldi ricorda che la sovranità democratica «è stata costruita, attraverso lotte sanguinose, da avanguardie massoniche alleate di fasce popolari più coraggiose e consapevoli». E dunque «è qualcosa che va sempre mantenuto, difeso, consolidato». Insiste: «Invece di lamentarsi del potere degli altri, forse sarebbe il caso di rendersi conto che la propria impotenza è figlia della propria inconsapevolezza». Ovvero: «Il popolo è molto più forte e temibile di qualunque potere oligarchico. E’ che questo popolo, appunto, “se la fa raccontare”, si illude». Quanto cambierebbe, la situazione, se si acquisisse – a livello di massa – la conoscenza dei temi trattati in libri come quello di Magaldi? «Se milioni di persone si rendessero conto di certe cose, magari acquisirebbero quell’orgoglio che permetterebbe loro di rivendicare la propria sovranità. E invece di piangere sul potere altrui eserciterebbero un potere in proprio. E’ il potere pacifico della democrazia: quello che ti fa capire cosa devi fare tutti i giorni, come singolo cittadino, per indurre chi ti rappresenta nelle istituzioni a fare di più e meglio».Toh, se n’è accorta anche la televisione: il “partito che serve all’Italia” è entrato nel piccolo schermo grazie a “Coffee Break”, il talkshow mattutino condotto su La7 da Andrea Pancani. Ottima notizia, prende nota Gioele Magaldi, finora tenuto a debita distanza dalle dirette televisive. “Colpa” delle rivelazioni contenute nel suo bestseller, “Massoni”, che mette in piazza l’identità supermassonica di tanti player del massimo potere. Fatto sta che la prima riunione operativa verso il futuro partito, il 22 dicembre, è salita agli onori della cronaca nonostante fosse un incontro informale, neppure annunciato da comunicati stampa. Oltre a Magaldi, all’assise romana c’era Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, nonché Claudio Quaranta, da mesi al lavoro per far convergere su una piattaforma unitaria le tante voci dell’altra Italia, quella che non riesce a vedersi rappresentata politicamente. Con loro c’era l’economista Antonio Maria Rinaldi di “Scenari Economici”, reduce da una visita al ministro Paolo Savona. E c’era Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” e ormai volto televisivo, spesso chiamata – come Rinaldi – a fare da contraltare al pensiero unico neoliberista, quello del rigore santificato da Bruxelles come una sorta di teologia dogmatica imposta da invisibili divinità tecnocratiche. Ma nel caso la nuova formazione politica dovesse davvero sorgere, nei prossimi mesi, l’Italia sarebbe pronta a ricevere l’offerta del “partito che serve all’Italia”?
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Tav, la strana guerra contro i palestinesi della val di Susa
Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.Nemmeno l’umorismo iperbolico di Paolo Villaggio, forse, sarebbe riuscito a dipingere il carattere lunare, gaglioffo e cialtrone del fantasma ferroviario che insidia da più di vent’anni l’estremo nord-ovest italiano: un ipotetico super-treno pensato negli anni ’80 del secolo scorso per i passeggeri, surclassato in capo a un decennio dall’avvento dei voli low-cost e infine umiliato anche dal traffico merci, defunto pure quello. La globalizzazione “cinese” sbarca a Genova e punta verso Rotterdam, snobbando il Piemonte e le Alpi del Rodano. Dalla Fortezza Bastiani del Tav, a lungo presidiata dall’ineffabile Pd con la collaborazione del centrodestra (leghisti compresi), ormai si guarda con malinconia ai dati, impietosi, sciorinati ufficialmente anche a Palazzo Chigi: il flusso di merci è crollato, e la ferrovia internazionale che già collega Torino a Lione attraversando l’infelice valle di Susa (via Modane, traforo del Fréjus) potrebbe tranquillamente reggere un incremento di traffico del 900%, se solo ci fossero merci da trasportare. Bel guaio: cosa bisognerà inventare, ancora, per spillare soldi euro-italiani da spalmare su appalti e subappalti? Avverte il giallista Massimo Carlotto, vicino ai NoTav: le grandi opere sono perfette per riciclare denaro, nell’immensa “lavanderia a cielo aperto” chiamata Europa. Business is business: non è che si possa smontare così, su due piedi, un grande affare destinato a pompare milioni (miliardi) in una filiera che include industria e indotto cantieristico, studi e consulenze, progettisti, banche e partiti.Se sento ancora parlare di Tav Torino-Lione, scrisse Giorgio Bocca nel 2005, vado a ripescare il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato alla fine della guerra partigiana. Si era documentato, l’ultimo grande vecchio del giornalismo italiano: aveva capito che i palestinesi inermi le avevano buscate in modo selvaggio, riempiti di botte – uomini e donne, ragazzi e anziani – dai robocop venuti da lontano, in piena notte, per sgomberare il prato di Venaus occupato dalle famiglie impegnate in una sorta di sit-in permanente. Ne seguì una sommossa popolare a carattere insurrezionale: qualcosa che in Italia s’era visto soltanto nei moti di Reggio Calabria del 1970. Un popolo sulle barricate, armato solo di indignazione. Scudi umani, i sindaci in fascia tricolore (e le loro auto, quelle dei vigili urbani, spedite a sbarrare le strade, coi lampeggianti accesi). Due giorni di follia collettiva, dopo il pestaggio notturno, fino alla paralisi della tangenziale di Torino e alla capitolazione del governo: progetto sospeso, ritirato, archiviato. Clamorosa vittoria dei palestinesi, che da quel momento cominciarono a credersi invincibili. O meglio: ritennero invincibile la forza della ragione, la sovranità democratica del cittadino, la legittimità della protesta di una comunità coesa e fasciata di tricolore.Durò anni, l’illusione. Una speranza radicata: il governo centrale si sarebbe deciso a cestinare il dossier – poi bocciato anche da 360 tecnici universitari – per concludere che sì, avevano ragione i palestinesi della valle di Susa: quella ferrovia andava dimenticata, gettata nella spazzatura della storia. Ma le trivelle tornarono, dopo un quinquennio di silenzio. Era il 2010. La tensione emotiva era scemata, molti sindaci erano spariti – non rieletti, o semplicemente rimasti a casa, non più disposti a fare da caschi blu. Fu allora che cominciò l’accerchiamento, lento e inesorabile. Senza più i sindaci in prima fila, i NoTav erano nudi. “Siete finiti”, li avvertì cordialmente il sindaco di Torino, Chiamparino. Risposero in quarantamila, con una marcia sotto la neve. I piani di Roma, intanto, erano cambiati: il cantiere per la prima galleria esplorativa, inizialmente programmato nel prato poi “espugnato” a Venaus nel 2005, sarebbe stato reimpiantato a Chiomonte, sopra le gole della Dora Riparia, in posizione militarmente difendibile. I NoTav risposero asserragliandosi proprio lì, tra le loro Termopili. Nacque la Libera Repubblica della Maddalena, il villaggio di Asterix attrezzato – con barricate – per tentare di resistere all’esercito imperiale. I reparti antisommossa, duemila uomini, si presentarono puntuali all’alba del 27 giugno 2011. Agirono con calma, minimizzando la loro forza d’urto. In cabina di regia il ministro Maroni e il capo della polizia Manganelli. Niente più cariche, solo lacrimogeni.Ci rimasero malissimo, i palestinesi: avevano sperato di ripetere il “miracolo” del 2005, quand’erano riusciti – sciamando in 80.000 attraverso i boschi – a sfrattare la polizia da Venaus. Una settimana dopo lo sgombero della “Libera Repubblica”, il 3 luglio 2011 tentarono di riprendersi Chiomonte. Erano in centomila: un corteo lungo chilometri. Pullman da tutta Italia, decine di migliaia di valsusini. E anche giovani dei centri sociali: quelli che poi, nel pomeriggio, avrebbero contribuito a trasformare la protesta in guerriglia. “Volevano il morto”, dichiarò Maroni. Bilancio ufficiale: 200 feriti per parte. E fine di una lunga, gloriosa anomalia: la lotta popolare esclusivamente nonviolenta, nata e cresciuta in mezzo ai monti, che tanto aveva spaventato la politica. Inammissibile che una comunità di sessantamila valligiani riuscisse a fermare le ruspe. Intollerabile, che lo facesse in modo pacifico. Inaccettabile, che imponesse al governo di lasciarsi ascoltare, e lo costringesse a prender nota del fatto che, secondo tutti gli esperti, la linea Tav Torino-Lione era (ed è) una pazzia completamente inutile, destinata a pesare per decine di miliardi sul debito pubblico dopo aver reso invivibile il territorio, cioè i 50 chilometri che separano Torino dalla Francia. Rocce piene di amianto, montagne dove l’Agip scavò decine di gallerie per estrarre l’uranio al tempo del nucleare italiano. Falde acquifere a rischio, salute in pericolo e addio agricoltura. Dissesto idrogeologico irrimediabile, apocalisse urbanistica, catastrofe idrica incombente sulla stessa area metropolitana torinese. Ma perché, di grazia? A beneficio di chi?“Diteci almeno a cosa servirebbe, tutto questo”. Domanda rimasta sempre inevasa. Lo vuole l’Europa, c’è un impegno con la Francia. Davvero? Sì e no. L’Europa ha cambiato idea: ha archiviato l’originaria, fantascientifica direttrice Kiev-Lisbona, di cui la Torino-Lione sarebbe stata il passante alpino. Quanto alla Francia, varie istituzioni parigine hanno via via intiepidito la loro posizione. Analoga retromarcia tattica dal governo Renzi: è vero, la nuova linea costa troppo; meglio limitarsi al solo traforo, facendo poi passare i treni sull’attuale linea (perfettamente idonea, dunque – percorsa, già oggi, dal Tgv francese). Nel frattempo, sui NoTav si è scatenata una campagna di demonizzazione parossistica, da parte della politica istituzionale e dei grandi media. E il movimento valsusino, senza più la tutela diretta dei sindaci, ha fatto miracoli per arginare il pericolo di infiltrazioni da parte delle frange virtualmente violente (un conto è gestire un corteo, un altro controllare manifestanti in ordine sparso, nei boschi). Anni durissimi, rischiosi, in bilico, ma durante i quali – nonostante tutto – la resistenza dei palestinesi ha conquistato piena cittadinanza in larghi strati del paese, anche grazie al generoso impegno di opinion leader di prima grandezza, scrittori e artisti, cantanti, giuristi, intellettuali. Senza con questo riuscire minimamente a scalfire il muro di omertoso silenzio che ancora protegge, misteriosamente, il progetto della grande opera: un dogma marmoreo, quasi mistico, che sembra imposto da una religione sconosciuta, alla quale gli stessi politici (ministri, premier) appaiono sottomessi.C’è altro, poi, che i valsusini sanno e gli altri italiani per lo più ignorano. E’ una storia complicata, tra loro e il governo. Una storia tormentata e opaca, per molti aspetti, che risale addirittura alla Liberazione, quando molti partigiani – in maggioranza comunisti – rifiutarono di consegnare le armi agli alleati, per poi tirarle fuori, occupando fabbriche, in risposta all’attentato a Togliatti. Ha radici antiche, il ribellismo della valle di Susa, industriale e operaia già alla fine dell’800. Dopo il Sessantotto, mentre i padri issavano bandiere rosse sui cotonifici, decine di figli cedettero alla tentazione della lotta armata. La valle di Susa è stata l’unica area non metropolitana, in tutta Italia, ad allevare una colonna di terroristi, arruolati tra le file di Prima Linea. Poi vennero gli anni ’80, con l’autostrada del Fréjus che la valle non voleva. Le solite mazzette e, a seguire, la relativa Tangentopoli, con arresti eccellenti, mentre la commissione parlamentare antimafia denunciava il radicamento della ‘ndrangheta nell’alta valle, il paradiso sciistico che a Sestriere avrebbe ospitato i Mondiali di sci e poi le Olimpiadi Invernali. Quello di Bardonecchia è stato il primo Consiglio comunale italiano, a nord del Po, a essere disciolto per mafia.L’onorata società tornò a occupare la cronaca della valle di Susa poco dopo gli attentati siciliani costati la vita a Falcone e Borsellino, quando la magistratura di Torino scoprì che erano finite a una cosca calabrese le pistole uscite illegalmente, a centinaia, da un’armeria di Susa. Chi avrebbe dovuto vigilare non l’aveva fatto: emerse l’ombra dei servizi segreti. Gli inquirenti avevano scoperto il traffico di armi grazie a un pentito della ‘ndrangheta, che smise di parlare (di colpo) dopo che gli fu ucciso il fratello, proprio in valle di Susa, da un ex agente del Sismi, reo confesso. Uno stillicidio di notizie inquietanti, che il valsusino medio – non ancora palestinese – apprendeva con sgomento, a metà degli anni ’90. A seguire, cominciarono a esplodere bombe: una dozzina di attentati dinamitardi, notturni e devastanti ma tutti incruenti, colpirono le prime trivelle del futuro Tav ma anche centraline Enel, tralicci telefonici, ripetitori televisivi. I giornali, in coro, parlarono di eco-terrorismo anarco-insurrezionalista. Comparve una sigla, “Lupi Grigi”, con rivendicazioni deliranti contro le grandi opere. Finirono in manette tre giovani anarchici, due dei quali (“Sole e Baleno”) poi trovati morti in stato di detenzione, impiccati. L’accusa: banda armata e associazione sovversiva. Lui, Edoardo Massari, un anarchico piemontese. Lei, Maria Soledad Rosas, argentina, giovanissima, venuta in Europa in vacanza premio, dopo il liceo, e poi rimasta in Italia perché innamoratasi del suo “Edo”. Il pm annunciò di avere “prove granitiche”, contro di loro. Salvo poi ammettere il tragico errore, fuori tempo massimo. Scagionati post mortem, alla fine del processo: non erano stati quei ragazzi, a far saltare in aria mezza valle di Susa. Chi, allora?Aveva in testa anche questi pensieri, il valsusino medio (mediamente colto e informato, mediamente scettico) quando cominciò a diventare un po’ palestinese, trascinando la famiglia nei prati di Venaus dove, nel 2005, si era accampata la polizia, spedita lassù da un governo che sosteneva fosse fondamentale far passare proprio di lì, spianando l’intera vallata, la famosa super-ferrovia miliardaria destinata a collegare il Portogallo all’Ucraina. Non può essere, si dicevano i valligiani: avranno capito male, a Roma. E così studiarono, si documentarono, mobilitarono i migliori specialisti. Non sta né in cielo né in terra, conclusero: è un’opera faraonica e devastante, tragicamente inutile. Ne parlavano anche coi poliziotti infreddoliti, inviati a Venaus a presidiare il prato prescelto per accogliere il primo cantiere. Dai NoTav, una protesta formato famiglia: bambini, polenta, bicchieri di tè caldo offerti agli stessi agenti – non quelli che li avrebbero sgomberati (per l’operazione, il reparto presidiario fu avvicendato). Gli incursori notturni colpirono alla cieca, travolgendo tende e sacchi a pelo. Una gradine di manganellate, al buio. Le ambulanze, le urla, i feriti. L’inizio della saga, già l’indomani: i valsusini, a migliaia, nelle strade. La circolazione paralizzata, i treni fermi. Il ministro dell’interno, Pisanu, scomparso dai radar. Imbarazzo, fra i palazzi romani. I palestinesi in rivolta ospitati per la prima volta in televisione, da Gad Lerner, per poi ricevere i primi rumorosi endorsement a reti unificate: Beppe Grillo, Dario Fo. E quei benedetti sindaci, avvolti nel tricolore, a ripetere che la legalità comincia dal rispetto del cittadino, democraticamente sovrano e tutelato da diritti costituzionali.Era solo il 2005, ma sembrano passati cent’anni. Le famiglie di allora avevano una luce particolare, negli occhi. La crisi era ancora lontana. C’era lavoro per tutti, i negozi non avevano ancora cominciato a chiudere, uffici e fabbriche funzionavano. All’ora dell’aperitivo i bar tracimavano di giovani – tutti palestinesi, naturalmente, tra svolazzi di bandiere NoTav. Un clima festoso, di fiducia. “Capiranno, a Roma. Si decideranno a ragionare”. I valsusini: riscopertisi comunità, proprio grazie allo scampato pericolo. Idee politiche forse rudimentali, antiche: la destra, la sinistra. A dire il vero, nella valle ribelle non s’era visto nessuno dei big: tutti spariti, i grandi partiti. La parte del cattivo era toccata a Berlusconi, ma poi Prodi (frenato dai ministri filo-valsusini Paolo Ferrero e Alfonso Pecoraro Scanio) non aveva comunque mai mostrato entusiasmo, per il fervore democratico dei palestinesi garibaldini, alle prese con quello strano risorgimento alpino, montanaro, periferico ma non provinciale. E’ come se si fosse laureato honoris causa, il valsusino medio, in questi anni grami: si è probabilmente conquistato il suo diploma di cittadino di prima classe, quanto a consapevolezza, mentre buona parte dell’Italia dormiva ancora sugli allori, prima di essere svegliata nel peggiore dei modi dal professor Monti, dalla professoressa Fornero.Si racconta che dal massiccio dell’Ambin, nel quale si è andato scavando il dannato tunnel esplorativo, sia disceso Annibale coi suoi elefanti. In direzione opposta avanzò Giulio Cesare alla conquista delle Gallie, facendo base a Susa, dove poi l’imperatore Costantino assediò Massenzio. Poco più a valle, Carlomagno sbaragliò i Longobardi manzoniani di Adelchi e Desiderio per poter fondare il Sacro Romano Impero, il cui erede Barbarossa mise a soqquadro Susa. Napoleone aprì la strada del Moncenisio, Cavour fece scavare il traforo del Fréjus. Quasi ogni sasso, in valle di Susa, ha molti secoli da raccontare, all’ombra dell’imponente Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte, eretto prima dell’anno Mille. Sul versante opposto, da una roccia emerge il Giove Dolicheno, scolpito dai soldati mediorientali arruolati da Roma nella Legione Siriana, di stanza nella valle conquistata dai Cesari. I valsusini amano le loro montagne, le frequentano con devozione. Le guardano diventare rosse, e poi viola, quando il tramonto illanguidisce nel crepuscolo lungo la cordigliera transalpina, dalla piramide del Rocciamelone alla mole nevosa del Niblè. Prima di altri, a loro spese, hanno imparato che il nuovo impero ha un’unica legge davvero sacra, quella dei soldi. A loro modo, da palestinesi, sono stati tra gli ultimi difensori di una repubblica di cui tutti gli italiani, oggi, hanno nostalgia.(Giorgio Cattaneo, “Tav, la strana guerra contro i palestinesi della valle di Susa”, dal blog “Petali di Loto” dell’11 dicembre 2018).Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.
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Tav, razza padrona: le fate ignoranti della Torino defunta
Giuro che non volevo credere ai miei orecchi quando ho sentito a “Otto e mezzo”, una delle magnifiche sette madamine torinesi “organizzatrici” della manifestazione in piazza Castello, Patrizia Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche tecniche e ambientali relative alla discussa linea del Tav Torino Lione. Ha detto proprio così: «Posso assolutamente dire che non siamo, né io né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Il fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa, ma indiscutibilmente – proprio il merito delle ragioni tecniche e ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della regione. E ora sappiamo che quell’“entrata nel merito” con quella perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel valore metafisico dell’opera.Esattamente all’opposto del movimento contro cui tutte quelle persone sono state chiamate in piazza, il movimento No-tav, che ha sempre fatto, fin dalla sua origine, per più di vent’anni, puntigliosamente, quasi ossessivamente, dei dati tecnici dell’opera (flussi di traffico, impatto ambientale, dimensione dei costi e dettagliate voci di spesa, alternative operative), e dell’informazione su di essi, il principale argomento della sua opposizione. Se un aspetto ha colpito coloro che si sono occupati, anche in chiave scientifica – politologica, sociologica, antropologica – di quel movimento, è stato la costante abbondanza di documentazione e di informazione tecnica presente nei loro siti, al contrario degli opposti siti “Si-Tav” (a cominciare da quello di Telt), generici e reticenti. E a me personalmente ha fatto sempre molta impressione, fin dal 2005, dai tempi di Venaus quando incominciai a osservare la valle, la competenza non solo degli “attivisti” e dei promotori dei comitati e delle manifestazioni, ma dei manifestanti stessi. Irsuti montanari e madri di famiglia o nonne, ragazzotti delle superiori o artigiani di valle, pensionati, operai, commercianti, sapevano di logistica e trasportistica, del “Corridoio V” e delle “rotture di carico” con il loro aggravio di costo, di flussi di traffico su gomma e su ferro e di sistemi idrogeologici, dell’impatto degli scavi sulla qualità e quantità delle acque e sulle polveri sottili.Nessuno di loro si è mai sottratto al confronto sui contenuti dicendo di esserne all’oscuro! Ora, che nella rappresentazione da parte dei “giornaloni”, quegli uomini e quelle donne vengano dipinti come rozzi cultori del “nimby”, sorta di nuovi barbari pre-illuministici in conflitto con la modernità, mentre la folla di piazza Castello viene promossa a esempio di buona cittadinanza, fa parte del mondo alla rovescia prodotto da una sfera mediatica intossicata da interessi predatori e per questo generatrice di sfiducia su scala allargata. Esemplare, d’altra parte, l’atteggiamento nei loro confronti esibito, senza reticenze, da un’altra delle “fatine” torinesi, Giovanna Giordano, che a proposito della resistenza dei valligiani ha detto, testualmente, ad “Agorà”: «Se ci credono veramente e amano la decrescita felice, qui intorno in Piemonte ci sono tante meravigliose valli dove possono comprarsi una mucca e una pecora e decrescere felicemente. Ma che lascino vivere noi».Giovanna Giordano, detta “Nana” dagli amici, nominata sul campo da “Repubblica” «madamina di ferro, informatica e nonna», nell’enfasi del suo speach, dimentica che “loro” – i valsusini refrattari – stanno nella loro valle, dove vorrebbero che li si “lascino vivere” senza avere il proprio territorio devastato dal treno degli altri, mentre “noi” – il “noi” di Giovanna, intendiamoci – abitiamo in città ignorando del tutto, come si è visto, l’impatto su “quel” mondo che evidentemente non ci riguarda. Le ha già risposto, in modo esemplare, in questo stesso sito, il sindaco di Susa Sandro Plano. Qualcun altro ha ricordato la Maria Antonietta del “mangino brioches”. Ma si potrebbe anche evocare il Marchese del Grillo, quello del “Io sono io, e voi…”. In quel “che lascino vivere noi!” (abbandonando le case “loro”) c’è tutto un programma, o meglio un profilo: da razza padrona. Da ceto medio-alto predatorio, che non vede l’altro perché ripiegato su di sé, sulle proprie credenze infondate ma indiscutibili, la propria rete di pari elevata a mondo, i propri piccoli interessi promossi a Nomos. Il salotto di nonna Speranza con le sue “piccole cose di pessimo gusto” proposto come modello estetico assoluto.Certo, si potrebbe non farla troppo grossa. E considerare quell’esternazione un “refuso retorico”, una sorta di incidente comunicativo – insomma, una voce dal sen fuggita – ma sarebbe in qualche modo riduttivo. Perché in realtà c’era in quelle due righe, sintetizzato, un po’ tutto il mood di buona parte del management torinese: il sentimento sotteso alla parte più determinata di quella piazza – il suo nocciolo duro – costituito da quel mondo delle imprese e delle professioni cittadine che eleva se stesso a misura dell’universo avendo perduto però le proprie capacità propulsive. Declinante, ma determinato tuttavia a non mollare la presa sul proprio contesto, considerando ogni bene comune “disponibile”. Ogni dimensione pubblica privatizzabile. E ogni alterità – quali che ne siano le ragioni – irrilevante. Altro che cittadini con il senso del dovere di cui vaneggia Vladimiro Zagrebetsky (Vladimiro, si badi! non Gustavo) su “La Stampa”.Un esempio per tutti: il presidente della Camera di Commercio, tal Vincenzo Ilotte, che dichiara senza un attimo di resipiscenza che «la città si è formalmente espressa sulla Tav, non credo ci sia molto da discutere». Sì, proprio così: non crede che ci sia più “molto da discutere” perché – in piazza, evidentemente – la città si è “formalmente espressa”. Formalmente! Che, se le parole hanno ancora un qualche senso, dovrebbe voler dire: seguendo una qualche procedura di legittimazione. E dimentica che l’unica espressione “formale” è stata la deliberazione del Consiglio comunale (che la si giudichi opportuna o meno) con cui si è dichiarata “formalmente” Torino città No-Tav. E che i 20 o 25 o 30mila di piazza Castello sono pressoché un decimo dei torinesi che due anni fa hanno eletto a maggioranza quel Consiglio e quella giunta. Questo sarebbe un esempio di coscienza civica? O anche solo di cultura democratica? Personalmente mi sembra un perfetto esempio di quel “populismo” contro cui si dice al contrario di volersi opporre.Il problema però non sono le singole persone. Il problema, inquietante, per certi aspetti disperante, è che quello “stile” ha animato tutta la preparazione della mobilitazione di sabato 10 novembre. L’asfissiante campagna mediatica, guidata dai giornali cittadini “Stampa” e “Repubblica”, appartenenti ora al medesimo gruppo finanziario assai interessato all’opera. Nei dieci giorni di bombardamento mediatico non una voce fuori dal coro, non un dato, una documentazione, una valutazione indipendente. Niente pensiero, niente ragionamento, niente argomentazione razionale. Molti, troppi slogan. Spacciati a piene mani come verità sacrali (di quelle che non hanno bisogno di conferme fattuali perché sarebbero auto-evidenti). Nessuno ha detto ai cittadini chiamati al giudizio di dio della piazza, che quel treno è fatto per le merci e non per i passeggeri. Che tra Torino e Lyon (e Parigi) c’è già un treno veloce – un Tgv – cinque volte al giorno, sulla linea storica, che attualmente è utilizzata a meno di un quinto della sua capacità. Che i flussi di traffico tra Italia e Francia sulla direttrice alpina sono in calo da anni, sia su rotaia che su autostrada.Che supposto che si facesse il “tunnel di base” di 57,5 km, la linea si fermerebbe a St. Jean de Maurienne, tra i pascoli, sul versante francese (perché la Francia non ha deliberato le infrastrutture di raccordo e non ne ha per ora intenzione) e a Susa sul versante italiano. E, a proposito di tunnel di base (il cui impatto sul sistema idrogeologico della valle ma anche di Torino sarebbe pesantissimo), che nonostante viaggi per quasi l’80% in territorio francese sarebbe pagato per circa il 60% da noi!). Che del mitico “Corridoio V” (il quale secondo le allucinazioni dei nostri politici regionali dovrebbe collegare Lisbona con Kiev, anzi, secondo le ultime esternazioni, l’Alantico e il Pacifico) non c’è traccia, non esiste più perché Portogallo e Spagna si sono chiamati fuori e dalla Slovenia in là nessuno ci pensa, per cui le tanto decantate merci dovrebbero proseguire verso est sui famigerati camion o arrivare in camion per andare verso ovest (dove? mah?)…E’ assai probabile che una parte almeno del successo di pubblico di quella manifestazione sia dovuta – oltre alla mobilitazione dei “media” e delle corporazioni cittadine – alla pessima prova offerta in questi due anni dalla giunta Appendino: dal suo pressapochismo, dalle troppe assenze dai luoghi dolenti del tessuto cittadino, dalla promesse non mantenute, dall’isolamento sociale in cui si è confinata. C’era, in quella piazza, anche tanto giustificato disagio. Ma il giudizio sulla promozione dell’“evento” e sulla sua gestione non cambia. Resta imbarazzante – francamente imbarazzante – che l’imprenditoria di una città che è stata, per buona parte del Novecento, un esempio di livello mondiale di “company town” – un modello di capacità industriale potentissimo – si riduca oggi ad affidare il proprio futuro a un’idea vuota – a impiccarsi a un totem fradicio, abbiamo scritto – cioè a un simbolo quale il Tav fallito in partenza, immaginato in un tempo e in un mondo finiti, destinato allo spreco massiccio di risorse che – con un uso più assennato – potrebbero rivelarsi importanti.Fa male vedere che gli operatori economici di una città un tempo abitata da produttori orgogliosi di sé si riducano a pietire eventi e opere quali che siano purché alimentino flussi di denaro octroyé, concesso da Roma o dall’Europa, anziché contare sulla propria capacità innovativa e sulla creatività del sistema urbano. E’, in qualche modo, il “sistema Torino” – la configurazione di interessi economici, politici e bancari che ha gestito il declino di Torino nel trentennio trascorso e che si è mossa in piazza per riperpetuarsi, con gli stessi volti, le stesse sigle (il Pd buttato fuori dalla porta alle amministrative e rientrato dalla finestra in piazza) allargate ora alla destra, Forza Italia in primis, ma anche Fratelli d’Italia e soprattutto la Lega. La Lega di Salvini, aggiuntasi all’ultimo momento perché sa che, in casi come questi, gli ultimi saranno i primi e, con molta probabilità, sarà lei l’utilizzatore finale di tutto ciò. Come dire che le fatine turchine di Torino hanno lavorato, in fondo, per il Re di Prussia.(Marco Revelli, “Le fate ignoranti di Torino”, dal blog NoTav.info del 19 novembre 2018).Giuro che non volevo credere ai miei orecchi quando ho sentito a “Otto e mezzo”, una delle magnifiche sette madamine torinesi “organizzatrici” della manifestazione in piazza Castello, Patrizia Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche tecniche e ambientali relative alla discussa linea del Tav Torino Lione. Ha detto proprio così: «Posso assolutamente dire che non siamo, né io né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Il fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa, ma indiscutibilmente – proprio il merito delle ragioni tecniche e ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della regione. E ora sappiamo che quell’“entrata nel merito” con quella perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel valore metafisico dell’opera.
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In quella piazza triste, l’establishment che ha spento Torino
A questo punto diciamocelo (almeno noi) con chiarezza: la piazza di Torino era – nonostante l’enfasi mediatica – una “piazza triste”. Di gente in fondo rassegnata, che non sapendo più contare sulle proprie forze aspetta la soluzione dei propri problemi da un altrove: un buco nella montagna, un “evento” olimpico, un cenno d’attenzione da Roma. Gente incerta sulle proprie ragioni (sulle ragioni del proprio esser lì), perché in fondo lì erano per le ragioni degli altri. Di quelli che dalla “Grande Opera” – loro sì – s’aspettano di guadagnarci, per un appalto concesso, uno studio di fattibilità realizzato, un atto notarile curato, un’intermediazione riuscita. Loro e i loro padrini politici, che sull’intermediazione di prebende hanno costruito negli anni il proprio sistema di fedeltà e di consenso. Le dichiarazioni dei “cittadini” presenti intervistati dallo sciame di media piombati a Torino sono, serialmente, simili, generiche e poco informate. C’è la professoressa che dice candidamente di essere in piazza perché i suoi studenti (che invece non ci sono) «vogliono andare a Barcellona in treno», mentre l’intervistatore si guarda bene dall’informarla che con Barcellona quella linea, che porterà prevalentemente merci più che studenti, non c’entra e se proprio va bene, se non si fermerà in Maurienne, tutt’al più li scaricherà a Lione, tra una decina o quindicina di anni (quando i suoi ragazzi saranno padri o magari nonni).C’è il pensionato che dice che senza la ferrovia “Torino muore”. E quello che pensa che con il Tav il Pil crescerà del 30% (!!??). C’è l’anziana che fa la posta per strappare un autografo a Mariastella Gelmini, quella che da ministra parlava del tunnel tra Ginevra e il Gran Sasso e che ora è anche lei in piazza per questo tunnel. E quello che rimpiange tanto “Piero” (Fassino, fatto fuori alle amministrative ultime), ma gli va anche bene “Sergio” (Chiamparino, ancora in sella in Regione). Qualcuno dovrebbe spiegarglielo a quelle brave persone – sicuramente in buona fede ma poco informate – che quell’opera è riservata prevalentemente alle merci e non ai passeggeri (è una linea ad “alta capacità” non ad “alta velocità”). E che quando era stata “inventata” i suoi fautori ne sostenevano le motivazioni prevedendo che in pochi anni i flussi di traffico sulla direttrice Torino-Lione sarebbero cresciuti in misura esponenziale, fino a saturare entro il 2010 la portata delle “linea storica” stabilita in 20 milioni di tonnellate annue” e a raggiungere entro il 2030 i 40 milioni, mentre oggi – nel 2018 – la linea storica è utilizzata per appena un sesto della sua capacità (meno di 4 milioni di tonnellate) e il traffico sulla direttrice est-ovest (di cui la Torino Lione è il canale) sono in costante decremento dato il carattere maturo e non complementare delle economie italiana e francese.Qualcuno dovrebbe anche dire che il traffico su gomma sull’autostrada Torino-Bardonecchia e poi attraverso il Fréjus è stagnante da anni, e che non ci sono produttori smaniosi di spostare le proprie merci dai Tir ai treni, per il semplice fatto che su quella frontiera i flussi di merci sono esangui; che le spedizioni su ferrovia sono accettabili in termini di costi solo se il raggio della tratta è di centinaia di chilometri, mentre sulla frontiera italo-francese passano traffici di breve-medio raggio; e che se si facesse davvero e se si volesse davvero spostare il traffico merci dalla gomma al ferro (dai Tir ai treni) occorrerebbe mettere tariffe così elevate sulle autostrade che metterebbero in crisi l’intero sistema di trasporto attuale (i bravi imprenditori Sì Tav questo conticino se lo sono fatto?). Qualcuno dovrà ben dire che i costi di attuazione di tutte le linee ad alta velocità in Italia sono cresciuti, in corso d’opera, di percentuali oscillanti tra il 300 e il 500% (con un picco del 700% sulla Torino-Milano, che è tutta piatta con pochi fiumi da attraversare mentre i 57 chilometri del tunnel di base viaggiano sotto montagne piene di difficoltà).Se per sfortuna fosse deliberata, la Torino-Lione vedrebbe la luce al fondo del tunnel solo tra una decina-quindicina di anni. E se fosse (improbabilmente) conclusa, ai due capi del tunnel di base non ci sarebbero i raccordi necessari, perché i francesi non lo prevedono per nulla e gli italiani non sanno ancora su quale percorso. Quindi per molti, molti anni si dovrà viaggiare sulla linea storica, che con atteggiamento spinto oltre il limite dell’irresponsabilità l’attuale Commissario all’opera dice essere gravemente a rischio ma su cui nega la possibilità di fare interventi di messa in sicurezza perché pregiudicherebbero la nuova opera. Quello che resta, a conclusione di questo tranquillo week end d’impostura, è la poco consolante constatazione che una città che affida il proprio futuro a un’opera assurda che dilapiderebbe risorse, ambiente, territorio e comunità, è una città “perduta”. E che una classe imprenditoriale che si riduce ad adorare un totem fradicio, come farebbe una tribù primitiva di fronte alla carestia, anziché farsi un esame di coscienza e contare sulla propria capacità d’innovazione, è destinata inevitabilmente al declino.(Estratto da “La piazza della Torino perduta”, post pubblicato su “Volere la Luna” il 13 novembre 2018. Vivido, nel testo integrale dell’intervento, il ritratto dei volti che si sono prestati a sostenere la manifestazione Sì Tav, gonfiata dai media: Salvatore Tropea e Paolo Griseri di “Repubblica”, il presidente dell’Api Corrado Alberto, il lobbista berlusconiano Mino Giachino presidente dei club “Forza Silvio”, Piero Fassino e Sergio Chiamparino, l’ex direttore della “Stampa” Marcello Sorgi e lo storico ex-sessantottino Giovanni De Luna. Oltre a Pd e Forza Italia, alla manifesazione torinese hanno aderito anche la Lega, Fratelli d’Italia, CasaPound e Forza Nuova).A questo punto diciamocelo (almeno noi) con chiarezza: la piazza di Torino era – nonostante l’enfasi mediatica – una “piazza triste”. Di gente in fondo rassegnata, che non sapendo più contare sulle proprie forze aspetta la soluzione dei propri problemi da un altrove: un buco nella montagna, un “evento” olimpico, un cenno d’attenzione da Roma. Gente incerta sulle proprie ragioni (sulle ragioni del proprio esser lì), perché in fondo lì erano per le ragioni degli altri. Di quelli che dalla “Grande Opera” – loro sì – s’aspettano di guadagnarci, per un appalto concesso, uno studio di fattibilità realizzato, un atto notarile curato, un’intermediazione riuscita. Loro e i loro padrini politici, che sull’intermediazione di prebende hanno costruito negli anni il proprio sistema di fedeltà e di consenso. Le dichiarazioni dei “cittadini” presenti intervistati dallo sciame di media piombati a Torino sono, serialmente, simili, generiche e poco informate. C’è la professoressa che dice candidamente di essere in piazza perché i suoi studenti (che invece non ci sono) «vogliono andare a Barcellona in treno», mentre l’intervistatore si guarda bene dall’informarla che con Barcellona quella linea, che porterà prevalentemente merci più che studenti, non c’entra e se proprio va bene, se non si fermerà in Maurienne, tutt’al più li scaricherà a Lione, tra una decina o quindicina di anni (quando i suoi ragazzi saranno padri o magari nonni).
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Santo Tav, a Torino il culto arancione del Serpente d’acciaio
L’animalone mitologico chiamato Tav Torino-Lione è riapparso – in purezza, per evocazione – nel cuore sabaudo di Torino, la città-Stato transitata senza colpo ferire dai Savoia alla Fiat e quindi al Pd, prima di smarrirsi (per un caso tuttora misterioso) tra i proclami palingenetici dei 5 Stelle, guidati addirittura da una donna. Riappare a comando, il mitico Serpentone superveloce, a beneficio delle telecamere: un’epifania mediatica lunga circa un’oretta, sinistramente addobbata in arancione come le tante farlocche “rivoluzioni colorate” che hanno depistato l’Occidente negli ultimi anni, in televisione, tra una fake news e l’altra. Ricompare innaturalmente, l’ipotetico l’animalone su rotaia, in forma di archetipo: qualcosa che esiste solo nell’iperurario, nel mondo delle idee, e dopo più di vent’anni ancora attende qualcuno che lo traduca finalmente in un evento materiale spiegabile, sensato, ragionevole, oltre che desiderabile. Per i comizianti convocati dal vecchio establishment torinese, infatti, l’entità miracolosa che nei loro sogni miliardari salverebbe la città è sempre intangibile come la fede, impalpabile come la felicità. Il rettilone sputa-amianto è semplicemente la gioia, il bene, la storia, il progresso, la civiltà. Impossibile chiedere agli arancioni la decenza di una spiegazione: ai fedeli non serve.Non serve nemmeno ai giornali, una spiegazione. Quali meraviglie potrebbe mai portare in dono, il drago metallico che i bene informati non vogliono? Forse non è il caso di chiarirlo neppure stavolta, di fronte agli “oltre 30.000” manifestanti in piazza Castello, che sono “25.000” per la questura ma restano “oltre 30.000, forse 40.000” per tutti i grandi media, ennesima dimostrazione del carattere prodigioso dell’evocazione. Perfettamente inutile sfogliare la “Stampa”, i titoli parlano da soli: “Torino, in piazza i 30.000 del popolo del Sì”. Trentamila eroi (sempre gli stessi 25.000 per la questura): “Piazza piena, ma civile”. Le voci: “Perché SìTav: non siamo madamin che stanno a casa a cucire, vogliamo un futuro”. Già: perché SìTav? Mistero della fede: guai a svelarlo, pena il crollo carismatico del clero officiante. Per l’occasione, molto solenne, se ne occupa – citando De Gasperi, nientemeno, come suscitatore di folle torinesi – l’ex sottosegretario berlusconiano Mino Giachino, esponente del Rito Unificato (Pd e Forza Italia) che il Serpentone ha saputo creare, riunendo sotto un’unica bandiera l’affarismo italico. «In questi vent’anni è stato bloccato lo sviluppo del paese», proclama monsignor Giachino, uno che quindi in questi ultimi vent’anni non stava al governo, ma in vacanza permanente alle Hawaii.Diciamo sì al Tav, insiste il reverendo, «perché negli ultimi vent’anni l’Italia ha perso 20 punti di Pil rispetto alla media europea, e Torino di più». L’Italia è arretrata, è vero: ma perché? Colpa della globalizzazione, del neoliberismo, della deindustrializzazione? Delle delocalizzazioni e del regime di austerity a base di tagli e tasse, e quindi di licenziamenti? Colpa della guerra anti-italiana scatenata dall’oligarchia franco-tedesca grazie all’Unione Europea con il fondamentale contributo dei collaborazionisti nostrani? Colpa della crisi finanziaria? Colpa dell’élite speculativa che ha precarizzato il lavoro e demolito i consumi? Ma no, suvvia: Prodi e Draghi non contano niente, l’Eurozona è una leggenda, Mario Monti resta un personaggio letterario come Giorgio Napolitano. La disgrazia piovuta sull’Italia, inclusa Torino (con l’eccezione dell’Impero Juventus, prontamente trasferito a Detroit) ha un’unica causa evidente, mitologicamente impeccabile: la pervicace resistenza dell’Impero del Male, popolato dai farabutti NoTav, nel consentire alla Luce di rischiarare finalmente le tenebre, il funereo abisso nel quale le “madamin” in arancione raggruppate in piazza Castello sono certe di rischiare di sprofondare. «Siamo tutti qui per dire sì al futuro e sì al lavoro», chiosa il cardinal Giachino, tra le ovazioni.Il magico Serpentone scaccia-malocchio ha anche il potere taumaturgico di ridisegnare la geografia: «Sì alla Tav, che collega il Piemonte all’Europa e all’Asia», si sente cantare dal palco, come se il povero Piemonte fosse una terra di pastorelli costretti ad arrancare a dorso di mulo. «Sì a Torino come centro di scambi, porta aperta verso gli altri paesi, snodo sulla rete ferroviaria internazionale». Percepito da piazza Castello, il Serpentone perde il suo colore arancione e si tinge di giallo, come la coda del Dragone cinese. Eccolo, il futuro: Torino come “centro si scambi” sulla Nuova Via della Seta, destinata a trasformare l’Eurasia in un mercato viaggiante di vagoni e container. Ah, se solo ci fosse una ferrovia capace di collegare Torino a Lione… C’è già, nel mondo reale: si chiama Torino-Modane e utilizza il traforo del Fréjus appena riammodernato con quasi mezzo miliardo di euro per farvi transitare anche i container più grandi. Ma è noto che la realtà non giova al pensiero magico che si nutre del soprannaturale. Che fine farebbe, il fenomenale Serpentone, se per sbaglio deragliasse dalle usuali rotaie metafisiche? Meglio le fiabe soavemente narrate, ancora una volta, dal celebrante televisivo, magnificamente riproposte a reti unificate dagli stessi media che, l’8 dicembre, quando la città sarà invasa dai barbari NoTav, spegneranno come al solito i microfoni. Il Serpentone, del resto, è pura trascendenza: tentare di spiegarne l’utilità, oltre che impossibile, sarebbe un atto sacrilego.L’animalone mitologico chiamato Tav Torino-Lione è riapparso – in purezza, per evocazione – nel cuore sabaudo di Torino, la città-Stato transitata senza colpo ferire dai Savoia alla Fiat e quindi al Pd, prima di smarrirsi (per un caso tuttora misterioso) tra i proclami palingenetici dei 5 Stelle, guidati addirittura da una donna. Riappare a comando, il mitico Serpentone superveloce, a beneficio delle telecamere: un’epifania mediatica lunga circa un’oretta, sinistramente addobbata in arancione come le tante farlocche “rivoluzioni colorate” che hanno depistato l’Occidente negli ultimi anni, in televisione, tra una fake news e l’altra. Ricompare innaturalmente, l’ipotetico l’animalone su rotaia, in forma di archetipo: qualcosa che esiste solo nell’iperurario, nel mondo delle idee, e dopo più di vent’anni ancora attende qualcuno che lo traduca finalmente in un evento materiale spiegabile, sensato, ragionevole, oltre che desiderabile. Per i comizianti convocati dal vecchio establishment torinese, infatti, l’entità miracolosa che nei loro sogni miliardari salverebbe la città è sempre intangibile come la fede, impalpabile come la felicità. Il rettilone sputa-amianto è semplicemente la gioia, il bene, la storia, il progresso, la civiltà. Impossibile chiedere agli arancioni la decenza di una spiegazione: ai fedeli non serve.
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I barbari alle porte: anche Salvini tra gli ideologi pro-Tav
Hanno alzato bandiera bianca sui vaccini e poi sul gasdotto Tap nel Salento, deludendo i propri elettori a cui avevano promesso barricate. Per questo, i 5 Stelle ora sembrano intenzionati a “sacrificare” la grande opera più controversa della storia al pari del Ponte sullo Stretto: la linea Tav Torino-Lione, massimo emblema del lato oscuro del potere, quello che tratta i cittadini come sudditi. Faraonico, devastante e costosissimo, ma soprattutto scandalosamente inutile: il tracciato Tav transalpino, che trasformerebbe la valle di Susa in una wasteland inabitabile, resta un mistero della fede. In vent’anni, nessun governo è mai riuscito a dimostrarne l’utilità. Proprio questo aspetto rende la Torino-Lione un totem metafisico, il “Dio lo vuole” dei nuovi crociati, spesso mercenari, arruolati dall’imperativo teologico dello sviluppismo affaristico all’italiana. Tra i suoi hoolingan figurano gli immancabili Pd e Forza Italia, cui si aggiunge il disinvolto Salvini che, di fronte all’immane cataclisma del Brasile, con l’eroe nazionale Lula escluso dalle elezioni per via giudiziaria, non trova di meglio che cinguettare “finalmente la sinistra ha perso anche in Brasile”, reclamando lo scalpo dell’ex terrorista Cesare Battisti. E mentre festeggia la vittoria dell’ultraliberista e militarista Jair Bolsonaro, la Lega si prepara allo scontro con i 5 Stelle, aggrappati al “no alla Tav” fatto votare solennemente dalla città di Torino.I media alzano il volume, di fronte allo sconcertante evento simbolico consumatosi nel capoluogo subalpino guidato da Chiara Appendino: raccontano che il Piemonte, come nelle fiabe, sprofonderà nell’abisso. Non uno, tanto per cambiare, che sappia davvero descriverlo, l’abisso. «La Tav è un’opera strategica», piange il capogruppo leghista a Torino, Fabrizio Ricca. «Non vogliamo correre il rischio di vedere il nostro territorio tagliato fuori dalle tratte commerciali europee proprio ora che ne avrebbe più bisogno». La Torino-Lione strategica? Secondo l’autorità svizzeria incaricata dall’Ue di monitorare i trasporti alpini, al contrario, la linea sarebbe un’opera-spazzatura: la ferrovia attuale Torino-Modane potrebbe aumentare del 900% il traffico, se solo esistessero queste famose merci tra trasportare. Sa di cosa parla, Luigi Ricca? E soprattutto: perché anche lui, come i suoi autorevoli colleghi e predecessori del Pd e di Forza Italia, non si premura di spiegare in che modo, la rinuncia alla linea-doppione, taglierebbe fuori il Piemonte dal mondo civile? «C’è un blocco ideologico», protesta l’ideologo degli industriali piemontesi, Dario Gallina: «Il Piemonte muore, se non si fa questa opera». Mille e non più mille: sta arrivando l’Armageddon, scatenato dall’ex steward dello stadio napoletano Luigi Di Maio.Di ideologia parla un altro eminente ideologo piemontese, il presidente della Camera di Commercio torinese Vincenzo Ilotte, insieme ai portavoce degli artigiani e dei sindacati. «È disarmante – singhiozzano – avere interlocutori che antepongono l’ideologia all’interesse del territorio». Che brutta, ideologia altrui. Che orrore. «Non vogliamo tornare al medioevo», chiosa il medievalista Claudio Chiarle, della Fim-Cisl. Giorgio Marsiaj, industriale dell’Amma, è altrettanto categoricamente millenaristico: parla di «decisione gravissima» che rischia di essere «letale» per Torino e di far sprofondare la città «in un burrone». Non uno degli ipotetici “vedovi” della Torino-Lione, neppure stavolta, si perita di dare spiegazioni, citare numeri, esibire proiezioni – salvo, naturalmente, tentare di liquidare come “ideologica” la posizione NoTav che oggi i 5 Stelle sembrano sposare. La Torino-Lione resta un banco di prova, innanzitutto, per la democrazia italiana: si vorrebbe finanziare una maxi-opera miliardaria ad altissimo impatto, fortemente contestata (e “smontata”, dati alla mano dagli oppositori) senza la minima preoccupazione di illustrare almeno, alla popolazione, la sua eventuale utilità. Senza spiegazioni, il Tav valsusino resta un capolavoro ideologico neoliberista nel senso tharchriano: There Is No Alternative, prendere o lasciare. Alla faccia del mitico populismo sovranista del signor Salvini.Hanno alzato bandiera bianca sui vaccini e poi sul gasdotto Tap nel Salento, deludendo i propri elettori a cui avevano promesso barricate. Per questo, i 5 Stelle ora sembrano intenzionati a “sacrificare” la grande opera più controversa della storia al pari del Ponte sullo Stretto: la linea Tav Torino-Lione, massimo emblema del lato oscuro del potere, quello che tratta i cittadini come sudditi. Faraonico, devastante e costosissimo, ma soprattutto scandalosamente inutile: il tracciato Tav transalpino, che trasformerebbe la valle di Susa in una wasteland inabitabile, resta un mistero della fede. In vent’anni, nessun governo è mai riuscito a dimostrarne l’utilità. Proprio questo aspetto rende la Torino-Lione un totem metafisico, il “Dio lo vuole” dei nuovi crociati, spesso mercenari, arruolati dall’imperativo teologico dello sviluppismo affaristico all’italiana. Tra i suoi hoolingan figurano gli immancabili Pd e Forza Italia, cui si aggiunge il disinvolto Salvini che, di fronte all’immane cataclisma del Brasile, con l’eroe nazionale Lula escluso dalle elezioni per via giudiziaria, non trova di meglio che cinguettare “finalmente la sinistra ha perso anche in Brasile”, reclamando lo scalpo dell’ex terrorista Cesare Battisti. E mentre festeggia la vittoria dell’ultraliberista e militarista Jair Bolsonaro, la Lega si prepara allo scontro con i 5 Stelle, aggrappati al “no alla Tav” fatto votare solennemente dalla città di Torino.