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Audasso: il “cervello quantico” è in ascolto, per esaudirci
L’ha scoperto la saggista Maria Soresina: la “Divina Commedia” di Dante rappresenta simbolicamente il Consolamentum, cioè l’unico sacramento previsto dalla maggiore eresia medievale, quella dei Catari, a cui il sommo poeta fiorentino era legatissimo. Lo dimostra l’importanza attribuita nel Purgatorio alla figura di Marco di Lombardia, vescovo cataro di Concorezzo. Ma, secondo Soresina, nella costruzione allegorica della “Commedia” c’è un elemento che, più di ogni altro, svela l’identità càtara dello stesso Dante: il ricongiungimento con l’amata Beatrice, ormai stabilmente residente tra i beati, allude infatti alla vera missione spirituale del Catarismo, che impegnava il credente a far “sposare” la sua parte animica, “prigioniera” del corpo mortale, con «l’altra parte dell’anima, mai incarnata», che nel poema è impersonificata dalla figura femminile, “angelicata” secondo il credo letterario del Dolce Stil Novo. Tradotto nel 2018: c’è qualcosa, dentro di noi, che attende di essere “risvegliato”? E’ la tesi di un ricercatore contemporaneo, Sergio Audasso, tra i primi in Italia a definire l’esistenza di un “cervello quantico”: una sorta di potenzialità teoricamente infinita, con un suo “programma di benessere” già inscritto del Dna, che solo le nostre paure finiscono per inibire.Non è una semplice suggestione, quella del Catarismo, data la passione con cui lo stesso Audasso studia la dottrina càtara. Ma, biografia a parte, il suo saggio “Neuro quantica evolutiva” (UnoEditori) è un agile manuale, estremamente pratico, che suggerisce come sia possibile riprendere gradualmente confidenza con quella parte di noi teoricamente “in sonno”, da qualche parte nell’encefalo, pronta a trasformarsi in coscienza attiva, fino a determinare nell’individuo un autentico cambio di stato: l’accesso a un diverso livello di consapevolezza, che “libererebbe” capacità prima impensabili. Audasso si occupa di fisica e meccanica quantistica già da molti anni: risale al 2007 il primo ebook sul “cervello quantico”, vero e proprio mini-bestseller pubblicato sulla piattaforma web di Italo Pentimalli. Nella vita, Audasso è formatore, “mental coach”, counselor, psicosomatista. Già membro della Sipnei (Società Italiana di Neuro Psico Endocrino Immunologia), è esperto delle basi neurali dei processi decisionali. Si occupa in particolare di “effetto Nocebo”, e sviluppa «metodi di auto-trattamento per la modifica dei codici epigenetici e per liberare se stessi dai pensieri bloccanti e auto-sabotanti».Il suo ultimo lavoro editoriale (sottotitolo, “Parlare al cervello quantico e cambiare la propria vita”) traccia un percorso preciso, nella direzione che Sergio Audasso studia da anni. La domanda centrale è la seguente: quanto siamo condizionati dalle abitudini che noi stessi abbiamo contribuito a creare? Possibile che sia sempre e solo il passato a dettare le regole del nostro futuro? Sono le domande che, nella sua vita professionale, Audasso si sente rivolgere di continuo: come diventare una persona sicura di sé, libera da condizionamenti? Cosa impedisce di raggiungere obiettivi di benessere e armonia? E soprattutto: com’è possibile convertire il potere della mente, mettendolo al nostro servizio? A metà strada tra psicologia, neurologia e nuove frontiere della ricerca scientifica come quelle che sondano la recentissima epigenetica, Audasso spiega innanzitutto perché, il più delle volte, l’autocontrollo (socialmente indotto) diventa una trappola che spinge l’indivuo a ripetere gli stessi errori, accumulando frustrazioni che poi pesano, nell’esperienza, fino a condizionare la possibiltà stessa di voltare pagina.L’autore individua l’esistenza di precise meccaniche, che poi “fabbricano” l’insoddisfazione quotidiana. Il suo libro non promette miracoli: svela meccanismi. Dimostra l’impatto interiore, a livello cognitivo, delle esperienze. E registra la costante assenza di un elemento che ritiene decisivo: la nostra mancanza di “dialogo” con il misterioso “cervello quantico”. Un motore potente, che secondo Audasso aspetta soltanto di essere finalmente messo in moto. L’autore cita Paul Valéry: «Il compito di una mente è di produrre futuro», senza pretendere l’infallibilità. Lo sapeva anche Charles de Gaulle: «Meglio prendere decisioni imperfette che essere alla continua ricerca di decisioni perfette che non si troveranno mai». Idee e pensieri: energie, emozioni, volontà. Una piccola guida, per step progressivi: «Sono sicuro di sapere cosa voglio dalla mia vita? Ho idea del prezzo che questo mi costa? E infine: sono disposto a pagarlo?». Ogni inciampo, sostiene Audasso, deriva dalla nostra mancanza di consapevolezza: subiamo troppe emozioni incontrollate, agiamo troppo spesso in modo automatico, senza ragionare in proprio. Attenzione: il “cervello quantico” è in ascolto. Che istruzioni riceve? Bisogna saperlo coltivare, dice Audasso, il “pensiero promotore”. Si può imparare, per gradi. Ma non senza prima aver capito come funziona, questo meccanismo, che secondo l’autore è squisitamente fisico, matematico.«Ogni nostra azione – spiega Audasso – si sviluppa attraverso l’utilizzo di una memoria “procedurale”, che a sua volta ne comprende altre due: la memoria “associativa”, identificabile con il condizionamento, e la memoria non-associativa, quella dell’abitudine». La tecnica “neuro quantica evolutiva” agisce in questo secondo ambito: «Con le neuro-associazioni e la memoria procedurale diamo la possibiltà alle nostre proteine una possibilità di “ancoraggio sinaptico”». A quel punto, le informazioni vengono trattenute e rese disponibili. In altre parole, è possibile porre delle “richieste” a quello che Audasso chiama “l’universo quantico”, per vederle realizzate. «Così facendo, però, si rimane nel vecchio paradigma: si riduce il “campo quantico” a poche alternative, sempre dettate dal passato, ottenendo nel migliore dei casi un semplice miglioramento». Si passa cioè «dal conosciuto al desiderato», mentre la “neuro quantica evolutiva”, secondo Audasso, consente di approdare al nuovo, all’ignoto, all’inaspettato. Nessun mistero: «Si attivano nuove neuro-connessioni, si eliminano le abitudini e si rinnova, davvero, la nostra vita».Il libro conduce il lettore verso progressive scoperte, fino «a comprendere i meccanismi che si muovono in lui (neuro), a interagire sul vecchio facendo agire il nuovo (quantica), liberando così i propri talenti (evolutiva)». Troppo difficile? Non per i lettori di Audasso, per i quali l’autore “smonta”, in modo perfettamente accessibile a tutti, i vari passaggi della dinamica cognitiva del pensiero “auto-sabotante” del quale ognuno di noi è così spesso vittima. Il motivo? Sempre lo stesso: l’auto-sabotaggio lo subiamo in modo sistematico, ma senza accorgercene. L’ostacolo è micidiale perché invisibile. Si chiama: deficit di consapevolezza. Diventare se stessi: questo è l’unico “prodigio” della conoscenza che Sergio Audasso maneggia. Obiettivo: «Riuscire un giorno a esprimere le proprie capacità, le abilità innate». Come? Imparando, innanzitutto, a “parlare” a quella parte di noi che, forse, ai tempi di Dante, qualcuno poteva ritenere “trascendente”. I catari, certo, la attribuivano al Padre Celeste. Sergio Audasso, più semplicemente, prova a spiegare come raggiungerla.(Il libro: Sergio Audasso, “Neuro quantica evolutiva. Parlare al cervello quantico e cambiare la propria vita”, UnoEditori, 168 pagine, euro 13,90).L’ha scoperto la saggista Maria Soresina: la “Divina Commedia” di Dante rappresenta simbolicamente il Consolamentum, cioè l’unico sacramento previsto dalla maggiore eresia medievale, quella dei Catari, a cui il sommo poeta fiorentino era legatissimo. Lo dimostra l’importanza attribuita nel Purgatorio alla figura di Marco di Lombardia, vescovo cataro di Concorezzo. Ma, secondo Soresina, nella costruzione allegorica della “Commedia” c’è un elemento che, più di ogni altro, svela l’identità càtara dello stesso Dante: il ricongiungimento con l’amata Beatrice, ormai stabilmente residente tra i beati, allude infatti alla vera missione spirituale del Catarismo, che impegnava il credente a far “sposare” la sua parte animica, “prigioniera” del corpo mortale, con «l’altra parte dell’anima, mai incarnata», che nel poema è impersonificata dalla figura femminile, “angelicata” secondo il credo letterario del Dolce Stil Novo. Tradotto nel 2018: c’è qualcosa, dentro di noi, che attende di essere “risvegliato”? E’ la tesi di un ricercatore contemporaneo, Sergio Audasso, tra i primi in Italia a definire l’esistenza di un “cervello quantico”: una sorta di potenzialità teoricamente infinita, con un suo “programma di benessere” già inscritto del Dna, che solo le nostre paure finiscono per inibire.
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Ragazzi senza futuro, vietato stupirsi se minacciano il prof
Il mestiere di docente non è mai stato così pericoloso. L’escalation di aggressioni e offese agli insegnanti da parte di studenti e genitori sta facendo emergere il disagio profondo in cui versano la scuola e la società intera. In queste settimane, si sprecano riflessioni e commenti da parte di pedagogisti, psicologi, sociologi, giornalisti, filosofi ed esperti di ogni genere. In particolare, l’associazione fra violenza e basso livello di istruzione proposta da Michele Serra su “Repubblica” ha suscitato discussioni a non finire. Come tutti i fenomeni sociali, anche la violenza a scuola è un fenomeno plurideterminato. Lungi dal voler esaurire le cause possibili del degrado del clima educativo in classe, proverei comunque a indagare su alcune condizioni che lo favoriscono, partendo da quelle più immediate. Michele Serra non ha tutti i torti quando collega la violenza alle scuole tecnico-professionali e al basso livello socio-culturale delle famiglie d’origine, perché – anche se può non piacere a molte anime belle – è drammaticamente confermato dalle ricerche sociologiche che l’utenza degli istituti tecnici e professionali è correlata a voti più bassi in uscita dalla scuola media, rispetto a quella dei licei, e questi, a loro volta, sono correlati allo status socio-culturale più basso delle famiglie di origine.Anche se non certo in via esclusiva, molti degli episodi narrati dai media hanno avuto come contesto istituti tecnico-professionali. Può darsi che il rapporto con i docenti sia più difficile nelle famiglie dove l’istruzione gode di minor considerazione o dove il disagio socio-economico si fa sentire di più. Tuttavia, una spiegazione di questo tipo appare assai parziale e soprattutto astratta. Una ragione più immediata del disagio è che, nelle scuole “razionalizzate” (ovvero “amputate”) dalle riforme degli ultimi vent’anni, ci sono troppi alunni per classe, insegnanti molto soli e demotivati, troppo anziani, non abbastanza formati e non abbastanza sostenuti nella fatica di ogni giorno; c’è una pressione costante a nascondere la dispersione scolastica e lo scadimento costante del livello degli apprendimenti dietro al buonismo obbligatorio delle promozioni regalate anche a fronte di gravi lacune; c’è un taglio progressivo e drammatico delle ore di lezione e dei contenuti; c’è la mancanza di un autentico e lungimirante spirito riformatore, che faccia della scuola un luogo di produzione di sapere e di cultura, vero cuore pulsante del paese e oggetto di cura e attenzione da parte delle istituzioni e dei cittadini.Ad un livello più profondo, c’è l’abdicazione dei genitori al loro ruolo educativo e la completa delega alla scuola della responsabilità di dire di no ai pargoli superprotetti e nel contempo la svalutazione e il discredito del ruolo educativo degli insegnanti, ai quali viene riservata la considerazione di cui godono dei proletari sottopagati, invece del prestigio di cui dovrebbero godere dei professionisti ai quali si affida il futuro delle nuove generazioni. Alla scuola si chiede continuamente di sopperire a tutte le lacune e ai mali profondi della società, senza però dotarla di mezzi, di competenze, di prestigio e di considerazione sociale. Se la scuola italiana ha retto tutto sommato miracolosamente fino ad ora, lo si deve allo spirito di abnegazione di quegli insegnanti (non tutti, certamente) che tengono duro nonostante venga scavato loro ogni giorno il terreno sotto i piedi. La fuga dalla responsabilità è il male sociale che ci affligge. A cominciare dal vertice, due decenni di cialtroneria politica, di zuffe mediatiche fondate sulla legge del più forte (quanto a volume di voce, non di argomenti), di demeritocrazia, ovvero di gestione delle cariche pubbliche pressoché totalmente svincolata dal merito, di autoreferenzialità della casta rispetto alle proprie scelte dannose, delle quali di fatto non si assume mai la responsabilità, hanno inciso profondamente sulla coscienza degli italiani.Si è imbarbarito il linguaggio del dibattito pubblico e, per il notissimo principio dell’apprendimento per imitazione, la violenza verbale rappresentata ogni giorno nei media è stata sdoganata. Con quale autorevolezza possono insegnare ai ragazzi il rispetto, l’empatia, il dialogo democratico degli insegnanti continuamente vilipesi e disprezzati sui media come categoria di nullafacenti privilegiati, in una società che offre a tutti i livelli la tracotante indifferenza a questi valori? Come possono far apprezzare lo studio e il sapere, quando ogni giorno i modelli vincenti proposti dagli adulti sembrano prescindere dalla cultura, dalla competenza e dall’impegno? A livello educativo, questa mancanza di responsabilità assume la forma di assenza di autorevolezza. I ragazzi, a tutte le età, hanno un bisogno assoluto di riferimenti autorevoli. Un adulto autorevole sa dare regole e controllare, ma sa anche ascoltare e proteggere quando serve. Sa prendersi la responsabilità di dire di no, senza essere un tiranno. I “no” aiutano a crescere e strutturano una personalità equilibrata, capace di sopportare le inevitabili frustrazioni della vita. Molti genitori (non tutti, per fortuna) non sembrano più in grado di offrire ai propri figli un modello di questo genere. Troppo faticoso, in una società dove il tempo da dedicare ai figli è scarso e dove spesso si è fagocitati dal lavoro e dalle preoccupazioni. È più facile lasciar perdere e salvare la pace familiare.Purtroppo, a volte nemmeno gli insegnanti ci riescono. Insegnare non è un lavoro per tutti e con ragazzi che arrivano da famiglie così permissive o prive di struttura lo è ancora meno. Gli insegnanti tormentati dagli allievi non di rado sono deboli e poco autorevoli. È come se i ragazzi indirettamente chiedessero loro di far sentire da che parte sta il potere nella relazione educativa (che per sua natura deve essere asimmetrica). A casa non lo imparano dagli adulti e di conseguenza non sanno che cosa sia la responsabilità; perciò vanno in escandescenze quando incontrano i primi ostacoli in classe. Per loro l’adulto non ha alcuna autorità; è un fratello maggiore al quale nulla è dovuto. Li conosco, questi genitori: sono quelli che arrivano infastiditi al colloquio con il docente quando il figlio prende un’insufficienza con l’argomento che il pargolo deve avere 6, perché non hanno tempo di occuparsene. Non sempre sono di bassa condizione sociale, anzi… La mancanza di riferimenti autorevoli produce principini narcisisti e onnipotenti, ai quali i genitori, schiacciati dal senso di colpa per la scarsa disponibilità verso i bisogni autentici dei figli, lasciano decidere tutto fin dalla tenera età. Fragili e privi di limiti, questi figli narcisi non vedono più in là dei confini del proprio ego e dei suoi impulsi immediati.E veniamo a loro, ai ragazzi. Questi ragazzi (parlo degli adolescenti, perché ci lavoro insieme da oltre trent’anni) sono in molti casi soli. Passano troppo tempo sui dispositivi digitali (per parecchi lo smartphone è oggetto di un vero attaccamento affettivo) e da un’età troppo precoce, con tutti i danni che ne derivano e che sono stati illustrati molto bene dal neuropsichiatra Manfred Spitzer nel suo libro “Demenza digitale” (Corbaccio): dipendenza, danno da campi elettromagnetici, sottrazione di tempo alla lettura e all’interazione faccia a faccia, danni cognitivi, rischi per la privacy, aumento dell’aggressività (specie per l’utilizzo dei videogiochi) e diminuzione dell’empatia. Spesso le bravate a danno dei docenti raccontate sui giornali sono state pensate nella prospettiva della diffusione sui social network e nelle chat. Sono messe in scena per un pubblico di pari, in cambio di una fragile popolarità che li faccia sentire esistenti. A questi ragazzi la scuola non dice molto e appare per lo più come una spiacevole interruzione delle loro attività digitali. La lettura è attività rara perfino al liceo. Il sapere appreso sui banchi appare vuoto e inutile e si aspettano la promozione per il solo fatto di andare a scuola.Questo non significa che la scuola debba inseguirli sul terreno tecnologico, ma che deve trasmettere e costruire con loro un sapere vitale, in grado di coinvolgerli. Perché possa riuscirci, occorrono insegnanti altamente selezionati e formati, dirigenti all’altezza, un’alleanza educativa con le famiglie, una maggiore considerazione del valore della scuola e del sapere a livello sociale (l’Italia, non dimentichiamolo, ha un numero enorme di analfabeti funzionali, circa il 70% della popolazione adulta), un senso di responsabilità condiviso. E così torniamo all’inizio. Siamo in un circolo vizioso. Questa scuola povera, svuotata, imbelle e irrilevante è il risultato di due decenni di logoramento progressivo e sistematico, ad opera di tutti i governi. Invece di essere riformata, la scuola italiana è stata smantellata. Mentre gli altri comparti della pubblica amministrazione hanno subito tagli lineari del 2%, la scuola si è vista sottrarre il 20% delle risorse. È un miracolo che esista ancora, benché compromessa. Ma non è colpa della scuola se i ragazzi sono violenti e privi di autocontrollo.Semmai, sia l’istruzione pubblica piegata alle esigenze del mercato, per il quale contano più le competenze delle conoscenze e più la ripetizione di nozioni del senso critico, sia l’individualismo sfrenato e l’ignoranza arrogante e soddisfatta di sé diffuse in una società che sta perdendo i valori fondanti della solidarietà, del bene comune, dell’impegno e della cultura sono il frutto malato di quella vera perversione della natura umana che è l’ideologia neoliberista. L’uomo è un essere intimamente sociale e predisposto all’empatia. Quando si insegna per decenni attraverso la parola e l’esempio che l’avversario è un nemico, che per affermare se stessi occorre competere, che i servizi pubblici sono uno spreco, che tutto si misura in termini economici, che con la cultura non si mangia e che i diritti sono sacrificabili sull’altare del profitto; quando si riduce l’istruzione al minimo, si riducono i salari e le tutele e si sdoganano a tutti i livelli la sopraffazione, l’arbitrio, la violazione delle regole, siamo di fronte ad una patologia individuale e sociale.I sociologi la chiamano “anomia”; gli psicologi possono scomodare etichette diagnostiche che vanno dal narcisismo alla psicopatia. Un popolo disgregato, al quale manca il senso di appartenenza ad una comunità, è facilmente manipolabile, oltre che infelice. Divide et impera, dividi e comanda. E così, con gli adulti affannati nella sopravvivenza quotidiana, i figli trattati come polli in batteria a cui dare il meno possibile perché non pensino ad altro che ai propri bisogni immediati e i docenti privati di prestigio e di credibilità, come la cultura di cui sono obsoleti portatori, al posto di una democrazia partecipativa, fondata sulla consapevolezza dei diritti e sulla responsabilità, stiamo imboccando il tunnel di una democratura, fondata sulla rinuncia inconsapevole ai diritti e sull’irresponsabilità. Non credo che se ne possa uscire né cambiando solo la scuola né limitandosi a punire gli studenti violenti. Certo, le azioni penalmente rilevanti vanno sanzionate anche penalmente. La responsabilità si impara pagando il prezzo delle proprie azioni; perciò l’indulgenza zuccherosa dei docenti che lasciano correre è deleteria almeno quanto il lassismo o l’arroganza dei genitori mai cresciuti che ne sono la causa prossima.Per uscire da un degrado così profondo, occorre guarire la malattia che lo ha provocato. Servono un futuro da costruire (questi ragazzi non ce l’hanno), la scoperta di un senso nella vita e un vero salto evolutivo della coscienza. Viviamo in mondo inquinato sul piano fisico da infinite sostanze tossiche, sul piano mentale da pensieri fuorvianti e dalla distrazione di massa, sul piano spirituale dalle catene della dipendenza dall’avere. Ci servono un paradigma diverso da quello neoliberista e un nuovo umanesimo, pragmatico, ma fondato sulla cooperazione e sull’empatia. Non sembra davvero facile, dato il livello del disfacimento sociale, ma nemmeno impossibile. Accanto ad una minoranza di ragazzi violenti e maleducati (ed anche fra loro) ci sono molti coetanei pieni di energie che devono solo trovare uno sbocco costruttivo. A questi uomini di domani servono uno scopo e dei maestri, altrimenti avranno solo dei capi-branco e dei dittatori. Siamo in grado di offrirglieli?(Patrizia Scanu, “Violenza in classe, come ci siamo arrivati?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 28 aprile 2018).Il mestiere di docente non è mai stato così pericoloso. L’escalation di aggressioni e offese agli insegnanti da parte di studenti e genitori sta facendo emergere il disagio profondo in cui versano la scuola e la società intera. In queste settimane, si sprecano riflessioni e commenti da parte di pedagogisti, psicologi, sociologi, giornalisti, filosofi ed esperti di ogni genere. In particolare, l’associazione fra violenza e basso livello di istruzione proposta da Michele Serra su “Repubblica” ha suscitato discussioni a non finire. Come tutti i fenomeni sociali, anche la violenza a scuola è un fenomeno plurideterminato. Lungi dal voler esaurire le cause possibili del degrado del clima educativo in classe, proverei comunque a indagare su alcune condizioni che lo favoriscono, partendo da quelle più immediate. Michele Serra non ha tutti i torti quando collega la violenza alle scuole tecnico-professionali e al basso livello socio-culturale delle famiglie d’origine, perché – anche se può non piacere a molte anime belle – è drammaticamente confermato dalle ricerche sociologiche che l’utenza degli istituti tecnici e professionali è correlata a voti più bassi in uscita dalla scuola media, rispetto a quella dei licei, e questi, a loro volta, sono correlati allo status socio-culturale più basso delle famiglie di origine.
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I cannibali di Pamela e la fine (meritata) della razza bianca
Noi, “bianchi”, ci stiamo estinguendo. E ce lo meritiamo. Parola dell’avvocato Marco Della Luna, impietoso critico del sistema neoliberista, bancario e finanziario. Stiamo sparendo, lo dicono i numeri: «La razza bianca si sta estinguendo per denatalità, anche nella sua principale riserva, la Russia». Sembra che abbia maturato «un certo disincanto verso la vita e fosche aspettative circa il futuro». E all’interno dell’estinzione della razza bianca «sta avvenendo una seconda estinzione, forse più grave: l’estinzione della civiltà occidentale, creazione peculiare di una parte della razza bianca (diciamo essenzialmente dell’area greca, italica, franco-germanica e britannica)». Per Della Luna, la nostra «è l’unica civiltà che abbia concepito e in parte realizzato un pensiero scientifico, una filosofia razionale, le idee di democrazia, di Stato di diritto, di eguaglianza, di diritti individuali dell’uomo». Questa civiltà «sta estinguendosi per un generale imbarbarimento edonista e consumista» nonché «per il declino dei suoi capisaldi, per l’effetto della globalizzazione e della finanziarizzazione della società», senza contare «la pesante immigrazione di massa da aree culturali immensamente distanti e con caratteri generalmente opposti». Nella prospettiva dell’estinzione della nostra civiltà, «la minaccia della catastrofe ecologica ci angoscerà meno, appunto perché non colpirà gente simile a noi».Tutelare la “razza bianca” di fronte alla sua incombente estinzione? «Io la penso diversamente», dice Della Luna, secondo cui il mondo «sta diventando una fogna avvelenata senza via d’uscita», tiranneggiato da «una dominazione tecnologico-finanziaria disumana», al punto che, ormai, «estinguersi è un privilegio, è una liberazione, è un diritto che rivendichiamo». Meglio «lasciare questo mondo guastato all’avanzata di genti che lo accettano, anzi se lo vogliono proprio prendere, nonostante sia ridotto così». Provocazione inaccettabile, ovviamente, per chi ha figli. Una cosa, Della Luna, la pretende: «Essere lasciati estinguere in pace e con decoro, senza pressioni e intrusioni violente». Un caso atroce? Quello di Pamela Mastropietro, la ragazza uccisa e smembrata a Macerata. «Era stata irretita da alcuni nigeriani, membri della potente mafia tribale nigeriana». Una mafia che «spaccia droga, prostituzione e altro», e che «opera alla luce del sole e indisturbata nelle nostre città». Il che, sostiene l’avvocato, «implica che essa dispone di complicità opportunamente comperate negli apparati dello Stato italiano, il medesimo che va a imbarcare i migranti sotto le coste libiche». E il fatto che la criminalità migrante, specie africana, venga sostanzialmente tollerata, sempre secondo Della Luna, lascia supporre che le sue attività in Italia (droga, prostituzione, traffico di organi) «siano materia oggetto di accordi a livello politico nazionale», addirittura, «appoggiati dai capi dell’immigrazionismo organizzato, sia imprenditoriali, che politici, che religiosi».Il cadavere di Pamela, si apprende, è stato «dissezionato con grande perizia tecnica». Ma gli organi, «rilevanti per i sacrifici umani e per il pasto cannibalico rituale», non sono stati ritrovati. Forse perché la gente non si inquieti troppo? «Questi riti fanno parte del background culturale di quelle tribù nigeriane, in cui magia nera e affiliazione mafiosa e potere politico sono tutt’uno», continua Della Luna. Intanto, a Macerata si tengono manifestazioni in favore del meticciato, e l’Onu «rende noto il suo piano per la sostituzione del poco prolifico popolo italiano con il massiccio impianto di africani». Gli italiani però non sarebbero più così favorevoli all’idea del “melting”: «Sono divenuti in maggioranza afroscettici, oltreché euroscettici». Uno scenario da apocalisse? Della Luna l’aveva prefigurato nel saggio “Le chiavi del potere”, pubblicato nel 2003. Scriveva: per impedirgli di sentirsi libero di controllare il potere politico e il denaro pubblico, si costringe il cittadino a vivere nell’insicurezza, «attivamente importando criminalità soprattutto da paesi extracomunitari, e non reprimendola, anzi incoraggiandola quando criminali o facinorosi si impossessano di interi quartieri o spadroneggiano in ampie zone geografiche, sotto gli occhi di tutti, espropriandoci del nostro territorio, mentre le istituzioni non intervengono nemmeno su denuncia dei cittadini».«Si vuole che questi ultimi capiscano chiaramente che non sono cittadini, ma qualcosa di meno», sottolinea Della Luna. La legge scritta esiste, ma gli italiani «non possono pretendere che chi ha il potere la faccia osservare». E’ come se si dicesse: “Noi vi riduciamo a un livello di dignità e diritti inferiori a quelli degli immigrati clandestini”. «Il principale problema politico nella globalizzazione, da parte del potere, è produrre e governare le masse di consumisti-lavoratori imbecilli richieste dall’economia e dal bisogno di consenso», si legge ne “Le chiavi del potere”. «Il genere umano è ridotto a mera componente del ciclo produttivo del profitto. I popoli che non si prestano più al buon funzionamento del ciclo, anche per scarsa prolificità e troppa criticità – ossia noi – vengono rimpiazzati con invasioni di immigranti e neutralizzati con l’assistenzialismo, la droga e il rimbecillimento televisivo, in modo che non si accorgano e non si oppongano». Buonismo, cioè eutanasia di massa? «Guardate le nuove generazioni: in larga parte menomate da un’educazione narcisizzante, che non insegna il governo dei propri impulsi quindi non forma all’indipendenza e all’applicazione; instupidite dalla televisione, dalla discoteca, da un uso dilagante di droghe; esistenzialmente fragilissime; istruite da una scuola penosamente inadeguata; giovani pieni di esigenze, schizzinosi, delicati, incapaci di sostenere privazioni e frustrazioni».I giovani italiani «devono competere con immigrati che in larga parte sono spinti da fortissima motivazione ad affermarsi, sono disposti a sacrifici e disagi, capaci di rinunce e disciplina, ma anche di violenza – la quale fa spesso parte della loro storia di vita e di adattamento sin dalla nascita. Sono capaci di fare e sopportare cose che i nostri neanche si sognano, e fanno figli a non finire». Se si lascia che questa competizione dilaghi, scriveva Della Luna 15 anni fa, «possiamo considerarci già sopraffatti, sconfitti e scacciati». Il problema? «Non è la nostra superiorità, bensì la nostra inferiorità». Rammolliti dalla società dei consumi: «Le esigenze del capitale e la ricerca del consenso hanno richiesto la coltivazione di personalità deboli e dipendenti dal consumismo, poco disposti alla rinuncia e al sacrificio. Hanno plasmato così i popoli dell’Occidente. Ma ora, popoli così plasmati non rendono più, non vanno più bene. Hanno troppe pretese ecologiche, sindacali, assistenziali; non si riproducono; contestano; non comperano più come prima. Vanno rimpiazzati: dentro gli altri!». Mettere in dubbio il dovere di accoglienza? «E’ immorale e fascista». Secondo Della Luna, «l’etologia, confermando la storia, ci avverte che l’uomo, una volta sciolto il suo legame col territorio, perde l’attitudine a difendersi e diventa remissivo, facilmente dominabile».Noi, “bianchi”, ci stiamo estinguendo. E ce lo meritiamo. Parola dell’avvocato Marco Della Luna, impietoso critico del sistema neoliberista, bancario e finanziario. Stiamo sparendo, lo dicono i numeri: «La razza bianca si sta estinguendo per denatalità, anche nella sua principale riserva, la Russia». Sembra che abbia maturato «un certo disincanto verso la vita e fosche aspettative circa il futuro». E all’interno dell’estinzione della razza bianca «sta avvenendo una seconda estinzione, forse più grave: l’estinzione della civiltà occidentale, creazione peculiare di una parte della razza bianca (diciamo essenzialmente dell’area greca, italica, franco-germanica e britannica)». Per Della Luna, la nostra «è l’unica civiltà che abbia concepito e in parte realizzato un pensiero scientifico, una filosofia razionale, le idee di democrazia, di Stato di diritto, di eguaglianza, di diritti individuali dell’uomo». Questa civiltà «sta estinguendosi per un generale imbarbarimento edonista e consumista» nonché «per il declino dei suoi capisaldi, per l’effetto della globalizzazione e della finanziarizzazione della società», senza contare «la pesante immigrazione di massa da aree culturali immensamente distanti e con caratteri generalmente opposti». Nella prospettiva dell’estinzione della nostra civiltà, «la minaccia della catastrofe ecologica ci angoscerà meno, appunto perché non colpirà gente simile a noi».
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Expo e MasterChef, l’Italia che insegna a servire i padroni
Aveva visto giusto Corrado Ravazzini, nel suo cortometraggio “Perfetto”, a identificare nel ristorante il luogo dove meglio emerge, e meglio viene esibito, lo status sociale nel capitalismo post-moderno. Si andava al ristorante banalmente per mangiare, ma ora tra cuochi che non sono più cuochi bensì chef, tra piatti che non sono più piatti ma opere di arte moderna impossibilitate a riempire lo stomaco perchè miserrime nel contenuto e nelle dimensioni, diventa chiaro che tra il fine (mangiare, possibilmente bene) e il mezzo (il ristorante, guai a chiamarlo trattoria perchè troppo evocatoria di bifolchi camionisti con la camicia a quadretti) si sono inseriti una serie di sgradevoli ostentazioni di “skill sociali” che contribuiscono a farmi guardare all’ambiente degli chef e dei ristoranti blasonati con una sorta di imponderabile disgusto. L’avevamo già visto con il mercato del vino, dove per “ribrandizzare” un buon Barbera erano arrivate orde di buffoni chiamati sommelier a sentire retrogusti improbabili di tabacco e di cumino a questo e quell’altro vino; era necessario trasformare la bevanda popolare per eccellenza, il vino, in uno skill sociale da esibire per dimostrare il proprio status.Tale disgusto si amplifica a dismisura quando accendo la televisione e osservo per alcuni minuti (limite massimo di tolleranza) una puntata di “Masterchef”. Questa spiacevole sensazione (appunto, di disgusto) non è tuttavia del tutto infruttuosa, perchè ha un effetto pedagogico e mostra chiaramente che l’equazione “ristorante = ostentazione della differenza di classe sociale” non è solo frutto della mia immaginazione ma una realtà oggettiva e conclamata. Del resto non si tratta solo di un paradigma sociale che ci ricorda – per chi l’avesse dimenticato – che viviamo ancora in una società divisa in classi, ma anche del paradigma del capolinea di una nazione, la nostra, che ormai si è ridotta come un paese del terzo mondo a vendere solo cibo e turismo. Se penso all’expo del 2015 dedicato al cibo (si ricordi che per esempio la Tour Eiffel fu costruita appunto nell’expo del 1889, e si raffronti con la miserrima sagra del tartufo nostrana a cui l’abbiamo ridotta nel 2015) mi rendo conto che per un giovane in questo paese non c’è più speranza.L’unica prospettiva che gli offre questo paese è scegliere tra una carriera come cameriere o come cuoco, magari con la segreta speranza un giorno di diventare chef e rifarsi delle umiliazioni subite dal cliente che per definizione “ha sempre ragione”, e di quelle subite dal padrone che, per definizione, ha ancora più ragione del cliente. Diventa così magicamente spiegabile, per noi outsider del mondo della cucina, tutto l’assurdo interesse sado-masochista, che in questa infelice nazione milioni di persone riversano in questa sarabanda di maleducazione e arroganza chiamata “Masterchef”. Frotte di cuochi e camerieri vedono in “Masterchef” una sorta di rievocazione della loro triste, alienante e frustrante vita quotidiana. Ma c’è di più, “Masterchef” è il momento pedagogico in cui bisogna insegnare a milioni di giovani italiani come ci si comporta nei confronti dei superiori, come subire i peggiori insulti senza fiatare; del resto è questo che offre il mercato del lavoro al giovane italiano.Se l’industria è morta, finisce la possibilità anche solo teorica di fare una carriera “tecnica” in cui il lavoro sia scisso dal suo aspetto servile di “sudditanza al cliente” (e al padrone). Ma l’industria è morta e all’Expo si parlerà di cibo, cibo solo cibo e nient’altro che cibo… Riflesso di ciò che l’Italia è diventata: un paese con una minoranza di ricchi e una maggioranza di poveri che possono lavorare solo e soltanto in una serie di lavori servili che gratifichino i padroni, perchè è questa la traduzione vera della parola arcana “terziarizzazione” dietro la quale si cercano di nascondere le tremende condizioni della società capitalistica postindustriale. Credevamo che la fabbrica fosse l’apice dello sfruttamento, e invece è arrivata l’era del ristorante, degli chef e dei “Masterchef”. Cari giovani, buona fortuna, ne avremo bisogno.(Enrico Fiorini, “Masterchef ed Expo, l’Italia dei servi e dei padroni”, da “L’Interferenza” del 23 marzo 2015).Aveva visto giusto Corrado Ravazzini, nel suo cortometraggio “Perfetto”, a identificare nel ristorante il luogo dove meglio emerge, e meglio viene esibito, lo status sociale nel capitalismo post-moderno. Si andava al ristorante banalmente per mangiare, ma ora tra cuochi che non sono più cuochi bensì chef, tra piatti che non sono più piatti ma opere di arte moderna impossibilitate a riempire lo stomaco perchè miserrime nel contenuto e nelle dimensioni, diventa chiaro che tra il fine (mangiare, possibilmente bene) e il mezzo (il ristorante, guai a chiamarlo trattoria perchè troppo evocatoria di bifolchi camionisti con la camicia a quadretti) si sono inseriti una serie di sgradevoli ostentazioni di “skill sociali” che contribuiscono a farmi guardare all’ambiente degli chef e dei ristoranti blasonati con una sorta di imponderabile disgusto. L’avevamo già visto con il mercato del vino, dove per “ribrandizzare” un buon Barbera erano arrivate orde di buffoni chiamati sommelier a sentire retrogusti improbabili di tabacco e di cumino a questo e quell’altro vino; era necessario trasformare la bevanda popolare per eccellenza, il vino, in uno skill sociale da esibire per dimostrare il proprio status.