Archivio del Tag ‘Franklyn Delano Roosevelt’
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Scalea: soldi facili, così la finanza ha rovinato l’economia
Il problema è che la finanza, da strumento dell’economia, ne è divenuta il cuore. La banca, a sua volta, da strumento dell’impresa ne è diventata proprietaria. E la Borsa non è più lo strumento degli investitori, ma il tempio degli speculatori. Così la speculazione ha superato l’investimento, e la rendita i profitti: questo, riassume Daniele Scalea, è il problema a monte che rende qualsiasi ripresa fragile, e il sistema economico globale squilibrato e instabile. Difficile, per il sistema politico mondiale, porre un freno al disastro. Ci ha provato la Russia al G-20 di San Pietroburgo, fissando come priorità «lo sviluppo di una serie di misure volte a promuovere una crescita sostenibile, inclusiva ed equilibrata, e la creazione di posti di lavoro nel mondo». Secondo Putin, il benessere va ottenuto tramite investimenti in posti di lavoro di qualità, condizioni di trasparenza e fiducia, nonché un’efficace regolamentazione: cioè una retromarcia completa rispetto allo spettacolo messo in scena dall’Occidente negli ultimi trent’anni.«La deregulation, parola d’ordine lanciata negli anni ‘70, ha rappresentato un mantra del neoliberalismo, almeno finché non è divenuto evidente il ruolo da essa avuto nel provocare la crisi finanziaria del 2008», scrive su “Huffington Post” lo stesso Scalea, condirettore della rivista “Geopolitica” e direttore dell’Isag di Roma, istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie. «L’episodio più importante fu rappresentato, negli Usa, dal Gramm-Leach-Bliley Act, proposto dai tre parlamentari repubblicani eponimi ma approvato nel 1999 con un’ampia maggioranza bipartisan». Fine delle regole: «La legge era nata per rispondere all’esigenza creatasi con la nascita di Citigroup, l’anno precedente, e abolì una parte del Glass-Steagall Act del 1933», la famosa legge varata dopo la Grande Depressione del ’29, che aveva separato le banche d’investimento dalle banche commerciali, impedendo alle prime – impegnate nelle speculazioni più rischiose – di raccogliere depositi dai risparmiatori.Dal fatidico ’99, dunque, anche i risparmi delle famiglie sono finiti nelle speculazioni a più alto rischio, in particolare quelle legate alle cartolarizzazioni, fattesi sempre più sofisticate dagli anni ‘80 in poi. «La cartolarizzazione – spiega Scalea – altro non è che la cessione di crediti o attività di una società tramite l’emissione di titoli obbligazionari». Nei primi anni ‘90 divennero popolari i famigerati derivati: titoli il cui prezzo è legato al valore di mercato di uno o più beni, e la cui ratio è la copertura da un rischio finanziario connesso a quei beni stessi. Proprio i derivati «sono divenuti lo strumento prediletto della speculazione, in particolare tramite le vendite allo scoperto», cioè l’impegno a vendere, in una certa data, un determinato bene che ancora non si possiede nel momento in cui si sigla il contratto. Tuttavia, aggiunge Scalea, la deregolamentazione e i “fantasiosi” nuovi strumenti finanziari (creati non da economisti, ma da matematici) rappresentano «solo il corso finale d’una più grande problematica che scorre a monte: quella della finanziarizzazione dell’economia».Quando la finanza prende il sopravvento, sottolinea il condirettore di “Geopolitica”, l’economia reale finisce sempre per risentirne. Accadde così anche nel ’29: «Nel primo dopoguerra, l’economia mondiale era ripartita grazie a uno schema triangolare tra Usa, Germania e altri paesi dell’Europa Occidentale. Washington garantiva alla Germania gl’investimenti per ricostruirne l’economia (non a caso, la tensione postbellica tra Parigi e Berlino fu risolta dal Piano Dawes, che deve il suo nome non a un abile diplomatico bensì a un ricco banchiere); la Germania poteva così pagare le riparazioni di guerra ai paesi europei vincitori del conflitto, e quest’ultimi acquistavano grosse quantità di beni di consumo dagli Usa». La macchina, continua Scalea, s’inceppò proprio quando i profitti a Wall Street divennero così elevati che risparmiatori, imprenditori e banchieri americani cominciarono a trovare più profittevole speculare tutto in Borsa, piuttosto che investire qualcosa nell’economia reale europea. «Quest’ultima rallentò, facendo calare bruscamente gli ordinativi di beni dagli Usa, con conseguente crisi di sovrapproduzione e successivo crollo della Borsa».Analogamente, anche la crisi del 2008 trova la sua genesi nella supremazia della finanza sull’economia reale. Dopo la “stagflazione” degli anni ‘70, ricorda Scalea, la ripresa della crescita economica ha visto quest’ultima concentrarsi sempre più nel segmento finanziario, con parallelo esplodere però anche dei debiti pubblici e il fabbisogno statale crescentemente affidato ai mercati per la sua copertura. Crescita che è stata alimentata da una serie di bolle: prima quella dell’information technology (2000-2001), poi quella dei mutui immobiliari Usa (2007). «L’esigenza di immettere sul mercato titoli da negoziare ha spinto a trascurare la solidità dei sottostanti (vedi mutui subprime): il derivato finanziario è divenuto la ragion d’essere, l’economia reale un semplice strumento». Idem la Borsa: era «il luogo ideale in cui far incontrare i risparmiatori desiderosi d’investire i loro capitali e gl’imprenditori capaci di farli fruttare», quindi in un orizzonte fatto di economia reale, e invece è divenuta una realtà a sé stante: «Le azioni non si comprano più per partecipare dell’impresa e dei suoi utili, ma per speculare sulle variazioni del prezzo di mercato dei titoli stessi».La Borsa, scrive Scalea, ha preso a pullulare di strumenti finanziari, come i derivati, solo debolmente connessi alla realtà economica: «Gli azionisti non guardano più al bene a lungo termine dell’azienda, ma alla possibilità a breve termine di realizzare plusvalenze uscendo dall’azionariato». Complici di questo gioco, i manager: «Per compiacere gli azionisti, hanno indugiato nella pratica di distribuire generosi dividendi anche quando i conti della società non erano positivi, col semplice fine di rendere le azioni più appetibili e dunque farne crescere il valore di mercato a breve, anche se questo minava la solidità aziendale sul lungo periodo». Fenomeno aggravato dall’abitudine di concedere ai manager bonus in azioni della società. Pratiche state denunciate anche dai media all’indomani del crollo borsistico del 2008, eppure continuano ad essere messe in atto. Se fino a ieri la finanza era un mezzo per supportare l’economia, ora è l’unico vero fine a cui mira chi dovrebbe occuparsi del benessere generale, a cominciare dai posti di lavoro.Il problema è che la finanza, da strumento dell’economia, ne è divenuta il cuore. La banca, a sua volta, da strumento dell’impresa ne è diventata proprietaria. E la Borsa non è più lo strumento degli investitori, ma il tempio degli speculatori. Così la speculazione ha superato l’investimento, e la rendita i profitti: questo, riassume Daniele Scalea, è il problema a monte che rende qualsiasi ripresa fragile, e il sistema economico globale squilibrato e instabile. Difficile, per il sistema politico mondiale, porre un freno al disastro. Ci ha provato la Russia al G-20 di San Pietroburgo, fissando come priorità «lo sviluppo di una serie di misure volte a promuovere una crescita sostenibile, inclusiva ed equilibrata, e la creazione di posti di lavoro nel mondo». Secondo Putin, il benessere va ottenuto tramite investimenti in posti di lavoro di qualità, condizioni di trasparenza e fiducia, nonché un’efficace regolamentazione: cioè una retromarcia completa rispetto allo spettacolo messo in scena dall’Occidente negli ultimi trent’anni.
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Come potremmo salvarci, e perché la Merkel lo impedirà
Salvare l’Europa in sole quattro mosse: salvataggio delle banche pericolanti coi fondi del Mes, riduzione del debito con emissione di bond garantiti dalla Bce, un piano speciale per il rilancio degli investimenti produttivi e un paracadute di solidarietà sociale per non lasciare nessuno in preda alla disperazione. Tutto tecnicamente possibile, se solo i politici lo volessero. Purtroppo, sostiene Yanis Varoufakis, economista dell’università di Atene, nulla lascia supporre che si voglia davvero evitare la catastrofe. Per un motivo drammaticamente semplice: se accettasse di metter fine all’“economicidio” europeo, Angela Merkel perderebbe il suo attuale, immenso potere di ricatto. Per questo, alla vigilia delle elezioni, ha deliberamente ignorato l’invito del giornalista americano Bob Kuttner: una sorta di “Piano Merkel”, per cancellare gli orrori del rigore e farsi ricordare con gratitudine, anziché con odio.
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Libro-choc: c’era George Bush dietro all’omicidio Kennedy
A mezzo secolo dal fatale attentato di Dallas del 22 novembre 1963 si scopre che, oltre ai nomi già noti – Lyndon Johnson, Allen Dulles e Edgar Hoover – c’era un politico di prima grandezza dietro al complotto per assassinare John Fitzgerald Kennedy. Si tratta nientemeno che di George Bush padre, secondo la clamorosa ricostruzione offerta da un libro che uscirà negli Usa in ottobre, firmato dall’ex stratega repubblicano Roger Stone, già braccio destro di Richard Nixon, a sua volta coinvolto per la “copertura” del piano. Secondo Stone, fu Nixon – quand’era ancora un semplice deputato al Congresso – ad assoldare Jack Ruby, cioè Jacob Leon Rubinstein, l’uomo che poi assassinò il “capro espiatorio” Lee Harvey Oswald poche ore dopo il suo arresto-lampo. Ma – questa è la novità clamorosa – dietro le quinte c’era la regia occulta del futuro presidente Bush, padre di George W., poi capo della Cia prima di ascendere alla Casa Bianca. All’epoca fu spedito a Dallas come leader dei repubblicani del Texas e garante della potentissima lobby dei petrolieri texani, direttamente minacciata dai Kennedy. Un incrocio pericoloso – tenuto nascosto per decenni – fatto di depistaggi, omissioni, intimidazioni, menzogne e omicidi per eliminare testimoni scomodi.
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Noi, lo zoo degli zombie e l’assedio della mediocrità
Ti guardi attorno, e vedi quasi solo mediocrità. Cialtroneria, mancanza di rispetto, ignoranza. L’amore per il lavoro libero, fatto bene: è roba in via di estinzione. Il piacere del lavoro ben fatto, lo chiamava Primo Levi. Tutto è fatica mentale: scostarsi dal binario, aggregare anime affini. Fatica sterminata. Psicologica, prima ancora che politica. Paure, dipendenze, pigrizia. Siamo stati rincoglioniti con sapienza, con metodo. Letterati, filosofi, poeti e teologi si occupano di parole come valori, dignità. Uno zoo di addetti ai lavori. Lo siamo tutti, addetti ai lavori. Siamo noi, lo zoo. E tuttavia: trovo la mediocrità infallibilmente offensiva. C’è una sciatteria universale fatta di imprecisione, intempestività, approssimazione. La banale, semplice puntualità è stata derubricata. Le parole viaggiano velocissime, ma non contengono quasi più niente.
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Lester Brown: presto non ci sarà più da mangiare per tutti
Il mondo è in una fase di transizione, da un’epoca dominata dal surplus, ad una dominata dalla scarsità. Sono in atto varie tendenze, che interessano sia la domanda che l’offerta e che portano ad un impoverimento delle scorte alimentari mondiali e ad un aumento dei prezzi. Questa situazione non è temporanea, si tratta piuttosto di una transizione di lungo periodo dall’abbondanza alla scarsità. Sotto il punto di vista della domanda c’è l’aumento della popolazione; non è una novità, negli ultimi decenni siamo cresciuti al ritmo di ottanta milioni l’anno. In pratica significa che stasera ci saranno 219.000 persone sedute a cena che ieri sera non c’erano, e che domani ce ne saranno altre 219.000 in più. La crescita della popolazione è continua e non accenna a diminuire. Il secondo elemento che crea l’aumento della richiesta di cibo è l’aumento della ricchezza. Aumentando il reddito, la gente, indipendentemente da dove si trovi, sale nella catena alimentare, e consuma più carne e pollame.
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Salari da fame, Gallino: attenti, la Germania può esplodere
«La nostra situazione è più simile a quella della Spagna che a qualunque altro paese europeo», anche se quello più a rischio – nonostante l’apparenza – è la Germania. Nella terra di Angela Merkel, gli indici di disuguaglianza sono addirittura «astronomici». Per Luciano Gallino, proprio la Germania è «un paese sull’orlo dell’esplosione sociale», perché a 5 milioni di persone sono corrisposti 500 euro al mese per 15 ore di lavoro la settimana, e il 22% dei lavoratori dipendenti, soprattutto operai, ricevono meno della metà del salario mediano. E’ il frutto della drammatica contrazione dei salari, decisa dal capitalismo in crisi che colpisce il lavoro per trasferire i profitti ai manager. Oppure, l’impresa compra azioni proprie per far salire il valore di mercato, perché su questo si misura l’operato del manager. «Il risultato è la crescita delle disuguaglianze», denuncia Gallino: «I salari italiani sono fermi dal ‘95, negli Usa fermi addirittura dal 1975 e si stima anzi siano leggermente regrediti». Il fenomeno riguarda l’80, 90% della popolazione, mentre si è enormemente arricchito il famoso 1%.
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Chomsky: i nostri padroni temono libertà e democrazia
«Tutto per noi stessi e nulla per le altre persone»: in ogni età del mondo, sembra sia stata proprio questa «la ignobile massima dei padroni del genere umano». Così la pensava Adam Smith, «un conservatore vecchia maniera, con principi morali», pensando al suo paese, l’Inghilterra, che allora era padrona del pianeta: sono i produttori di merci e i mercanti, diceva Smith, a plasmare la politica secondo i loro interessi, «per quanto sia doloroso l’impatto sugli altri, compreso il popolo inglese» o magari quello indiano, vittima di una «ingiustizia selvaggia» da parte degli europei. E’ la legge del più forte: quella che ancora oggi, secondo Noam Chomsky, guida la supremazia dell’Occidente. Una leadership declinante ma spietata, che – nel resto del mondo – teme una cosa su tutte, la democrazia: guai se i “sudditi” si ribellano alle dittature filo-occidentali, reclamando diritti.
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Se Grillo sale, tornano in azione i golpisti dello spread
«Se Grillo sale, tornano in azione i golpisti dello spread». Parola di Pino Cabras, redattore di “Megachip” e stretto collaboratore di Giulietto Chiesa, col quale lo scorso anno ha firmato il saggio “Barack Obush”. «Quasi un anno fa, proprio a novembre – scrive Cabras – erano giorni trionfali per la sovversione dall’alto in Italia, decisa a livello di classi dominanti globali: era quando il presidente della Repubblica nominava senatore a vita Mario Monti, fra tutti i tecnocrati disponibili quello più organico all’élite planetaria (essendo Mario Draghi già a capo della Bce)». Quelli, ricorda Cabras, erano i giorni in cui “Il Sole 24 Ore” strillava, a titoli cubitali: “Fate presto”. Obiettivo: «Dare il massimo risalto alla paura dello spread e piegare la sovranità di una nazione». Un anno dopo, ci risiamo: «Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Ora che i risultati elettorali premiano Beppe Grillo, in vista delle elezioni del 2013 la minaccia descritta dal “Sole 24 Ore” è di nuovo chiara: lo spread sarà ancora la leva per sottomettere gli italiani, e piegare Grillo».
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Barnard: politica della carenza, dobbiamo tornare sudditi
Ci stanno uccidendo, deliberatamente: quella che sembra una crisi accidentale, Paolo Barnard la definisce “politica della carenza”. Un piano prestabilito: con nomi e cognomi, mandanti, moventi, procedure concordate. «Parlo di ciò che colpisce al cuore i diritti umani e la dignità umana riscattati dopo 5.000 anni di abietta schiavitù in Europa». Incredibile ma vero. Peccato che le “sentinelle” dell’Occidente, gli intellettuali, non lo vogliano ammettere: la stragrande maggioranza di loro «sceglie di ignorare gli aspetti più micidiali della recente evoluzione storico-economica europea per un motivo che non è sempre convenienza o asservimento a un potere, ma è qualcosa di molto più umano: terrore». Molti studiosi «si fanno prendere dal panico», causato dal fatto che in effetti «le cose stanno veramente come noi diciamo». Loro non sono equipaggiati per affrontarle, e la violenza della loro reazione – siamo complottisti, pagliacci, prezzolati, dementi – è proporzionale a quel terrore».
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Benvenuti nella decrescita senza diritti: si chiama povertà
C’è una genia che prospera su tutto lo spettro politico, italiano e mondiale: i lungoperiodisti. L’atteggiamento di chi posa a pensatore del futuro, disdegnando le misure raffazzonate o gli interventi di breve periodo. I lungoperiodisti di destra aborriscono l’inflazione e vogliono una crescita finanziariamente sana; quelli di sinistra sono preoccupati per gli sconvolgimenti causati dalla crescita incontrollata passata. I secondi hanno ragioni migliori dei primi, ma entrambi paiono ignorare che siamo in un periodo di crisi economica che sta già creando recessione e miseria, come sanno bene gli ammalati gravi greci che non possono più curarsi. I primi però non lo ignorano affatto, anzi. Hanno deciso che la crisi economica è un’occasione d’oro per una terapia di immiserimento di ampi strati di popolazione come la cura migliore. Per questo sono acerrimi nemici di Keynes.
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Chi taglia lo Stato rovina anche te: la lezione di Roosevelt
Di fronte a un’emergenza che si riassume in quattro milioni di disoccupati e altrettanti di precari, con una marcata tendenza al peggioramento, qualsiasi intervento in tema di occupazione dovrebbe presentare una serie di caratteristiche quali: creare in breve tempo il maggior numero di posti di lavoro; dare priorità alle fasce sociali più colpite, poiché un indicatore negativo che segna il 10 per cento per alcuni può toccare il doppio o il triplo per altri; privilegiare attività ad alta intensità di lavoro; indirizzare i nuovi occupati verso settori di pubblica utilità ed alta priorità, tipo, visto quel che succede, la messa in sicurezza antisismica degli edifici. Gli interventi finora previsti in questo campo dal governo non presentano nessuna di tali caratteristiche.
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Lavoro per tutti: solo lo Stato, se vuole, può salvare l’Italia
Salvare l’Italia è possibile: basta creare, da subito, almeno un milione di posti di lavoro finanziati direttamente dallo Stato. Sembra un costo, invece è un investimento: perché, al contrario, disoccupazione significa catastrofe. E cioè povertà, perdita della casa, criminalità, denutrizione, abbandoni scolastici, antagonismo etnico, famiglie spezzate. Luciano Gallino, sociologo ed economista, rilancia la sua proposta nella speranza che qualcuno – governo, partiti, sindacati – si decida ad ascoltarla. Ottimo pretesto per riparlarne, l’allarme appena lanciato dal ministro Passera, che ora teme per la tenuta del sistema-Italia sotto i colpi del rigore promosso da Monti per tagliare il debito pubblico. Attenzione, avverte Gallino: la disoccupazione è un male ben peggiore del deficit, come ammoniva già vent’anni fa William Vickrey, premio Nobel nel ’96.