Archivio del Tag ‘Giorgio Napolitano’
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Scanzi: il governo antani del gattopardo Matteo Letta
E menomale che Renzi era quello coraggioso, quello furbo: quello del cambiamento. Macché: nient’altro che un democristiano 2.0, un Enrico Renzi, un Matteo Letta. Un serial bugiardo che mira a cambiare affinché nulla cambi. Un Gattopardo ibridato con Peppa Pig. Un rottamatore, sì, ma intenzionato a desertificare non il “vecchio” quanto la buona politica, la credibilità e la competenza. Parafrasando due delle sue poetesse preferite, Jo Squillo e Sabrina Salerno, “oltre l’ambizione non c’è di più”. Il suo governo è uno strazio così evidente che non ha senso infierire. C’è la Mogherini, quella che a “L’aria che tira” si vantava che loro (il Pd) mai e poi mai avrebbero ridato i soldi pubblici del finanziamento-rimborso ai partiti. C’è la Madia, nota inesperta di tutto. C’è la Boschi, nota (ma poco) e basta. Ci sono Alfano, Lupi e Lorenzin, giustamente felicissimi (solo Renzi poteva allungargli la vita) e vicini al “cambiamento” come Povia a Jimi Hendrix. C’è Franceschini, uno che c’è sempre, e la sua sola presenza inamovibile rende pressoché impossibile votare Pd (a meno che non si sia intrisi di un masochismo bulimico).Ci sono le lobby: Confindustria, Coop, Cl. C’è un dalemiano nel ruolo chiave dell’economia. C’è la Pinotti, che un anno fa votava Bersani, come tutti gli attuali ministri piddini (tranne Boschi). C’è la civatiana Lanzetta buttata là senza preavviso, giusto per isolare Civati e applicare alla perfezione il Manuale Cencelli, garantendosi quindi i voti di tutte le 812 correnti Pd. E c’è soprattutto Orlando, il carismatico e guizzante Andrea Orlando, uno che vorrebbe abolire ergastolo e 41 bis, uno che ha un’idea di giustizia al cui confronto Ghedini è antiberlusconiano. Uno che non ci doveva essere, perché Renzi (in una delle sue 2 o 3 idee di pregio avute negli ultimi mesi) voleva il “magistrato in servizio” Gratteri, ma con coraggio di Don Abbondio ha poi obbedito pure lui a Re Giorgio.Renzi, renziani (verso cui siamo sempre più solidali) e stampa folgorata sulla via di San Matteo da Rignano la meneranno nei prossimi giorni con il 50% di quota rosa, l’esiguo numero dei ministeri che “una roba così solo De Gasperi nel secolo scorso” e l’età mediapiù bassa nella storia della Repubblica Italiana. Tutte cose buone per glorificare le pagliuzze e nascondere le travi. La verità è che Renzi era e rimane un restauratore, un gattopardo: un Craxi-Berlusconi senza avere la bravura – anche maligna – di entrambi. Più che un Renzi I, questo è un Letta 2 o un Napolitano 3. Un rimpasto alla democristiana con supercazzola annessa, scappellamento a destra e qualche antani prematurato per indorare la pillola a un elettorato sempre più vilipeso (che pare accettare tutto o quasi). Renzi voleva essere il nuovo Blair, ma sembra più che altro il vecchio Rumor. Meno preparato, però.(Andrea Scanzi, “Il governo antani del gattopardo Renzi”, da “Il Fatto Quotidiano” del 22 febbraio 2014, ripreso da “Micromega”).E menomale che Renzi era quello coraggioso, quello furbo: quello del cambiamento. Macché: nient’altro che un democristiano 2.0, un Enrico Renzi, un Matteo Letta. Un serial bugiardo che mira a cambiare affinché nulla cambi. Un Gattopardo ibridato con Peppa Pig. Un rottamatore, sì, ma intenzionato a desertificare non il “vecchio” quanto la buona politica, la credibilità e la competenza. Parafrasando due delle sue poetesse preferite, Jo Squillo e Sabrina Salerno, “oltre l’ambizione non c’è di più”. Il suo governo è uno strazio così evidente che non ha senso infierire. C’è la Mogherini, quella che a “L’aria che tira” si vantava che loro (il Pd) mai e poi mai avrebbero ridato i soldi pubblici del finanziamento-rimborso ai partiti. C’è la Madia, nota inesperta di tutto. C’è la Boschi, nota (ma poco) e basta. Ci sono Alfano, Lupi e Lorenzin, giustamente felicissimi (solo Renzi poteva allungargli la vita) e vicini al “cambiamento” come Povia a Jimi Hendrix. C’è Franceschini, uno che c’è sempre, e la sua sola presenza inamovibile rende pressoché impossibile votare Pd (a meno che non si sia intrisi di un masochismo bulimico).
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Vedrete, Renzicchio riuscirà a farci rimpiangere Letta
Bando alle ciance sul premier più giovane e sul governo più rosa della storia italiana. Chissenefrega della propaganda: il governo Letta vantava il record dell’età media più bassa, infatti è durato meno di una gravidanza. Fino a oggi avevamo concesso a Matteo Renzi – come sempre facciamo, senza preconcetti – il sacrosanto diritto di fare le sue scelte prima di essere giudicato. Ora che le ha fatte possiamo tranquillamente dire che il suo governicchio è un Letta-bis, cioè un Napolitano-ter che potrebbe addirittura riuscire nell’ardua impresa di far rimpiangere quelli che l’hanno preceduto. Già la lista con cui è entrato al Quirinale presentava poche novità vere, anzi una sola: quella del magistrato antimafia Nicola Gratteri alla Giustizia. Quella che ne è uscita dopo due ore e mezza di cancellature a opera di Napolitano è un brodino di pollo lesso che delude anche le più tiepide aspettative di svolta.E il fatto che la scure di Sua Maestà si sia abbattuta proprio su Gratteri la dice lunga sul livello di non detto dei patti inconfessabili che Renzi ha voluto o dovuto stringere col partito trasversale del Gattopardo. Se il premier fosse quello che dice di essere, avrebbe dovuto tener duro su Gratteri o mandare tutto a monte. Invece s’è democristianamente genuflesso a baciare la pantofola e ha nominato il ragionier Orlando, ultimamente parcheggiato all’Ambiente («Orlando chi?», avrebbe detto Renzi qualche giorno fa), rinunciando a dare una sterzata alla Giustizia. Complimenti vivissimi a lui e a Giorgio Napolitano, che si conferma il peggior presidente della storia repubblicana: se Scalfaro nel ‘94 usò il potere di nominare i ministri per sbarrare la strada a Previti, lui l’ha usato per fermare un pm competente, efficiente, onesto ed estraneo alle correnti. E non per un’allergia congenita ai Guardasigilli togati: nel 2011 firmò l’incredibile nomina del magistrato forzista Nitto Palma, amico di B. e di Cosentino.Il veto è proprio ad personam contro Gratteri, che la Giustizia minacciava di farla funzionare sul serio, senza più indulti, amnistie, svuota carceri e leggi vergogna. Davvero troppo per lo Stato che tratta con la mafia e per il suo capo. Accettando senza batter ciglio i veti del Colle, della Bce e di Bankitalia, Renzicchio si candida al ruolo di rottamatore autorottamato. Poteva tentare una svolta, costi quel che costi: s’è prontamente fatto fagocitare dalla “palude” che rinfacciava a Letta. Voleva essere il primo premier della Terza Repubblica: sarà il terzo premier a sovranità limitata, circondato da un accrocco di partitocrati di nuova generazione che non danno alcuna garanzia di esser meglio degli antenati. Con due sole eccezioni: il ministro dell’Economia Padoan, finto tecnico che rassicura le autorità europee e mastica politica da una vita, infatti era consigliere di D’Alema (Renzi voleva Delrio, poi anche lì ha alzato bandiera bianca); e l’addetta allo Sviluppo Federica Guidi, che ha soprattutto il merito di essere una turbo berlusconiana e la figlia di papà Guidalberto.Alfano, che Renzi voleva cacciare dal Viminale per l’affare Shalabayeva, resta a pie’ fermo al Viminale. Lupi, che persino il renziano De Luca accusava di farsi gli affari suoi alle Infrastrutture, rimane imbullonato dov’è. Un altro formidabile conflitto d’interessi porta con sé Giuliano Poletti, ras delle coop rosse, al Lavoro. Notevole anche la Pinotti, genovese come Finmeccanica, alla Difesa. La catastrofe Lorenzin farà altri danni alla Salute. Il multiuso Franceschini passa dai Rapporti col Parlamento alla Cultura. La Giannini, segretaria di quel che resta di Scelta civica, va all’Istruzione. Il cerchietto magico renziano si aggiudica gli Esteri con la Mogherini, le Riforme con la Boschi, la Pubblica amministrazione con la Madia (avete capito bene: Madia). Un po’ di fumo negli occhi con la sindaca antimafia Lanzetta alle Regioni, poi due figuranti come Martina all’Agricoltura e il casiniano Galletti che, essendo commercialista, va all’Ambiente. “Ora mi gioco la faccia”, ha detto Renzi. Già fatto.(Marco Travaglio, “Il Renzicchio”, da “Il Fatto Quotidiano” del 22 febbraio 2014, ripreso da “Micromega”).Bando alle ciance sul premier più giovane e sul governo più rosa della storia italiana. Chissenefrega della propaganda: il governo Letta vantava il record dell’età media più bassa, infatti è durato meno di una gravidanza. Fino a oggi avevamo concesso a Matteo Renzi – come sempre facciamo, senza preconcetti – il sacrosanto diritto di fare le sue scelte prima di essere giudicato. Ora che le ha fatte possiamo tranquillamente dire che il suo governicchio è un Letta-bis, cioè un Napolitano-ter che potrebbe addirittura riuscire nell’ardua impresa di far rimpiangere quelli che l’hanno preceduto. Già la lista con cui è entrato al Quirinale presentava poche novità vere, anzi una sola: quella del magistrato antimafia Nicola Gratteri alla Giustizia. Quella che ne è uscita dopo due ore e mezza di cancellature a opera di Napolitano è un brodino di pollo lesso che delude anche le più tiepide aspettative di svolta.
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Il blitz contro di noi, per il quale hanno scelto Renzi
Ora la lista la conosciamo si può fare qualche previsione. Il primo 50% dei ministeri è “senza portafoglio”, così come il restante 50%. Il portafoglio ce l’ha solo chi comanda, ovvero Piercarlo “il dolore è efficace” Padoan, che non ha neanche giurato subito assieme agli altri ministri. È rimasto in Australia, dove stava lavorando al G20 per l’Ocse, caso mai qualcuno non avesse chiaro quali siano le priorità. Giurerà più tardi con comodo, quando deciderà lui. Comunque tutto questo è coreografia, quello che conta è che Padoan è lì per fare quello che lui sa che deve esser fatto, come dicono anche Rehn e Visco (e Draghi).Cosa accadrà ora? La pressione fiscale probabilmente è arrivata al limite, non si può spremere oltre. Certamente c’è da mettere in conto che preparino una qualche forma di patrimoniale, ma il bersaglio grosso ora dovrebbe essere la legislazione del lavoro.Questo è un punto fondamentale, perchè disarticolare completamente i brandelli di diritto del lavoro residui realizzerà uno scenario che anche nel caso di evoluzioni future ora imprevedibili renderà disponibili per molti anni grossi volumi di mano d’opera a buon mercato utilizzabile quasi senza vincoli, con dei costi molto più convenienti anche rispetto alla schiavitù, come spiegava qui “Gz” qualche giorno fa. C’è da aspettarsi qualcosa di simile a un blitz, un po’ come hanno fatto per l’operazione BdI. Renzi non ha nemici interni e ha le spalle coperte dalla cosca finanziaria internazionale e dai media (ogni giorno intervistano Davide Serra su quotidiani o radio, stamattina su Radio1 alle 7.30, ad esempio). Non appena si è ripreso dal brutto quarto d’ora che ha passato, lo stesso Bersani ha rilasciato un’intervista in cui raccomanda a tutti di votare la fiducia al governo, per sgombrare il campo da equivoci. Sa che mettersi di traverso è pericoloso, vedendo come “loro” hanno condotto la “guerra dei sei giorni”: hanno fatto a pezzi Letta e messo in un angolo Napolitano (che sembrava un semidio fino a un mese fa) senza il minimo tentennamento.L’“operazione Friedman” ha come obiettivo dichiarato quello di obbligare l’Italia a “fare le riforme”, e in Italia si appoggia a grossi pezzi di Confindustria che lavorano per l’export e hanno necessità di poter pagare salari da Cina in modo finalmente legale qui in Italia. Questo distruggerà ancora di più il mercato interno ma è un problema nostro, non loro.Nel proteggere l’operazione hanno un ruolo chiave i militanti Pd. Quelli rimasti, ormai, sono dei fedelissimi che difendono il Verbo delle riforme strutturali fino alla morte, e come Gondrano lavorano sodo per difendere il progetto, contro ogni evidenza di devastazione in corso in Europa e in Italia. Questo non è uno scherzo ma è un sistema ottimamente organizzato che eredita il modello leninista, presidia il territorio con centinaia di sedi in tutta Italia e si mobilita come un piccolo esercito che si muove compatto ed efficace quando necessario.Fingono malessere e scrupoli di coscienza, ogni tanto, ma poi rientrano nei ranghi, e silenzio. Qui è il grande succcesso del principio per cui “il partito epurandosi si rafforza”: quanto minore è la partecipazione complessiva al voto, tanto più aumenta il peso relativo e l’efficacia, sullo scenario, di questa minoranza organizzata. Per chi vuole contrastare il progetto totalitario dell’Eurozona c’è molto da imparare di fronte alla disciplina marziale con cui si muovono i pretoriani eurofili; il punto principale è che nel momento cruciale non si scannano tra loro, ma si chiudono come una falange oplitica. Non è politica nè economia: è strategia militare.(Daniele Basciu, “Il blitz”, da “EconoMmt” del 24 febbraio 2014).Ora la lista la conosciamo si può fare qualche previsione. Il primo 50% dei ministeri è “senza portafoglio”, così come il restante 50%. Il portafoglio ce l’ha solo chi comanda, ovvero Piercarlo “il dolore è efficace” Padoan, che non ha neanche giurato subito assieme agli altri ministri. È rimasto in Australia, dove stava lavorando al G20 per l’Ocse, caso mai qualcuno non avesse chiaro quali siano le priorità. Giurerà più tardi con comodo, quando deciderà lui. Comunque tutto questo è coreografia, quello che conta è che Padoan è lì per fare quello che lui sa che deve esser fatto, come dicono anche Rehn e Visco (e Draghi). Cosa accadrà ora? La pressione fiscale probabilmente è arrivata al limite, non si può spremere oltre. Certamente c’è da mettere in conto che preparino una qualche forma di patrimoniale, ma il bersaglio grosso ora dovrebbe essere la legislazione del lavoro.
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Odifreddi: nepotismo e squallore, la Madia ministro
Alle elezioni del 2008, Walter Veltroni usa le prerogative del Porcellum per candidare capolista alla Camera per il Pd nella XV circoscrizione del Lazio la sconosciuta ventisettenne Marianna Madia. Alla conferenza stampa di presentazione, agli attoniti giornalisti la signorina dichiara gigionescamente di «portare in dote la propria inesperienza». In realtà è una raccomandata di ferro, con un pedigree lungo come il catalogo del Don Giovanni. E’ pronipote di Titta Madia, deputato del Regno con Mussolini, e della Repubblica con Almirante. E’ figlia di un amico di Veltroni, giornalista Rai e attore. E’ fidanzata del figlio di Giorgio Napolitano. E’ stagista al centro studi Ariel di Enrico Letta. La sua candidatura è dunque espressione del più antico e squallido nepotismo, mascherato da novità giovanilista e femminista. E fa scandalo per il favoritismo, come dovrebbe.In Parlamento la Madia brilla come una delle 22 stelle del Pd che non partecipano, con assenze ingiustificate, al voto sullo scudo fiscale proposto da Berlusconi, che passa per 20 voti: dunque, è direttamente responsabile per la mancata caduta del governo, che aveva posto la fiducia sul decreto legge. Di nuovo fa scandalo, questa volta per l’assenteismo. La sua scusa: stava andando in Brasile per una visita medica, come una qualunque figlia di papà. Invece di essere cacciata a pedate, viene ripresentata col Porcellum anche alle elezioni del 2013. Ma poi arriva il grande Rottamatore, e la sua sorte dovrebbe essere segnata. Invece, entra nella segreteria del partito dopo l’elezione a segretario di Renzi, e ora viene addirittura catapultata da lui nel suo governo: ministra della Semplificazione, ovviamente, visto che più semplice la vita per lei non avrebbe potuto essere.Altro che rottamazione: l’era Renzi inizia all’insegna del riciclo dei rottami, nella miglior tradizione democristiana. La riciclata ora rispolvererà l’argomento che aveva già usato fin dalla sua prima discesa paracadutata in campo: «Non preoccupatevi di come sono arrivata qui, giudicatemi per cosa farò». Ottimo argomento, lo stesso usato dal riciclatore che dice: «Non preoccupatevi di come ho ottenuto i miei capitali, giudicatemi per come li investo». Se qualcuno ancora sperava di liberarsi dai rottami e dai riciclatori, è servito. L’Italia, nel frattempo, continui ad arrangiarsi.(Piergiorgio Odifreddi, “La Madia ministro? Vergogna!”, inervento pubblicato nel blog di Odifreddi su “Repubblica” e ripreso da “Micromega” il 22 febbraio 2014).Alle elezioni del 2008, Walter Veltroni usa le prerogative del Porcellum per candidare capolista alla Camera per il Pd nella XV circoscrizione del Lazio la sconosciuta ventisettenne Marianna Madia. Alla conferenza stampa di presentazione, agli attoniti giornalisti la signorina dichiara gigionescamente di «portare in dote la propria inesperienza». In realtà è una raccomandata di ferro, con un pedigree lungo come il catalogo del Don Giovanni. E’ pronipote di Titta Madia, deputato del Regno con Mussolini, e della Repubblica con Almirante. E’ figlia di un amico di Veltroni, giornalista Rai e attore. E’ fidanzata del figlio di Giorgio Napolitano. E’ stagista al centro studi Ariel di Enrico Letta. La sua candidatura è dunque espressione del più antico e squallido nepotismo, mascherato da novità giovanilista e femminista. E fa scandalo per il favoritismo, come dovrebbe.
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Argentina e Grecia presentano Padoan, il rovina-paesi
«La riforma Fornero è stato un passo importante per la risoluzione dei problemi dell’Italia», dichiarò un anno fa il neo ministro dell’economia Pier Carlo Padoan. Ex dirigente del Fondo Monetario Internazionale, ex consulente della Bce ed ex vice segretario dell’Ocse, Padoan è di casa tra i potenti del mondo. Scelto personalmente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e osannato dai grandi media italiani, il neo ministro non è stimato da tutti gli economisti, soprattutto da quelli non liberisti. Sentite cosa scrisse di lui sul “New York Times” il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman: «Certe volte gli economisti che ricoprono incarichi ufficiali danno cattivi consigli; altre volte danno consigli ancor peggiori; altre volte ancora lavorano all’Ocse».Padoan era responsabile dell’Argentina per conto del Fondo Monetario Internazionale nell’anno in cui il paese sudamericano fece default. A cosa si riferiva Krugman? Padoan è stato l’uomo che ha gestito per conto del Fondo Monetario Internazionale la crisi argentina. Nel 2001, Buenos Aires fu costretta a dichiarare fallimento dopo che le politiche liberiste e monetariste imposte dal Fmi (quindi, suggerite da Padoan) distrussero il tessuto sociale del paese. In quegli anni il neo ministro si occupò anche di Grecia e Portogallo. Krugman scrisse in un altro articolo che furono proprio le ricette economiche «suggerite da Padoan» a «favorire la successiva crisi economica nei due Paesi».Ecco cosa dichiarò Padoan a proposito della crisi greca: «La Grecia si deve aiutare da sola, a noi spetta controllare che lo faccia e concederle il tempo necessario. La Grecia deve riformarsi, nell’amministrazione pubblica e nel lavoro». In altre parole, Atene avrebbe dovuto rendere il lavoro molto più flessibile, alleggerendo (licenziando) la macchina della pubblica amministrazione. Nel marzo del 2013, quando la Grecia era sull’orlo del collasso, l’allora numero due dell’Ocse suggerì più esplicitamente: «C’è necessità che il governo greco adotti una disciplina di bilancio rigorosa e di un continuo sforzo di risanamento dei conti pubblici, condizioni preventive per il varo di misure a sostegno dello sviluppo». Padoan è stato per quattro anni responsabile per conto del Fmi della Grecia. Successivamente, ha influenzato le politiche economiche di Atene in qualità di vice presidente dell’Ocse.(Franco Fracassi, “L’uomo che spinse l’Argentina nell’abisso”, da “Popoff” del 21 febbraio 2014).«La riforma Fornero è stato un passo importante per la risoluzione dei problemi dell’Italia», dichiarò un anno fa il neo ministro dell’economia Pier Carlo Padoan. Ex dirigente del Fondo Monetario Internazionale, ex consulente della Bce ed ex vice segretario dell’Ocse, Padoan è di casa tra i potenti del mondo. Scelto personalmente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e osannato dai grandi media italiani, il neo ministro non è stimato da tutti gli economisti, soprattutto da quelli non liberisti. Sentite cosa scrisse di lui sul “New York Times” il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman: «Certe volte gli economisti che ricoprono incarichi ufficiali danno cattivi consigli; altre volte danno consigli ancor peggiori; altre volte ancora lavorano all’Ocse».
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Solo il Pd difende ancora l’euro, odiato dagli italiani
Cosa pensano gli italiani della moneta unica? Le elezioni europee si avvicinano, e la questione dell’euro diventerà assolutamente centrale nel dibattito politico. Anche perché «euro e mercato unico sono le uniche “conquiste” dell’Unione Europea dal momento che la Ue non ha una politica sociale, industriale, una politica estera e di difesa comune», ricorda Enrico Grazzini. Gran parte della sinistra radicale intende opporsi alla politica di suicida austerità imposta con metodi autoritari e antidemocratici dalla Troika alla Grecia e ai paesi debitori del Sud Europa. Ma, di là della solidarietà di intellettuali e movimenti a Tsipras, quali possono essere le proposte vincenti per superare lo scoglio dello sbarramento elettorale del 4%? Obiettivo minimo: due milioni di voti, per eleggere almeno tre parlamentari a Strasburgo. Impresa non facilissima, considerando che nove italiani su dieci non sanno nemmeno chi sia, Alexis Tsipras.Secondo tutti i sondaggi, i cittadini europei sono ancora favorevoli all’Europa unita, ma la maggioranza degli italiani (il 49%) non vuole più l’euro, e il 24% (cioè un italiano su quattro) si dice pronto a votare subito un partito schierato contro l’euro. I più contrari alla moneta della Bce sono operai, disoccupati e casalinghe, ma anche imprenditori, liberi professionisti e impiegati (favorevoli solo pensionati e dipendenti pubblici, cioè chi ha un reddito garantito). «Ma la cosa più strabiliante», scrive Grazzini su “Micromega”, è che la stragrande maggioranza del popolo di centrosinistra è schierato al 90% a favore dell’euro, mentre la grande maggioranza degli elettori di centrodestra e del M5S è a favore del ritorno alla lira. Lettura sociologica: «Sembra che molti elettori del centrosinistra appartengano al ceto medio superiore, colto e anziano, con meno problemi economici». Per questo, in nome dell’ideale europeista, «accettano la moneta unica e le conseguenti politiche monetarie e fiscali recessive, che provocano disoccupazione e desertificazione produttiva». Di conseguenza, a rappresentare i sentimenti più popolari sono Berlusconi, Grillo e la Lega.«Ormai – osserva Grazzini – quasi tutti gli economisti riconoscono che l’austerità scaraventata sulle spalle dei lavoratori, del ceto medio e delle piccole e medie aziende è generata dall’euro, che non è solo una moneta ma una politica monetaria ed economica mirata a salvare solo la finanza a scapito dei redditi da lavoro, dell’occupazione e dello stato sociale». Anche se Giorgio Napolitano riesce a fare dell’ossimoro una teoria economico-politica (no all’austerità, sì all’euro – come se non fosse l’euro a determinare il rigore), gli stessi economisti «riconoscono che sarebbe stato meglio non entrare affatto nella moneta unica», aggiunge Grazzini, dal momento che «un regime di moneta unica amplifica gli shock economici». A differenza degli Usa, l’Europa «non ha le caratteristiche necessarie per costituire un’unica area valutaria», e che inoltre «l’euro è una moneta unica incompleta, perché non ha alle spalle una banca centrale prestatrice di ultima istanza». L’euro non ha politiche solidali di bilancio: la politica monetaria dell’Ue è «sostanzialmente guidata e dominata in maniera del tutto miope, in questo momento, dalle classi dirigenti tedesche».E’ certo che la situazione europea peggiorerà, continua Grazzini. Il Fiscal Compact, sottoscritto dal governo Monti e approvato anche da Berlusconi e dal Pd di Bersani, imporrà all’Italia il rientro automatico dal deficit a ritmi forsennati, 80 miliardi all’anno. Un trattato impossibile da rispettare, pena la morte clinica del sistema-paese. Non solo: in base ai trattati Two Packs e Six Packs, i nostri bilanci pubblici subiscono l’esame preventivo della Commissione Ue prima ancora di essere presentati al Parlamento di Roma. «Questi vincoli non sono però ancora completamente noti al popolo italiano e sono tenuti accuratamente in ombra dal governo Letta». A guadagnarci sono soltanto la Germania e le altre nazioni creditrici (Finlandia, Austria, Olanda), ma la «folle politica di austerità» sta facendo diventare l’Europa «il malato del pianeta». Infatti, «perfino gli Usa e i cinesi sono preoccupati dell’avida e restrittiva politica tedesca della coalizione Cdu-Spd della Merkel, che guida senza molte resistenze (certamente non quella del presidente francese François Hollande) l’economia sociale di mercato europea verso la distruzione e il baratro».Per attuare questa politica, continua Grazzini, la Ue spinge verso l’estrema concentrazione di potere verso organismi non eletti: nessuno nella Troika è stato votato dai cittadini europei. «I governi, come quello italiano, sono diventati la cinghia di trasmissione delle politiche decise dalla Bundesbank e dalla Merkel, con il supporto (critico?) del socialismo tedesco, la Spd». L’Europa unita e solidale? «Era un bel sogno», come quello dell’euro che «doveva garantirci stabilità e crescita». E quindi: «Come fare oggi a uscire dall’incubo?». Certo non seguendo il centrosinistra, che – a partire da Napolitano – difende l’euro «nonostante il suo evidente fallimento, anche a costo di perdere completamente la sua tradizionale base sociale». Già, «perché il centrosinistra confonde la moneta unica – criticata dalla grande maggioranza degli economisti – con la possibilità di costruire una Europa unita e solidale?».La verità è che il centrosinistra “assolve” l’Unione Europea, «la cui adesione è stata decisa dalle élite dirigenti italiane, per assimilarsi a queste». Da più di vent’anni, ricorda Grazzini, le forze di centrosinistra «declamano acriticamente le sorti magnifiche e progressive della Ue: diventa allora per loro difficile cambiare direzione di marcia», anche se Romano Prodi ha tentato di prendere tardivamente le distanze da Bruxelles, sostenendo che questa Ue «non è più quella di prima». Di ben altro avviso le voci più critiche – come quelle di Paolo Barnard, Bruno Amoroso, Giulio Sapelli, Emiliano Brancaccio – secondo cui la stessa costruzione dell’Ue, fin dall’inizio – moneta unica non sovrana, Commissione Europea non eletta – era un disegno palesemente insostenibile, neo-feudale, funzionale all’élite finanziaria degli oligarchi, incarnato nel nuovo super-potere della tecnocrazia pilotata dalle grandi lobby planetarie.«E’ difficile affermare che gran parte del popolo italiano sbagli per ignoranza», dice oggi Grazzini. «La sinistra dovrebbe trarre più di una lezione dai risultati dei sondaggi di opinione: dovrebbe prendere atto che la maggioranza della popolazione vorrebbe una opposizione molto dura a questa Unione anti-democratica dell’austerità e dell’euro». Gli Stati Uniti d’Europa vagheggiati dal federalista Altiero Spinelli «rappresentano un’ottima prospettiva, ma solo se innanzitutto viene rispettata la sovranità nazionale». La Ue oggi non è affatto democratica, «ma autoritaria e completamente subordinata ai voleri della finanza». Primo traguardo: pretendere che il Parlamento Europeo – per il quale voteremo a maggio – ottenga un vero potere legislativo che attualmente non ha. E subito dopo: rivedere radicalmente tutti i trattati-capestro, da Maastricht al Fiscal Compact, fino a minacciare di uscire veramente dall’euro, pur di ottenere un cambio di rotta dalla Germania. L’arma di pressione che non si vuole usare, dice un economista come Brancaccio, è il mercato comune europeo: se l’Italia minacciasse di uscirne, Berlino sarebbe costretta a scendere a più miti consigli, per proteggere il suo export.Se la Ue non ribalterà la sua politica economica e sociale, immagina Grazzini, il popolo italiano deciderà autonomamente la sua politica economica: «L’Italia dovrebbe essere pronta a proporre agli altri paesi europei di uscire in maniera concordata dall’euro per riprendersi la sovranità monetaria e per avviare un cammino di sviluppo sostenibile e di piena occupazione». Anche perché «le politiche economiche non possono essere decise da riunioni a tavolino della Troika, ma dai popoli sovrani, dai loro Parlamenti e dai loro governi». L’Italia è ancora una grande nazione europea, «e dovrebbe avere il coraggio di opporsi duramente a questo euro, anche perché è proprio la Germania il paese che senza dubbio avrebbe più da perdere dalla rovina della moneta unica». Per cui, «se si ha timore di andare decisamente contro questo euro e contro questa Ue», le elezioni le vinceranno Berlusconi e Grillo (e in Francia Marine Le Pen) mentre la sinistra «si condannerà per l’ennesima volta all’irrilevanza».Cosa pensano gli italiani della moneta unica? Le elezioni europee si avvicinano, e la questione dell’euro diventerà assolutamente centrale nel dibattito politico. Anche perché «euro e mercato unico sono le uniche “conquiste” dell’Unione Europea dal momento che la Ue non ha una politica sociale, industriale, una politica estera e di difesa comune», ricorda Enrico Grazzini. Gran parte della sinistra radicale intende opporsi alla politica di suicida austerità imposta con metodi autoritari e antidemocratici dalla Troika alla Grecia e ai paesi debitori del Sud Europa. Ma, di là della solidarietà di intellettuali e movimenti a Tsipras, quali possono essere le proposte vincenti per superare lo scoglio dello sbarramento elettorale del 4%? Obiettivo minimo: due milioni di voti, per eleggere almeno tre parlamentari a Strasburgo. Impresa non facilissima, considerando che nove italiani su dieci non sanno nemmeno chi sia, Alexis Tsipras.
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Padoan imposto dalla Troika, con tanti saluti a Renzi
Scusate, ma dov’è la novità del governo Renzi? Vi prego, guardate la lista dei ministri: ci sono diverse giovani comparse (ininfluenti), molti volti notissimi provenienti dal governo uscente (ben nove tra cui Franceschini, Alfano… urca, che rinnovamento!) ed esponenti dell’establishment nazionale (al lavoro il presidente della Lega Cooperative Giuliano Poletti! Niente male per un premier di dichiarata origine democristiana…) e soprattutto di quello europeista. Se non è una fotocopia del governo Letta che era l’interprete in versione democristiana della linea Monti… Qualcuno crede ancora davvero alla favoletta di Renzi rottamatore? L’ho già scritto e insisto: questo è un continuatore. E’ un garante. Ora c’è la prova. Tra tutte, la nomina che più conta è quella di ministro dell’economia.Pier Carlo Padoan è un economista che ha lavorato per la Banca mondiale, la Commissione europea e la Bce. E’ stato rappresentante del Fmi, poi è sbarcato all’Ocse, dove ricopre l’incarico di economista capo. Serve altro per capire chi sia Padoan e soprattutto quale modello economico intenda perseguire? Il nuovo superministro dell’economia è da sempre un dogmatico, un teorico del rigore, probabilmente della patrimoniale, al punto che persino il Premio Nobel Krugman lo ha definito il “cheerleader” dell’austerità. Se avete gradito Monti e la cura che ha riservato all’Italia, apprezzerete senz’altro Padoan. Da notare che Renzi nemmeno lo conosceva; in queste ore, secondo quanto riporta il Messaggero, gli ha parlato solo al telefono, ma ne é rimasto folgorato; come peraltro gradivano – e lo hanno fatto sapere – Napolitano e la Commissione Europea, il Fondo Monetario, naturalmente la Bce di Mario Draghi.Padoan è uno dei loro. E sono rassicurati dalla sua nomina, anzi entusiasti. Gli italiani non so. Sì, gli italiani sono disorientati, sconcertati, in gran parte già delusi da Renzi per il modo in cui ha conquistato il potere. Nessuno ha spiegato quali siano le vere ragioni che hanno costretto alle dimissioni Letta, senza nemmeno il pretesto di una crisi o di un voto di sfiducia. E non che gli italiani lo amassero particolarmente, ma almeno una ragione plausibile, magari democratica… invece nulla. Si è capito invece benissimo chi ha gradito questo perentorio cambio in corsa: l’establishment europeista di cui i mercati sanno interpretare gli interessi. Letta ne faceva parte, ma la sua appartenenza non è bastata a salvarlo. C’era urgenza. Ma per fare cosa? Qui c’è la chiave della crisi e della folgorante ma ingiustificata ascesa di Matteo Renzi.(Marcello Foa, “Macché rottamatore, Renzi è il garante e continuatore”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 22 febbraio 2014).Scusate, ma dov’è la novità del governo Renzi? Vi prego, guardate la lista dei ministri: ci sono diverse giovani comparse (ininfluenti), molti volti notissimi provenienti dal governo uscente (ben nove tra cui Franceschini, Alfano… urca, che rinnovamento!) ed esponenti dell’establishment nazionale (al lavoro il presidente della Lega Cooperative Giuliano Poletti! Niente male per un premier di dichiarata origine democristiana…) e soprattutto di quello europeista. Se non è una fotocopia del governo Letta che era l’interprete in versione democristiana della linea Monti… Qualcuno crede ancora davvero alla favoletta di Renzi rottamatore? L’ho già scritto e insisto: questo è un continuatore. E’ un garante. Ora c’è la prova. Tra tutte, la nomina che più conta è quella di ministro dell’economia.
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Distruggere l’Ucraina: un piano da 5 miliardi di dollari
L’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland ha detto al National Press Club di Washington, lo scorso dicembre, che gli Stati Uniti hanno investito 5 miliardi di dollari «al fine di dare all’Ucraina il futuro che merita», così scrive Paul Craig Roberts sul suo blog. Lui è ex assistente al Tesoro degli Usa e dice cose documentate. E ho letto che la Nuland ha già scelto i membri del futuro governo ucraino per quando Yanukovic sarà stato spodestato (o fatto fuori). L’Ucraina potrà avere così “il futuro che merita”. Ma quale futuro merita l’Ucraina, gli ucraini? Per come stanno andando le cose nessuno: non ci sarà l’Ucraina. Nell’indescrivibile clangore delle menzogne che gronda dai media mainstream la cosa principale che manca in assoluto è la banale constatazione che Yanukovic, l’ennesimo “dittatore sanguinario” della serie, è stato eletto a larga maggioranza dagli ucraini.Nessuno ne contestò l’elezione quando sconfisse Viktor Yushenko, anche se fu un boccone amaro per chi di Yushenko aveva finanziato l’ascesa. E gli aveva perfino procurato la moglie. Pochi sanno che la seconda moglie di Yushenko si chiama Katerina Chumacenko, che veniva direttamente dal Dipartimento di Stato Usa (incaricata dei “diritti umani”). Ancora meno sanno che Katerina, prima di fare carriera a Washington, era stata uno dei membri più attivi e influenti dell’organizzazione neo-nazista Oun-B della sua città natale, Chicago. Oun-B sta per Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, di Stepan Bandera. L’Oun-B, tutt’altro che defunta, ha dato vita al Partito Svoboda, il cui slogan di battaglia è “l’Ucraina agli ucraini”, lo stesso che Bandera innalzava collaborando con Hitler durante la seconda guerra mondiale.Del resto Katerina era stata leader del Comitato del Congresso ucraino, il cui ispiratore era Jaroslav Stetsko, braccio destro di Stepan Bandera. Che è come dire che il governo americano si era sposato con i nazisti ucraini emigrati negli Usa, prima di mettere Katerina nel letto di Yushenko. Anche di questo il mainstream non parla. Ma ho fatto questa digressione per dire che, certo, gli ucraini hanno tutto il diritto di essere scontenti, molto scontenti di Yanukovic. E di avere cambiato idea. Anche noi abbiamo tutto il diritto di essere scontenti di Napolitano o del governo, ma questo non significa che pensiamo sia giusto assaltare il Quirinale a colpi di bombe molotov prima e poi di fucili mitragliatori. Essenziale sarebbe stato tenere conto di questi dati di fatto. Ma il piano, di lunga data, degli Stati Uniti era quello di assorbire l’Ucraina nell’Occidente. Se possibile tutta intera.Sentite cosa scriveva nel 1997 Zbignew Brzezinski, polacco: «Se Mosca ricupera il controllo sull’Ucraina, con i suoi 52 milioni di persone e le grandi risorse, riprendendo il controllo sul Mar Nero, la Russia tornerà automaticamente in possesso dei mezzi necessari per ridiventare uno Stato imperiale». Ecco dunque il perché dei 5 miliardi di cui parla la Nuland. Caduto Yushenko, in questi anni decine di Ong, fondazioni, istituti di ricerca, università europee e americane, e canadesi, hanno invaso la vita politica dell’Ucraina. Qualche nome? Freedom House, National Democratic Institute, International Foundation for Electoral Systems, International Research and Exchanges Board. E, mentre si «faceva cultura», e si compravano tutte le più importanti catene televisive e radio del paese, una parte dei fondi servivano per finanziare le squadre paramilitari che vediamo in azione in piazza Maidan. Che, grazie a questi aiuti, si sono moltiplicate.Adesso emerge il Pravij Sector (“Settore di destra” e “Spilna Prava”), ma il giornale polacco “Gazeta Wiborcza” ha parlato di squadre paramilitari polacche che agiscono a Maidan. E la piazza pullula di agenti dei servizi segreti occidentali: lo fanno in Siria, perché mai non dovrebbero farlo a Kiev? È perfino più facile: Yanukovic, dittatore sanguinario, appare più molle di Milosevic, altro strano dittatore sanguinario che si fece sconfiggere elettoralmente da Otpor (fondato e ampiamente finanziato dagli Usa). Tutto già visto. C’è solo un problema: Putin non è un pellegrino sprovveduto. È questo il popolo ucraino? Certo sono migliaia, anzi decine di migliaia, a mostrare il livello della rabbia popolare contro un regime inetto (non più inetto di quelli dei precedenti amici dell’Occidente, Kravchuk, Kuchma, Yushenko, Timoshenko), ma chi guida è chiaro perfino dalle immagini televisive. E questa è la ex Galizia, ex polacca, e la Transcarpazia. Se crolla Yanukovic e prendono il potere costoro, sarà una diaspora sanguinosa.I primi ad andarsene saranno i russofoni dell’est e del nord, del Donbass dei minatori, che già stanno alzando le difese. E subito sarà la Crimea, che ha già detto quasi unanime che intende restare dalla parte della Russia, anche per tentare di salvarsi dalla furia antirussa di coloro che prenderanno il potere. È l’inizio delle secessioni, oggi perfino difficili da prevedere, dai contorni indefiniti, che produrranno non fronti militari ma selvagge rappresaglie all’interno di comunità che non saranno più solidali. L’Europa, fedele esecutrice dei piani di Washington, ha aperto il vaso di Pandora. Che adesso le esploderà tra le mani. I nuovi inquilini saranno di certo concordati (sempre che Putin abbia la garanzia che non sarà valicato il Rubicone dell’ingresso nella Nato), ma coloro che sono scesi in piazza armati hanno in testa un’idea di Europa molto diversa da quella che si figura Bruxelles.E quelli in buona fede che sono andati dietro i neonazisti – e sono sicuramente tanti – si aspettano di entrare in Europa domani. E saranno tremendamente delusi quando dovranno cominciare a pagare, e non potranno comunque entrare, perché nei documenti di Vilnius questo non è previsto. L’unico tra i commentatori italiani che ha scritto alcune cose sensate è stato Romano Prodi, ma le ha scritte sull’“International New York Times”. Rivolto agli europei li ha invitati a non mettere nel mirino solo Yanukovic, bensì condannare anche i rivoltosi. E ha aggiunto: «Coinvolgere Putin», visto che tutte le parti hanno «molto da perdere e nulla da guadagnare da ulteriori violenze». Giusto ma ottimista. Chi ha preparato la cena adesso vuole mangiare e non si fermerà. E l’isteria antirussa è il miglior condimento per altre avventure.(Giulietto Chiesa, “L’Occidente apre il vaso di Pandora”, da “Il Manifesto” del 21 febbraio 2014).L’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland ha detto al National Press Club di Washington, lo scorso dicembre, che gli Stati Uniti hanno investito 5 miliardi di dollari «al fine di dare all’Ucraina il futuro che merita», così scrive Paul Craig Roberts sul suo blog. Lui è ex assistente al Tesoro degli Usa e dice cose documentate. E ho letto che la Nuland ha già scelto i membri del futuro governo ucraino per quando Yanukovic sarà stato spodestato (o fatto fuori). L’Ucraina potrà avere così “il futuro che merita”. Ma quale futuro merita l’Ucraina, gli ucraini? Per come stanno andando le cose nessuno: non ci sarà l’Ucraina. Nell’indescrivibile clangore delle menzogne che gronda dai media mainstream la cosa principale che manca in assoluto è la banale constatazione che Yanukovic, l’ennesimo “dittatore sanguinario” della serie, è stato eletto a larga maggioranza dagli ucraini.
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Fatto fuori anche Gratteri, così Renzi si rottama da solo
Nel 1994 era stato Cesare Previti, l’avvocato degli affari sporchi di Silvio Berlusconi, a entrare al Quirinale come Guardasigilli in pectore e a uscire degradato. Sull’onda dell’indignazione suscitata dalla scoperta di Tangentopoli, il Colle aveva detto no. E Previti era finito alla Difesa. Oggi, nel mondo alla rovescia dei ladri e della Casta, a venir depennato all’ultimo momento dalla lista ministri è Nicola Gratteri, stimato magistrato antimafia, la cui colpa principale è quella di aver sognato di poter far funzionare la giustizia anche in Italia. Gratteri resterà in Calabria. E per la gioia della ‘ndrangheta, delle consorterie politico-mafiose e dell’Eterno Presidente, Giorgio Napolitano, in via Arenula ci finisce l’ex ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, celebre per aver chiesto l’abolizione dell’ergastolo e proposto l’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.È il segno più evidente di come il rottamatore Matteo Renzi prosegua imperterrito nella distruttiva opera di auto-rottamazione e di demolizione del sogno di cambiamento che aveva rappresentato per molti italiani. Una stolta manovra iniziata con il tradimento e il successivo brutale accoltellamento politico del mediocre Enrico Letta, a cui il nuovo premier aveva più volte pubblicamente e bugiardamente assicurato lealtà. Certo, sull’esclusione all’ultimo minuto di Gratteri in molti vedono le impronte digitali di Napolitano. Il presidente del secondo paese più corrotto d’Europa, noto per aver lesinato solo i moniti in materia di legalità della politica, ovviamente esclude ogni responsabilità. Resta però da spiegare come mai, stando a quello che risulta per certo a “Il Fatto Quotidiano”, al magistrato fosse stato assicurato il dicastero solo pochi minuti prima della salita di Renzi al Colle. E perché Napolitano, pubblicamente, abbia poi tenuto a precisare – con una sorta di excusatio non petita – che tra lui e Renzi non era avvenuto nessun “braccio di ferro” sulla lista dei ministri.Nelle prossime ore le notizie su quello che è esattamente accaduto durante il lunghissimo faccia a faccia tra il neopremier e l’ottuagenario capo dello Stato, non mancheranno. Non c’è invece bisogno di retroscena per capire tutto il resto. Bastano i curricula dei ministri più importanti. Nella lista spiccano i nomi dell’esponente di Confindustria e della Commissione Trilaterale, Federica Guidi (Sviluppo economico), quello del presidente della Lega Cooperative, Giuliano Poletti, dell’ex delfino di Berlusconi, Angelino Alfano (Interno), e del ciellino Maurizio Lupi (Infrastutture). Mentre all’Economia ci finisce Pier Carlo Padoan, capo economista dell’Ocse e ex presidente della Fondazione italiani europei di Massimo D’Alema, e alle Politiche, Agricole Maurizio Martina, già pupillo di Filippo Penati, l’ex presidente della Provincia di Milano sotto processo per le tangenti di Sesto San Giovanni.Il fatto che Renzi sia riuscito a mettere insieme una squadra formata al 50 per cento da donne, che l’età media dell’esecutivo sia piuttosto bassa, non servirà al premier per cancellare negli elettori la sensazione di trovarsi di fronte a un consiglio dei ministri espressione di quelle lobby da più parti ritenute responsabili del degrado del paese. È infatti più che ragionevole dubitare che il suo obamiano programma di governo (“una riforma al mese”) possa essere messo in atto da una compagine del genere. Perché questo non è un dream team, ma solo una galleria di errori e orrori. Così già oggi sappiamo che ha vinto il Gattopardo. #lavoltabuona può attendere.(Peter Gomez, “Governo Renzi auto-rottamato, fatto fuori Gratteri restano solo lobby e gattopardi”, da “Il Fatto Quotidiano” del 21 febbraio 2014).Nel 1994 era stato Cesare Previti, l’avvocato degli affari sporchi di Silvio Berlusconi, a entrare al Quirinale come Guardasigilli in pectore e a uscire degradato. Sull’onda dell’indignazione suscitata dalla scoperta di Tangentopoli, il Colle aveva detto no. E Previti era finito alla Difesa. Oggi, nel mondo alla rovescia dei ladri e della Casta, a venir depennato all’ultimo momento dalla lista ministri è Nicola Gratteri, stimato magistrato antimafia, la cui colpa principale è quella di aver sognato di poter far funzionare la giustizia anche in Italia. Gratteri resterà in Calabria. E per la gioia della ‘ndrangheta, delle consorterie politico-mafiose e dell’Eterno Presidente, Giorgio Napolitano, in via Arenula ci finisce l’ex ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, celebre per aver chiesto l’abolizione dell’ergastolo e proposto l’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.
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Piccola antologia ignobile: così parlarono i padri dell’Ue
«Sono sicuro che l’euro ci costringerà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Proporli adesso è politicamente impossibile, ma un bel giorno ci sarà una crisi e si creeranno i nuovi strumenti». Così parlava Romano Prodi nel lontano 2001, precisamente il 4 dicembre, intervistato dal “Financial Times”. Dunque “sapeva”, Prodi, che l’euro avrebbe generato “una crisi”. La memorabile sortita dell’ex premier italiano, ex consulente di Goldman Sachs e ovviamente ex presidente della Commissione Europea, fa parte del florilegio presentato da “Megachip” alla voce: piccola antologia di “democrazia europea”. «Dunque per fare “passi avanti” l’Europa ha bisogno di devastare la società, avvilire la cultura, generare disoccupazione di massa, far suicidare imprenditori e lavoratori, gettare nello sconforto e nella disperazione milioni di giovani e produrre miseria».Sul metodo generalmente adottato dalla Troika – il terrorismo economico – è illuminante l’ammissione di un altro supremo eurocrate, il francese Jean-Claude Juncker, già presidente dell’Eurogruppo: «Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere cosa succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa è stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno». Non è fantascienza, non è letteratura horror. Sono parole – reali – dei grandi decisori europei, quelli che decretano le misure da cui deriva il supplizio socio-economico al quale siamo sottoposti. In altre parole, stando alle rivelazioni di Juncker, crimini contro l’umanità. I leader europei, dice l’italiano Giuliano Amato il 12 luglio 2007 a “Eu Observer”, hanno deciso che il Trattato Lisbona «avrebbe dovuto essere illeggibile». Questo perché, «se fosse stato comprensibile, ci sarebbero state ragioni per sottoporlo a referendum». Quindi gli eurocrati «si sentono più al sicuro con la cosa illeggibile», testualmente. Obiettivo, appunto, «evitare pericolosi referendum».Lo sa bene l’ex cancelliere tedesco Helmuth Kohl, che al “Telegraph” del 9 aprile 2013 dichiara: «Sapevo che non avrei mai potuto vincere un referendum in Germania. Avremmo perso il referendum sull’introduzione dell’euro. Questo è abbastanza chiaro. Avrei perso sette a tre. Nel caso dell’euro sono stato come un dittatore». Dopotutto, «l’Europa non nasce da un movimento democratico», come ammette già nel 1999 il super-tecnocrate ed ex ministro prodiano Tommaso Padoa Schioppa. L’attuale Unione Europea ha un’origine chiaramente eversiva: «E’ nata seguendo un metodo che potremmo definire con il termine di dispotismo illuminato». La costruzione europea? «E’ una rivoluzione», dice Padoa Schioppa a “Commentaire”, «anche se i rivoluzionari non sono dei cospiratori pallidi e magri, ma degli impiegati, dei funzionari, dei banchieri e dei professori», che al «polo del consenso popolare» preferiscono ovviamente «quello della leadership».Per un altro padre fondatore dell’Ue, il monarchico Jacques Attali, trasformatosi in “socialista” alla corte di François Mitterrad, l’euro non fu certo creato per la gioia della “plebaglia europea”. Il 24 gennaio 2011 rivela: «Abbiamo minuziosamente “dimenticato” di includere l’articolo per uscire da Maastricht». Contratto unico al mondo: senza clausola di rescissione. Attali ha avuto «il privilegio» di far parte del gruppo ristretto incaricato di stendere le prime bozze. «Ci siamo incoraggiati a fare in modo che uscirne sia impossibile», ammette. «Abbiamo attentamente “dimenticato” di scrivere l’articolo che permetta di uscirne». Niente da aggiungere? «Non è stato molto democratico, naturalmente, ma è stata un’ottima garanzia per rendere le cose più difficili, per costringerci ad andare avanti».Chiude la rassegna dell’orrore il professor Mario Monti, il 22 febbraio 2001 all’università Luiss, al convegno “finanza: comportamenti, regole istituzioni”. «Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi, crisi gravi, per fare passi avanti», dice il futuro capo del “governo tecnico” incaricato da Napolitano. «I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario». In quattro parole, Monti espone la “filosofia del ricatto” che è la prassi sostanziale dei gangster al governo di Bruxelles: si provvede a terremotare un paese, per poi (Prodi docet) imporre la “soluzione” già pronta nel cassetto. «È chiaro che il potere politico – ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale – possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle, perché c’è una crisi in atto visibile, conclamata». La benedetta crisi, progettata a tavolino. Minacce, ricatti, menzogne, truffe. Un campionario inesauribile.«Sono sicuro che l’euro ci costringerà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Proporli adesso è politicamente impossibile, ma un bel giorno ci sarà una crisi e si creeranno i nuovi strumenti». Così parlava Romano Prodi nel lontano 2001, precisamente il 4 dicembre, intervistato dal “Financial Times”. Dunque “sapeva”, Prodi, che l’euro avrebbe generato “una crisi”. La memorabile sortita dell’ex premier italiano, ex consulente di Goldman Sachs e ovviamente ex presidente della Commissione Europea, fa parte del florilegio presentato da “Megachip” alla voce: piccola antologia di “democrazia europea”. «Dunque per fare “passi avanti” l’Europa ha bisogno di devastare la società, avvilire la cultura, generare disoccupazione di massa, far suicidare imprenditori e lavoratori, gettare nello sconforto e nella disperazione milioni di giovani e produrre miseria».
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Già tutta con Renzi la stampa che ieri osannava Letta
Uno sente parlare i dirigenti del Pd, soprattutto i lettiani e gli antirenziani. Poi legge i giornali che nove mesi fa salutavano in Enrico Letta l’alba di un nuovo giorno radioso, l’ultima speranza dell’Italia, il capolavoro di Napolitano. E gli viene spontaneo domandare: scusate, cari, ma quando l’avete scoperto che il Nipote era una pippa? No perché, ad ascoltarvi e a leggervi in questi nove mesi, non è che si notasse granché. Benvenuti nel club, per carità: meglio tardi che mai. Ma, prima di saltare sulla Smart del nuovo vincitore, forse era il caso di chiedere scusa: pardon, ci siamo sbagliati un’altra volta. Il fatto è che ci sono abituati, non avendone mai azzeccata una: avevano puntato tutto su D’Alema, poi su Veltroni, persino su Rutelli. Ci avevano spiegato che B. non era poi così male, guai a demonizzarlo, anzi occorreva pacificarvisi. Poi si erano bagnati le mutandine all’avvento di Monti: che tecnico, che cervello, che sobrietà, che loden.Poi tutti con Enrico, a giocare a Subbuteo per non perdersi “la rivoluzione dei quarantenni”. E ora eccoli lì, col solito turibolo e senza fare un plissè, ai piedi del Fonzie reincarnato. Pare ieri che Aldo Cazzullo, sul Corriere, s’illuminava d’immenso: «Napolitano non ha citato Kennedy – “la fiaccola è stata consegnata a una nuova generazione…” – ma ha detto più o meno le stesse cose mentre affidava l’incarico di formare il “suo” governo a un uomo di cui potrebbe essere il nonno [... ]. L’Italia, paese considerato gerontocratico, fa un salto in avanti inatteso e si colloca all’avanguardia in Europa», perché «a Palazzo Chigi arriva il ragazzo che amava il Drive In e gli U2». Ora, oplà, si porta avanti col lavoro ed entra nel magico “mondo di Renzi” passando “dal parrucchiere Tony Salvi e dal suo salone di bellezza”: «Il sindaco viene tre volte la settimana» e «questo è l’unico posto dove stacca il cellulare». Per far che? Ordinare un’impepata di cozze? Ballare il tango?Nossignori. Udite udite: trovandosi dal barbiere, il Renzi «si fa spuntare i capelli (è stato Tony a fargli tagliare il ciuffo)». E nel “bar di Marcello”? Trattandosi di un bar, «fa colazione». Indovinate ora cosa riesce a combinare «nella pizzeria Far West di Pontassieve»? Ordina la pizza. Ma senza mai perdere la sua personalità, ché Lui «non è mai stato e soprattutto non si è mai sentito un ‘uomo di’. Tantomeno di Lapo Pistelli». E «sarebbe sbagliato sopravvalutare l’influenza di amici cui pure è vicinissimo, come Farinetti e Baricco». Perché «nessuno l’ha mai visto in soggezione», neanche davanti a Obama e Mandela. Non porta loden, non gioca a Subbuteo, né si conosce la sua posizione in merito al Drive In e agli U2. Però «il maglione color senape è il regalo di compleanno di Giovanna Folonari», mica cazzi.Il suo discorso dell’altroieri in Direzione, «come tutto il dibattito a seguire, è segnato da una vena lirica». E con la stampa, come andiamo con la stampa? «Tra i giornalisti Renzi ha rapporti di stima con Severgnini e Gramellini, ma non ha amici, se non la coppia Daria Bignardi-Luca Sofri (con Fabio Fazio, dopo una distanza iniziale, si sentono ogni tanto)». E Cazzullo? Su, Aldo, non fare il modesto: eddai, mettiamoci pure Cazzullo e non ne parliamo più. Per non trascurare i dettagli fondamentali, “Repubblica” dedica un’intera pagina alla Smart (“A tutto gas sulla Smart: così il Renzi-style archivia auto blu e berline”). Essa «è leggera, veloce e un po’ prepotente: è giovane, poi, costosa e non italiana. Insomma, è molto Renzi». Il quale – salmodia umido Claudio Cerasa sul “Foglio” – «sfanala con gli abbaglianti della Smart nello specchietto retrovisore della Panda di Letta, decide di premere la frizione, di cambiare marcia, di mettersi in scia, di azionare la freccia, di tentare finalmente il sorpasso». Per fare che? «Diventare l’Angela Merkel del Pd». E, assicura Giuliano Ferrara, «arrivare a Palazzo Chigi con piglio teutonico».Il ragazzo, come dice Sallusti, «ha le palle» più ancora di Palle d’Acciaio. E, aggiunge Salvatore Tramontano sul “Giornale”, «ha rottamato la sinistra che voleva rottamare Forza Italia. Ha messo fine al ventennio. Antiberlusconiano. Ha dimostrato che si può non avere paura del futuro. Come Berlusconi». Del resto, osserva “Repubblica”, «smart sta per “intelligente”, con una sfumatura di brillantezza». La sfumatura che gli fa Tony quando gli spunta il ciuffo. E il discorso in Direzione? Dire sobrio sarebbe troppo montiano: «Asciutto, senza fuochi d’artificio, senza retorica». Decisiva «la camicia bianca», «cambiata un attimo prima in bagno» dal Fregoli fiorentino (prima era “celeste”): «È il suo tratto distintivo, è il richiamo al mito Tony Blair». In effetti, a parte lui e Blair, chi ha mai portato una camicia bianca?“La Stampa” la butta sul mistico: mamma Laura «l’ha affidato alla Madonna… della quale, sopra la porta d’ingresso, c’è una bella icona». Del resto a Pontassieve «la Madonna dev’essere di casa perché il posto dov’è cresciuto Renzi sembra un paradiso». Senza dimenticare che lui «la sua station wagon» la guida personalmente «con la moglie Agnese a fianco e il rosario sullo specchietto». Santo subito. E anche colto, molto colto. La lingua corrierista di Luca Mastrantonio scomoda Dante Alighieri («per il suo libro “Stil novo”»), lambisce «Cosimo de ’ Medici» e «Benedetto Cellini» (che si chiamava Benvenuto, ma fa niente) e s’inerpica su su fino a Steve Jobs (per «il celebre imperativo categorico rivolto ai giovani americani: Stay hungry, stay foolish») e al «Grande Gatsby, l’affascinante outsider dell’età del jazz americana… Gatsby e Renzi sono entrambi personaggi fuori misura, dotati di carisma e ambizione, ma i moventi sono diversi».Tra “L’Unità” ed “Europa” è il solito derby del cuore, anzi della saliva. Un filino più perplessa la prima, anche se Pietro Spataro conviene che «l’Italia ha bisogno come l’aria (sic, ndr) di una svolta radicale», «restare nella palude sarebbe stato il male peggiore», «meglio essere trascinati da un’“ambizione smisurata” che prigionieri di una modesta navigazione”: peccato che né lui né “L’Unità” avessero mai avvertito i lettori che Letta era una palude e una modesta navigazione (che s’ha da fa’ per campa’). Eccitatissimo, su “Europa”, il sempre coerente Stefano Menichini. Solo in aprile cannoneggiava il «ceto intellettuale che del radicalismo tendente al giustizialismo fa la propria ragion d’essere»: «I Travaglio, i Padellaro, i Flores che annullano la persona di Enrico Letta perché “nipote”». Putribondi figuri che osavano dubitare delle magnifiche sorti e progressive del governo Letta: «Personaggi che fanno orrore. Il loro linguaggio suscita repulsione. Il loro livore di sconfitti mette i brividi. Ma in condizioni normali il loro posto dovrebbe essere ai margini… lasciando ai neofascisti la necrofilia e l’intimidazione».Ora invece, con agile balzo, impartisce l’estrema unzione al fu Nipote («Enrico Letta lascia dopo aver tenuto il punto ma essendosi fermato un attimo prima di coinvolgere il paese, il sistema politico e il Pd in uno psicodramma pericoloso») e bussare alla «porta che si sta spalancando a una stagione davvero nuova e inedita dell’intera politica italiana»: quella di Renzi, che «si avvia verso l’obiettivo della vita, il governo, col suo solito passo accelerato, e la notizia fa già il giro del mondo suscitando verso l’Italia una curiosità finalmente positiva». Perché «a ogni suo salto di status, si allarga il numero di chi viene coinvolto dalle sue scelte e dalle sue fortune. Fino a oggi era solo il popolo democratico. Da domani sarà l’intero popolo italiano». Torna finalmente a rifulgere il sole sui colli fatali di Roma.(Marco Travaglio, “Governo Renzi, sulla Smart del vincitore”, da “Il Fatto Quotidiano” del 15 febbraio 2014).Uno sente parlare i dirigenti del Pd, soprattutto i lettiani e gli antirenziani. Poi legge i giornali che nove mesi fa salutavano in Enrico Letta l’alba di un nuovo giorno radioso, l’ultima speranza dell’Italia, il capolavoro di Napolitano. E gli viene spontaneo domandare: scusate, cari, ma quando l’avete scoperto che il Nipote era una pippa? No perché, ad ascoltarvi e a leggervi in questi nove mesi, non è che si notasse granché. Benvenuti nel club, per carità: meglio tardi che mai. Ma, prima di saltare sulla Smart del nuovo vincitore, forse era il caso di chiedere scusa: pardon, ci siamo sbagliati un’altra volta. Il fatto è che ci sono abituati, non avendone mai azzeccata una: avevano puntato tutto su D’Alema, poi su Veltroni, persino su Rutelli. Ci avevano spiegato che B. non era poi così male, guai a demonizzarlo, anzi occorreva pacificarvisi. Poi si erano bagnati le mutandine all’avvento di Monti: che tecnico, che cervello, che sobrietà, che loden.
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Renzi? Bugiardo e pericoloso: ha troppi padroni potenti
«Matteo Renzi è un mentitore pericoloso», taglia corto Pino Cabras su “Megachip”. «Ha illuso milioni di elettori con la narrazione del Rottamatore, ma ha rottamato solo chi gli si opponeva, imbarcando ogni genere di boss e sotto-boss nella sua scalata». Una lunga sequenza di menzogne: aveva «dichiarato solennemente di non voler andare a Palazzo Chigi senza legittimazione popolare», mentre ora – abbattendo Letta – disegna il nuovo scenario «con un Parlamento eletto con una legge incostituzionale», peraltro peggiorata con l’aiuto del Cavaliere, «con il quale – altra bugia per prendere i voti – diceva che non si potevano mai fare accordi». Il nuovo capo del Pd tradisce sistematicamente chi gli ha dato fiducia? «Certo, Renzi ha un disegno. Ma questo disegno non è nelle mani di alcuno che gli abbia dato fiducia dal basso. È nelle mani dei veri potenti che detengono le cambiali politiche che Renzi ha firmato durante la fase ascendente della sua parabola». E gli “azionisti” di Renzi non sono soltanto italianiQuando negli anni ‘80 Michael Ledeen varcava l’ingresso del dipartimento di Stato, ricorda Franco Fracassi su “Popoff”, chiunque avesse dimestichezza con il potere di Washington sapeva che si trattava di una finta: quello, per lo storico di Los Angeles, rappresentava solo un impiego di facciata, per nascondere il suo reale lavoro. E cioè: consulente strategico per la Cia e per la Casa Bianca. «Ledeen è stato la mente della strategia aggressiva nella Guerra Fredda di Ronald Reagan, è stato la mente degli squadroni della morte in Nicaragua, è stato consulente del Sismi negli anni della Strategia della tensione, è stato una delle menti della guerra al terrore promossa dall’amministrazione Bush, oltre che teorico della guerra all’Iraq e della potenziale guerra all’Iran, è stato uno dei consulenti del ministero degli Esteri israeliano. Oggi – aggiunge Fracassi – Michael Ledeen è una delle menti della politica estera del segretario del Partito democratico Matteo Renzi».Forse è stato anche per garantirsi la futura collaborazione di Ledeen che l’allora presidente della Provincia di Firenze si recò nel 2007 al dipartimento di Stato Usa «per un inspiegabile tour». Non è un caso, continua Fracassi, che il segretario di Stato Usa John Kerry abbia più volte espresso giudizi favorevoli nei confronti di Renzi. Ma sono principalmente i neocon ad appoggiare Renzi dagli Stati Uniti. Secondo il “New York Post”, ammiratori del sindaco di Firenze sarebbero gli ambienti della destra repubblicana, legati alle lobby che lavorano per Israele e per l’Arabia Saudita. «In questa direzione vanno anche il guru economico di Renzi, Yoram Gutgeld, e il suo principale consulente politico, Marco Carrai, entrambi molti vicini a Israele». Carrai, scrive Fracassi, ha addirittura propri interessi in Israele, dove si occupa di venture capital e nuove tecnologie. «Infine, anche il suppoter renziano Marco Bernabè ha forti legami con Tel Aviv, attraverso il fondo speculativo Wadi Ventures». Suo padre, Franco Bernabè, fino a pochi anni fa è stato «arcigno custode delle dorsali telefoniche mediterranee che collegano l’Italia a Israele».Forse aveva ragione l’ultimo cassiere dei Ds, Ugo Sposetti, quando disse: «Dietro i finanziamenti milionari a Renzi c’è Israele e la destra americana». O perfino Massimo D’Alema, che definì Renzi il terminale di «quei poteri forti che vogliono liquidare la sinistra». Dietro Renzi, continua Fracassi, ci sono anche i poteri forti economici, a partire dalla Morgan Stanley, una delle banche d’affari responsabile della crisi mondiale. «Davide Serra entrò in Morgan Stanley nel 2001, e fece subito carriera, scalando posizioni su posizioni, in un quinquennio che lo condusse a diventare direttore generale e capo degli analisti bancari». Una carriera, quella del giovane broker italiano, punteggiata di premi e riconoscimenti per le sue abilità di valutazione dei mercati. «In quegli anni trascorsi dentro il gruppo statunitense, Serra iniziò a frequentare anche i grandi nomi del mondo bancario italiano, da Matteo Arpe (che ancora era in Capitalia) ad Alessandro Profumo (Unicredit), passando per l’allora gran capo di Intesa-San Paolo Corrado Passera».Nel 2006 Serra decise tuttavia che era il momento di spiccare il volo. E con il francese Eric Halet lanciò Algebris Investments. Già nel primo anno Algebris passò da circa 700 milioni a quasi due miliardi di dollari gestiti. L’anno successivo Serra, con il suo hedge fund, lanciò l’attacco al colosso bancario olandese Abn Amro, compiendo la più importante scalata bancaria d’ogni tempo. Poi fu il turno del banchiere francese Antoine Bernheim a essere fatto fuori da Serra dalla presidenza di Generali, permettendo al rampante finanziere di mettere un piede in Mediobanca. Definito dall’ex segretario Pd Pier Luigi Bersani «il bandito delle Cayman», Serra oggi ha quarantatré anni, vive nel più lussuoso quartiere di Londra (Mayfair), fa miliardi a palate scommettendo sui ribassi in Borsa (ovvero sulla crisi) ed è «il principale consulente finanziario di Renzi, nonché suo grande raccoglietore di denaro, attraverso cene organizzate da Algebris e dalla sua fondazione Metropolis».E così, nell’ultimo anno il gotha dell’industria e della finanza italiane si è schierato dalla parte di Renzi. A cominciare da Fedele Confalonieri che, riferendosi al sindaco di Firenze, disse: «Non saranno i Fini, i Casini e gli altri leader già presenti sulla scena politica a succedere a Berlusconi, sarà un giovane». Poi venne Carlo De Benedetti, con il suo potentissimo gruppo editoriale Espresso-Repubblica («I partiti hanno perduto il contatto con la gente, lui invece quel contatto ce l’ha»). E ancora, Diego Della Valle, il numero uno di Vodafone Vittorio Colao, il fondatore di Luxottica Leonardo Del Vecchio e l’amministratore delegato Andrea Guerra, il presidente di Pirelli Marco Tronchetti Provera con la moglie Afef, l’ex direttore di Canale 5 Giorgio Gori, il patron di Eataly Oscar Farinetti, Francesco Gaetano Caltagirone, Cesare Romiti, Martina Mondadori, Barbara Berlusconi, il banchiere Claudio Costamagna, il numero uno di Assolombarda Gianfelice Rocca, il patron di Lega Coop Giuliano Poletti, Patrizio Bertelli di Prada e Fabrizio Palenzona di Unicredit.Fracassi cita anche il Monte dei Paschi di Siena, collegato al leader del Pd attraverso il controllo della Fondazione Montepaschi gestita dal renziano sindaco di Siena Bruno Valentini. Con Renzi anche l’amministratore delegato di Mediobanca, Albert Nagel, erede di Cuccia nell’istituto di credito. «Proprio sul giornale controllato da Mediobanca, il “Corriere della Sera”, da sempre schierato dalla parte dei poteri forti, è arrivato lo scoop su Monti e Napolitano, sui governi tecnici. Il “Corriere” ha ripreso alcuni passaggi dell’ultimo libro di Alan Friedman, altro uomo Rcs. Lo scoop ha colpito a fondo il governo Letta e aperto la strada di Palazzo Chigi a Renzi». Fracassi conclude citando il defunto segretario del Psi, Bettino Craxi, che diceva: «Guarda come si muove il “Corriere” e capirai dove si va a parare nella politica».Gad Lerner, recentemente, ha detto: «Non troverete alla Leopolda i portavoce del movimento degli sfrattati, né le mille voci del Quinto Stato dei precari all’italiana. Lui (Renzi) vuole impersonare una storia di successo. Gli sfigati non fanno audience». Ormai è tardi per tutto: il Pd – già in coma, da anni – si è completamente arreso all’ex Rottamatore. «Dove mai andrà il “voto utile” in mano a Renzi? In quale manovra di palazzo, in quale strategia dell’alta finanza verrebbe bruciato? In quale menzogna da Piano di rinascita democratica?», si domanda Pino Cabras. «Ogni complicità con il nuovo Sovversore dall’alto diventa intollerabile ogni minuto di più». Fine della cosiddetta sinistra italiana. Fuori tempo massimo, ora, «in tanti saranno costretti ad aprire gli occhi, e a comprendere la differenza fra militanti e militonti. Ma hanno riflessi troppo lenti. La riscossa – a trent’anni dalla morte di Enrico Berlinguer – passerà da altre parti».«Matteo Renzi è un mentitore pericoloso», taglia corto Pino Cabras su “Megachip”. «Ha illuso milioni di elettori con la narrazione del Rottamatore, ma ha rottamato solo chi gli si opponeva, imbarcando ogni genere di boss e sotto-boss nella sua scalata». Una lunga sequenza di menzogne: aveva «dichiarato solennemente di non voler andare a Palazzo Chigi senza legittimazione popolare», mentre ora – abbattendo Letta – disegna il nuovo scenario «con un Parlamento eletto con una legge incostituzionale», peraltro peggiorata con l’aiuto del Cavaliere, «con il quale – altra bugia per prendere i voti – diceva che non si potevano mai fare accordi». Il nuovo capo del Pd tradisce sistematicamente chi gli ha dato fiducia? «Certo, Renzi ha un disegno. Ma questo disegno non è nelle mani di alcuno che gli abbia dato fiducia dal basso. È nelle mani dei veri potenti che detengono le cambiali politiche che Renzi ha firmato durante la fase ascendente della sua parabola». E gli “azionisti” di Renzi non sono soltanto italiani.