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Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?
Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.C’è qualcosa di meta-politico, di profondamente eversivo, nella sola idea di aver pensato a un cavaliere solitario e coltissimo come Foa, giornalista di razza e gentiluomo, per la presidenza della televisione di Stato, vera e propria fabbrica del consenso, per decenni affidata il più delle volte a mani servili e mediocri. È antropologicamente eversiva, la figura del liberale Foa al vertice della Rai: è il bambino che non può fare a meno di svelare l’imbarazzante nudità del sovrano, del monarca che si gloria nel celebrare una pace apparente, mentre intorno infuria la peggiore delle guerre. La guerriglia di oggi, nella quale Marcello Foa si trova coinvolto – dopo aver dato la sua avventurosa disponibilità a quell’ipotesi democratica chiamata “governo gialloverde” – non è un conflitto come quelli che l’hanno preceduto: è un sordido massacro quotidiano perpetrato ovunque, senza frontiere, senza più neppure le bandiere di un tempo. È una guerra orwelliana, affidata a mercenari. Navi corsare, che combattono (per lo più in incognito) per conto di padroni potentissimi, protetti dall’anonimato. Non c’è più neppure il triste onore della battaglia: si viene sopraffatti in modo subdolo, sistematicamente sommersi da menzogne spacciate per verità di fede, che il sistema mediatico non si cura più di verificare. Ed è proprio per questo che l’attuale sistema mediatico italiano detesta, e teme, Marcello Foa.Ascoltando solo e sempre un’unica campana, il sistema mainstream ci ha raccontato in questi anni che le poderose, ciclopiche Torri Gemelle di Manhattan sono crollate su se stesse, come se fossero state di cartone anziché di acciaio, solo perché colpite – con una manovra proibitiva persino per i migliori “top gun” – da normalissimi e leggerissimi jet di linea fatti di alluminio, dirottati da apprendisti piloti arabi, di cui tuttora non si sa nulla: non un’immagine, al fatale imbarco, di nessuno dei 19 presunti dirottatori (salvo poi rintracciare i loro passaporti, nientemeno, nell’inferno fumante di Ground Zero). Finge di credere sempre e soltanto alla versione ufficiale, il mainstream media, anche quando dimentica di ricordare che furono gli Usa a incoraggiare Saddam Hussein a invadere il Kuwait, dopo averlo spinto a combattere contro l’Iran. Dà retta unicamente al super-governo universale, il club dei telegiornali, anche quando assicura che Saddam disponeva di micidiali armi di distruzione di massa. E tace, invece, quando l’Onu dimostra che quelle armi erano pura fantasia, come i gas siriani di Assad, le fosse comuni di Gheddafi, le violenze della polizia di Yanukovich in Ucraina. E poi applaude a reti unificate, la consorteria mediatica, quando in Italia appaiono i cosiddetti salvatori della patria – i Monti, i Cottarelli – armati del bisturi che useranno per amputare carne viva, risparmi e pensioni, economia italiana di aziende e famiglie, oscurando il futuro dei giovani.All’epoca in cui Marcello Foa lavorava al “Giornale” di Indro Montanelli, il mondo probabilmente appariva infinitamente più semplice – più chiaro, più visibile nei suoi errori e orrori: la guerra fredda, il Medio Oriente e gli sconquassi africani della decolonizzazione, la strategia della tensione organizzata per gambizzare l’Italia e impedirle di prendere il volo come autonoma potenza euromediterranea fondata sulla forza formidabile dell’economia mista, pubblico-privata. In quella redazione milanese, dove Foa è cresciuto professionalmente, su una parete c’era appesa una carta geografica di Israele che indicava come capitale Gerusalemme, già allora, anziché Tel Aviv. Se Enrico Berlinguer impiegò anni per ammettere che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che tra i carri armati del Patto di Varsavia, Marcello Foa e il suo maestro Montanelli non avevano mai avuto dubbi sul fatto che niente di buono potesse venire, per l’Occidente, da un’oligarchia sedicente comunista che aveva soppresso sul nascere i primi vagiti democratici della Russia, cambiando semplicemente look all’antico dispotismo zarista. L’eroico sacrificio dell’Unione Sovietica, decisivo nell’abbattere il nazifascismo, non poteva cancellare né i Gulag di Stalin né l’esilio di Aleksandr Solženicyn. Era fatto di certezze, il mondo di Foa e Montanelli: la libertà (inclusa quella d’impresa) come fondamento irrinunciabile di qualsiasi comunità civile degna di chiamarsi democratica.Ed è questo che rende Foa insopportabile al potere economico di oggi, dove la libertà d’impresa cede il passo al dominio di immensi oligopoli finanziari globalizzati, privilegiati da legislazioni truccate come quelle dell’Unione Europea ordoliberista. È tanto più sgradevole e insidioso, Foa, perché non proviene – come invece molti anchorman televisivi – dalla contestazione giovanile del capitalismo: credeva, Foa, negli stessi valori professati dall’élite economica di un tempo, orientata pur sempre alla promozione della mobilità sociale, in sostanziale accordo con le forze sindacali dell’allora sinistra. Una dialettica anche aspra, ma vocata in ogni caso al miglioramento complessivo del sistema-paese. E mediata – sempre – dalla politica, letteralmente scomparsa dai radar italiani per 25 lunghissimi anni. Solo oggi, alla distanza, ci si mette le mani tra i capelli nel rivedere il film dell’euforia generale con la quale i cittadini avevano accolto il Trattato di Maastricht e, dieci anni dopo, l’ingresso nell’Eurozona disegnata dalle banche e governata dalla Bce con modalità feudali, imperiali, senza la supervisione di alcun controllo democratico. Succedeva negli anni cui, con la caduta del Muro di Berlino benedetta da Gorbaciov, l’umanità si era illusa che il fantasma della guerra sarebbe stato semplicemente cancellato dalla storia del pianeta.Magari fosse un comune complottista, Marcello Foa: sarebbe più comodo liquidarlo, come velleitario chiacchierone. Chi oggi gli promette guerra, invece, sa benissimo che l’ex caporedattore del “Giornale”, nonché docente universitario, nonché feroce critico del sub-giornalismo odierno, è un vero e proprio disertore. Non era un eretico: lo è diventato negli ultimi anni, disgustato dallo spettacolo al quale è stato costretto ad assistere. Per questo, al di là del reale potere che gli conferisce la carica di presidente Rai, Marcello Foa rappresenta un vero pericolo, per i malintenzionati che oggi gli danno del traditore. Nell’Italia corporativa delle caste, ha osato “sparare” contro la sua – quella dei giornalisti – definendoli “stregoni della notizia”, bugiardi e omertosi spacciatori di “fake news” di regime. E non c’è niente di peggio, per i servi, che l’ex schiavo che si libera delle catene: la sua rivolta personale, intellettuale, suona umiliante per chi si ostina a raccontare che la Terra è piatta, e che è il Sole a orbitarle attorno.Chi l’avrebbe detto? Oggi l’Italia riesce incredibilmente a piazzare una persona autorevole, onesta e competente, alla guida della televisione pubblica. Marcello Foa non è infallibile: ma quando ha sbagliato – anche di recente, prendendo per buona la notizia di presunte istruzioni che il governo tedesco avrebbe impartito alla polizia, per enfatizzare il terrorismo “casereccio” targato Isis – non ha esitato ad ammetterlo, tempestivamente. Quanti, al suo posto, avrebbero avuto lo stesso coraggio? E ora, questo volto pulito del nostro giornalismo è alle prese con una sfida estremamente impegnativa. È davvero impossibile fare molta strada, in politica, se non si è almeno in parte ricattabili, e quindi controllabili, in quanto complici dell’apparato da cui si è stati promossi? Così almeno ebbe a dire un protagonista della vita pubblica italiana come Giuliano Ferrara. Qualcuno – sincero o meno – obietterà che questa regola non vale necessariamente per tutti. Ma è sicuro che, una volta entrati in cabina di regia, le proprie virtù possono trasformarsi in problemi: in un ambiente non esattamente cristallino, le qualità naturali dell’eretico diventano un’enorme seccatura, se non un ostacolo da rimuovere prima che possa mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema stesso.Questa è la sfida di Marcello Foa, nella quale è in gioco l’Italia intera: restare fedeli alla propria coscienza significa contribuire a riaccendere la luce sulle notizie. Senza un’informazione trasparente, lo sappiamo, non c’è neppure vera democrazia. Lo sostiene con vigore, Marcello Foa, che resta innanzitutto un uomo leale e garbato – anche quando si permette di dissentire in modo netto sull’operato del presidente della Repubblica: chi oggi lo accusa di aver addirittura insolentito Sergio Mattarella, dopo la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’economia, più che il prestigio del capo dello Stato sembra aver a cuore la disciplina sociale dell’ossequio, da imporre al popolo nei confronti di chiunque rivesta funzioni di potere. Non è questa la democrazia per la quale il giovane liberale Foa tifava, quando polemizzava con quel comunismo da cui provengono moltissimi dei suoi attuali, smemorati detrattori. Non sappiamo come si svilupperà, la sua avventura negli uffici della Rai. Ma sappiamo che – contro ogni previsione – è tornata sotto i riflettori, in Italia, un’antropologia che si credeva estinta. Quella delle persone per bene, a cui il governo in carica affida addirittura la guida della televisione.(Giorgio Cattaneo, “Marcello Foa alla guida della Rai: che succede quando un eretico sale al potere?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 201).Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.
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Macron può sforare il deficit, noi no. E nessuno dice niente
A fine agosto il ministro delle finanze francese, Bruno Le Maire, ci avvisava che, dato che la crescita del Pil sarebbe stata inferiore alle previsioni iniziali, il deficit francese nel 2018 sarebbe stato il 2,5% e non il 2,3% del prodotto interno lordo, come inizialmente previsto. A quei numeri si doveva aggiungere un altro 0,1% per il consolidamento del debito delle ferrovie francesi. Nemmeno un mese dopo, anche il deficit previsto per il 2019 è stato “ritoccato”: dal 2,4% sale al 2,8% per permettere un piano di stimolo fiscale. «Apriamo le scommesse sulle possibili ulteriori revisioni che questo numero, il deficit per il 2019, avrà nei prossimi mesi», scrive Paolo Annoni sul “Sussidiario”: «Come nota di colore aggiungiamo che il ministro delle finanze francese è lo stesso che in data 8 settembre dichiarava con tono minaccioso: “Penso che tutti i leader politici italiani siano consci dei loro impegni”. C’è da sbellicarsi». Qualcuno, aggiunge Annoni, si è già precipitato a dire che la Francia può (e noi no) perché il nostro debito è più alto. «Siamo al ridicolo, e chi lo dice è in malafede totale». Il debito italiano ha fatto peggio di quello francese, negli ultimi anni «solo perché l’Italia ha fatto l’austerity nel 2012». Grazie a Monti e Letta, con la cortese collaborazione di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni.
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Savona all’Ue: più deficit salva-Stati e una Bce anti-spread
O l’Eurozona diventa una vera unione monetaria, con la Bce che garantisce sempre e comunque i debiti degli Stati membri, o la valuta comune rischia il collasso. Accusato di voler uscire dall’euro per l’aver sottolineato la necessità di una “exit strategy” qualora si materializzi lo scenario peggiore, il ministro agli affari europei ci tiene a chiarire una volta per tutte che la sua nomea di euroscettico è una distorsione e che, anzi, per lui «la moneta unica è indispensabile per il buon funzionamento di un mercato unico». Ma perché l’euro sopravviva, l’Europa deve cambiarne il funzionamento, traendo le opportune lezioni dal disastro greco. È questo il famoso “piano A” di Paolo Savona, che ha inviato a Bruxelles un documento dal titolo “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”. Politeia, termine che in greco antico indica la comunità di cittadini e il suo legame con lo Stato, non le pure e semplici istituzioni o le norme che esse applicano. Una parola scelta non a caso, per sottolineare la necessità di rinsaldare quel legame tra politica comunitaria e società che in questi anni si è lacerato fino a innescare un risorgere dei nazionalismi. Ma cosa significa in concreto?Savona, spiega “Milano Finanza”, chiede di «istituire un gruppo di lavoro ad alto livello, composto dai rappresentanti degli Stati membri, del Parlamento e della Commissione, che esamini la rispondenza dell’architettura istituzionale europea vigente e della politica economica con gli obiettivi di crescita nella stabilità e di piena occupazione esplicitamente previsti nei trattati», con lo scopo di «sottoporre al Consiglio Europeo, prima delle prossime elezioni, suggerimenti utili a perseguire il bene comune». Savona ha già le idee chiare sui mutamenti necessari. Bce prestatore di ultima istanza: «I divieti posti alla Bce di muoversi in aiuto degli Stati hanno creato condizioni favorevoli alla speculazione, che ha imperversato anche quando questi Stati si comportavano secondo gli impegni. Hanno fatto gravare sulle loro economie costi aggiuntivi in termini di interessi sul debito pubblico e sul credito. Se i poteri di intervento della Bce contro la speculazione fossero veramente pieni, gli spread tra rendimenti dei titoli sovrani si dovrebbero azzerare». Savona vuole in sostanza una banca centrale che, come ogni altra omologa a partire dalla Fed americana, abbia il potere illimitato di garantire il debito delle nazioni, evitando differenziali del costo del debito tra paesi che condividono la stessa valuta.Tetto del deficit non più fisso: «Le regole dei disavanzi pubblici non hanno previsto alcuna correzione strutturale delle bilance dei pagamenti correnti, privando il sistema europeo di una rilevante componente di domanda e aggravando la tendenza alla deflazione. Servono investimenti pubblici consistenti, a livello di Unione e di singoli Stati, rispettando una sola regola aurea: la percentuale di disavanzo del bilancio non deve essere superiore al saggio di crescita nominale del Pil che ne risulta». In sostanza, il tetto del massimo rapporto stabilito tra deficit e Pil non dovrà essere fissato al 3% ma oscillerà a seconda della crescita dell’economia. Ma se i paesi più virtuosi temessero così di dover pagare per chi sfora? «Esistono le soluzioni tecniche per garantire che ciò non avvenga. Si tratta di attivarle in pratica effettuando scelte politiche, come quella di concordare un piano di rimborsi a lunghissima scadenza e ai tassi ufficiali praticati, fornendo una garanzia alla Bce fino al rientro nel parametro del 60% rispetto al Pil, in contropartita di una ipoteca sul gettito fiscale futuro o di proprietà pubbliche in caso di mancato rimborso di una o più rate. Ovviamente tra le clausole di un siffatto accordo vi sarebbe anche quella che il disavanzo di bilancio pubblico si collochi in modo dinamico entro la regola indicata di coerenza rispetto al saggio di crescita nominale del Pil e quindi non comporti un nuovo superamento del rapporto debito pubblico/Pil».(“Savona ha presentato all’Europa il suo Piano-A”, dal sito dell’agenzia di stampa Agi; post editato il 13 settembre 2018).O l’Eurozona diventa una vera unione monetaria, con la Bce che garantisce sempre e comunque i debiti degli Stati membri, o la valuta comune rischia il collasso. Accusato di voler uscire dall’euro per l’aver sottolineato la necessità di una “exit strategy” qualora si materializzi lo scenario peggiore, il ministro agli affari europei ci tiene a chiarire una volta per tutte che la sua nomea di euroscettico è una distorsione e che, anzi, per lui «la moneta unica è indispensabile per il buon funzionamento di un mercato unico». Ma perché l’euro sopravviva, l’Europa deve cambiarne il funzionamento, traendo le opportune lezioni dal disastro greco. È questo il famoso “piano A” di Paolo Savona, che ha inviato a Bruxelles un documento dal titolo “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”. Politeia, termine che in greco antico indica la comunità di cittadini e il suo legame con lo Stato, non le pure e semplici istituzioni o le norme che esse applicano. Una parola scelta non a caso, per sottolineare la necessità di rinsaldare quel legame tra politica comunitaria e società che in questi anni si è lacerato fino a innescare un risorgere dei nazionalismi. Ma cosa significa in concreto?
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Non temete i sovranisti, in quest’Europa fondata sulla paura
Anche in Svezia l’onda sovranista cresce, ma non abbastanza da rovesciare gli assetti di governo. Si ripete lo schema Le Pen, col Front National primo nei consensi ma non in grado di essere maggioranza né in grado di trovare alleati. E a quel punto scatta la coalizione antisovranista, tutti contro uno, e nascono governi stentati su fragili alleanze (come in Germania o in Spagna), con presidenti indesiderati dai due terzi della popolazione (Francia) o coalizioni spurie come da noi. O nascono perfino due, tre partiti “nazionali” che si cannibalizzano a vicenda (caso inglese coi conservatori biforcati più l’Ukip). Il vero problema è che siamo nel mezzo del guado, e dunque la situazione rischia la paralisi tra il non ancora e il non più. Perché poi i governi europeisti tra moderati e progressisti uniscono due debolezze e due declini, trascinano i paesi in coalizioni politiche di mera sopravvivenza, dentro sistemi fatiscenti, subordinati ai potentati economici, lontani dal popolo, dentro un’Europa ridotta a unione monetaria nel nome degli apparati di comando. Ma torniamo alla rappresentazione e alla percezione che ne ha la gente, ne danno i media, ne dà il potere.L’Europa di oggi è fondata sulla paura. Paura dello straniero per taluni, paura dei nazionalisti per talatri. Xenofobia e nazionefobia sono le due categorie politiche dominanti, le twin towers dell’Europa. Ma con la paura non si compiono scelte assennate. Fino a ieri nominavi la Svezia, l’Olanda, i paesi scandinavi e i paesi bassi, e spuntavano le immagini del socialismo democratico, della società aperta, permissiva, globale e spregiudicata, della droga libera, dell’eutanasia, delle coppie omosessuali esibite e parificate alle famiglie. Adesso nomini quei paesi e senti dire xenofobia, razzismo, nazionalismo. Fino a oggi appena nomini l’estrema destra ti viene fuori la solita genealogia: l’Austria reazionaria, asburgica e patria di Hitler, la Germania del Terzo Reich, la Francia di Vichy. Più l’aggravante cattolico-tradizionalista. E ora come la mettiamo che pure la permissiva, la protestante, la mai fascista Svezia, si rivolge a quella destra, dopo la Norvegia, l’Olanda e altri paesi nordeuropei?E come la mettiamo con paesi che hanno subito il nazismo e soprattutto il comunismo e ora si votano al sovranismo, come l’Ungheria, la Polonia, i cechi e gli slovacchi, cioè i paesi di Visegrad? Lasciamo stare i demoni fuori dalla porta, e lasciamo stare le paure. Ragioniamo con realismo. Sgomberiamo subito il campo da un’ossessione. L’antisemitismo e il razzismo non c’entrano con questa ondata populista, sovranista e nazionalista. Se conati antiebraici affiorano in Europa sono legati alla presenza islamica o alla questione palestinese; il resto è marginale periferia, patetico folclore, fuori dalla politica. C’è un tasso preoccupante di xenofobia in Europa? Ma non bisogna ridurla a patologia. Anche perché è paura, non odio razziale; è preoccupazione, non disprezzo etnico. C’è paura, umanissima e giustificatissima paura per l’ignoto e per l’estraneo, per la difficile convivenza, per il disagio sociale, per la criminalità legata a tutti questi fattori di instabilità. Quando la paura colpisce in modo così massiccio popoli maturi e civili non si può gridare al demonio, bisogna porsi il problema e affrontarlo fuori dai codici ideologici.La xenofobia attraversa oggi ceti sociali diversi, a cominciare dai più deboli e dai più popolari, e colpisce a destra come a sinistra. Vedete i travasi di voti in tutta Europa, compreso da noi, dalla sinistra al populismo, per rendervene conto. Allora rispetto allo straniero si devono portare a rigore due posizioni divergenti ma entrambi giustificate e rispettabili: quella di chi dice accoglienza punto e basta, viva la società multiculturale; e quella di chi dice accoglienza limitata e condizionata, e tutela prioritaria della comunità locale e nazionale e dei suoi confini. Sono due posizioni nettamente opposte, entrambi comprensibili e legittime se condotte con realismo e senza fanatismo. Se si accolgono nell’agone politico della democrazia entrambe le posizioni si spuntano le armi agli estremismi, ai fondamentalismi, alle violenze. Perché i fanatici stanno da entrambi le parti, e bisogna costringere entrambe a fare i conti con la realtà. I sovranisti crescono perché non hanno cittadinanza nella democrazia; e usano linguaggi duri e netti perché non sono ammessi nel gioco democratico.Finora la loro risorsa è proprio l’essere fuori, outsider, estranei e dunque critici radicali del sistema, a cominciare dal gergo usato. Non resta che scommettere a immetterla nel gioco, a pieno titolo, senza dichiararla criminale e illegale appena cresce (caso italiano docet): è una scelta che comporta rischi e incognite, ma complessivamente minori della scelta opposta, di escluderla e lasciarla inselvatichire, creando abissi tra popoli e istituzioni. Sarebbe un rischio anche per loro, perché si giocherebbero il loro ruolo di antagonisti anti-sistema. Larga parte di questi movimenti sovranisti non sono contro l’Europa ma contro l’Eurocrazia, ovvero contro le oligarchie finanziarie, tecnocratiche o ideologiche che decidono i destini dell’Europa a prescindere dai popoli e dalla loro realtà concreta. Sono movimenti fondati sull’importanza decisiva del confine e sulla priorità delle popolazioni autoctone e degli Stati nazionali rispetto al mondo esterno.Uscendo dal demagogico populismo antisistema, queste forze sarebbero costrette a rendere ragionevole, realista e compatibile la loro posizione: e questo si può convertire in un rafforzamento della base democratica e popolare dell’Europa al suo interno e di una maggiore incisività strategica e politica all’esterno. Anzi, queste spinte, opportunamente metabolizzate, possono alimentare un patriottismo europeo, o un patriottismo dei cerchi concentrici, che va dalla piccola patria alla nazione fino alla patria europea. Questi movimenti invocano, seppure a volte con rozzezza e demagogia, il ritorno della politica e delle passioni comunitarie, il ritorno ai popoli e alle loro sovranità, la salvaguardia della civiltà e della continuità con la storia. Non mi sembra una cosa terribile, o negativa.Dicono che queste forze rappresentino una minaccia per la democrazia e per la libertà. Ma oggi la democrazia come sovranità popolare è minacciata più da chi vuole invalidare i verdetti elettorali piuttosto che da chi vuole rispettarli. Quanto alla libertà vorrei ricordare che molti di questi partiti sovranisti sono di estrazione liberale, si presentano come partiti democratici del progresso, dell’Occidente, della modernità contro le invasioni islamiche, l’africanizzazione dei popoli. Il leader della destra olandese, l’omosessuale Pim Fortuyn, aveva scritto un saggio, “L’influenza islamica sulla nostra cultura”, in cui sosteneva l’incompatibilità tra l’Islam e la civiltà liberale d’Occidente. Posizione alla Oriana Fallaci, per intenderci. Fortuyn non si appellava alla difesa della tradizione europea o peggio al razzismo, ma al fatto che l’islamismo mette in pericolo la modernità liberale e democratica, la tolleranza e i costumi europei.Si può concordare o no con questa tesi (a me per esempio non piace), ma si deve riconoscere che si tratta di una posizione ultramoderna, liberale, occidentalista e perfino progressista. Che trova oggi molti seguaci nel nord Europa. Tesi non dissimili affiorano in difesa di Israele, rispetto al mondo arabo che lo circonda. Insomma, smettiamola di ingabbiare la mente e sprigionare le paure; proviamo a fare il contrario. Il futuro riserva sorprese e non è detto che siano amare. E tra le sorprese, la meno probabile mi sembra il ritorno al nazismo, al razzismo, al fascismo, e archeologia varia. Esortate ogni giorno a non innalzare muri; provate anche voi a non erigere muri dentro casa, contro l’onda sovranista.(Marcello Veneziani, “Non abboate paura dei sovranisti”, dal “Tempo” dell’11 settembre 2018, articolo ripreso sul blog di Veneziani).Anche in Svezia l’onda sovranista cresce, ma non abbastanza da rovesciare gli assetti di governo. Si ripete lo schema Le Pen, col Front National primo nei consensi ma non in grado di essere maggioranza né in grado di trovare alleati. E a quel punto scatta la coalizione antisovranista, tutti contro uno, e nascono governi stentati su fragili alleanze (come in Germania o in Spagna), con presidenti indesiderati dai due terzi della popolazione (Francia) o coalizioni spurie come da noi. O nascono perfino due, tre partiti “nazionali” che si cannibalizzano a vicenda (caso inglese coi conservatori biforcati più l’Ukip). Il vero problema è che siamo nel mezzo del guado, e dunque la situazione rischia la paralisi tra il non ancora e il non più. Perché poi i governi europeisti tra moderati e progressisti uniscono due debolezze e due declini, trascinano i paesi in coalizioni politiche di mera sopravvivenza, dentro sistemi fatiscenti, subordinati ai potentati economici, lontani dal popolo, dentro un’Europa ridotta a unione monetaria nel nome degli apparati di comando. Ma torniamo alla rappresentazione e alla percezione che ne ha la gente, ne danno i media, ne dà il potere.
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Avviso a Di Maio: entriamo nel futuro insieme alla Cina
Il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio mi perdonerà se gli racconto già alcuni pezzi della trama del grande film cinese che vedrà nella sua visita ufficiale a Chengdu, nel cuore del Sichuan, il prossimo 20 settembre. Di Maio resterà fortemente colpito, come chiunque visiti per la prima volta questa smisurata megalopoli. E proverà stupore per la dimensione titanica dell’immenso spazio urbano ridisegnato con un’impressionante accelerazione della storia, così come per la fitta rete di grandi autostrade su più livelli, percorse da grosse auto di marche tedesche, giapponesi e cinesi, in corsa fra migliaia di altissimi edifici, grattacieli e insediamenti, che si slanciano verso il cielo grigio e umido in un’area piatta e urbanizzata grande quanto l’intera Campania. Se il boom italiano degli anni Sessanta conserva ancora oggi l’inerzia di quello slancio che lasciava stupefatto un paese agricolo che in poco tempo diventava industriale, qui siamo di fronte a un salto cento volte più travolgente ed energico, in grado di colmare i secoli in un decennio, in una città passata in poco tempo da 5 a 17 milioni di abitanti. La prima linea della metropolitana di Chengdu è stata inaugurata nel 2010, oggi siamo già all’inaugurazione della quinta linea, e nel 2030 la rete della metro servirà con decine di linee una città di oltre 25 milioni di abitanti.Chengdu sarà lo snodo centrale della Belt and Road Initiative (Bri), la nuova Via della Seta che integrerà lo spazio eurasiatico e coinvolgerà la maggior parte della popolazione mondiale. Su invito delle autorità cinesi ho partecipato con una delegazione di politici, imprenditori, diplomatici e ricercatori di tutta Europa a un intensissimo programma di dieci giorni tra Pechino e Chengdu. Un vortice di incontri e visite presso istituzioni, imprese innovative, scuole di partito, agenzie internazionali, mirante a stabilire relazioni solide fra la Cina e le personalità che in Europa vogliono comprendere e partecipare al grande impulso della Bri. Gli interlocutori che ho trovato in Cina stanno passando al setaccio ogni novità di ciascun paese europeo e perciò manifestano molta attenzione nei confronti del Movimento Cinque Stelle e del governo da esso guidato. Questo interesse mi ha aperto molte porte presso gente concreta e desiderosa di capire. A Pechino ho visitato la fabbrica della Beijing Electric Vehicle (Bjev), i concorrenti della più famosa e americana Tesla nella produzione di veicoli elettrici. Ne hanno già prodotto 250mila e puntano a essere leader mondiali del nuovo mercato. Un dirigente Bjev si lascia scappare una battuta: «La Tesla è un costoso giocattolino per ricchi, noi siamo i fornitori di auto elettriche per le masse a prezzi popolari».Con il corrispettivo di 16mila euro, un cittadino della classe media cinese può portarsi a casa una berlina con un’autonomia di quasi 500 km a ogni carica, mentre crescono le infrastrutture che diffondono in mezza Cina i punti di rifornimento dedicati ai veicoli elettrici. Ed è ormai pronto a entrare in produzione un nuovo sistema che è l’uovo di Colombo rispetto ai tempi lunghi delle ricariche, ossia il cambio di batteria presso i punti di rifornimento: anziché aspettare ore per ricaricare, togli la batteria (ormai più piccola, compatta ed estraibile) quando è scarica e la sostituisci ogni volta con una già ricaricata. Solo il tempo ci dirà se davvero milioni di persone passeranno all’auto elettrica, e se questo sia il modello giusto di mobilità. Intanto gli investimenti accelerano e il settore automobilistico cinese nel suo insieme è trainante. In Italia in molti santificano i dirigenti Fiat, ma la storia ci ha già detto che non si sono mai accorti del risveglio dello sterminato mercato cinese. Dovremo tutti essere migliori dei dirigenti Fiat, per i tanti campi dell’economia che non sono irrimediabilmente perduti. L’attimo è ora.Racconterò a parte delle altre imprese ad alta tecnologia che ho visitato a Pechino e nel Sichuan, dei parchi scientifici, delle migliaia di ingegneri che hanno regalato alla optoelettronica cinese la leadership per gli schermi ad altissima definizione, e così via. Mi concentro ora su un dato più politico di questa missione. Ho fatto da portavoce dell’intera delegazione nella serata finale del programma, dove ho pronunciato un discorso durante l’incontro ufficiale con il vicepresidente e responsabile delle Finanze del Sichuan, Ouyang Zehua, e altri dirigenti di questa regione di 91 milioni di abitanti, vasta quanto la Francia. Ouyang è un signore molto dinamico dallo sguardo ironico e curioso che sprizza ottimismo e pragmatismo da tutti i pori, mentre snocciola i risultati economici, e ne ha ben donde: il tasso di crescita del Pil del Sichuan nel 2018 è dell’8,2% in un anno, in aggiunta a una lunga serie storica di dati formidabili. L’orgoglio del dirigente cinese si combina con una cosa molto italiana: la passione per il cibo, la sua varietà, il suo legame con la cultura e il territorio. Il Sichuan è probabilmente l’area del pianeta che condivide di più con l’Italia una precisa caratteristica, ossia la ricchezza dell’assortimento di tradizioni culinarie, con infinite varianti subregionali spesso raffinatissime. Ora che il Sichuan ha ben motivate ambizioni da “ombelico del mondo”, combina questa sua millenaria tradizione gastronomica con un’apertura schietta e curiosa verso altre tradizioni.Il vino è ormai sempre più presente a tavola, e anche i formaggi e altri prodotti agroalimentari europei. Perciò prendete nota e siateci! Non siate come gli Agnelli e i loro manager sempre sopravvalutati! Un ottimo punto di partenza è la Western China International Fair di Chengdu che apre il 20 settembre 2018. Di Maio rappresenterà un’Italia in veste di paese ospite d’onore. I pianificatori della nuova megalopoli, che abbiamo incontrato presso un parco scientifico dove tutto viene programmato come se il videogame Simcity prendesse davvero corpo, ci mostrano con grande orgoglio il gigantesco plastico della Chengdu del 2034. Non ragionano come i palazzinari a corto raggio nostrani, anche se non credo siano meno spregiudicati. Mentre oggi lo sviluppo asimmetrico di Chengdu sembra concentrarsi in mille mostruose lingue di cemento che turbano minacciosamente qualsiasi senso della misura urbanistica da noi conosciuta, per il futuro – un futuro immediato – la cura per la dismisura è un’ulteriore dismisura. Cioè un colossale rimodellamento e ri-bilanciamento dei poli di sviluppo, un investimento-monstre su “scala cinese” in tecnologie verdi, energie rinnovabili, opere idrauliche di rinaturalizzazione del paesaggio.Nel gioco Simcity puoi cambiare il paesaggio con la tempistica degli umani, ma puoi divertirti a usare il “God Mode”, la “modalità di Dio”, e mettere fiumi e laghi dove non c’erano e farlo in tempi rapidissimi. Ed ecco che nella Chengdu reale le aree dedicate a parchi avranno ciascuna dimensioni paragonabili a una grande città italiana, con specchi d’acqua estesi e insenature suggestive. Il nuovo cuore di Chengdu sarà una città nella città, tutta da sviluppare, il nuovo distretto di Tianfu. Si tratta di una città-parco dove si concentreranno le attività commerciali e scientifiche legate alle nuove rotte eurasiatiche. Sarà tutto costruito entro sette anni, avrà una superficie di circa 600 kmq (superiore a quella di Roma entro il Grande Raccordo Anulare), i grattacieli più alti della Cina occidentale e dieci linee di metropolitana distinte dalle altre decine di linee del resto della città di Chengdu, un’enorme stazione ferroviaria che collegherà Chengdu a mezzo mondo, incluse le nuove linee superveloci. Ricordiamo che molte città cinesi si collegheranno entro pochi anni con treni a levitazione che viaggeranno a velocità vicine ai mille km/h.Chengdu ha già un aeroporto da 45 milioni di passeggeri l’anno. Nel 2020 inaugureranno un secondo aeroporto internazionale da sei piste con altri 90 milioni di passeggeri l’anno. Il Sichuan diventerà la meta di un turismo d’affari che non si limiterà a vedere il parco dei panda (a proposito, sono bellissimi!). Sarà anche la base di partenza di una ormai vasta classe media pronta a girare quell’Europa che saprà accoglierla. Non dimentichiamo che a un’ora e mezzo da Chengdu c’è un’altra megalopoli ultramoderna, Chongqing, con i suoi 30 milioni di abitanti, anche loro parte di una “affluent society” pronta a viaggiare e già in pieno respiro internazionale. Quanti giornalisti e politici italiani si curano di raccontare queste città, dal peso demografico e industriale così cospicuo? Davvero pochi. È davvero così difficile raccontare un mondo così importante per il futuro nostro e dei nostri figli e smarrirlo invece come una traccia muta e indecifrabile? Non è un tantino squilibrata un’informazione che della Cina sa restituire ai cittadini solo il luogo comune dell’involtino primavera (mai visto in tutto il viaggio) o dei negozi di chincaglierie a poco prezzo?È come se di un grande palazzo sontuoso, fresco di lavori e ricco di tesori, si volesse vedere solo lo sgabuzzino delle scope. Troppi giornali italiani sanno vedere solo i bugigattoli della storia, e infatti puzzano di muffa. Sino a poco tempo fa, persino agli occhi di chi in Europa prendeva le decisioni che contano, Chengdu e altre grandi realtà cinesi erano solo dei luoghi remoti, un puntino ignoto sulla cartina dell’Asia. Ma oggi Chengdu e il Sichuan influenzeranno in modo diretto il lavoro di chi in Europa fa le leggi, programma le decisioni economiche e fa impresa, qualsiasi settore voglia considerare. Solo una parte è pronta a questa nuova realtà, mentre dobbiamo esserlo tutti. Ad esempio, vogliamo regalare alla Polonia il ruolo di principale terminale europeo della Bri, accontentandoci delle diramazioni secondarie? Oppure dobbiamo guardare all’Africa, dove la Cina ha innescato un altro gigantesco processo economico? Cioè guardare alla nostra geografia, alla nostra profondità strategica, a dove si collocano la penisola iberica, la Sardegna, la penisola italiana, la Sicilia.Ho chiesto dunque ai dirigenti cinesi se i terminali delle Vie della Seta fossero una pianificazione ormai conclusa, o se fossero aperti ad altre iniziative. «Naturalmente siamo aperti – mi risponde Ouyang – e penso anche che tra gli investimenti in Africa e quelli in Europa ci debba essere una cerniera». Il che corrisponderebbe a chiudere il cerchio. Colgo l’occasione per parlargli – come avevo già fatto con altri dirigenti cinesi – del grande valore pratico e simbolico che avrebbe una rapida ricostruzione congiunta del ponte di Genova con i campioni cinesi delle infrastrutture, una goccia rispetto al mare di cose che si possono fare, ma una goccia importante. Ouyang coglie la portata della proposta, e mi rivela che la prossima settimana ci sarà proprio a Chengdu un concerto dell’orchestra di Genova in memoria delle vittime, nel bellissimo auditorium da poco inaugurato. La cosa mi sorprende e mi fa piacere, forse avevo visto giusto. Facciamo in modo che le buone idee si diffondano, come le emozioni della musica.(Pino Cabras, “Spoiler cinese per Di Maio”, da “Megachip” del 19 settembre 2018. Condirettore di “Megachip”, alle ultime elezioni politiche Cabras è stato eletto deputato 5 Stelle al collegio uninominale Sardegna 3 – Carbonia).Il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio mi perdonerà se gli racconto già alcuni pezzi della trama del grande film cinese che vedrà nella sua visita ufficiale a Chengdu, nel cuore del Sichuan, il prossimo 20 settembre. Di Maio resterà fortemente colpito, come chiunque visiti per la prima volta questa smisurata megalopoli. E proverà stupore per la dimensione titanica dell’immenso spazio urbano ridisegnato con un’impressionante accelerazione della storia, così come per la fitta rete di grandi autostrade su più livelli, percorse da grosse auto di marche tedesche, giapponesi e cinesi, in corsa fra migliaia di altissimi edifici, grattacieli e insediamenti, che si slanciano verso il cielo grigio e umido in un’area piatta e urbanizzata grande quanto l’intera Campania. Se il boom italiano degli anni Sessanta conserva ancora oggi l’inerzia di quello slancio che lasciava stupefatto un paese agricolo che in poco tempo diventava industriale, qui siamo di fronte a un salto cento volte più travolgente ed energico, in grado di colmare i secoli in un decennio, in una città passata in poco tempo da 5 a 17 milioni di abitanti. La prima linea della metropolitana di Chengdu è stata inaugurata nel 2010, oggi siamo già all’inaugurazione della quinta linea, e nel 2030 la rete della metro servirà con decine di linee una città di oltre 25 milioni di abitanti.
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Pansa: ho paura per l’Italia, golpe in arrivo o guerra civile
Sarà un golpe a far cadere l’esecutivo Conte, incapace di gestire un’Italia ormai nel caos. Giampaolo Pansa, ovvero: l’apocalisse: il gioverno gialloverde «è pericoloso perché fa solo danni al paese, fa solo annunci e non combina niente: prima o poi verrà abbattuto». Fine della democrazia: «Non si andrà a votare: nessuno andrà a votare, perché le forze armate (che sono le sole ad avere le armi) interverranno. E’ la legge della vita». E’ un fiume in piena, Pansa, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, su “La7”. Vede un’Italia sull’orlo della guerra civile: «Qui siamo di fronte a quelli che ti rubano la casa e ti ammazzano la moglie. Siamo in situazione di pre-guerriglia…. e sono peggio del fascismo». Salvini? Imprudente, nel rivolgersi alla “pancia” degli italiani. Di Maio e i 5 Stelle? Drammaticamente inadeguati. «Volete Grillo? Volete una nazione governata da Di Maio? Volete che Grillo decida cosa fare della disoccupazione giovanile in Italia? Che decida come far pagare le tasse a chi non le paga, o come rimettere ordine negli asili, dove i bambini non riescono a trovare posto? Cavoli vostri, provateci. Io cerco di starne lontano. Poi – aggiunge – mi rendo conto che, se qualcuno comincia a usare delle armi diverse da quelle della protesta, e quindi comincia a sparare – cosa che avverrà (lo dico qui, la sera del 18 settembre) – non fingiamo di non sapere che questo è un paese pronto per una nuova guerra civile».Ad accogliere le clamorose esternazioni di Pansa, oltre all’attonita Gruber, Antonio Padellaro del “Fatto” e Marco Damilano de “L’Espresso”, il quale ammette che «l’attuale classe dirigente sollecita le frange estremistiche». Padellaro getta acqua sul fuoco, citando Ennio Flaiano: le barricate, gli italiani le fanno “coi mobili degli altri”. «Siamo in Italia: tutte le tensioni che verifichiamo ogni giorno poi si stemperano sempre in qualcosa che assomiglia al melodramma. Non scordiamoci che abbiamo attraversato persino le Brigate Rosse. E a proposito di complotti, abbiamo avuto la P2. Ricordando il passato, forse il presente ci appare meno drammatico». Pansa non concorda: per lui, Padellaro e il Fatto non hanno «gli occhiali giusti per vedere quello che succede davvero». Le Br? Le avremo anche “attraversate”, ma intanto «hanno ammazzato il politico più importante d’Italia, Aldo Moro, dopo averlo tenuto prigioniero per settimane in un “carcere del popolo” che gli apparati dello Stato facevano finta di non trovare». Flaiano? «Bella battuta, la sua, ma da caffè di via Veneto». La verità non è quella, sostiene Pansa: «C’è un odio profondo, che in Italia cova in tutti i ceti, anche in quelli che non consideriamo mai e chiamiamo ceti popolari: pensionati, casalinghe disperate, giovani che non trovano lavoro».Catastrofe imminente? «Io non vedo attorno a me un clima da guerra civile», protesta la Gruber. «Non lo vedi – replica Pansa – perché sei ancora agganciata all’oggi. Anch’io, se sto agganciato all’oggi, non vedo un clima da guerra civile, perché gli italiani pensano alle vacanze, alle donne, al modo di non pagare le tasse. Vorrebbero lavorare poco e guadagnare molto. Questo è un paese che non ha più spina dorsale». L’anziano giornalista, oggi 83enne, vede un odio dilagante e pericolosissimo, alimentato – più che da questo o quel partito – «dallo stato di fatto delle cose». Ammette: «Da un po’ di anni non vado più a votare, perché so che il mio voto verrebbe comunque sprecato: tutti i partiti sono screditati, la casta politica fa schifo». Insiste, Pansa: «Il governo di Di Maio finisce male perché è composto di prepotenti come Salvini o incompetenti che distruggeranno tutto: o finiscono male da soli o li faranno finire male altri». Il futuro è nero, sostiene il giornalista: «Non sono troppo pessimista, ho sempre visto verificarsi delle storie che non immaginavo si sviluppassero in quel modo». E aggiunge: «Quando succederà, la signora Lilli Gruber dirà: quella sera, quel vecchiaccio pessimista del “Giampa” aveva ragione».Fa impressione, ascoltare Giampaolo Pansa nelle vesti di profeta di sventure. Come giornalista fece storia, fin dagli esordi di “Repubblica”: in un’intervista, Enrico Berlinguer consumò il celebre strappo da Mosca (meglio la Nato che il Patto di Varsavia). Nel suo impareggiabile “Bestiario”, rubrica settimanale di Pansa su “L’Espresso”, trovavano posto l’Elefante Rosso e la Balena Bianca, impietosi ritratti del Pci e della Dc, colonne portanti del potere della Prima Repubblica. Ironico e tagliente, irriverente e sempre indipendente, Pansa, fino a dare scandalo con il saggio “Il sangue dei vinti”, bestseller da un milione di copie, vero e proprio tsunami capace di demolire i tabù della Resistenza raccontando le efferate vendette partigiane dell’immediato dopoguerra. Oggi, il vecchio Pansa appare smarrito di fronte ai confusi albori dell’ipotetica Terza Repubblica. Si rivolge a Lilli Gruber in modo affabile: «Tu sei una donna intelligente, una giornalista esperta, hai fatto politica, sei stata pure parlamentare europea». Già, ma la Gruber è anche ospite fissa del Gruppo Bilderberg, dettaglio che Pansa non cita. Gli altri due giornalisti nello studio di “Otto e mezzo” il 18 settembre? Damilano, punta di lancia del gruppo “Espresso-Repubblica”, è impegnato nel cannoneggiamento quotidiano del governo gialloverde, bombardando Salvini con accuse di xenofobia, razzismo e fascismo. Padellaro e il “Fatto”? Più indulgenti con i 5 Stelle, ma rigorosamente allineati all’impostazione neoliberista della narrazione economica: i tagli alla spesa sono sacrosanti, dogmi di fede.Da anziano veggente, come in una tragedia greca, Pansa-Tiresia vede che l’Italia si sta frantumando, ma è come se non sapesse leggere le cause della catastrofe in atto: una rivolta politica generalizzata, classificata comodamente sotto il nome di “populismo”, ma in realtà innescata dall’inaudito sfascio sociale prodotto dall’economia privatizzata “a tradimento” negli anni ruggenti di Pansa e colleghi. Quanti di loro videro davvero quel che si stava preparando? Quanti, tra gli allora fan di Di Pietro e Mani Pulite, si accorsero del summit a bordo del Britannia per la svendita del paese al capitale finanziario globalizzato? In quanti si accorsero del disastroso effetto del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, che trasformò il debito pubblico in tragedia nazionale? Da eterno battitore libero, oggi Pansa scorge – con angoscia – i sintomi di un malessere che potrebbe anche degenerare in brutalità palese. Ma è come se non avesse ancora metabolizzato la gravità degli eventi maturati nella storia recente, con il “golpe delle élite” che ci ha precipitato nella post-democrazia (ben prima dell’avvento del governo Conte). Se non altro Pansa parla per sé e racconta quello che gli sembra di vedere. Non è impegnato nella fabbricazione quotidiana del consenso, come i propagandisti di “Repubblica” e come la stessa Gruber, che oltre che “donna intelligente” e “giornalista esperta” è anche, di fatto, contigua agli architetti occulti della post-democrazia, gli “sciacalli” che hanno progettato l’attuale sfacelo – che, come dice Pansa, potrebbe anche far saltare in aria il paese.Sarà un golpe a far cadere l’esecutivo Conte, incapace di gestire un’Italia ormai nel caos. Giampaolo Pansa, ovvero l’apocalisse: il governo gialloverde «è pericoloso perché fa solo danni al paese, fa solo annunci e non combina niente: prima o poi verrà abbattuto». Fine della democrazia: «Non si andrà a votare: nessuno andrà a votare, perché le forze armate (che sono le sole ad avere le armi) interverranno. E’ la legge della vita». E’ un fiume in piena, Pansa, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, su “La7”. Vede un’Italia sull’orlo della guerra civile: «Qui siamo di fronte a quelli che ti rubano la casa e ti ammazzano la moglie. Siamo in situazione di pre-guerriglia…. e sono peggio del fascismo». Salvini? Imprudente, nel rivolgersi alla “pancia” degli italiani. Di Maio e i 5 Stelle? Drammaticamente inadeguati. «Volete Grillo? Volete una nazione governata da Di Maio? Volete che Grillo decida cosa fare della disoccupazione giovanile in Italia? Che decida come far pagare le tasse a chi non le paga, o come rimettere ordine negli asili, dove i bambini non riescono a trovare posto? Cavoli vostri, provateci. Io cerco di starne lontano. Poi – aggiunge – mi rendo conto che, se qualcuno comincia a usare delle armi diverse da quelle della protesta, e quindi comincia a sparare – cosa che avverrà (lo dico qui, la sera del 18 settembre) – non fingiamo di non sapere che questo è un paese pronto per una nuova guerra civile».
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Magaldi: i gialloverdi scelgano, Tria (e Draghi) o gli italiani
«Il massone Giovanni Tria scelga chi servire: il popolo italiano o l’élite neoliberista incarnata dal pessimo Mario Draghi, il demolitore dell’Italia, che ora si complimenta con lui». Non usa mezzi termini, Gioele Magaldi, nel sollecitare il governo gialloverde a diffidare dall’atteggiamento “frenante” del ministro dell’economia: «I gialloverdi avevano promesso agli elettori reddito di cittadinanza, meno tasse e pensioni dignitose. Se non manterranno la parola data saranno loro a pagare, non certo Tria e le altre figure tecniche dell’esecutivo». Dove trovare le coperture? Semplice: occorre sfondare il famoso tetto di spesa del 3%, stabilito da Maastricht in modo ideologico, senza alcun fondamento economico-scientifico: più deficit significa far volare il Pil e creare lavoro. «Si tratta di smascherare Bruxelles e ingaggiare una dura battaglia, in Europa: solo l’Italia può farlo. E se Tria “frena”, preferendo ascoltare Draghi, Visco e Mattarella, allora è meglio che Salvini e Di Maio lo licenzino, perché a pagare il conto alla fine saranno loro, per la gioia del redivivo Renzi, che infatti già accusa il governo gialloverde di parlare molto e combinare poco». La ricetta di Magaldi? «Non temere il ricatto dello spread e sfoderare con l’Unione Europea, per il bilancio 2019, la stessa fierezza mostrata da Salvini nel denunciare l’ipocrisia dell’Ue che lascia ricadere solo sull’Italia il problema degli sbarchi di migranti».
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Magaldi al “fratello” Tria: con Draghi, finirete come Renzi
Non crediate di prendere in giro gli italiani: avete visto quanto ci ha messo, il prode Renzi, a passare dal 40% allo zero assoluto? Messaggio che Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt nonché massone progressista (Grande Oriente Democratico) rivolge proprio a quelle figure di garanzia, inserite nel governo gialloverde con una missione precisa: rompere, dopo tanti anni, la penosa consuetudine della sottomissione a Bruxelles. Qualcuno sta venendo meno agli impegni? Il primo indiziato è il professor Giovanni Tria, titolare del ministero dell’economia in virtù di «quell’incredibile attentato alla Costituzione che fu il “niet” proposto da Mattarella rispetto all’incarico a Paolo Savona». Ebbene, da oggi Magaldi lo chiama “il fratello Tria”, rivelando pubblicamente la sua identità massonica, per di più dichiaratamente “progressista”. Il problema? Molte chiacchiere, sin qui, ma pochi fatti. Peggio: insieme al ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi, «già massone neo-aristocratico “di rito montiano”, poi apertosi all’impegno progressista», proprio Tria – alle prese con il delicatissimo bilancio 2019 – ha appena ricevuto il più scomodo degli endorsement, quello di Mario Draghi: essere “promossi” da Draghi, scandisce Magaldi, è un “premio” che nessun governante sinceramente democratico può permettersi, in quest’Europa impoverita dall’élite neoliberista e messa alla frusta proprio dalla Bce.Se c’è uno che davvero non può permettersi di dare “pagelle” a nessuno, questi è proprio il “fratello” Mario Draghi, dichiara Magaldi in web-streaming su YouTube con Marco Moiso, già coordinatore del Movimento Roosevelt: la Bce ha finora fatto esattamente il contrario di quello che sarebbe servito, per risollevare l’economia europea. Le è stato complice il Fondo Monetario guidato dalla “sorella” Christine Lagarde, «libera muratrice anch’essa contro-iniziata e neo-aristocratica». Non stupisce che oggi si parli di un clamoroso scambio di poltrone, da scongiurare in ogni modo: la Lagarde alla Bce, e Draghi “promosso” al Fmi. E perché mai? «Quale premio andrebbe dato a una banca centrale che ha lasciato che tutti i buoi uscissero dalla stalla, durante la crisi del 2011, consentendo allo spread di innalzarsi per poter poi commissariare i governi?». La banca centrale europea, aggiunge Magaldi, si è limitata a intervenire a cose fatte, «facendo il minimo indispensabile». E cioè: «Ha elargito denari al sistema bancario per propiziare l’acquisto dei titoli di Stato in modo da tener basso lo spread, ma al sistema produttivo reale non è arrivato nemmeno un euro: una situazione davvero verminosa». Ecco perché c’è da preoccuparsi – e molto – se il presidente della Bce oggi si spertica in elogi per il nostro ministro dell’economia, proprio mentre Tria sta approntando la legge di bilancio, intenzionato a mantenere la spesa pubblica (ancora una volta) ben al di sotto del minimo vitale, in ossequio ai signori di Bruxelles, Berlino e Francoforte.Magaldi, con Tria, non va per il sottile: caro ministro, il tempo della pazienza è scaduto. Ora dimostri di mantenere gli impegni presi, o il consenso al governo “gialloverde”, oggi ancora robusto, potrebbe scemare alla velocità della luce. «Abbiamo sostenuto l’esecutivo e lo sosterremo ancora – premette Magaldi – anche difendendo Salvini dalla demonizzazione di cui è vittima. Ma, a parte il legittimo scatto di dignità sul problema immigrazione (che poi richiederà anche una “pars construens”, per aiutare comunque quell’umanità che è migrante perché è sofferente), dal loro governo gli italiani si aspettano ben di più». Ovvero: fatti concreti per rianimare l’economia, come promesso, allentando la tassazione e introducendo misure espansive – che non potranno che dispiacere, ai signori della Disunione Europea. Dunque, stando così se cose, se invece Draghi fa i complimenti al governo italiano significa che c’è qualcosa che non va. Lo osserva il “rooseveltiano” Egidio Rangone, neo-responsabile del dipartimento economia (settore supervisionato da Nino Galloni, vicepresidente del movimento). Le perplessità di Rangone sono le stesse di Luciano Barra Caracciolo, sottosegretario agli affari europei: come si permette, il signor Draghi, di dare i voti all’Italia, quando nessun governo democraticamente legittimato può osare aprir bocca sull’operato della Bce?Giustamente, dice Magaldi, ci si domanda come mai la Bce possa continuare a essere «una specie di santuario su cui la politica non deve mai mettere le mani, secondo il paradigma neoliberista che governa questa Europa (speriamo ancora per poco)». La banca centrale europea, infatti, «non è controllata da nessuno: nessuno ne deve parlare, bisogna solo “ammaestrarsi” ai suoi giudizi». Non sorprende – e invece dovrebbe – il fatto che Draghi dia i voti ai ministri. Tanto peggio, se i voti sono buoni. E peggio ancora se a essere “promosso” è Giovanni Tria. Avverte Magaldi: «E’ giunto il momento di sciogliere alcune questioni riguardanti l’ambiguità, l’ambivalenza dell’operato del ministro Tria, che finora ho voluto interpretare in modo benevolo». Il punto è questo: «Inquieta non poco la lode che Mario Draghi fa al “fratello” massone Tria, visto che Tria era entrato in questo governo per rassicurare sul cambiamento annuncuiato». Doveva garantire, Tria, che la linea del governo sarebbe stata critica, rispetto all’attuale gestione Ue, nonostante il più che irrituale siluramento di Savona, da parte di Mattarella.Se il delicatissimo dicastero economico, anziché all’ex ministro di Ciampi, alla fine è stato dato «al massone sedicente progressista Tria», è proprio perché il professore, «nell’interpretazione benevola che ne abbiamo voluto dare sin qui», avrebbe dovuto magari «giocare di rassicurazione in rassicurazione», per poi però effettivamente «essere parte integrante di un lavoro di rinnovamento, nei rapporti tra la gestione dell’economia italiana e gli stralunati, strumentali e pidocchiosi atteggiamenti delle sedicenti istituzioni europee rispetto alla gestione del bilancio». Il “fratello” Tria, aggiunge Magadi, si era solennemente impegnato a guidare l’economia italiana con lungimiranza, «e quindi in modo opposto rispetto a quella che è stata la bussola nei governi almeno da Mario Monti in poi – ma potremmo parlare di un venticinquennio intero di paradigma dell’austerity, naturalmente con vicende diverse, che fino al 2011 avevano reso meno percepibile quello che si andava comunque costruendo, anche in termini di crisi italiana – già ben presente, sia pure in modo strisciante». C’è di che preoccuparsi, dunque, se oggi Draghi dice “bravo” a Moavero Milanesi, «massone accredidatosi come “convertito” a una visione massonica progressista e a una visione politica di rinnovamento democratico, e proprio per questo inserito nell’attuale governo».A maggior ragione, preoccupa il fatto che Draghi “promuova” Tria, cervello economico di un governo che ha promesso Flat Tax, reddito di cittadinanza e riforma della legge Fornero sulle pensioni, ma finora si è limitato alle chiacchiere, confidando – in modo imprudente – su sondaggi che danno la Lega sopra il 30% dei suffragi. Attenzione, sottolinea Magaldi: «Questo consenso è basato su un investimento per il futuro, proprio come il consenso di cui aveva goduto a suo tempo Matteo Renzi: dunque non ci si inebri, del consenso. E’ una sorta di cambiale, che richiede risultati precisi: ma di fatti, per ora, se ne sono visti pochi». Un avvertimento esplicito: «Il popolo potrebbe bocciare rapidamente il governo gialloverde, così come ha bocciato severamente centrodestra e centrosinistra, che per anni hanno giocato a prendere per i fondelli gli interessi degli italiani, simulando un’alternanza che non esisteva – perché c’era un consociativismo permanente, per cui la rotta economica in tutti i temi politici nevralgici era decisa altrove e solo eseguita, in modo pedissequo e bovino, da coloro che hanno occupato le istituzioni soprattutto per fare i propri affari». Ebbene: se Lega e M5S continuano soltanto a chiacchierare, l’esecutivo Conte non può illudersi di andare lontano.Magaldi avvisa: il Movimento Roosevelt (in pieno rilancio) non starà alla finestra: produrrà idee e critiche, anche attraverso iniziative editoriali ormai in cantiere, senza rinunciare all’idea di contribuire a creare un “partito che serve all’Italia”, «o per aiutare il governo attuale, che sembra zoppicare, balbettare e cincischiare molto ma produrre poco, o per sostituirsi ad esso nel portare avanti un testimone politico importante». Per Magaldi – non da oggi – il ruolo del nostro paese è decisivo: «Ormai lo si è capito, e l’avevamo detto tanti anni fa: dall’Italia può venire il cambiamento. Se non viene dall’Italia non verrà da nessun’altra parte. Quindi c’è una ragione storica. E francamente c’è ancora troppa moderazione e troppa subalternità, narrativa e ideologica, rispetto a ciò che dicono da Bruxelles e da Francoforte». Quanto a Draghi, già allievo post-keynesiano del grande Federico Caffè ma poi convertitosi al peggiore neoliberismo (privatizzazioni selvagge e svendita dell’Italia), Magaldi ha fornito un inquietante profilo nel volume “Massoni”, uscito per Chiarelettere nel 2014. Il presidente della Bce milita in ben 5 superlogge sovranazionali del massimo potere neo-aristocratico: si tratta delle Ur-Lodge reazionarie “Three Eyes”, “Edmund Burke”, “Pan-Europa”, “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”e “Der Ring”.Queste strutture-ombra, rivela Magaldi, sono a capo dell’architettura che ha ridisegnato il mondo in modo autoritario, a partire dall’Ue, attraverso una globalizzazione a senso unico, che ha spolpato le classi medie piegando gli Stati alla “teologia” del rigore, demonizzando il deficit – cioè la leva strategica su cui si erano fondati i decenni del benessere diffuso. A Giovanni Tria dovrebbe guardare con estrema diffidenza un super-tecnocrate e supermassone reazionario come Draghi, direttore del Tesoro all’epoca del Britannia, poi promosso a Bankitalia, quindi stratega della Goldman Sachs nell’operazione-Grecia e infine “imperatore” della Bce. Che c’azzecca, Draghi, col governo gialloverde? «Questo personaggio – dice Magaldi – è davvero meritevole di rispetto e stima per la qualità della sua contro-iniziazione», espressione che nel linguaggio massonico significa: tradimento dell’impegno a lavorare per il bene della società. «Mario Draghi è davvero un brillante esempio di contro-iniziazione, sul piano massonico, e di declinazione perfetta della post-democrazia sul piano politico “profano”. E ora, con queste sue pagelle, lui che non vuole essere giudicato da nessuno, si permette di spiegare quello che deve o non deve fare il governo sovrano dell’Italia».Non staremo certo con le mani in mano, ribadisce Magaldi: «Quindi si prepari, Tria, perché sarà messo sotto esame, com’è giusto che sia, dall’opinione pubblica, inclusi i movimenti come il nostro». Non solo: «Tria sarà messo sotto osservazione dai “confratelli” progressisti cui aveva giurato di voler offrire un contributo importante per un rinnovamento democratico dell’Italia. E saranno valutati severamente, come sempre, anche personaggi come Draghi che – davvero – non perdono né il pelo né il vizio». Aggiunge Magaldi: «Tanto per non essere ambigui: come presidente del Movimento Roosevelt sto dando un avvertimento chiaro, al governo gialloverde. Abbiamo sostenuto l’alleanza e siamo vicini ad alcuni di loro – non a quelli che si gingillano in ipocrite massonofobie: il Consiglio dei ministri è pieno zeppo di massoni, tutti sedicenti progressisti. Ma qualcuno, a questo punto – ipotizza Magaldi – potrebbe rivelarsi “l’amico del Giaguaro”», una quinta colonna del potere neoliberista che ha colonizzato le istituzioni europee. Beninteso: «Nel governo non ci sono solo persone che stanno operando in senso ambivalente o sterile, ci sono anche presenze che si confermano positive. Ma il problema – conclude Magaldi – è che il dicastero dell’economia è affidato al “fratello” Tria, al quale è richiesto di gettare via ogni ambivalenza e di procedere in modo tale da non ricevere la lode di Mario Draghi: e la lode di Draghi è un sigillo che nessun serio governante che abbia a cuore il benessere dell’Italia può permettersi di ricevere».Non crediate di prendere in giro gli italiani: avete visto quanto ci ha messo, il prode Renzi, a passare dal 40% allo zero assoluto? Messaggio che Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt nonché massone progressista (Grande Oriente Democratico) rivolge proprio a quelle figure di garanzia che sono state inserite nel governo gialloverde con una missione precisa: rompere, dopo tanti anni, la penosa consuetudine della sottomissione a Bruxelles. Qualcuno sta venendo meno agli impegni? Il primo indiziato è il professor Giovanni Tria, titolare del ministero dell’economia in virtù di «quell’incredibile attentato alla Costituzione che fu il “niet” proposto da Mattarella rispetto all’incarico a Paolo Savona». Ebbene, da oggi Magaldi lo chiama “il fratello Tria”, rivelando pubblicamente la sua identità massonica, per di più dichiaratamente “progressista”. Il problema? Molte chiacchiere, sin qui, ma pochi fatti. Peggio: insieme al ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi, «già massone neo-aristocratico “di rito montiano”, poi apertosi all’impegno progressista», proprio Tria – alle prese con il delicatissimo bilancio 2019 – ha appena ricevuto il più scomodo degli endorsement, quello di Mario Draghi: essere “promossi” da Draghi, scandisce Magaldi, è un “premio” che nessun governante sinceramente democratico può permettersi, in quest’Europa impoverita dall’élite neoliberista e messa alla frusta proprio dalla Bce.
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Blair e Bannon: massoni reazionari da Salvini, ora indagato
Come leggere l’adesione di Salvini a “The Movement”, il movimento fondato da Steve Bannon? E’ conseguente all’incontro che Salvini ha avuto con Blair. Il capo di quella cosca massonica è Tony Blair – il referente europeo – e quindi Salvini ha aderito all’iniziativa di Bannon. Blair è il referente europeo di una delle più grosse Ur-Lodges. E’ interessato a Salvini perché questi sistemi sono sempre interessati a chi governa: Salvini in questo momento è al governo, e quindi Blair ha pensato di averlo come referente politico. Salvini è consapevole di cosa rappresenti, Blair? Be’, se ha letto un po’ di cose in giro, sì. Bannon viene associato al mondo della destra, mentre Blair ce lo ricordiamo sulla sponda opposta? Ma sono pessimi ricordi, perché Blair è colui che ha rovinato il socialismo europeo, scientemente. E’ un falso socialista, come ce ne sono tanti. L’iniziativa di Blair e Bannon è un modo per cooptare Salvini? “Cooptarlo” probabilmente no, ma averlo – finché è al governo – come referente politico, sì: è lo stesso motivo per cui gli americani hanno puntato su Di Maio. Michael Ledeen aveva puntato su Di Maio, mentre Steve Bannon e Tony Blair hanno puntato su Salvini. Non sono gruppi in competizione tra loro: sono aspetti, diversi, della massoneria reazionaria.Il problema è quello c’è dietro la massoneria reazionaria: è una falsa massoneria, che rappresenta interessi economici e politici rispetto a un certo tipo di disegno mondialista. Da qui il sospetto che gli intenti di cambiamento, di questo governo, di fatto non sarebbero attendibili? Non lo so, bisogna vedere se lo saranno ancora: se si accorgono di questo pericolo, se litigano – è difficile dirlo. Questo governo è partito con delle buone intenzioni. Poi, se queste buone intenzioni siano sincere o no, lo vedremo solo in futuro. Per intanto, un certo tipo di potere reazionario li sta corteggiando. Come reagiranno, i gialloverdi, a questo corteggiamento? Be’, sapete, le cose umane sono sempre in divenire, sono mobili. Salvini, sicuramente, non è un “cavallo” gestibile. Anche Trump pensavano di poterlo gestire, e poi non ci sono riusciti, o comunque non ci sono riusciti totalmente. Nel frattempo, certo, su Salvini incombono l’indagine sulla nave Diciotti e la conferma del sequestro dei fondi della Lega: tentativi di “accerchiare” il ministro dell’interno? Di solito, quando c’è un “accerchiamento” giudiziario, è perché – a monte – c’è una convergenza di interessi, di poteri, e quindi la magistratura diventa uno strumento di questo.Guardiamo le inchieste su Salvini: quella relativa alla Diciotti è una buffonata, dove i magistrati che l’hanno promossa fanno la figura dei buffoni. Mi riferisco soprattutto al magistrato di Agrigento, perché quello di Palermo, in realtà, ha fatto solo un atto formale: ha ricevuto le carte e ha mandato l’avviso di garanzia a Salvini, quindi ancora non possiamo giudicarlo. E’ comunque un’inchiesta per la quale a delle persone si impedisce di entrare nel nostro paese (ma non gli si impedisce di tornare nel loro). Se queste persone avessero detto “vogliamo tornare a casa”, la nave della Guardia Costiera le avrebbe riportate dov’erano partite. Quindi dov’è il sequestro di persona, tecnicamente? Altra cosa è il processo per i famosi 49 milioni, dove c’è ampia contestazione sulla cifra, perché i 49 milioni in realtà sarebbero la somma dei contributi che la Lega avrebbe incassato. Soldi di cui la magistratura ha ordinato la restituzione, dopo una sentenza di primo grado. Però non esiste la prova che quei milioni siano stati tutti utilizzati nella maniera che giustificherebbe la restituzione – prova anche difficile da fornire, ma che avrebbe dovuto essere inoppugnabile, prima di addivenire a un provvedimento cautelare come il sequestro esecutivo di primo grado.I leghisti in realtà dicono che i fondi male utilizzati sono 550.000 euro. Come vedete, la differenza fra 49 milioni e 550.000 euro è oceanica. Un sequestro così, fatto in questo modo, praticamente annulla qualunque possibilità di sopravvivenza politica della Lega, che è pur sempre un partito che ha preso dei voti e ha espresso dei rappresentati del popolo. Quindi, entrambe le inchieste hanno dei lati discutibili, quantomeno. L’inchiesta sulla Diciotti è un atto proditorio, ma bisognerà vedere cosa faranno la magistratura di Palermo e poi il Tribunale dei Ministri. Viene anche rimproverato a Salvini di aver reagito da ministro: ma lui è stato indagato proprio perché ministro. Gli atti per i quali è indagato li ha fatti da ministro, quindi ne risponde da ministro. Perché dovrebbe risponderne da persona fisica? Ovvero: Salvini risponde, sul versante della comunicazione, nella sua veste di ministro. Poi, se si accerterà che questi atti sono reato (cosa che mi sembra quasi impossibile), vedremo, perché la responsabilità penale è comunque personale. Ma, in questo momento, Salvini risponde per la sua responsabilità di ministro.Nel non far sbarcare migranti a bordo di una nave della Guardia Costiera (quindi italiana, e in un porto italiano) Salvini non ha fatto un’azione politicamente corretta. Non è un reato, ma non la approvo. Però considero questa reazione di Salvini non isolandola dal contesto, ma tenendo conto proprio del contesto, cioè di tutte le malefatte dei governi precedenti. Con la scusa dell’accoglienza, In Italia è sbarcato chiunque: navi che non si sapeva neanche che bandiera battessero. Salvini s’è impuntato nell’occasione sbagliata, diciamo, perché quella era una nave italiana, della Guardia Costiera. Ma in realtà è la pressione precedente, che è stata determinate per una reazione che possiamo definire politicamente sbagliata. Il problema è che, se porti le cose all’esasperazione, poi qualcuno fa a sua volta un gesto esasperato – e tutti a dire: che gesto esagerato! Già, ma cos’era avvenuto, prima? Io credo che sia sbagliata, la normativa europea che imporrebbe di accertare il diritto di asilo dei migranti una volta sbarcati. Io credo che il diritto d’asilo andrebbe accertato prima di far sbarcare le persone, non dopo.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming “Carpeoro Racconta” del 9 settembre 2018, su YouTube. Avvocato e massone, simbologo e scrittore, Carpeoro è autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che ricostruisce la matrice massonica degli attentati “false flag” targati Isis, condotti in Europa negli anni scorsi e riconducibili a servizi segreti atlantici. Lo stesso Carpeoro è esponente del Movimento Roosevelt presieduto da Gioele Magaldi, che nel saggio “Massoni” presenta l’ex premier laburista britannico Tony Blair come affiliato alla potente Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, insieme ai Bush, al francese Sarkozy, al turco Erdogan. La “Hathor”, definita “loggia del sangue e della vendetta”, sarebbe all’origine del devastante attentato dell’11 Settembre alle Torri Gemelle, nonché della “fabbricazione” del sedicente Isis. Alla “Hathor”, sostiene Magaldi, sono stati affiliati sia Osama Bin Laden che Abu-Bakr Al-Baghdadi, presunto leader del cosiddetto Stato Islamico. Sempre alla superloggia “Hathor Pentalpha” è attribuita la decisione di imprimere una svolta violenta alla globalizzazione neoliberista e privatizzatrice, utilizzando nel modo più spregiudicato la guerra e l’auto-terrorismo, per innescare una sorta di strategia della tensione internazionale).Come leggere l’adesione di Salvini a “The Movement”, il movimento fondato da Steve Bannon? E’ conseguente all’incontro che Salvini ha avuto con Blair. Il capo di quella cosca massonica è Tony Blair – il referente europeo – e quindi Salvini ha aderito all’iniziativa di Bannon. Blair è il referente europeo di una delle più grosse Ur-Lodges. E’ interessato a Salvini perché questi sistemi sono sempre interessati a chi governa: Salvini in questo momento è al governo, e quindi Blair ha pensato di averlo come referente politico. Salvini è consapevole di cosa rappresenti, Blair? Be’, se ha letto un po’ di cose in giro, sì. Bannon viene associato al mondo della destra, mentre Blair ce lo ricordiamo sulla sponda opposta? Ma sono pessimi ricordi, perché Blair è colui che ha rovinato il socialismo europeo, scientemente. E’ un falso socialista, come ce ne sono tanti. L’iniziativa di Blair e Bannon è un modo per cooptare Salvini? “Cooptarlo” probabilmente no, ma averlo – finché è al governo – come referente politico, sì: è lo stesso motivo per cui gli americani hanno puntato su Di Maio. Michael Ledeen aveva puntato su Di Maio, mentre Steve Bannon e Tony Blair hanno puntato su Salvini. Non sono gruppi in competizione tra loro: sono aspetti, diversi, della massoneria reazionaria.
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Proclamato: vi svelo il senso delle rivelazioni di Gustavo Rol
Gustavo Rol disse di aver scoperto una “tremenda legge” legata all’associazione tra il colore verde, il numero cinque e il calore. La parte più appariscente del “sapere del verde” è questa. Tutto il mondo che superficialmente definiamo esoterico non è altro che un’interpretazione raffinata delle leggi della natura, e non è niente di magico. Il “verde” rappresenta uno dei momenti della natura: l’essenza del suo ritorno. Quindi il “verde” è la modalità cromatica attraverso cui il divino ritorna, e dimostra di non morire. Dunque, per il mondo iniziatico, la primavera è il momento in cui si consuma questo evento, che è ciclico. Lì abbiamo un problema: a noi, sembra che questo evento non ci sia. Pensiamo di avere solo un inizio e poi una fine. Osserviamo l’ovvio, nella natura, senza nemmeno immaginare che, probabilmente, noi dovremmo essere una parte evolutiva della natura, meglio concretizzata di altre, e che verosimilmente anche noi abbiamo la possibilità di “avere il verde”. Quando siamo qui, il “verde” lo si intende come la percezione, l’essenza dell’energia vitale dentro di noi. Il “verde” lo si intende anche come modalità, attraverso la quale – sempre la natura – una volta “arrivata”, una volta “ritornata”, poi si esprime. E si esprime poi con il bianco, e quindi con il rosso: prima cioè con i fiori, che poi maturano e diventano frutti.Non è un caso che quel tricolore sia anche la bandiera italiana, che è stata voluta da un massone austriaco durante la dominazione asburgica del Lombardo-Veneto. Fondò a Milano un ordine massonico, all’interno del quale si decise che quella sarebbe stata la nostra bandiera. Il nostro tricolore è la quintessenza del sapere esoterico. E’ la nostra mancata interpretazione, di quella bandiera, a renderci così inetti, in Italia. Siamo un popolo da tenere dormiente, sempre. Perché, quando riesce a svegliarsi da solo per alcuni attimi, o viene svegliato, “sono cavoli”, in tutto il mondo. Questo lo sanno tutti, meno che noi. Questi tre colori – rosso, bianco e verde – sono i più importanti, nel mondo iniziatico. Gustavo Rol capisce cos’è questa cosa e si rende conto del potere del “verde”, che è il potere dell’immortalità. Restiamo però nei binari: non vorrei che pensassimo che noi stessi “torniamo” – non è così, non si ritorna: io, almeno, con questa mia faccia qui, non ritorno! C’è invece la possibilità che, a tornare, siano le note che noi suoniamo meglio. Ovvero: se queste note che noi suoniamo bene, in questa realtà, sono diventate un talento, e se questo talento – qui, noi in vita – ci ha permesso di esprimerci, allora questa cosa la natura (Dio) la recepisce, ed è facile che “ritorni”.Nel caso specifico di Rol, lui al “verde” accosta l’intervallo di quinta e il “calore”. Il “calore” è un’altra modalità, piuttosto simbolica, con cui definire un altro atto energetico reale. Nel mondo cattolico, il momento in cui il Cristo se ne va è uno dei momenti più importanti, perché – con lo Spirito Santo e i suoi “doni” – inonda i suoi aspostoli e trasferisce loro questa grandissima capacità di capire, sentire e sapere tutto. Quello è il “calore”. Poi Rol cita un altro passaggio, che è l’intervallo di quinta: nel mondo musicale, va dal do al sol (do-re-mi-fa-sol), e corrisponde a un altro momento spirituale. Quelli che Rol cita sono proprio tre momenti spirituali, che possiamo trasformare in colori. Lui cita il verde, poi cita il calore (che è il rosso, cioè lo Spirito Santo), e poi cita un intervallo (rimane solo un colore: il bianco). Trasformando queste informazioni in quei tre colori, forse riusciamo a muoverci meglio, in ciò che Rol ha detto. Quei tre colori possono essere trasposti in quella che è stata l’esperienza una persona, che sa che le virtù possono permetterle di essere una cosa diversa, ed essendo diversa di ottenere – qui – una realtà diversa. Il fine ultimo dell’interpretazione di se stessi, attraverso altre situazioni emozionali, permette a noi – quando abbiamo capacità di volere e di desiderare – di portare qui realtà che non esistono: ognuno può farsi la sua realtà.La realtà interpretativa, che Rol conosce, viene espressa anche quando è in mano, ad esempio, a Ildegarda di Bingen: quando le chiedono come faccia a “parlare con Dio”, fino a trasformare queste sue “chiacchierate” in visioni, lei spiega, ai legati pontifici: «Io vivo col verde, perché è l’essenza della mia vita e della creazione, essendo l’energia che crea, e questo si chiama “amore”: poi parlo con Dio, e lo faccio con un colore, che è il bianco (e quando “parlo col bianco” lo faccio in un luogo dove non c’è altezza, né lunghezza, né profondità, e quando finisco di parlare mi sento giovane)». Quindi lei dice che, con il “bianco”, già non è più qui. Poi dice che, «parlando con Dio», inizia a «capire cos’è il verde». Lo fa in un momento ben preciso della sua vita, quando ha una determinata età, ed è il momento in cui avviene la Pentecoste: viene inondata da questo “calore” particolare, che le conferisce i “doni pentecostali” – che sono 7. Gustavo Rol questa cosa la capisce, la sa. E la persegue per tutta la vita. Una volta capitala, si rende conto della potenza che ha in mano: si rende conto che l’interpretazione di queste “virtù” (o caratteristiche emozionali) conferisce a noi la grandissima possibilità di creare, oltre che di muoverci diversamente nello spazio.In fondo, Rol non fa niente di strano; semplicemente, si rende conto, anche lui, di un qualcosa che tutti i mondi religiosi amministrano, sapientemente, da millenni. Noi, adesso, non facciamo altro che scoprire l’acqua calda, credetemi. Il problema è che, nel frattempo, abbiamo dato talmente tanta importanza alla razionalità (cosa giustissima, peraltro), da dimenticare però tutti quei passaggi che fanno parte del mondo iniziatico – che non è che ti rigurgiti volentieri; eppure, mai come adesso, nella storia dell’umanità, c’è stata la possibilità di parlarne. Uno dei motivi per cui non se ne parla ancora come si dovrebbe è dovuto semplicemente al fatto che noi siamo distratti. Siamo molto distratti da una marea di informazioni, riconducibili anche a una tutta una serie di strategie conoscitive. Ma vi posso scrivere (col sangue: adesso) che non c’è stato nulla – né ci sarà nulla, in futuro – che non venga estrapolato da questo sapere, per poi essere “venduto” con un altro nome: sappiatelo. C’è solo questo. E con questo, tu puoi imparare tutto. Non c’è nulla che resti fuori da questo sapere: la Pnl, le “costellazioni familiari”, tutto. Sono tutte interpretazioni di una particella di questo sapere. E Rol lo sapeva benissimo.(Michele Proclamato, dichiarazioni rilasciate a Michele Stedile nella diretta in web-streaming su Skype “Domande e risposte” del 14 marzo 2018, pubblicata su YouTube. Studioso ed esperto di simbologia, Proclamato ha pubblicato studi spesso illuminanti, come i libri su Arcimboldo e Newton, Cartesio e Giordano Bruno, l’architettura “sottile” partendo da Vitruvio e la mistica medievale Ildegarda di Bingen).Gustavo Rol disse di aver scoperto una “tremenda legge” legata all’associazione tra il colore verde, il numero cinque e il calore. La parte più appariscente del “sapere del verde” è questa. Tutto il mondo che superficialmente definiamo esoterico non è altro che un’interpretazione raffinata delle leggi della natura, e non è niente di magico. Il “verde” rappresenta uno dei momenti della natura: l’essenza del suo ritorno. Quindi il “verde” è la modalità cromatica attraverso cui il divino ritorna, e dimostra di non morire. Dunque, per il mondo iniziatico, la primavera è il momento in cui si consuma questo evento, che è ciclico. Lì abbiamo un problema: a noi, sembra che questo evento non ci sia. Pensiamo di avere solo un inizio e poi una fine. Osserviamo l’ovvio, nella natura, senza nemmeno immaginare che, probabilmente, noi dovremmo essere una parte evolutiva della natura, meglio concretizzata di altre, e che verosimilmente anche noi abbiamo la possibilità di “avere il verde”. Quando siamo qui, il “verde” lo si intende come la percezione, l’essenza dell’energia vitale dentro di noi. Il “verde” lo si intende anche come modalità, attraverso la quale – sempre la natura – una volta “arrivata”, una volta “ritornata”, poi si esprime. E si esprime poi con il bianco, e quindi con il rosso: prima cioè con i fiori, che poi maturano e diventano frutti.
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Toti, Mieli, Fico: se il potere prova a mangiarsi i gialloverdi
Verrà il giorno che il verde si separerà dal giallo, la Lega sarà la nuova destra e il M5 Stelle sarà la nuova sinistra. Dalla maggioranza di governo del presente nascerà un nuovo sistema bipolare. I tempi potranno essere rapidi se in autunno o anche subito la coalizione si spaccherà sui temi sensibili che già conosciamo, vale a dire migranti, giudici, pensioni, reddito di cittadinanza, nazionalizzazioni, mentre su altri come l’Europa e l’avversione alla Casta dei potentati sembrano essere abbastanza omogenei. Ma se resisteranno alla prova d’autunno ci sarà poi la prova dell’Europa quando i due partiti si presenteranno divisi e faranno incetta di voti gli uni nell’area del centro-destra e gli altri in prevalenza della sinistra. Questa profezia circola sotto traccia da qualche tempo, e Bobo Maroni l’ha di recente rilanciata, vedendo nella Lega l’erede della destra e di Forza Italia, e nei grillini gli eredi della sinistra e del Pd. Rispetto alla nuova destra e alla nuova sinistra che faranno quelle cariatidi in caduta? Cambieranno nome, faccia e leader ai loro partiti in ritirata, si aggrapperanno al passato (Veltroni e Berlusconi), cercheranno di aprire i ponti ai due Soggetti principali tramite i loro ambasciatori (Toti e Zingaretti). E per completare la partita si dovrà vedere poi che fine faranno Fratelli d’Italia e Liberi e Uguali, se saranno dentro, fuori a mezzadria, satelliti o in disparte, rispetto ai due poli principali.Insomma, il futuro non finisce mica qui, altri futuri si prospettano davanti, e nel rimescolamento del pappone nazionale non sono esclusi anche vintage, coalizioni riesumate e rigurgiti di passato. L’ipotesi subalterna, naturalmente, è che gli eventi precipitino, con l’aiutino determinante dei poteri interni e internazionali, e riescano a disarcionare la maggioranza, magari dopo averla divisa. E al suo posto, al governo ci manderebbero la Troika o chi ne fa le veci. Direi che è questa prospettiva a tenere unita l’alleanza gialloverde e a renderla sopportabile anche ai loro elettori refrattari, di ambo i versanti, sia coloro che non sopportano i grillini sia coloro che non sopportano i leghisti. Nell’attesa è divertente vedere come si regolano i maggiori segnalinee, sagrestani e portavoce dell’Establishment. Quasi tutti mirano a dividere gli alleati per farli cadere e la preferenza negli assalti è naturalmente contro Salvini, il Nemico Principale di tutti i poteri costituiti, magistrati inclusi. Insomma c’è gente che sta cercando di far saltare il ponte gialloverde, perché con i due tronconi divisi, come a Genova, non potranno più andare avanti.Ma c’è una seconda via, un piano B, in cui risale l’antica indole democristiana che oggi veste i panni laici e curiali del Cardinal Paolo Mieli. È vedere se i barbari, come vengono sinteticamente definiti i leghisti e i grillini, possano essere convertiti, disossati o corrotti, secondo i punti di vista. La missione di ammansire i lupi e condurli all’ovile riguarda principalmente i grillini che sono radicali ma sprovveduti, giacobini ma dilettanti, non hanno una loro visione di riferimento ma agiscono random, sulla base di un pauperismo che si autodefinisce momento per momento, rete per rete. E soprattutto sono acquiescenti rispetto al Politically correct, sono più addomesticabili, non hanno le remore della Lega in tema di bioetica e famiglia, sovranità nazionale e confini, migranti e sicurezza. È così che il più modesto, il più moscio, il più rintronato dei grillini, Messer Fico, è diventato il loro ponte, la loro matrioska e il loro parente acquisito tramite cui chiedere il ricongiungimento.Ma la conversione dei barbari in seconda battuta riguarda anche i leghisti. In questo senso era stato rivalutato persino Berlusconi e il suo bromuro personale, Tajani, con la missione di annacquarli, devitalizzarli fino a neutralizzarli, in un altro centro-destra a guida padronale, senza una linea e pronto a intendersi coi dirimpettai. Perché l’apice della redenzione dei barbari, per la curia dei potentati, è l’inciucio. Lasciare agli estremi gli irriducibili, bollati come nemici dell’Europa, della Modernità e della Democrazia liberale, e convergere al centro, governando come Ue comanda, senza l’ardire di rimettere in discussione i comandi. Questi sono gli scenari futuri. Insomma il film è ancora agli inizi, può essere un cortometraggio oppure un kolossal, non sappiamo la trama e nemmeno come va a finire. Se sarà un horror, un lietofine, una farsa.(Marcello Veneziani, “Barbari o divisi”, dal “Tempo” del 1° settembre 2018, articolo ripreso dal blog di Veneziani).Verrà il giorno che il verde si separerà dal giallo, la Lega sarà la nuova destra e il M5 Stelle sarà la nuova sinistra. Dalla maggioranza di governo del presente nascerà un nuovo sistema bipolare. I tempi potranno essere rapidi se in autunno o anche subito la coalizione si spaccherà sui temi sensibili che già conosciamo, vale a dire migranti, giudici, pensioni, reddito di cittadinanza, nazionalizzazioni, mentre su altri come l’Europa e l’avversione alla Casta dei potentati sembrano essere abbastanza omogenei. Ma se resisteranno alla prova d’autunno ci sarà poi la prova dell’Europa quando i due partiti si presenteranno divisi e faranno incetta di voti gli uni nell’area del centro-destra e gli altri in prevalenza della sinistra. Questa profezia circola sotto traccia da qualche tempo, e Bobo Maroni l’ha di recente rilanciata, vedendo nella Lega l’erede della destra e di Forza Italia, e nei grillini gli eredi della sinistra e del Pd. Rispetto alla nuova destra e alla nuova sinistra che faranno quelle cariatidi in caduta? Cambieranno nome, faccia e leader ai loro partiti in ritirata, si aggrapperanno al passato (Veltroni e Berlusconi), cercheranno di aprire i ponti ai due Soggetti principali tramite i loro ambasciatori (Toti e Zingaretti). E per completare la partita si dovrà vedere poi che fine faranno Fratelli d’Italia e Liberi e Uguali, se saranno dentro, fuori a mezzadria, satelliti o in disparte, rispetto ai due poli principali.
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Varoufakis: Grecia in agonia, meglio Schaeuble che Tsipras
La Grecia è fallita 10 anni fa. Dove è la Grecia ora, dopo tre programmi di salvataggio, 270 miliardi di euro in prestiti e due tagli del debito? Allo stesso punto di prima, nello stesso buco nero, e affondiamo sempre di più ogni giorno. Una ragione fra le altre è che le richieste per il taglio del debito stanno impedendo investimenti e consumi. Ora la Troika ha ufficialmente terminato il commissariamento del paese, ma cosa è cambiato in realtà ? I debiti pubblici non si sono ridotti, ma innalzati. Abbiamo solo più tempo per ripagare il debito cresciuto: lo Stato è tuttora fallito, i cittadini sono diventati più poveri, le società ancora falliscono e il nostro Pil è calato del 25%. Tsipras, la Troika, il governo tedesco e la Ue puntano tutti a un avanzo di bilancio? Il surplus è reale, non è una bugia. Ma è stampato nella carne e nel sangue che lo Stato estrae da un settore privato morente. Appare chiaro che sia un crimine contro la logica, non un salvataggio o un successo. Mostrano statistiche di miseria più che di successo. Hanno cambiato le regole, così possono dire che il salvataggio della Grecia è un successo. “Se non funziona, prova con il martello più grande”. Non è solo contro la logica: è un crimine contro il popolo degli Stati Ue, dal Portogallo alla Germania.Chi ha mentito? Tutti loro! Il governo greco, il Fmi, la Bce, tutti. E voi tedeschi siete stati ingannati dalla signora Merkel, due volte. La prima volta quando è entrata nel Bundestag per il primo pacchetto di salvataggio e ha detto che era un atto di solidarietà verso la Grecia, quando i soldi erano destinati alle banche francesi e tedesche che, contro ogni logica, avevano prestato i soldi alla nostra oligarchia. Prima del 2002 la Grecia aveva mentito per entrare nell’euro con statistiche falsate, e ora – dopo tutti questi anni di “salvataggio” – dovrebbe finalmente rispettare i criteri dell’euro? Sicuramente no! Prima di tutto, pensate veramente che la Ue e Berlino siano stati ingannati dalle statistiche greche? Lo hanno sempre saputo. Erano conniventi già nella manipolazione statistica dell’Italia, perchè i politici avevano realmente bisogno che l’Italia entrasse nell’Ue. La Grecia entrò sulla base della stessa manipolazione intenzionale delle regole. Regole che non potevano essere rispettate e che sono impossibili da rispettare ora. Chiudere un occhio fu una concessione che l’allora cancelliere Kohl fece a al presidente francese Mitterrand per il suo via libera alla riunificazione della Germania. Wolfgang Schaeuble era presente, e lui e la Bundesbank sapevano che non avrebbe funzionato. Ed è rimasto sulle sue posizioni.Schaeuble appoggiava l’uscita con miliardi in aiuti, cosicché la Grecia potesse riadattarsi all’euro e, a un certo punto, rientrare o andare avanti per la sua strada. Col senno di poi, aveva ragione? Per lo meno non aveva completamente torto, ma quello che voleva veramente dire era: andatevene via dall’euro. Lui ci voleva fuori per sempre. E se non ha funzionato è perchè vide che, con l’Italia, si avvicinava una catastrofe molto più grande. Che senso ha cacciare qualcuno pagando una grande quantità di denaro, per un breve periodo di tempo? Non ci sarebbe stata poi nessuna ragione per tornare ad un euro mal costruito e che sarebbe costoso per la Grecia. Se potessi scegliere, in quale governo entrerei: quello del mio vecchio amico Alexis Tsipras o di Schaeuble? In nessuno dei due. Ma, se mi chiedete di chi mi fidi di più, la mia risposta è chiara: Wolfgang Schaeuble. Perché? In tutto questo tempo, lui è stato l’unico che ha detto almeno una parte della verità. Io credo alle cose che mi ha detto privatamente, anche se non era sempre la stessa cosa che diceva in pubblico ai tedeschi. Ha sempre mantenuto la sua parola, con me. E la signora Merkel? Mai: mi è sempre sembrata senza aspirazioni e visione. Lei passerà alla storia come il politico che ha avuto quasi tutte le possibilità per unire l’Europa, portarci nel futuro e implementare le riforme, ma poi ha fallito nell’approfittare dell’occasione storica.(Yanis Varoufakis, dichiarazioni rilasciate al “Bild” per una recente intervista sulla situazione greca, ripesa da “Scenari Economici”. Paolo Barnard ricorda che Varoufakis, quand’era ministro con Tsipras, ignorò l’offerta sovranista avanzata da Warren Mosler per salvare il paese; con Tsipras, Varoufakis gli preferì Jamie Galbraith, che predispose la Grecia a subire le devastanti imposizioni della Troika che hanno trasformato la Grecia “risanata” in un paese del terzo mondo. Il problema, alla radice? Il debito greco, come gli altri in Eurozona, è chiamato “pubblico” ma in realtà è denominato in euro e detenuto da banche private, anziché dalla banca centrale controllata dal governo, come avviene nel resto del mondo, dove il potere di spesa è virtualmente illimitato e quindi non condizionato dal rischio-spread).La Grecia è fallita 10 anni fa. Dove è la Grecia ora, dopo tre programmi di salvataggio, 270 miliardi di euro in prestiti e due tagli del debito? Allo stesso punto di prima, nello stesso buco nero, e affondiamo sempre di più ogni giorno. Una ragione fra le altre è che le richieste per il taglio del debito stanno impedendo investimenti e consumi. Ora la Troika ha ufficialmente terminato il commissariamento del paese, ma cosa è cambiato in realtà ? I debiti pubblici non si sono ridotti, ma innalzati. Abbiamo solo più tempo per ripagare il debito cresciuto: lo Stato è tuttora fallito, i cittadini sono diventati più poveri, le società ancora falliscono e il nostro Pil è calato del 25%. Tsipras, la Troika, il governo tedesco e la Ue puntano tutti a un avanzo di bilancio? Il surplus è reale, non è una bugia. Ma è stampato nella carne e nel sangue che lo Stato estrae da un settore privato morente. Appare chiaro che sia un crimine contro la logica, non un salvataggio o un successo. Mostrano statistiche di miseria più che di successo. Hanno cambiato le regole, così possono dire che il salvataggio della Grecia è un successo. “Se non funziona, prova con il martello più grande”. Non è solo contro la logica: è un crimine contro il popolo degli Stati Ue, dal Portogallo alla Germania.