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Archivio del Tag ‘hacker’

  • Italian Russiagate: le bufale di BuzzFeed, che odia Salvini

    Scritto il 15/7/19 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    «L’attacco mondialista a Salvini dimostra proprio questo intento, riprendere il flusso dell’immigrazione fuori controllo e continuare a produrre dumping salariale». Tanto, «il presunto argine ‘antisistema’ rappresentato dai 5 Stelle appare sempre più inadeguato, incoerente e ambiguo», visto che lo stesso Di Maio – nel tentativo disperato di tamponare l’emorragia di voti verso la Lega – partecipa volentieri all’ultimo gioco al massacro contro Salvini, invitandolo a rispondere dei presunti finanziamenti russi davanti al Parlamento: «Quando il Parlamento chiama, il politico risponde, perché il Parlamento è sovrano e lo dice la nostra Costituzione». Sovranità limitata, in realtà: è Bruxelles, non Roma, a stabilire cosa può fare l’Italia, la cui Costituzione è stata deturpata dall’inserimento suicida del pareggio di bilancio. Se n’è dimenticato, Di Maio? È evidente, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”, che il capo politico del Movimento 5 Stelle cita “BuzzFeed” come fonte d’informazione altamente attendibile, «celando di proposito le rivelazioni pregresse sulla macchina di propaganda web del MoV, e sul fatto che Alberto Nardelli interpreterebbe un trend politico decisamente di sinistra, avverso al governo gialloverde».

  • Magaldi: Renzi bussa alla superloggia Maat, quella di Obama

    Scritto il 25/6/19 • nella Categoria: segnalazioni • (10)

    Secondo Giulio Occhionero, indagato per hacking nel 2018 durante la legislatura Renzi-Gentiloni, i servizi segreti avrebbero forgiato false prove per il Russiagate. Sempre secondo Occhionero, Renzi potrebbe essere accolto nella superloggia Maat, dove si trova anche Obama. Occhionero, accusato di aver hackerato i computer di Renzi e Draghi, sembra il capro espiatorio di un gioco più complesso: lui e la sorella Francesca Maria, arrestati e condannati per accesso abusivo a sistemi informatici, stanno pagando per qualcosa di più grande di loro. L’ammissione di Renzi nella Ur-Lodge “Maat”? E’ uno dei luoghi in cui Renzi, che ora è passato per il Bilderberg, sta iniziando a bussare. La “Maat” fu un incontro di conservatori di stampo non terroristico, massoni neoaristocratici vecchio stile – non quelli della filiera “Hathor Pentalpha” (che hanno dato origine all’Isis e, prima ancora, ad Al-Qaeda). La “Maat” fu immaginata da Ted Kennedy e da Zbigniew Brzezisnki come la loggia che doveva supportare l’arrivo del “fratello” Obama alla Casa Bianca per mettere fine agli anni bui dei Bush, col predominio terroristico globale di “Hathor Pentalpha”, “Geburah”, “Der Ring” e altre superlogge interessate a creare terrore globale, a fare guerre, a distruggere per poi ricostruire.
    Nel frattempo la funzione storica della “Maat” si è un po’ appannata, e oggi quella superloggia è meno prestigiosa di altre, pur restando importante. Renzi? Sta cercando in tutti i modi di entrare da qualche porta, magari anche da qualche entrata di servizio, come il Bilderberg. Io però continuo a ritenere che oggi più che mai non ci sia alcun interesse, da parte di nessun gruppo massonico, ad ammettere Renzi, la cui stella è chiaramente in declino, benché qualcuno possa ancora ritenerlo una pedina, certo subalterna. Di questo e altro – per esempio, dei retroscena del Russiagate – si parlerà nel mio libro “Globalizzazione, esoterismo e massoneria”, di prossima uscita. Ammetiamolo: ci sono delle filiere di contatto tra Putin e Trump, così come nel corso del ‘900 ci sono sempre stati contatti tra ambienti russi e americani. Basta vedere il caso dell’imprenditore Armand Hammer, massone, esponente dell’ultra-destra repubblicana aspramente antisovietica e contemporaneamente vicinissimo ad alti esponenti del Cremlino. Uno strano uomo d’affari, un massone molto potente che si trovava a contatto, in modo plateale, con quelli che formalmente demonizzavano l’Unione Sovietica, e allo stesso tempo era in contatto coi dirigenti sovietici che, nell’era Breznev, avevano dato una sterzata in senso autoritario, dopo le storiche aperture di Nikita Khrushev.
    Riguardo al Russiagate, sul piano delle indagini non sarà facile arrivare al dunque, perché quello che si cerca è sbagliato. Non è che Trump sia stato eletto grazie ai servizi segreti russi: questa è una stupidaggine. E non è che vi sia, quindi, la possibilità di trovare la prova di questo ipotetico “tradimento”, di questa operazione per la quale Trump sarebbe una sorta di avamposto del “nemico russo”, al quale sarebbe legato da chissà quali patti. Non è così. Però esistono evidentemente dei network massonici, la cui attività non viene spiegata in modo leale, dai media: quando avviene l’elezione del presidente di un paese importante, le filiere sovranazionali massoniche si muovono, in modo trasversale. Sembra paradossale, rispetto a quello che uno si immaginerebbe. Ma non si tratta di russi che intervengono negli Usa, o viceversa: in queste filiere sovranazionali siedono, l’una accanto all’altra, persone di paesi che magari formalmente sono in guerra o in stato di tensione diplomatica. E’ la cosiddetta sovragestione.
    Meglio voltare pagina: il Russiagate è una costruzione piuttosto insipiente, sia a livello mediatico che sul piano giuridico. Ma è evidente che Putin (e alcuni massoni della filiera di cui Putin è parte) preferissero Trump alla Casa Bianca, e hanno operato per favorire questo – così come, per altri versi, è intervenuta la massoneria progressista, in modo pesantissimo, per fare con Trump un’operazione di rottura rispetto a un certo quadro della globalizzazione. Tuttavia la massoneria progressista non vede certo in Trump il campione di una riscossa definitiva: serve un altro Roosevelt (che ancora non c’è, sulla scena). Non poteva esserlo Bernie Sanders, né l’inglese Jeremy Corbin o il francese Jean-Luc Mélenchon. Si tratta di personaggi vecchi, nella loro impostazione politica: non sono questi i campioni del progressismo che verrà. Ci vuole qualcos’altro.
    Trump? E’ “un dito nel sedere”, per dirla in francese, per i tanti che a livello globale erano preparati alla solita manfrina di politici che, indifferentemente di destra o di sinistra, sarebbero stati addomesticabili dal sistema, per come lo abbiamo conosciuto in questi decenni. Trump è una variante impazzita, un Maverick utile a fare un po’ di casino, al netto dei suoi molti difetti. Questo non giustifica sul piano giuridico le accuse del Russiagate, ma certamente Putin e Trump possono avere obiettivi comuni, anche quando vi siano frizioni tra Usa e Russia (ed è è normale: in tutti gli ambienti di potere, privato e pubblico, ci sono ragioni per divergere e ragioni per convergere). In ogni caso state tranquilli: non c’è stata la longa manus del Cremlino sulle elezioni alla Casa Bianca, nel senso banale in cui lo si è detto.
    (Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate il 24 giugno 2019 nella diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”).

    Secondo Giulio Occhionero, indagato per hacking nel 2018 durante la legislatura Renzi-Gentiloni, i servizi segreti avrebbero forgiato false prove per il Russiagate. Sempre secondo Occhionero, Renzi potrebbe essere accolto nella superloggia “Maat”, dove si trova anche Obama. Occhionero, accusato di aver hackerato i computer di Renzi e Draghi, sembra il capro espiatorio di un gioco più complesso: lui e la sorella Francesca Maria, arrestati e condannati per accesso abusivo a sistemi informatici, stanno pagando per qualcosa di più grande di loro. L’ammissione di Renzi nella Ur-Lodge “Maat”? E’ uno dei luoghi in cui Renzi, che ora è passato per il Bilderberg, sta iniziando a bussare. La “Maat” fu un incontro di conservatori di stampo non terroristico, massoni neoaristocratici vecchio stile – non quelli della filiera “Hathor Pentalpha” (che hanno dato origine all’Isis e, prima ancora, ad Al-Qaeda). La “Maat” fu immaginata da Ted Kennedy e da Zbigniew Brzezisnki come la loggia che doveva supportare l’arrivo del “fratello” Obama alla Casa Bianca per mettere fine agli anni bui dei Bush, col predominio terroristico globale di “Hathor Pentalpha”, “Geburah”, “Der Ring” e altre superlogge interessate a creare terrore globale, a fare guerre, a distruggere per poi ricostruire.

  • Microchip e asilo transgender: la Svezia si sta suicidando

    Scritto il 16/6/19 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Fermamente convinto di essere il rappresentante della “superpotenza morale” del mondo, il popolo svedese continua i suoi pericolosi flirt con tutti i possibili nuovi esperimenti culturali. Questa politica è veramente ‘progressista’, o è la strada per la rovina nazionale? In Svezia, tutto sembra possibile, tranne il dissenso; dissenso dall’onnipresente messaggio sociale che dice ai suoi cittadini che devono essere tolleranti verso ogni nuova moda culturale, dal farsi impiantare un microchip sotto la pelle al permettere che i bambini di quattro anni vengano indottrinati alla scuola materna con le ultime teorie sul transgenderismo. Migliaia di svedesi si sono già fatti inserire un minuscolo microchip sotto la pelle, di solito nella mano sinistra, che offre  il “vantaggio” di non dover più armeggiare [nelle tasche o nella borsetta] per carte di credito, documenti di identità e chiavi. Molte delle informazioni personali sono memorizzate sul chip, che ha le dimensioni di un chicco di riso. Sorprendentemente, nonostante la possibilità per il governo, per le multinazionali o per altri pericolosi soggetti di hackerare questi dispositivi, questa eventualità non sembra essere presente nella mentalità svedese.

  • In manette la libertà: chi ha brindato all’arresto di Assange

    Scritto il 03/5/19 • nella Categoria: idee • (4)

    È stato interessante nei giorni scorsi osservare la composita compagnia che ha esultato per l’arresto a Londra di Julian Assange: alcuni dei suoi corifei erano prevedibili ma altri onestamente meno. Tra i primi, diversi capi di Stato e di governo, qualche potente delle varie forze armate e dei servizi di intelligence, taluni rauchi esponenti di destra che non hanno mai nutrito una smisurata idea di libertà. Tra i secondi – quelli che hanno fatto la ola più a sorpresa – si sono distinti diversi esponenti della sinistra “progressista”, che fino a pochi anni fa simpatizzavano per WikiLeaks, ma adesso l’hanno in uggia, vedremo poi il perché. Accanto a questi, fra gli esultatori imprevisti, si sono esibiti anche non pochi giornalisti di discreta fama, per i quali invece la ragione dell’astio è più psicoanalitica: invidia del collega che ha realizzato scoop storici e mondiali, gioia per la restaurazione di antiche gerarchie professionali che il boom di WikiLeaks aveva ribaltato (Assange a marcire in galera è un bel Congresso di Vienna), soddisfazione intestinale nel vedere al gabbio chi ha fatto del giornalismo uno strumento di rivelazione di segreti dei potenti – mettendo in gioco la propria vita – anziché di accomodamento delle proprie chiappe accanto ai potenti medesimi.
    Di questi ultimi – le grandi firme che oggi si fregano le mani – si dovrebbero occupare appunto i rispettivi strizzacervelli: se arrivati oltre i sessant’anni non riescono a far pace con il loro ego e i loro compromessi di vita, è solo un problema loro. Più interessante invece la svolta della sinistra “progressista” (o presunta tale). Che aveva coccolato Assange per anni (in particolare quando WikiLeaks aveva rivelato le stragi di civili in Afghanistan compiute al tempo di George W. Bush) ma lo ha drasticamente mollato dopo il Russiagate. E, per quanto riguarda l’Italia, dopo che lo sventurato ha ricevuto nella sua tana-prigione dentro l’ambasciata ecuadoregna una delegazione di parlamentari grillini (Di Battista compreso, stiamo parlando di qualche anno fa) manifestando la sua simpatia e il suo appoggio per il Movimento 5 Stelle. A seguito di questi due eventi, adesso Assange è diventato “l’amico di Trump”, il “complice dei sovranisti” o (ad andar bene) “il controverso hacker”.
    Ora, a questa ipocrita svolta anti Assange di buona parte dei “progressisti” italiani va risposto con la forza dei fatti e dell’onestà intellettuale: 1. L’appoggio al Movimento 5 Stelle non è un’argomentazione contro Assange e ancor meno contro WikiLeaks. Probabilmente Assange (peraltro poco interessato alla politica italiana) al tempo ha visto nel M5S un partito vicino alla sua idea di trasparenza e di uso della Rete a questo scopo. In ogni caso, non è in base a uno statement su un partito italiano che possiamo giudicare quanto sta avvenendo attorno a lui. Sarebbe ridicolo, oltre che sommamente provinciale. 2. Julian Assange non è in alcun modo indagato nell’inchiesta Russiagate. Non c’è alcun capo di imputazione nei suoi confronti. E la stessa inchiesta sul Russiagate nel suo complesso ha dimostrato che i “progressisti” su questa vicenda si devono mettere un po’ l’anima in pace: se Donald Trump è diventato presidente degli Stati Uniti è per un complesso di macrocause economiche, politiche, sociali e culturali (tra cui gli stessi errori storici della sinistra fattasi establishment), non per un complotto degli hacker russi spalleggiati da Assange.
    3. Solo un cieco felice di esserlo – quindi molto affezionato ai suoi pregiudizi – oggi non vede il motivo sostanziale per cui da anni è perseguitato Assange, con le accuse formali più diverse: per aver dato fastidio (e che fastidio!) ai potentati dell’economia (non dimentichiamo che centinaia dei primi leaks erano su banche e industriali), della diplomazia, dei servizi, dei militari e della politica. Su tutti costoro Assange e il suo sito avevano rivelato solo e sempre verità. Ma verità che non dovevano essere dette. Assange aveva realizzato nei fatti il famoso motto di Horacio Verbitsky, spesso citato ma raramente implementato: «Giornalismo è pubblicare qualcosa che qualcuno non vorrebbe venisse pubblicato; tutto il resto è propaganda». Questo non è stato perdonato ad Assange, per questo ora Assange è in carcere, dopo aver passato sette anni chiuso in venti metri quadri dentro un’ambasciata.
    Ma, detto tutto questo, non c’è alcun bisogno di apprezzare Assange per difenderlo. Non c’è alcun bisogno di considerarlo un “eroe” (categoria a cui è sempre meglio non appartenere), né un “paladino della libertà” e neppure un “giornalista senza paura”. Anzi, oggi si può e si deve difendere Assange anche se ci sta antipatico, anche se ne siamo distanti politicamente, perfino se lo consideriamo (pur senza prove) un “hacker al servizio di Putin”. Lo dobbiamo difendere perché non è in gioco lui, ma il principio del giornalismo che ha il diritto (se non il dovere) di pubblicare notizie vere e verificate proteggendo la propria fonte e indipendentemente dalla propria fonte. È, questo, un principio base della libertà di stampa, della sua forza storica, della sua funzione di controllo in una società aperta. È questo principio ad essere stato messo in manette l’altro giorno in una strada del centro di Londra, non l’uomo stanco con la barba bianca che in quel momento lo impersonava. Voi state con questo principio o con quelle manette?
    (Alessandro Gilioli, Assange e le manette alla libertà di stampa”, da “Micromega” del 15 aprile 2019).

    È stato interessante nei giorni scorsi osservare la composita compagnia che ha esultato per l’arresto a Londra di Julian Assange: alcuni dei suoi corifei erano prevedibili ma altri onestamente meno. Tra i primi, diversi capi di Stato e di governo, qualche potente delle varie forze armate e dei servizi di intelligence, taluni rauchi esponenti di destra che non hanno mai nutrito una smisurata idea di libertà. Tra i secondi – quelli che hanno fatto la ola più a sorpresa – si sono distinti diversi esponenti della sinistra “progressista”, che fino a pochi anni fa simpatizzavano per WikiLeaks, ma adesso l’hanno in uggia, vedremo poi il perché. Accanto a questi, fra gli esultatori imprevisti, si sono esibiti anche non pochi giornalisti di discreta fama, per i quali invece la ragione dell’astio è più psicoanalitica: invidia del collega che ha realizzato scoop storici e mondiali, gioia per la restaurazione di antiche gerarchie professionali che il boom di WikiLeaks aveva ribaltato (Assange a marcire in galera è un bel Congresso di Vienna), soddisfazione intestinale nel vedere al gabbio chi ha fatto del giornalismo uno strumento di rivelazione di segreti dei potenti – mettendo in gioco la propria vita – anziché di accomodamento delle proprie chiappe accanto ai potenti medesimi.

  • I 10 scandali rivelati da Assange su Bush, Obama e Hillary

    Scritto il 18/4/19 • nella Categoria: segnalazioni • (10)

    Nei suoi quasi 15 anni di attività, Wikileaks ha diffuso oltre 10 milioni di documenti classificati. Tra questi, la maggior parte ha a che fare con piani segreti del governo degli Stati Uniti nei suoi programmi di intelligence, sicurezza e guerra. La fondazione guidata dal detenuto Julian Assange è stata l’avanguardia in termini di informazioni classificate per anni. Tanto che i suoi principali portavoce sono stati perseguitati da governi alleati con Washington come Svezia e Gran Bretagna. Assange stesso è stato rifugiato dal 2012 in una piccola stanza dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, fino a quando il governo di Lenin Moreno ha smesso di concedergli questo status. 1. Gli archivi di Guantanamo. Nel 2007, hanno pubblicato migliaia di documenti sotto forma di manuali e informazioni sul carcere inaugurato dall’amministrazione Bush nel 2002 a Guantánamo Bay, a Cuba. Gli archivi sono pieni di dettagli sui prigionieri e sui metodi di tortura utilizzati quotidianamente contro di loro nell’ambito di un programma di procedure per il trattamento di persone sospettate di essere terroristi. La Croce Rossa ha confermato che non tutti i prigionieri di Guantanamo sono terroristi e le critiche al funzionamento di questa struttura sono aumentate nel corso degli anni.
    2. Notizie segrete sulle guerre all’Afghanistan e all’Iraq. War Diaries è stato lanciato nel 2010 con quasi 400 mila resoconti riguardanti la guerra in Iraq dal 2004 al 2009. Possiamo trovare tutto, dalle attrezzature militari utilizzate dall’esercito Usa in dettaglio, alle informazioni sugli obiettivi militari e civili uccisi, più abusi e torture di prigionieri di guerra nei rapporti. 3. Cablegate: una lente d’ingrandimento sulla diplomazia statunitense. Nel 2010, WikiLeaks ha lanciato milioni di cable diplomatici scritti tra il 1966 e il 2010 e pubblicati in diversi media internazionali che mostrano le opinioni dei capi della diplomazia di Washington (tra cui Henry Kissinger) e le istruzioni ai loro diplomatici per spiare politici stranieri, meglio noti come CableGate. I cable confermano la battuta: «Perché non ci sono golpe negli Stati Uniti? Perché non c’è un’ambasciata statunitense». 4. Collateral Murder. Gli archivi filtrati grazie a Chelsea Manning, nel 2010 WikiLeaks hanno portato alla luce un video dal titolo Collateral Murder che mostra come le forze armate statunitensi sparano dagli elicotteri Apache contro obiettivi civili a Baghdad (capitale dell’Iraq), tra cui un giornalista della Reuters, che cadono fulminati al suolo. La registrazione risale al 2007.
    5. I documenti di Stratfor. Tra il 2012 e il 2013, oltre 5 milioni di e-mail sono trapelate dall’intelligence statunitense Stratfor. I Global Intelligence Files hanno rilasciato numerosi documenti in cui abbiamo appreso alcuni dettagli della rete interna di sorveglianza di massa negli Stati Uniti con la Nsa come protagonista, nonché le operazioni segrete svolte da Washington in Siria, tutte tra il 2004 e il 2011, lasciando anche a nudo l’intimo legame che esiste tra l’intelligence americana e la comunità di sicurezza e alcune aziende che funzionano come carri armati e organizzazioni non governative al servizio delle loro élite. 6. Svelati Tpp, Ttip, Tisa. Dal 2013 al 2016, WikiLeaks ha pubblicato documenti successivi denunciando che il governo degli Stati Uniti stava segretamente negoziando accordi di libero scambio noti come Transpacific of Economic Cooperation (Tpp, il suo acronimo in inglese), Transatlantic Trade and Investment (Ttip, il suo acronimo in inglese) e l’Accordo sugli scambi di servizi (Tisa, il suo acronimo in inglese). Prima dell’ascesa di Donald Trump, Washington aveva come strategia un nuovo sistema economico e legale in cui persino i diritti civili sarebbero stati profondamente calpestati in quasi tutto il mondo, sulla base di quegli accordi che non furono mai annunciati fino a quando non ci furono i leak.
    7. Alcune corporation a nudo. Dalla sua fondazione nel 2006, WikiLeaks ha pubblicato diversi file declassificati di società multinazionali che contengono informazioni segrete, come le conseguenze della fuoriuscita tossica in Costa d’Avorio da parte della compagnia energetica Trafigura che ha colpito più di 100 mila persone; allo stesso tempo, è stato scoperto che i media britannici erano complici di ciò quando falsificavano gli eventi. Inoltre, le attività off-shore della banca svizzera Julius Bär Group e le connessioni con la Casa Bianca e il complesso industriale-militare della società giapponese Sony furono anch’esse soggette a fughe di notizie. Pertanto, la politica governativa, ma anche quella imprenditoriale, sono obiettivi della fondazione di Julian Assange. 8. Lo spionaggio globale come strumento geopolitico. Nel 2016, abbiamo appreso che l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (Nsa) ha intercettato i telefoni della cancelliera tedesca Angela Merkel e l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon, rubato cables della diplomazia italiana per conoscere quanto detto dall’ex premier Silvio Berlusconi con il suo omologo israeliano Benjamin Netanyahu su Barack Obama, ha spiato le comunicazioni dei ministri dell’Unione Europea e del Giappone per apprendere in dettaglio i loro accordi per evitare «l’ingerenza degli Stati Uniti» nel loro relazioni internazionali, tutto con uno scopo: accumulare dati per utilizzarli a vantaggio dei loro interessi come potere geopolitico in tutto il mondo. Tutto questo e altro ancora puoi scrutarlo qui.
    9. La caduta di Hillary Clinton. Per tutto il 2016 sono state pubblicate circa 44.000 e-mail dal Comitato Nazionale del Partito Democratico, evidenziando la campagna di sabotaggio contro la candidatura di Bernie Sanders a favore di Hillary Clinton all’interno del partito. A loro volta, 30.000 di queste e-mail appartengono o sono state inviate a Clinton durante il suo mandato come Segretario di Stato, nell’era di Obama. Il suo ruolo nel golpe in Honduras nel 2009, gli affari corrotti della Fondazione Clinton ad Haiti, i suoi piani per intervenire segretamente nella guerra in Siria, i milioni di dollari che guadagna per dare lezioni a banche e compagnie americane, tutte queste informazioni hanno prodotto la caduta di Clinton durante la corsa contro Donald Trump per la Casa Bianca. Ancora molti analisti credono che il magnate sia stata l’opzione migliore. 10. La Cia cibernetica. Nel 2017 è stato pubblicato Vault 7, la più grande pubblicazione di documenti della Central Intelligence Agency (Cia, il suo acronimo in inglese) fino ad oggi. Potete leggere gli archivi di come la Cia possieda un immenso arsenale di computer hacking paragonabile a quello della Nsa. La cosa più importante è che gli appaltatori e i funzionari dell’agenzia hacker hanno estratto migliaia di strumenti per il loro lavoro come «malware, virus, trojan, attacchi zero-day, sistemi di controllo remoto del malware e documentazione associata». Tutti questi dati sono ora al servizio degli hacker, che potrebbero persino conoscere il tuo indirizzo Ip a causa della irresponsabilità della sicurezza della Cia.
    (“Le 10 rivelazioni di Assange che hanno cambiato il modo di vedere il potere”, da “L’Antidiplomatico” del 13 aprile 2019; il newsmagazine pubblica anche i link per approfondire ciascuno dei 10 argomenti citati).

    Nei suoi quasi 15 anni di attività, Wikileaks ha diffuso oltre 10 milioni di documenti classificati. Tra questi, la maggior parte ha a che fare con piani segreti del governo degli Stati Uniti nei suoi programmi di intelligence, sicurezza e guerra. La fondazione guidata dal detenuto Julian Assange è stata l’avanguardia in termini di informazioni classificate per anni. Tanto che i suoi principali portavoce sono stati perseguitati da governi alleati con Washington come Svezia e Gran Bretagna. Assange stesso è stato rifugiato dal 2012 in una piccola stanza dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, fino a quando il governo di Lenin Moreno ha smesso di concedergli questo status. 1. Gli archivi di Guantanamo. Nel 2007, hanno pubblicato migliaia di documenti sotto forma di manuali e informazioni sul carcere inaugurato dall’amministrazione Bush nel 2002 a Guantánamo Bay, a Cuba. Gli archivi sono pieni di dettagli sui prigionieri e sui metodi di tortura utilizzati quotidianamente contro di loro nell’ambito di un programma di procedure per il trattamento di persone sospettate di essere terroristi. La Croce Rossa ha confermato che non tutti i prigionieri di Guantanamo sono terroristi e le critiche al funzionamento di questa struttura sono aumentate nel corso degli anni.

  • Blackout e aiuti bruciati, la stampa Usa smaschera Guaidò

    Scritto il 12/3/19 • nella Categoria: segnalazioni • (11)

    Aiuti umanitari per il Venezuela bruciati oltre confine: non da Maduro, ma dal rivale Guaidò, con l’obiettivo di incolpare il governo di Caracas. E’ la stampa Usa ad accusare lo stesso Guaidò (e Washington) sia per l’auto-distruzione degli aiuti che per il drammatico blackout inflitto al Venezuela, con almeno 14 pazienti deceduti negli ospedali. Le denunce del “New York Times” e di “Forbes”, scrive Gennaro Carotenuto sul suo blog, attestano che in Venezuela la guerra è già cominciata, e che le false notizie dominano incontrastate la costruzione dell’opinione pubblica. «Le guerre di nuova generazione fanno morti come e più di quelle che si combatterono con la clava, la balestra o il fucile Chassepot», scrive Carotenuto. «Rispetto alla gravità del blackout in Venezuela, ai media italiani è piaciuto a scatola chiusa sposare la tesi dell’inettitudine chavista», dato che i chavisti «sono per definizione tutti incapaci, sanguinari e corrotti». Al contrario, «vari media statunitensi hanno preso molto sul serio e considerano credibile che il blackout in Venezuela sia stato causato da un cyber-attacco informatico Usa». Se così fosse, aggiunge Carotenuto, «saremmo di fronte a un atto di guerra», nell’ambito di un conflitto “di quarta generazione”. Tanto per chiarire: «Fossero stati gli hacker russi, parleremmo di terrorismo».

  • Moiso: ecco perché l’Italia è in coda, nella libertà di stampa

    Scritto il 09/1/19 • nella Categoria: idee • (4)

    Secondo “Reporters sans frontières” l’Italia è solo al 46esimo posto, nel mondo, per libertà di espressione. Include la libertà di pensiero, spesso limitata da precise linee editoriali. Nel suo articolo su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, a mio avviso l’autore – Steven Forti – sembra appartenere al pensiero unico, che vede sempre contrapposta una sedicente destra (che non si accorge di come il neoliberismo stia fagocitando le piccole e medie imprese) e una sedicente sinistra (che si occupa solo di diritti civili, ma si lamenta di chi rivendica la sovranità del popolo). Ora, vedendo per chi scrive Forti – riviste come “Left” e “Micromega” – mi viene in mente Che Guevara, che forse sarà proprio un idolo di Forti: mi viene in mente come proprio il Che rivendicasse la sovranità del popolo e delle Nazioni Unite. Curioso che oggi l’idea di sovranità venga criticata da chi scrive nel circuito dell’intellighenzia di sinistra. Mi sembra quasi un controsenso, anche perché senza sovranità non esiste democrazia: e se non è il popolo, a essere sovrano, sicuramente sarà sovrano qualcun altro. A una persona come Forti, che si dice appartenente a una certa corrente, mi viene da domandare: a chi, se non al popolo, dovrebbe appartenere la sovranità?
    Nel suo articolo, Forti rinfaccia a Rinaldi il fatto di aver criticato la gestione dell’obbligo vaccinale introdotta in Italia – quasi che di certi argomenti non ci si potesse occupare, come cittadini. Mi chiedo allora come mai, dalle pagine di “Rolling Stone”, che è una rivista di musica, ci si debba occupare di politica in maniera così superficiale. In realtà deve essere sempre possibile pronunciarsi liberamente su ambiti che non siano di specifica pertinenza professionale: si può parlare di vaccini, eccome, pur non essendo dei medici. E grazie a Dio, in Italia viene ancora data un’educazione che permette ai ragazzi di spaziare su diversi temi. Mi sembra che l’articolo di “Rolling Stone” sia frutto della solita incoerenza di un mondo, quello della sedicente sinistra, che ha smesso di avere senso critico. E ha smesso di avere la capacità di districarsi nella complessità del mondo attuale. Lo si vede sul tema dell’Europa, dove oggi chi si sente europeista non può che condannare delle istituzioni assolutamente tecnocratiche, economicistiche e antidemocratiche. Chi crede nell’Europa dei popoli non può non criticare questa Unione Europea. Idem come sopra: chi crede nella democrazia non può non rivendicare la sovranità del popolo.
    A luglio, in Europa, sembrò sventato il tentativo del commissario Oettinger di mettere un bavaglio al web con la scusa del copyright. In realtà poi a settembre – sempre con l’alibi della riforma del copyright – il Parlamento Europeo ha di fatto legalizzato una sorta di censura preventiva (con l’introduzione della cosiddetta “link tax” e della responsabilità assoluta per le piattaforme come YouTube e Facebook, nonché un meccanismo di filtraggio dei contenuti caricati dagli utenti). C’è chi ha considerato questo intervento una vera e propria pagina nera per la democrazia e la libertà dei cittadini, dal punto di vista dell’informazione. A livello europeo c’è quindi una vera e propria stretta, sul web. Quanto all’Italia, il nostro paese continua a non godere di una posizione privilegiata per ciò che riguarda la libertà d’informazione. Quest’anno si è attestata al 46° posto, su 180 paesi esaminati. E quando si parla di libertà di informazione non si parla solo di divieti come quelli imposti dall’Europa, ma anche di libertà di esprimere delle idee, uscendo da alcune linee editoriali.
    La settimana scorsa un parlamentare di spicco del Movimento 5 Stelle, Pino Cabras, faceva notare – dalla sua pagina Facebook – come alcune notizie, che pure susciterebbero grande interesse, non vengano assolutamente trattate. Un esempio: è stato dedicato pochissimo spazio al recente sbarco della Cina sul “lato oscuro” della Luna. Altra notizia: pare che degli hacker siano riusciti a entrare nel sito dell Fbi, abbiamo rubato dei documenti e li stiano pian piano divulgando (per quanto non contengano, al momento, grandi novità). Però sono tutte notizie delle quali non si parla minimamente. Come a dire che, comunque, ci sono dei temi più graditi. C’è da chiedersi in che stato sia, l’informazione italiana ed europea, di fronte ad articoli come quello di Steven Forti, che – parlando su “Rolling Stone” di Antonio Maria Rinaldi – denuncia il decadimento della politica italiana, in mano da una parte al sovranismo, e dall’altra al qualunquismo di chi, per esempio, si sente di criticare i vaccini senza avere alcuna competenza medica. Lo stesso Forti cita anche il “partito che serve all’Italia”, definendo Gioele Magaldi “complottista” e “fissato col pericolo massonico”, addirittura un vittimista convinto di essere censurato dai media. Ci sono tanti cortocircuiti, nella narrativa mediatica odierna. Davvero per Steven Forti non c’è un veto mediatico, nei confronti del Movimento Roosevelt e di Gioele Magaldi? Lo invito a fare un’intervista con noi: forse ci sono cose che scoprirebbe, che non si aspetta, e che meritano di essere considerate.
    (Marco Moiso, dichiarazioni pronunciate nella diretta web-streaming su YouTube con Gioele Magaldi il 19 gennaio 2019, dal titolo “Steven Forti e la scorrettezza dell’informazione”. Moiso è vicepresidente del Movimento Roosevelt).

    Secondo “Reporters sans frontières” l’Italia è solo al 46esimo posto, nel mondo, per libertà di espressione. Include la libertà di pensiero, spesso limitata da precise linee editoriali. Nel suo articolo su “Rolling Stone” contro Antonio Maria Rinaldi, a mio avviso l’autore – Steven Forti – sembra appartenere al pensiero unico, che vede sempre contrapposta una sedicente destra (che non si accorge di come il neoliberismo stia fagocitando le piccole e medie imprese) e una sedicente sinistra (che si occupa solo di diritti civili, ma si lamenta di chi rivendica la sovranità del popolo). Ora, vedendo per chi scrive Forti – riviste come “Left” e “Micromega” – mi viene in mente Che Guevara, che forse sarà proprio un idolo di Forti: mi viene in mente come proprio il Che rivendicasse la sovranità del popolo e delle Nazioni Unite. Curioso che oggi l’idea di sovranità venga criticata da chi scrive nel circuito dell’intellighenzia di sinistra. Mi sembra quasi un controsenso, anche perché senza sovranità non esiste democrazia: e se non è il popolo, a essere sovrano, sicuramente sarà sovrano qualcun altro. A una persona come Forti, che si dice appartenente a una certa corrente, mi viene da domandare: a chi, se non al popolo, dovrebbe appartenere la sovranità?

  • #MattonellaDimettiti, lesa maestà e fake news istituzionali

    Scritto il 13/8/18 • nella Categoria: idee • (5)

    Cultori sfegatati del nuovo genere letterario di giornaloni, quello delle fake news sulle fake news, leggiamo e collezioniamo tutto. Non ci perderemmo una puntata per nessuna ragione al mondo. Lo spettacolo dell’establishment che prende scoppole in tutto il mondo perché sta sulle palle ai cittadini e, anziché guardarsi allo specchio, cerca in Russia la spiegazione dei suoi continui fiaschi, è semplicemente impagabile. L’establishment ordina agli inglesi di votare no alla Brexit e quelli votano sì? Dev’essere un complotto dei russi a suon di fake news. L’establishment intima agli americani di votare Hillary Clinton contro Trump e quelli eleggono Trump? Sarà per le fake news diffuse da Putin. L’establishment raccomanda agli italiani di votare sì al referendum costituzionale e quelli votano no? Ci dev’essere sotto la congiura delle fake news moscovite. L’establishment diffida gli italiani dal premiare il populismo sovranista 5Stelle e la Lega e quelli corrono a votare 5Stelle e Lega? Le solite fake news della propaganda moscovita. L’establishment beatifica Mattarella che rifiuta il governo Conte con dentro Savona e subito Facebook e (molto meno) Twitter pullulano di messaggi contro Mattarella e pro Conte&Savona? La solita regìa dei troll russi, provenienti stavolta da San Pietroburgo.
    Il bello è che i fabbricanti di complotti un tanto al chilo sono gli stessi che accusano i populisti sovranisti di complottismo. Dopodiché anche i loro complotti, alla prova dei fatti, si rivelano quello che sono: balle, bufale, patacche, fake news (al cubo). Memorabile il caso di “Beatrice Di Maio”, il nickname di Fb additato dalla “Stampa” come il Grande Vecchio grillin-casaleggiano delle fake news contro Renzi, Boschi, Lotti & C.: peccato fosse la moglie di Brunetta. Una storia da manuale del boomerang, che fa il paio con le accuse di razzismo lanciate dal Pd al governo Conte perché un gruppo di giovinastri aveva lanciato un uovo a un’atleta di colore, poi frettolosamente ritirate dopo la scoperta che un lanciatore era il figlio di un consigliere comunale Pd. Ora ci risiamo. I giornaloni non riescono proprio a digerire che il 27 maggio, quando Mattarella rispedì a casa Conte per via di Savona, molti italiani si siano incazzati da soli: se i social tracimavano di commenti critici o insultanti, non era perché chi aveva appena votato M5S e Lega si sentisse defraudato e invocasse le dimissioni del capo dello Stato; ma perché c’era dietro Putin con la sua fabbrica di troll a San Pietroburgo. Infatti, per un’intera settimana, ci hanno ammorbati con una cascata di articoloni e titoloni.
    Tutti ispirati dal Colle (bastava leggere le firme: quelle dei quirinalisti), finché il pool Antiterrorismo della Procura di Roma (non è uno scherzo: è tutto vero), la Dia, la Polizia Postale, i servizi segreti e il Copasir non hanno aperto inchieste per vilipendio al capo dello Stato e attentato alla sua libertà. Roba da 20 anni di galera, come minimo. Poi i servizi hanno subito detto che non c’è una sola prova sui famosi troll russi. E chi aveva titolato “L’attacco al Colle via Twitter. Alcune ‘firme’ del Russiagate dietro i messaggi contro il capo dello Stato”, “Le manovre dei russi sul web e l’attacco coordinato a Mattarella”, “Interventi sulla politica italiana dai troll russi che spinsero Trump”, (“Corriere”), “La questione russa in Italia. Interferenze cyber”, “Interferenze russe sul voto del 4 marzo” (“La Stampa”), “Dalla propaganda di Putin 1500 tweet per Lega e 5Stelle”, “Una pioggia sui social in arrivo da San Pietroburgo”, “Il Pd nel mirino dei troll russi” (“Repubblica”), che ha fatto? Ha chiesto scusa per tutte le balle raccontate e lasciato perdere? Macché: fischiettando con grande nonchalance, ha infilato un paio di righette qua e là negli articoli – non più nei titoli – per dire che i russi non c’entrano nulla, o non c’è alcuna prova che c’entrino. Cioè: le critiche al presidente italiano erano tutte italiane. Dunque su chi si indaga, e per quale reato? Sui cittadini che, tutelati dall’articolo 21 della Costituzione, postano sui social il loro legittimo dissenso sulla massima carica, manco fossimo nella Russia di Putin?
    Mentre il boomerang volteggia all’indietro su chi l’aveva lanciato – cioè il Quirinale sempre più simile al Cremlino – i quirinalisti ispirati dall’alto tentano di intercettarlo in tempo con le nude mani: «Si cerca – scrive ieri il “Corriere” – di far passare Mattarella come un uomo permaloso che, credendosi un semidio, vorrebbe rianimare almeno il reato di lesa maestà». Già, l’impressione è proprio questa. «Manca solo che accusino il Quirinale di istigare i magistrati a recuperare la cultura greca del delitto di hybris» per «veder marcire in galera chiunque si pronunci criticamente su di lui». Già, la sensazione è proprio questa. Invece no: Egli, «nella sua imperturbabilità zen» e immensa bontà, adora chi lo critica, ma solo «in una dialettica accettabile in democrazia, ciò che esclude insulti e minacce». Resta da capire dove siano insulti e minacce nell’hashtag #MattarellaDimettiti dei tweet sotto inchiesta, prima made in Russia e ora rientrati nella cinta daziaria (lo “snodo di Milano”). Ma tutto è bene quel che finisce bene, o quasi.
    “Repubblica”, mentre autosmentisce una settimana di titoli sulla Russia con una sola frasina («gli account utilizzati per le campagne di influenza dei russi della Internet Research Agency di San Pietroburgo hanno cessato di operare nell’autunno scorso», dunque solo «mani italiane»), monta un’intera pagina su una notizia sensazionale: in Italia i siti dei 5Stelle rilanciano i messaggi di Di Maio e degli altri 5Stelle. Roba forte. Non solo: le critiche a Mattarella furono «un assalto squadrista» (tipo quelli di “Repubblica” a Leone e Cossiga) finalizzato nientepopodimenoché a «eccitare la coscienza del paese». Accipicchia. E chi è stato? «Consolidati network di condivisione di contenuti para-giornalistici di segno sovranista, piuttosto che populisti». Mecojoni. E non è mica finita: «Sono evidenti le stimmate e la regia politica». Perbacco: le pagine Fb di «quelli che si dicono 5S» chiedevano l’impeachment di Mattarella. Chi l’avrebbe mai detto? Una addirittura postava una domanda dal chiaro contenuto eversivo: «Siete d’accordo con Di Maio che invoca la messa in stato d’accusa di Mattarella?». E qualcuno osò financo rispondere, non so se mi spiego. Seguono i nomi dei putribondi mandanti: «Tale Piergiorgio, alias ‘Pierre’ Cantagallo», «Grande Cocomero classic» (il nostro preferito), «tale Francesco Camillo Soro» da Las Palmas. E ho detto tutto. Che si aspetta ad arrestarli, fustigarli, convertirli in appositi campi di rieducazione? L’Antiterrorismo non ponga altro tempo in mezzo.
    E, già che c’è, non trascuri le indagini sulla leggendaria «fabbrica delle fake news» e sull’inquietante «fiume di denaro che porta a Londra, a Mosca, in Albania», smascherati mesi fa dai segugi di “Repubblica”, che ne inseguirono le tracce fino al covo operativo: «Una fabbrica di manufatti in alluminio a Terni». Lì, «in una sera gelida di novembre, durante una pausa di cambio turno, Leonardo, un metalmeccanico di 34 anni, ex punk, la terza media in tasca e i soldi per comprare il primo modem non più di sei anni fa, apre le porte del Sistema». Roba grossa, di cui però non si seppe più nulla. Se non che – fu sempre “Repubblica” a rivelarlo, con grave sprezzo del pericolo – «Leonardo di cognome fa Piastrella», ma quando diventa un «cavaliere nero dell’intossicazione online», si fa chiamare “Ermes Maiolica”, molto ricercato dai «broker pubblicitari». Perché voi non ci crederete, ma «più traffico hai, più soldi prendi dalla pubblicità». Strano, eh? Infatti «in Rete ha cominciato a fare capolino un certo Vincenzo Ceramica. Provate a indovinare chi sia». Sono mesi che tratteniamo il fiato, in attesa che qualcuno sveli l’arcano – se non “Repubblica”, che abbandonò la pista proprio sul più bello, almeno l’Antiterrorismo. Se il sor Piastrella c’entra col sor Maiolica, c’entrerà anche col sor Ceramica? E non è che l’hashtag eversivo #MattarellaDimettiti era un messaggio in codice per il sor Mattonella?
    (Marco Travaglio, “#MattonellaDimettiti”, dal “Fatto Quotidiano” del 9 agosto 2018, ripreso da “Il bene comune newsletter”).

    Cultori sfegatati del nuovo genere letterario di giornaloni, quello delle fake news sulle fake news, leggiamo e collezioniamo tutto. Non ci perderemmo una puntata per nessuna ragione al mondo. Lo spettacolo dell’establishment che prende scoppole in tutto il mondo perché sta sulle palle ai cittadini e, anziché guardarsi allo specchio, cerca in Russia la spiegazione dei suoi continui fiaschi, è semplicemente impagabile. L’establishment ordina agli inglesi di votare no alla Brexit e quelli votano sì? Dev’essere un complotto dei russi a suon di fake news. L’establishment intima agli americani di votare Hillary Clinton contro Trump e quelli eleggono Trump? Sarà per le fake news diffuse da Putin. L’establishment raccomanda agli italiani di votare sì al referendum costituzionale e quelli votano no? Ci dev’essere sotto la congiura delle fake news moscovite. L’establishment diffida gli italiani dal premiare il populismo sovranista 5Stelle e la Lega e quelli corrono a votare 5Stelle e Lega? Le solite fake news della propaganda moscovita. L’establishment beatifica Mattarella che rifiuta il governo Conte con dentro Savona e subito Facebook e (molto meno) Twitter pullulano di messaggi contro Mattarella e pro Conte&Savona? La solita regìa dei troll russi, provenienti stavolta da San Pietroburgo.

  • Democrazia diretta: la chiave del benessere della Svizzera

    Scritto il 02/8/18 • nella Categoria: segnalazioni • (42)

    La Svizzera è uno fra i paesi al mondo in cui si gode di maggiore benessere economico. Certamente questo livello di benessere è anche dovuto alle “ricadute” delle importanti attività bancarie nel paese, ma è anche vero che la Svizzera è un paese mediamente ben governato, che garantisce stabilità agli investitori. Il buon governo del paese è quindi una delle condizioni per cui, nonostante l’alto costo del lavoro, molti investitori da tutto il mondo si rivolgono a questo paese. Se la Svizzera non fosse ben governata, non sarebbe mai diventata il paese di riferimento per investitori e multinazionali. Il segreto del successo svizzero deve quindi essere cercato nei fattori che garantiscono a quel paese di avere mediamente delle buone leggi e dei buoni governanti. La prima chiave del successo sta nella democrazia diretta. Ovvero: il popolo svizzero è il primo organo legislativo, a livello federale, cantonale e comunale. Così come in Italia il Parlamento ha diritto di legiferare su qualsiasi materia, in Svizzera il popolo ha diritto di dire la sua su qualsiasi materia. Le proposte di legge referendarie possono essere di qualsiasi tipo: abrogazione totale o parziale di una legge esistente (consentita in Italia); un nuovo testo di legge (non consentito in Italia); su questioni fiscali (non consentito in Italia); recessione da una ratifica di un trattato internazionale (non consentita in Italia).
    Il popolo può opporsi legittimamente a qualsiasi atto governativo o amministrativo. Ad esempio si può opporre al permesso di costruire di un edificio concesso dall’ufficio tecnico del proprio Comune. Per presentare un quesito referendario è necessario raccogliere 50.000 firme nell’arco di 100 giorni. Avendo la Svizzera 8,4 milioni di abitanti, facendo una proporzione è come se in Italia si dovessero raccogliere 357.000 firme. In Svizzera, quindi, serve un numero minore di firme. Le firme possono essere raccolte da chiunque, su dei modelli messi a disposizione dalla Cancelleria Federale. Non è necessaria la validazione delle firme da parte di una persona abilitata, come invece avviene in Italia. Questo fatto facilita enormemente la raccolta di firme a sostegno di un quesito referendario. Naturalmente le firme raccolte vengono sottoposte a controllo di verifica di validità da parte della Cancelleria Federale, analogamente a quanto avviene in Italia da parte della Corte di Cassazione. La conseguenza di queste premesse è che in Svizzera si formano molti comitati, con e senza il supporto dei partiti, per promuovere quesiti referendari di ogni tipo, che nessun organismo pubblico ha il potere di impedire che vengano sottoposti a votazione, se il numero di firme valide necessario è stato raccolto e depositato.
    Il popolo svizzero viene chiamato a votare 3-4 volte l’anno. Il materiale informativo con le posizioni a favore o contro il quesito viene distribuito gratuitamente a tutti i cittadini. La televisione pubblica, senza influenze dei partiti, tratta a fondo i temi referendari, dando ampio spazio alle parti contrapposte, affinché ciascuno presenti le proprie ragioni agli elettori. Votare è facile: oltre al voto classico nei seggi elettorali, moltissimi svizzeri votano per corrispondenza. E’ allo studio anche la possibilità di votare tramite Internet, ma al momento non sono ancora stati trovati degli standard di sicurezza ritenuti sufficienti per evitare manipolazioni del voto da parte di hacker informatici. Non esiste un quorum da raggiungere che possa invalidare il voto: chi vuole votare, vota. Chi non vuole votare, accetta il responso delle votazioni. Anche se il popolo svizzero si ritrova a votare 3-4 volte l’anno per dei referendum, la grandissima maggioranza dei provvedimenti legislativi viene comunque votata dal Parlamento ovvero tramite la democrazia rappresentativa, come avviene in tutti i paesi democratici. Tuttavia tutti i politici eletti devono “fare i conti” con il primo organo legislativo, ovvero con il popolo, il quale potrebbe votare in un referendum contro quanto deciso in Parlamento.
    In sostanza: un politico eletto svizzero ci pensa 1000 volte prima di votare a favore di un provvedimento legislativo che sa che non sarebbe accettato dal popolo. Nel caso in cui si arrivasse ad una bocciatura referendaria del provvedimento (cosa storicamente avvenuta centinaia di volte) la fine della carriera di quel politico sarebbe cosa certa e senza appello. L’esistenza di un robusto sistema di democrazia diretta, quindi, incentiva la produzione di provvedimenti legislativi il più possibili vicini al volere del popolo. Questo non significa che il popolo non si possa sbagliare, ma significa che è il popolo a decidere. Nei casi storici in cui il popolo si rese conto di essersi sbagliato, ritornarono a votare e il referendum consentì di modificare il precedente provvedimento legislativo. Siccome la prima preoccupazione dei parlamentari eletti è quella di ascoltare le richieste del popolo, le richieste del partito di appartenenza cadono in secondo piano. Naturalmente esiste una “coerenza ideologica” con le posizioni del partito di appartenenza, ma non è mai tale da diventare una “disciplina di partito”, in quanto i deputati sono liberi e si sentono responsabili delle proprie scelte innanzitutto di fronte agli elettori.
    Questa “debolezza” dei partiti ha creato nel tempo una “consuetudine” all’interno del Parlamento. Il Consiglio Federale, ovvero il governo della Confederazione, non è mai l’espressione di una maggioranza politica “blindata”. I 7 membri del Consiglio Federale (i ministri) vengono nominati applicando una sorta di “manuale Cencelli” in modo da rappresentare le principali forze politiche. Tutti i consiglieri federali raccolgono la fiducia della maggioranza del Parlamento. Di conseguenza, se un partito “di destra” intende proporre un suo esponente come membro del governo, proporrà una personalità stimata per le sue competenze e capace di dialogare con “la sinistra”. E viceversa. Il Consiglio Federale che viene a formarsi, quindi, è un “governo debole”, in quanto è chiamato a dare attuazione ai provvedimenti legislativi presi dal popolo (tramite referendum) e dal Parlamento. Non esiste il concetto di “governabilità”. Il governo esegue la volontà del Parlamento, il quale vota le leggi formando maggioranze variabili, caso per caso.
    Pochi di voi sapranno che l’attuale presidente del Consiglio Federale svizzero si chiama Alain Berset. I nomi non sono importanti. Importanti sono le competenze dei ministri e la loro capacità di saper rappresentare non una parte politica, ma l’intero Parlamento e l’intero popolo svizzero. L’alternanza di governo tanto evocata in Italia come una “conquista di democrazia” in realtà porta una forte instabilità del sistema, in quanto ogni 5 anni sono possibili dei drastici cambiamenti nelle politiche economiche. In Svizzera, invece, i cambiamenti di fondo avvengono molto lentamente, in quanto nessuna “maggioranza di governo” può imporsi sulla minoranza. Questa stabilità politica è la condizione fondamentale affinché imprese multinazionali ed investitori finanziari scelgano di insediarsi nel paese, potendo fare una programmazione a medio-lungo termine delle loro attività. Le stesse condizioni di stabilità politica favoriscono la crescita delle piccole e medie imprese, che sono certe di non doversi attendere improvvise e spiacevoli sorprese da parte del governo del paese.
    Non è tutto rose e fiori. Anche nel sistema svizzero esistono delle zone grigie. Prima di tutto le leggi non prevedono che i partiti dichiarino la provenienza dei propri finanziamenti. La conseguenza è che ci sono alcuni partiti, in particolari quelli “borghesi”, che dispongono di ingenti capitali per fare propaganda più di altri partiti, sia per le elezioni politiche, sia nelle campagne referendarie. Il consenso ottenuto viene utilizzato per votare dei provvedimenti legislativi in favore delle principali lobbies del paese: le banche, le assicurazioni (specie del settore sanitario), le multinazionali. In occasione delle votazioni referendarie, coloro che dispongono di più capitali hanno la possibilità di condizionare maggiormente la popolazione puntando su ragioni “di pancia” e utilizzando al meglio le moderne tecniche del consenso. Un’idea latente e persistente nei mass media italiani è che l’esercizio della democrazia sia “un costo” per il paese. Sarebbe un costo in quanto il popolo non sa decidere, mentre i politici e i “tecnici” (alla Mario Monti o alla Carlo Cottarelli, per intenderci) sanno decidere molto meglio del popolo su cosa sia bene per gli italiani. Le stesse votazioni sono ritenute “un costo” che sarebbe meglio evitare al paese, magari “per ridurre il debito pubblico”. Ma chiediamoci: quanto ci costa “non votare” in termini di decisioni politiche prese negli interessi di poteri privati e ai danni del popolo italiano? Gli svizzeri, proprio votando con frequenza e senza impedimenti (come invece avviene in Italia), ottengono una migliore qualità delle leggi e dell’azione di governo. Oggi la Svizzera ha un tasso di disoccupazione al 2,4%. Possiamo concludere dicendo che gli investimenti in democrazia diretta hanno portato dei buoni frutti.
    (Davide Gionco, “La democrazia diretta e il successo economico della Svizzera”, dal blog “Attivismo.info” del 20 luglio 2018).

    La Svizzera è uno fra i paesi al mondo in cui si gode di maggiore benessere economico. Certamente questo livello di benessere è anche dovuto alle “ricadute” delle importanti attività bancarie nel paese, ma è anche vero che la Svizzera è un paese mediamente ben governato, che garantisce stabilità agli investitori. Il buon governo del paese è quindi una delle condizioni per cui, nonostante l’alto costo del lavoro, molti investitori da tutto il mondo si rivolgono a questo paese. Se la Svizzera non fosse ben governata, non sarebbe mai diventata il paese di riferimento per investitori e multinazionali. Il segreto del successo svizzero deve quindi essere cercato nei fattori che garantiscono a quel paese di avere mediamente delle buone leggi e dei buoni governanti. La prima chiave del successo sta nella democrazia diretta. Ovvero: il popolo svizzero è il primo organo legislativo, a livello federale, cantonale e comunale. Così come in Italia il Parlamento ha diritto di legiferare su qualsiasi materia, in Svizzera il popolo ha diritto di dire la sua su qualsiasi materia. Le proposte di legge referendarie possono essere di qualsiasi tipo: abrogazione totale o parziale di una legge esistente (consentita in Italia); un nuovo testo di legge (non consentito in Italia); su questioni fiscali (non consentito in Italia); recessione da una ratifica di un trattato internazionale (non consentita in Italia).

  • Trump contro la Merkel, cioè l’ordoliberismo imposto all’Ue

    Scritto il 07/7/18 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Il “Washington Post” di Jeff  Bezos, patron di Amazon, cioè «uno dei quotidiani che fanno da buca delle lettere al Deep State che non ama Donald Trump», ha puntualmente anticipato la notizia: il Pentagono studia l’ipotesi di ritirare dalla Germania i 35.000 soldati americani che vi sono dislocati, presenza che data dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. «I soliti portavoce hanno smentito, ma senza affannarsi», scrive Fulvio Scaglione su “Linkiesta”: sono studi, dicono ufficialmente, che si fanno con regolarità per verificare il rapporto costi-benefici degli investimenti della difesa. Quindi l’ipotesi è stata presa in esame, ed chiaro che anche solo parlarne è un fatto clamoroso, osserva Scaglione, specie se si pensa che Trump «ha accumulato un intero catalogo di attacchi alla Germania di Angela Merkel, dalle critiche sulle politiche migratorie (comprensive di pubblici apprezzamenti nei confronti di Horst Seehofer, il rivale della cancelliera) alle ironie sul tasso di criminalità, dalle pressioni perché venga mandato a monte il progetto del gasdotto South Stream 2 in arrivo dalla Russia (a favore, chiaro, del gas americano) ai dazi sulle esportazioni tedesche di acciaio e alluminio». Forse la Merkel “se l’era cercata”, «andando negli Usa a fare a Trump la predica sul Muro al confine con Messico, lei che aveva convinto l’Europa a sganciare sei miliardi di euro a Erdogan perché il Muro lo facesse la Turchia».
    Ma le “caramelle” che Trump ha messo sul tavolo dell’ultimo G7, unite alla firma negata al comunicato finale, sono state uno schiaffo. «Se poi fosse confermato il progetto di ritirare le truppe (e magari spostarle nella fedele Polonia, come si vocifera), capiremmo che Trump vuole anche ritirare la delega a garante del sistema euro-atlantico che la Germania storicamente detiene, un po’ come il Giappone la detiene in Asia», aggiunge Scaglione. Perché Trump ce l’ha con la Germania? Dalla Casa Bianca, scrive “Linkiesta”, si nota con evidenza che negli ultimi anni l’Unione Europea ha avuto una sola guida (quella tedesca) e una sola politica: quella decisa, o consentita, dalla Germania. Mortificare la Merkel, approfittando delle sue attuali difficoltà, significa mortificare tutta la gestione tecnocratica dell’orribile Ue. All’America, secondo Scaglione, possono dare fastidio – Cina e Russia a parte – solo le grandi coalizioni a forte impatto economico, come appunto l’Unione Europea. «In altre parole: stronchi la Germania e tagli la testa alla Ue». Trump denuncia lo scarso contributo che la Germania offre alle spese della Nato. Su Twitter ha scritto che la Germania «versa (lentamente) l’1% del proprio Pil alla Nato», mentre gli Usa versano il 4% di un Pil molto più grande. Il messaggio: «Proteggiamo l’Europa (il che è una buona cosa) al prezzo di un grande sforzo economico».
    E da questo a temere che Trump abbia in mente un ridimensionamento dell’impegno Usa nella Nato per alcuni il passo è breve, scriove Scaglione: soprattutto negli Usa, in quel complesso militar-industriale che condiziona in modo molto pesante la politica americana, arricchendosi con guerre e impegni militari. E siamo all’oggi: l’11 e 12 luglio Trump sarà a Bruxelles per il summit della Nato, il 13 sarà a Londra per incontrare Theresa May che organizza la Brexit e il 16 a Helsinki per vedersi con Vladimir Putin. «Un filotto che fa fibrillare molte cancellerie, e infatti già si agitano gli sherpa: ex ambasciatori, esperti e giornalisti impegnati a sottolineare quanto sarebbe rischioso, per l’Europa, se il criticone Trump, magari incautamente perché è uno sciocco, promettesse chissà che allo Zar». E allora, aggiunge Scaglione, «vai con il Russiagate e le bufale accluse, mentre ancora aspettiamo le famose chiarissime prove dell’avvelenamento col gas nervino “made in Russia” di Skripal padre e figlia».
    È chiaro, chiosa “Linkiesta”: se produci carri armati e bombardieri, ti fa comodo annunciare un giorno sì e uno no che il nemico è alle porte. Ma i governi di Francia, Germania, Italia e Spagna credono davvero che l’Armata Rossa aspetti solo il momento di marciare verso Ovest? E che non ci sarebbero stati Trump, Brexit, Catalogna e governo gialloverde in Italia se gli hacker russi non avessero digitato come pazzi? Quello che la Ue non riesce a capire, sostiene Scaglione, è che siamo entrati in un mondo nuovo: «La vecchia idea che tutti insieme si commercia, si guadagna e si sorride è morta con la crisi finanziaria del 2008. E l’idea, ancor più vecchia, che basta nascondersi sotto le gonne dello Zio Sam, delle sue rivoluzioni colorate e dei suoi convenienti cambi di regime, è morta in Ucraina e in Siria». Beninteso: «Non è Trump che ha cambiato il mondo, è il mondo cambiato che ha fatto arrivare lui alla Casa Bianca. La Ue è un nano politico anche perché non vuole accettarlo. E prima di decidere alcunché si chiede “ma questo piacerà o non piacerà a Putin?”, mentre il suo vero problema è quel che piace o non piace a Trump».

    Il “Washington Post” di Jeff  Bezos, patron di Amazon, cioè «uno dei quotidiani che fanno da buca delle lettere al Deep State che non ama Donald Trump», ha puntualmente anticipato la notizia: il Pentagono studia l’ipotesi di ritirare dalla Germania i 35.000 soldati americani che vi sono dislocati, presenza che data dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. «I soliti portavoce hanno smentito, ma senza affannarsi», scrive Fulvio Scaglione su “Linkiesta”: sono studi, dicono ufficialmente, che si fanno con regolarità per verificare il rapporto costi-benefici degli investimenti della difesa. Quindi l’ipotesi è stata presa in esame, ed chiaro che anche solo parlarne è un fatto clamoroso, osserva Scaglione, specie se si pensa che Trump «ha accumulato un intero catalogo di attacchi alla Germania di Angela Merkel, dalle critiche sulle politiche migratorie (comprensive di pubblici apprezzamenti nei confronti di Horst Seehofer, il rivale della cancelliera) alle ironie sul tasso di criminalità, dalle pressioni perché venga mandato a monte il progetto del gasdotto South Stream 2 in arrivo dalla Russia (a favore, chiaro, del gas americano) ai dazi sulle esportazioni tedesche di acciaio e alluminio». Forse la Merkel “se l’era cercata”, «andando negli Usa a fare a Trump la predica sul Muro al confine con Messico, lei che aveva convinto l’Europa a sganciare sei miliardi di euro a Erdogan perché il Muro lo facesse la Turchia».

  • Bugie su Mosca da un’Europa in pezzi. L’Italia? Obbedisce

    Scritto il 30/3/18 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Putin lapidato a reti unificate (ma senza prove) per l’attentato all’ex spia Sergeij Skripal, mentre a Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, viene isolato nell’ambasciata ecuadoregna di Londra, senza più connessione Internet. E’ in atto un’evidente offensiva, estremamente opaca e interamente basata su pretesti inconsistenti contro Mosca. Obiettivo: tentare di ricompattare una Nato che perde i pezzi, con Theresa May in grave difficoltà dopo la Brexit e un’Europa dove gli Usa faticano a farsi ascoltare da paesi come la Germania e la Turchia. Sul “Giornale”, Marcello Foa sgombra il campo da possibili equivoci:  «Che interesse aveva il presidente russo a tentare di eliminare un’ex spia, peraltro fuori dai giochi, ricorrendo al più spettacolare dei tentativi di omicidio, l’unico che – dopo la vicenda del polonio – tutto il mondo avrebbe attribuito al Cremlino? Ne converrete: non ha senso». Sul piano diplomatico sarebbe stato un suicidio, «perché avrebbe offerto all’Occidente lo spunto per un’ulteriore campagna antirussa, che infatti si è puntualmente verificata», fino all’ultimo atto – l’espulsione coordinata dei diplomatici – a cui «l’Italia dell’uscente Gentiloni si è accodata benchè  avrebbe potuto (e proceduralmente dovuto) astenersi». E tutti sanno che Putin, sempre così accorto, «non è leader da commettere questi errori».
    Quanto alle dichiarazioni del governo britannico, la stessa May continua a dire che «è altamente probabile» che l’attentato sia stato sponsorizzato dal Cremlino. «Altamente probabile non significa sicuro, perché per esserne certi bisognerebbe provare l’origine del gas, cosa che è impossibile in tempi brevi», aggiunge Foa. E nel comunicato congiunto diffuso da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania si ribadisce che si tratta di «agente nervino di tipo militare sviluppato dalla Russia», che farebbe parte di un gruppo di gas noto come Novichok concepito dai sovietici negli anni Settanta. Ma “sviluppato” non significa prodotto in Russia: «Se non è stato usato questo verbo – o un sinonimo, come “fabbricato” – significa che gli stessi esperti britannici non hanno prove concrete a sostegno della tesi della responsabilità russa», che pertanto «andrebbe considerata come un’ipotesi investigativa, non come un verdetto». La stampa dovrebbe mostrare maggior cautela, specie dopo le maggiori “fake news” che ha propagato, dalle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein fino alle prove “incontrovertibili” (ma altrettanto inesistenti) della responsabilità di Assad nella strage coi gas nel 2013 (armi chimiche in realtà usate dai “ribelli” siriani per provocare un intervento della Nato).
    Come risalire addirittura a Putin nel giro di poche ore, soprattutto conoscendo l’efficienza dell’ex Kgb? Molto eloquente, sottolinea Ivan Giovi sul blog di Aldo Giannuli, la volontà di non mostrare la provetta che dimostrarebbe la produzione russa del gas nervino utilizzato contro Skripal, nonostante Boris Johson si sia scagliato contro il Cremlino, non a caso alla vigilia delle elezioni russe. Marcello Foa insiste: siamo regolarmente sommersi da “fake news” veicolate non dal web, ma dai grandi media. Penultimo esempio: sempre in Siria, nel 2107, Amnesty International e il Dipartimento di Stato denunciarono l’esistenza di un “formo crematorio” in cui venivano “bruciati i ribelli”, «rivelazione che indignò giustamente il mondo ma che venne smentita dopo un paio di settimane dallo stesso governo americano». Avverte Foa: «Quando il rumore mediatico è assordante, univoco, esasperato, le possibilità sono due: le prove sono incontrovertibili (ad esempio l’invasione irachena del Kuwait) o non lo sono ma chi accusa ha interesse a sfruttarle politicamente, il che può avvenire solo se le  fonti supreme – ovvero i governi – affermano la stessa cosa e con toni talmente urlati e assoluti da inibire qualunque riflessione critica, pena il rischio di esporsi all’accusa di essere “amici del dittatore Putin”».
    Le istantanee adesioni europee alla condanna unilaterale inglese contro la Russia, scrive Giovi, fanno pensare a un tentativo di compattamento dei ranghi della Nato, «che sembra ormai tutto tranne che un’alleanza». Ovvero: più che un alleato, la Turchia «ormai sembra sempre più una spina nel fianco di Europa e Usa», mentre la Germania «ha intrapreso una guerra commerciale con gli Stati Uniti trascinando con sé tutta Europa». Dal canto loro, gli Usa «si lamentano in continuazione con gli Stati europei perché non contribuiscono abbastanza alla difesa comune». Tendenza in corso: ricompattare i ranghi della Nato ingigantendo il reale potere dei russi e «trovando pretesti assurdi per incolparli di qualsivoglia evento accaduto nel mondo occidentale (leggasi hacker russi che interferiscono con elezioni di mezzo mondo)». Senza peraltro riuscire nello scopo, «perché l’influenza russa negli ultimi anni si è estesa sempre di più, basti pensare alla Turchia che ha palesemente cambiato sponda o alla in Siria dove il vincitore a breve sarà nettamente Vladimir Putin». In questo quadro, Maurizio Blondet inserisce anche il giro di vite contro l’uomo che per primo ha smontato la propaganda militare Usa, mettendo in piazza i crimini commessi in Iraq: Julian Assange. L’averlo isolato – senza più Internet – per ragioni diplomatiche (buon vicinato con gli inglesi) rappresenta «una stretta imposta dal governo britannico nell’ambito dell’offensiva europea e americana contro tutte le voci libere».
    Per Blondet, si tratta di «un atto di barbarie identico (e connesso) alle espulsioni dei diplomatici russi sotto accuse spudoratamente false: una vera congiura della dittatura totalitaria occidentale in corso di consolidamento, una volontà di precipitare il conflitto con la Russia». Lo stesso Blondet ricorda che la Commissione Europea ha appena presentato un “Piano d’azione sulla Mobilità Militare” che obbligherà tutti i paesi membri a lasciare libero il passo agli eserciti Nato sul proprio territorio. Come sottolinea Thierry Meyssan, non si parla solo di eserciti europei: nella Nato, oltre agli Usa, c’è la Turchia. Per Blondet, questa misura «è l’identificazione finale della “Unione Europea” con l’Alleanza Atlantica, l’inglobamento dell’organizzazione essenzialmente economica nella lega militare oggi in postura offensiva». A 25 Stati membri viene ordinato di fornire carte delle loro vie di comunicazione (ferrovie, porti, aeroporti) nonché di precisare i lavori necessari per rendere praticabili ponti e le loro gallerie per i mezzi cingolati. «Dovranno anche cancellare le leggi e i regolamenti in vigore che vietano – o regolamentano – il trasporto di armamenti e materiali bellici sul loro territorio: è una Schengen per la guerra».
    Trionfante, Federica Mogherini – ancora lei, benché il governo che l’ha piazzata a Bruxelles non esista più – accoglie il progetto con entusiasmo: «Facilitando la mobilità militare nella Ue, siamo più efficaci nel prevenire crisi, più efficienti nel dispiegare le nostre missioni e più rapidi nel reagire quando sorgono delle sfide». “Prevenire crisi”, secondo Blondet, va inteso nei due sensi: «Secondo documenti interni all’Alleanza, la mobilità militare non serve solo per far correre le forze alle frontiere contro la Russia; servirà anche in caso di sollevazione popolare all’interno di uno degli Stati membri». Noi italiani non potevamo fare altrimenti che espellere diplomatici russi, pur con il già defunto governo Gentiloni? Non è vero, sottolinea Blondet: sono sono tutti così servili. Austria, Grecia e Portogallo si sono rifiutati di accodarsi a Londra, Parigi, Berlino e Roma. L’ha fatto anche la Repubblica Ceca: «Voglio vedere le prove», ha avvertito il presidente ceco Milos Zeman, rifiutando di compiere azioni ostili contro Mosca. Una dignità politica inesistente in Italia, la cui nave della Saipem per trivellazioni marittime è stata allontanata dalle acque di Cipro (sotto minaccia della flotta turca) senza che fiatasse il governo di Roma, in cui soccorso non è intervenuto nessuno – né l’Ue, né la Nato, cioè le potenze che dall’Italia poi ottengono obbedienza immediata se si tratta di colpire Mosca.
    E vogliamo parlare del “partner” Germania? «Mentre noi applichiamo le sanzioni alla Russia – aggiunge Blondet – Berlino ha appena firmato e confermato il North-Stream 2, il gasdotto baltico con la Russia, a dispetto delle proteste di Polonia, paesi baltici e Usa. Con quale motivazione? Che il gasdotto è una realizzazione “economica”, non politica». Dalla “guerra” con la Russia, invece, l’Italia ha riportato enormi danni. Secondo dati ufficiali Eurostat, fino a inizio 2017 il trend delle esportazioni italiane nella Federazione Russa era in crescita, con 10,8 miliardi di euro. Le importazioni, invece, ammontano a circa 20 miliardi di euro, principalmente nel settore degli idrocarburi e delle materie prime. Oltre 400 sono le imprese italiane che operano in Russia e circa 70 gli stabilimenti produttivi realizzati nella Federazione (tra questi le installazioni Eni, Indesit, Marcegaglia, più le filiali Intesa SanPaolo e Unicredit). «E’ chiaro che il vero nostro partner è la Russia», non certo i nostri “alleati” euro-atlantici. E se il Pd è rimasto sempre allineato ai diktat “imperiali”, solo Salvini ha eccepito sull’ultima offensiva antirussa. Di Maio? «Sulla questione degli espulsi russi ha taciuto: zitto zitto, per non dispiacere all’ambasciatore Usa e ai padroni del vapore in generale». In sostanza: neppure la nuova politica emersa il 4 marzo protegge l’Italia dalle “pazzie” geopolitiche in corso, riesplose subito dopo l’annuncio di Putin: grazie a nuovissimi missili nucleari iper-sonici “imparabili”, la Russia è al riparo da attacchi atomici. Putin chiede pace? L’Occidente risponde con una guerra di menzogne.

    Putin lapidato a reti unificate (ma senza prove) per l’attentato all’ex spia Sergeij Skripal, mentre Julian Assange, fondatore di WikiLeaks, viene isolato nell’ambasciata ecuadoregna di Londra, senza più connessione Internet. E’ in atto un’evidente offensiva, estremamente opaca e interamente basata su pretesti inconsistenti, contro Mosca. Obiettivo: tentare di ricompattare una Nato che perde i pezzi, con Theresa May in grave difficoltà dopo la Brexit e un’Europa dove gli Usa faticano a farsi ascoltare da paesi come la Germania e la Turchia. Sul “Giornale”, Marcello Foa sgombra il campo da possibili equivoci:  «Che interesse aveva il presidente russo a tentare di eliminare un’ex spia, peraltro fuori dai giochi, ricorrendo al più spettacolare dei tentativi di omicidio, l’unico che – dopo la vicenda del polonio – tutto il mondo avrebbe attribuito al Cremlino? Ne converrete: non ha senso». Sul piano diplomatico sarebbe stato un suicidio, «perché avrebbe offerto all’Occidente lo spunto per un’ulteriore campagna antirussa, che infatti si è puntualmente verificata», fino all’ultimo atto – l’espulsione coordinata dei diplomatici – a cui «l’Italia dell’uscente Gentiloni si è accodata benchè  avrebbe potuto (e proceduralmente dovuto) astenersi». E tutti sanno che Putin, sempre così accorto, «non è leader da commettere questi errori».

  • Mattei: siamo merce da macello, controllata via smartphone

    Scritto il 06/12/17 • nella Categoria: idee • (6)

    Negli ultimi tre o quattro anni sono stati installati, soltanto nella parte occidentale del mondo, quindi nel nord globale, circa un miliardo e quattrocentomila sensori per l’Internet delle cose. Gran parte dei quali sono costruiti nei muri delle case, nei nuovi televisori – in tutti gli apparecchi elettronici che comperiamo – e nelle automobili. Parte di questi sensori, che sono invece fissi, sono inseriti negli spazi pubblici e sono quelli con i quali i nostri meccanismi elettronici si collegano senza che noi lo sappiamo. Queste cose vengono chiamate “Smart”, nel senso che noi sentiamo parlare costantemente di “Smart City”, “Smart Card”, eccetera. Tutte le volte in cui si sente la parola “Smart” io penso sempre che gli “Smart” siano loro e i cretini siamo noi. Qui la situazione sta diventando davvero molto preoccupante. C’è in costruzione un gigantesco dispositivo (e qui proprio la parola “dispositivo” studiata da Foucault è direttamente utilizzabile per parlare dei dispositivi elettronici che noi compriamo). Un gigantesco dispositivo di controllo sociale di tutti quanti, che viene ovviamente sperimentato per fare un passo in avanti in modo da rendere in qualche modo l’umanità coerente con la nuova frontiera.
    Parliamo della frontiera di tanto tempo fa, del saccheggio coloniale e così via. Quella era la frontiera della modernità. Con la modernità si scoprono le Americhe, nelle Americhe si sperimenta tutto ciò che non si poteva fare all’interno del nostro continente europeo. Perché non si poteva fare? Perché la tradizione lo impediva. La tradizione giuridica impediva la sperimentazione di ideologie proprietarie come quelle di Locke, che presupponevano la tabula rasa, un’idea di un vuoto che viene colmato attraverso delle istituzioni giuridiche fortemente semplificate. Fra le quali due capisaldi della modernità che sono la proprietà privata assoluta, il dominio dispotico di cui hanno parlato i giuristi da un lato e la sovranità dello Stato. Che sono i due poli organizzativi intorno ai quali noi abbiamo costruito le categorie giuridiche e politiche della modernità: il pubblico e il privato. Oggi la frontiera non è più una frontiera fisica, non abbiamo più le scoperte di Magellano, di Amerigo Vespucci o di Cristoforo Colombo, ma chiaramente è una frontiera di tipo informatico. Quella che Floridi aveva chiamato qualche anno fa “l’Infosfera”.
    Questa frontiera di tipo informatico condivide con la frontiera fisica, la frontiera dell’inizio della modernità, una caratteristica fondamentale, che ha reso il capitalismo da essa completamente dipendente: oggi è impensabile immaginare il capitalismo nella forma attuale – quindi dei rapporti di produzione capitalistici globali – senza la mediazione della rete di Internet. Se voi pensate alla vostra vita quotidiana, vi rendete conto perfettamente che nulla oggi può funzionare se non mediato dalla rete. Quando andavo a comprare un biglietto del treno, per andare a trovare i miei amici in età giovanile, c’era un signore che me lo faceva a mano. Certo, io sono molto anziano, però oggi se arrivi in stazione e il computer è giù, tu il biglietto non lo compri e il treno non lo prendi. Perché la sostituzione della macchina all’umano, in queste operazioni anche molto semplici come quella di fare un biglietto, è tale per cui semplicemente non è più possibile farne a meno. Se estendete tutto questo al mercato finanziario, alle banche, a tutto quanto, vi rendete perfettamente conto che chi può accedere al Master Switch (come è stato chiamato in un famosissimo libro molto importante di un signore che si chiama Tim Wu, professore della Columbia University), che sarebbe l’interruttore centrale, è colui che in realtà può disattivare il capitalismo.
    In questa frontiera si sperimentano molte cose. La frontiera dell’Infosfera è una frontiera dalla quale il capitalismo è dipendente e che dev’essere naturalmente tutelata in un modo assolutamente molto forte. Tramite che cosa? Tramite la costruzione di una serie di tabù, di una serie di ideologie, di una serie di convinzioni generalizzate che non si possono mettere in discussione. Faccio un esempio molto semplice. Quando a noi arriva un messaggio di posta elettronica, di solito sotto c’è scritto: “Non stampare questa email, mantieni l’ambiente salubre”. Questo è una sorta di messaggio criptico per cui sostanzialmente la posta elettronica sarebbe, dal punto di vista ecologico, un modo di comunicare totalmente sostenibile, mentre stampare la carta e spedire la lettera non lo sarebbe. Il messaggio che passa è che la rete Internet vive in una sorta di empireo astratto assolutamente pulito (adesso si parla di nuvole, no?). In realtà la rete Internet è fatta, fisicamente, dall’hardware: sono dei giganteschi cavi, estremamente grossi, che passano sotto i mari. Sono una serie di server potentissimi che consumano una quantità spaventosa di energia e che semplicemente nessuno sa dove siano. Si sa vagamente che sono collocati nella zona dell’Occidente degli Stati Uniti, tra la parte – diciamo – nord della Stato della California, dello Stato di Washington e dell’Oregon. Si pensa che pezzi siano nel Canada, ma non v’è certezza. Una delle tesi più accreditate è che il famoso Master Switch, cioè il server centrale, quello davvero importante, stia in un sottomarino nucleare al largo di Seattle.
    Tutto questo si va a schiantare contro quello che è la nostra impronta ecologica. L’impronta ecologica giusta è 1, ma oggi l’impronta ecologica globale è 1.4 e 1.5, il che significa che tutti gli anni verso luglio-agosto siamo nel cosiddetto Overshoot Day, vale a dire il giorno nel quale abbiamo finito di consumare le risorse che sono teoricamente riproducibili e incominciamo a consumare delle risorse che non saranno mai più riprodotte. 1.4 è una pessima impronta ecologica! Ma la cosa ancor peggiore è che i luoghi che vengono indicati da tutti come i più avanzati del mondo, la famosa Silicon Valley, dove ci si va a fotografare se si diventa primi ministri, da Twitter a Cupertino, a Palo Alto, a Mellow Yellow Party, i famosi posti della famosa Silicon Valley, ebbene l’impronta ecologica della Silicon Valley è 6. Il che significa che se tutto il mondo vivesse e si sviluppasse per poter diventare come ci dicono che potremmo diventare, cioè come la Silicon Valley («Crescete in modo tecnologicamente avanzato», e noi importiamo questo modello di sviluppo), ci vorrebbero sei pianeti per poter mantenere tutti quanti questo tenore di vita. Il che significa che se l’impronta ecologica è di appena 1.4, è solo perché dal Burkina Faso, all’India alla stessa Cina, l’impronta ecologica è molto più bassa rispetto a quella che è l’impronta ecologica dell’Occidente ricco. D’accordo?
    La Cina ha un’impronta ecologica di più della metà rispetto a quella degli Stati Uniti, anche se viene normalmente indicata come il posto in cui tutti inquinano e fanno delle cose tremende! E quella pro-capite è doppia negli Stati Uniti. Se poi ci stupiamo dei flussi migratori, delle situazioni drammatiche che si verificano, questo dipende semplicemente dal fatto che l’equilibrio globale è fortemente sbilanciato dal punto di vista dei consumi. Nessuno dei temi, compreso quello della Costituzione, può essere affrontato senza un’analisi seria dello stato del capitalismo attuale. Perché altrimenti noi ci mettiamo a ragionare di categorie astratte e non capiamo le condizioni materiali nell’ambito delle quali l’umanità si trova a vivere. E quali sono le possibilità, i rischi legati alla costruzione di questi dispositivi? Esempio molto semplice: gli untori. «Teniamo fuori i bambini che possono contagiare tutti gli altri». Che cosa significa? Che le mamme di questi bambini sono dei cattivi cittadini perché non investono sufficientemente in precauzione rispetto agli altri. Si costruisce un modello moralistico contro quelle mamme, e questo modello moralistico rende utilizzabile una sorta di implementazione diffusa di un ordine giuridico assolutamente contrario al precetto della Costituzione stessa.
    La Costituzione prevede che non si possano imporre trattamenti sanitari obbligatori se non in casi assolutamente particolari, ed è chiaro che una vaccinazione a tutto raggio, fatta per tutti quanti, non rientra in quelle categorie di eccezionalità che giustificano il trattamento sanitario obbligatorio. Questo lo capisce chiunque. Allora, il punto vero è che oggi quella sperimentazione che viene fatta in Italia, per poi estendere i vaccini in tutto il mondo, io credo che venga fatta anche per sperimentare una futura possibile frontiera. Che è quella di rendere l’Internet delle cose sempre più inevitabile. In altre parole, se ci fate caso, quando vi comprate un telefonino di questa generazione ultima, non potete più togliere la batteria. Vi sarete chiesti: perché non si può più togliere la batteria? Perché togliendo la batteria ci si può disconnettere. Non la puoi togliere fisicamente! E certo, potresti smontare il telefono, ma guardate che se voi comprate un telefonino di ultima generazione e lo accendete – questo vale per la vostra televisione o per qualunque oggetto Smart – prima di poterlo utilizzare dovete premere una serie di pulsanti sui quali c’è scritto: “I agree. I agree. I agree”. E voi che cosa accettate, naturalmente senza leggerlo? Tu hai accettato in quel momento una serie di cose che non accetteresti mai rispetto a una tua normale proprietà.
    Per esempio hai accettato il fatto che non lo potrai portare a riparare da chi ti pare, ma dovrai portarlo a riparare soltanto da quello che ti indica il venditore. Hai accettato il fatto che non potrai hackerare, manipolare la tua proprietà per renderla più compatibile con un altro sistema operativo, perché se lo fai commetti un reato! Hai accettato semplicemente una giurisdizione all’interno della quale tutta una serie di comportamenti, che sono comportamenti totalmente normali rispetto a un proprio oggetto, sono in realtà rilevanti dal punto di vista penale. Hai in più accettato anche il fatto di togliere di mezzo ogni giurisdizione, cioè che utilizzando questo strumento e scaricando qualsiasi tipo di App, implicitamente non puoi più andare in una giurisdizione – sia straordinaria che amministrativa – a far causa a uno qualsiasi di questi provider cui hai venduto i tuoi dati. Facebook ha un miliardo e mezzo di utenti. È tanta gente! I nostri giornalisti ci dicono che si tratta della più grande nazione del mondo. Quel miliardo e mezzo di persone hanno accettato il sistema di risoluzione delle controversie tra l’utente e Facebook stesso, ma indovinate quante volte nella storia di Facebook lo hanno utilizzato? Sessantaquattro!
    Vale a dire che è stato completamente tolto di mezzo qualsiasi strumento di accesso alla giurisdizione ordinaria. E anche quella speciale, che ti viene offerta come giurisdizione privata, non viene semplicemente utilizzata mai. Cosa significa questo? Significa che nella frontiera dell’Infosfera possiamo fare a meno del giurista! La presenza del diritto non è più necessaria per costruire la struttura portante del capitalismo. Il giurista e il diritto sono stati sostituiti dai programmatori che riescono a introdurre dei processi che fondano le basi di transazioni economiche al di fuori di qualsiasi possibilità di controllo da parte dei giuristi. Voi mi direte: «Ma che bella cosa, perché i giuristi ci stanno molto antipatici!», e io sono anche d’accordo, da un certo punto di vista, perché purtroppo li frequento molto. Però il punto è che mentre nella storia tutte le rivoluzioni fin qui hanno sempre cercato di togliersi dai piedi i giuristi, ma non ci sono mai riuscite perché prima o dopo la loro presenza era necessaria per costruire le basi di una società organizzata fondata sullo scambio, oggi per la prima volta è possibile. Il che significa che mentre prima il capitalismo doveva in qualche modo sopportare i pistolotti dei giuristi che gli dicevano: «Ma guarda che ci sono anche gli standard di decenza, ci sono i diritti umani fondamentali, non si possono imporre vaccini obbligatori, non si possono fare una serie di cose senza ragionevolezza», perché quel ceto era un ceto in qualche modo indispensabile per la funzione primaria da cumulo capitalistico, oggi che quel ceto non serve più.
    Anche le nostre prediche sono destinate a rimanere, come diceva il buon Bob Dylan, Blowin’in the Wind. Sono destinate a rimanere completamente inascoltate, per un semplice fatto: che incentivo hanno ad ascoltare Ugo Mattei che gli fa il predicozzo, se poi non ne hanno bisogno per poter estrarre valore nei rapporti economici commerciali utilizzando le sue dottrine sul contratto sulla proprietà? Semplicemente se lo tolgono dai piedi nell’uno e nell’altro settore. Questa è una sperimentazione che per ora sta avvenendo in frontiera, nell’Infosfera, ma che sempre più rapidamente – io prevedo – arriverà anche nella madrepatria, nel mondo off-line – come oggi si chiama – perché quelle sperimentazioni lì vengono fatte in quel luogo e poi dopo ricadono anche nella nostra vita quotidiana. Proprio come le sperimentazioni di saccheggio nell’America Latina, soprattutto nel Nord America, sono ricadute nella strutturazione del capitalismo della madrepatria. Questo è un punto di una certa gravità, perché né tu né un altro miliardo di persone adesso potete più togliere la batteria: c’è il diritto penale che presiede alla vostra ubbidienza rispetto a quello che avete accettato.
    E questo è gravissimo, perché nel momento in cui tutti noi, dal primo all’ultimo, commettiamo dei reati senza saperlo, perché premiamo dei pulsanti, noi tutti, dal primo all’ultimo, possiamo essere inquisiti per quello che abbiamo fatto. E quindi noi, dal primo all’ultimo, possiamo finire nei guai proprio come è successo ad Aaron Swartz negli Stati Uniti d’America. Quanti di voi hanno sentito parlare di Aaron Swartz? Era un ragazzo che all’età di 12 anni era un genio informatico, un genio che aveva preso una sua consapevolezza politica. A 12 anni aveva fatto il Coding per il famoso programma, quello di Lawrence Lassie per i CoPilot, quindi insomma era un personaggio di grandissimo livello. A un certo punto capisce l’importanza di questi discorsi e pubblica un piccolo manifesto che si chiama “Guerilla Open Access Manifesto”. Pubblica questa cosa e comincia a dire che l’unico modo di mantenere la società come una società di liberi e non una società di schiavi è quella di rendere la cultura accessibile a tutti. Siccome era un genio e sapeva fare queste cose, penetra nella notte negli archivi del Mit, il Massachusetts Institute of Technology, e scarica tutte le collezioni di Jstor, che è il più grande collettore di dati scientifici che ci siano nel mondo, e le rende pubbliche. Ok?
    Fa questa operazione di guerriglia per rendere accessibile questa informazione sulla base di una consapevolezza politica impressionante, perché nel Guerrilla Manifesto c’è tutto un ragionamento sul fatto dello iato tra i paesi ricchi e i paesi poveri, sulla cultura e di come deve essere in qualche modo accessibile, distribuita. Insomma, un personaggio di grande spessore nonostante la giovane età. Viene ovviamente preso di mira dall’Fbi e nonostante ottenga un accordo con Jstor per uscire dalla cosa – io conoscevo bene il suo avvocato che mi ha raccontato tutto – distrutto dai conti che ha dovuto pagare, tra avvocati e altre spese, all’età di 26 anni si è suicidato. C’è un bellissimo documentario che ne racconta la storia, si chiama “Killswitch”, vale la pena di vederlo perché è esattamente la storia di come in frontiera la partita si svolga tutta fra programmatori, così come una volta il giurista critico era visto come il peggior nemico del capitalismo stesso. Pashukanis viene ammazzato dallo stesso Stalin perché aveva introdotto una riflessione critica sul diritto che dava fastidio a chiunque volesse costruire delle strutture di sovranità. Quindi era sostanzialmente demonizzato perché conoscitore del segreto iniziatico. Stessa cosa successa per Aaron Swartz.
    Quindi questa è una partita molto importante. Che cosa impedirà un domani di far uscire una legge che, per ragioni di sicurezza e per lotta contro il terrorismo, ci obblighi a introdurci con una piccola iniezione un microchip sottocutaneo che si collega automaticamente con i vari sensori che ci sono nel mondo? Assolutamente nulla! Dal punto di vista tecnico è già totalmente possibile – ci sono già state sperimentazioni sull’introduzione di particelle talmente piccole che possono essere sostanzialmente iniettate sotto cute. Poi mi dicono che sono un “Conspiracy theorist”, che è il modo di dire di qualcuno che cerca di pensare criticamente: gli dicono che fa la “Conspiracy theory“, ma la verità vera è che oggi la tecnologia – se non oggi fra 3 anni, 5 anni, 8 anni, ma in un tempo molto vicino – consentirà cose di questo genere in modo assolutamente banale. Perché sono già totalmente possibili. Oggi il mio telefono, che è di un livello medio-scarso, è già molto più potente del top di gamma dell’Apple computer nel 2005. L’accelerazione tecnologica legata alla cosiddetta Legge di Moore, fa sì che oggi noi abbiamo un telefonino di livello medio-basso molto più potente del top di gamma non di 30 anni fa, ma di quattro, cinque, otto anni fa. Io credo che la questione della tecnologia debba essere affrontata in modo molto serio, perché ha trasformato profondamente i nostri sistemi politici portando alla sparizione totale della famosa contrapposizione fra pubblico e privato, sulla quale abbiamo costruito la civiltà liberale che ci governa, o comunque la civiltà moderna.
    Quando Barack Obama fu eletto presidente degli Stati Uniti, io dissi: «Secondo me Obama è come Gorbaciov». Gorbaciov era stato l’ultimo dei comunisti all’interno del sistema sovietico, che aveva cercato di trasformare dall’interno senza riuscirci. Barack Obama è stato l’ultimo degli americani a provare a trasformare il sistema liberale dall’interno, a provarci secondo diciamo le possibilità concrete di farlo, che erano assai limitate perché non era un uomo particolarmente coraggioso. L’esito è stato da un lato la rivoluzione che ha portato a Putin, dall’altro Donald Trump, e poi questo modello di governo che stiamo vedendo ovunque, da Modi in India, alle trasformazioni del partito comunista cinese. Ovunque si sono istituite delle Costituzioni tecno-fasciste. In altre parole delle Costituzioni, delle strutturazioni che si sono liberate completamente dal vecchio controllo, dalla vecchia dicotomia pubblico/privato. Oggi nel consiglio di amministrazione di Facebook, delle cinque grandi corporation di grandi gruppi farmaceutici, siedono tanto dei rappresentanti del capitale quanto dei rappresentanti del Dipartimento di Stato, della Cia all’Fbi. Perché non c’è più sostanzialmente nessuna separazione, e non può più esserci.
    Chi è il proprietario di queste grandi strutture dentro Internet? Chi mantiene quei cavi? Chi ha le chiavi per entrare ad aggiustare quel Master Server? Chi è che fa gli investimenti per migliorarlo? Semplicemente non lo sappiamo. Io sarò un ricercatore ignorante, zuccone e asino, ma sono tre anni che provo a trovare dei lavori scientifici seri sull’hardware, sulla parte hard della rete Internet, e non si trova assolutamente niente. Non c’è un paper scientifico che affronti dal punto di vista teorico quella che è la questione della proprietà delle infrastrutture materiali che governano l’Infosfera. Questo è un buco nelle nostre conoscenze estremamente pericoloso. Allora, se così stanno le cose, io credo che noi non possiamo trovare soluzioni che si facciano carico dei problemi, così come essi si verificano a questo livello di sviluppo tecnologico, all’interno delle vecchie strutture dell’ordinamento costituito. Noi non possiamo immaginare che possano essere i legislatori ordinari dei paesi del mondo, siano essi i paesi deboli e semiperiferici come il nostro, ma siano anche i grandi blocchi avanzati, a riuscire a mettere sotto controllo il potere economico così come è venuto a svilupparsi oggi. I rapporti di forza tra privato e pubblico sono drammaticamente cambiati.
    Il Leviatano un tempo era un signore pubblico, contro il quale avevamo costruito il diritto costituzionale liberale, per proteggere l’individuo vivo, la proprietà privata, la privacy, la nostra entità o la persona rispetto alle potenziali deviazioni del potere concentrato. Oggi le cose non stanno più così. Oggi non è più il privato a essere più debole del pubblico e a necessitare della tutela nei confronti del pubblico stesso, ma è il pubblico, sono questi sistemi burocratici che sono stati talmente colonizzati dal capitale privato, per cui nessuna delle scelte che vengono fatte può essere più considerata una scelta politica. Ma voi pensate che sia stata davvero la Lorenzin a decidere questa cosa dei vaccini? Ma stiamo scherzando? E pensate davvero che siano state le istituzioni europee sulla base di qualche think-tank di alto livello? Ma scherzate proprio? Sono stati i consigli di amministrazione di due, tre, quattro grosse multinazionali, che erano le stesse che ai tempi della mucca pazza – ogni tanto vengono costruite queste situazioni d’emergenza – avevano creato le condizioni per poter operare delle “estrazioni” – come dire – molto importanti.
    Perché per la mucca pazza in Italia avevamo comprato una quantità di vaccini, che poi abbiamo buttato via, impressionante! Milionate di vaccini! Avremmo finanziato la ricerca nei beni comuni, nel territorio e tutto quel che volevamo, ma c’è stato l’allarme mucca pazza, no? Adesso si è capito – come spesso avviene – che il momento di estrazione e di accumulo originario, quello che il vecchio Marx chiamava l’“Accumulazione Primitiva” non è un momento specifico (le Torri Gemelle, e allora dichiaro la guerra). No! Semplicemente si tratta di un modello permanente di strutturazione della società che consente a questi processi di andare avanti in modo lineare sempre in quella particolare direzione. Allora, come si risponde a questo? Io credo che  prima di tutto bisogna avere l’umiltà di provare a capire questi processi. E provare a capire questi processi non è facile perché ti oppongono: «Ma tu, Mattei, sei un giurista. Che ne capisci di informatica? Tu, sociologo, che ne capisci di medicina? La medicina e l’informatica non sono democratiche, no?».
    Esattamente questo è il punto! Si sente la necessità di una cultura che sia nuovamente una cultura di tipo olistico, una cultura di tipo interdisciplinare che sia capace una volta tanto di esercitare un controllo critico sulle cose che lo specialismo cerca di farci ingurgitare. Questo è un punto – secondo me – molto molto importante. La seconda cosa è capire che oggi noi come individui non contiamo più niente: non importa niente a nessuno di noi come individui. Noi siamo delle categorie merceologiche. Nel momento in cui qualcosa ci viene dato gratis, significa che noi siamo la merce. Quando qualcosa è gratis, il prodotto sei tu. Siamo categorie merceologiche che sono interessanti nel momento in cui veniamo raggruppati attraverso la forza computazionale, che sta aumentando in modo rapidissimo. Vi ricordate von Hayek? La teoria della conoscenza liberale qual era? Che il piano sovietico è destinato a perdere perché il libero mercato ha molte più informazioni di quante ne abbia il piano. Per cui i sovietici, non avendo il mercato libero che produce informazione, erano destinati al fallimento perché non si sapeva quanti stivali e quante scarpe col tacco lungo erano desiderati in quel momento, e quindi si producevano troppi stivali e troppo poche scarpe col tacco. E questo comportava l’impossibilità di far funzionare il piano.
    Oggi non è più così. Oggi la capacità computazionale crea una capacità pianificatoria molto più forte rispetto alla catalessi del mercato. Non c’è più – secondo me – un elemento per cui il potere diffuso possa imporsi rispetto al potere concentrato, nel momento in cui il potere concentrato mette sotto controllo la tecnologia ai livelli in cui la tecnologia è messa sotto controllo oggi. Il che significa che dobbiamo ripensare le stesse basi del dibattito teorico-filosofico che ci hanno accompagnati dalla modernità fino ad oggi. E’ un compito molto serio, molto molto importante e di cui però bisogna cominciare ad occuparsi. Bisogna che qualcuno abbia il coraggio di prendersi del buffone, ma andare a parlare di queste cose dove di queste cose bisogna parlare. Siccome non contiamo più come individui, ma come categoria merceologica, abbiamo la necessità di ricostruire istituzioni del collettivo. L’individuo è morto. L’individualismo basato sul diritto soggettivo assoluto è, come diceva Rosa Luxemburg a proposito della socialdemocrazia tedesca dell’epoca, un fetido cadavere, cioè qualcosa che non ha più senso di esistere perché oggi ci sono i collettivi che vanno ricostruiti.
    O ricostruiamo una situazione di collettivizzazione, anche di quelle persone che non accettano di essere merci da estrazione capitalistica, o ci siamo fatti riempire la testa di nozioni che ci depotenziano. Io sento dire che su alcune cose, i diritti civili liberisti sono più avanzati e quindi gli vogliamo dare spazio. Non si capisce che i diritti più importanti, come quelli sul nostro corpo, quelli sulla nostra identità sessuale, sono destinati a non servire assolutamente a nulla. Quindi ricostruire condizioni del senso comune, ricostruire solidarietà, ricostruire strutture di condivisione anche fondate sull’amore è secondo me molto importante, perché quello è il solo modo grazie al quale si può avere il coraggio di opporsi in modo radicale a delle leggi che sono leggi insostenibili, ingiuste e che creano obblighi collettivi di resistenza.
    (Ugo Mattei, “Perché non ti fanno più togliere la batteria dallo smartphone”, da “ByoBlu” del 26 novembre 2017. Il post è la trascrizione di un intervento di Mattei al convegno “Costituzione, comunità e diritti” tenutosi all’università di Torino il 19 novembre 2017. Giurista, Ugo Mattei è professore di diritto internazionale e comparato alla California University e docente di diritto privato nell’ateneo torinese).

    Negli ultimi tre o quattro anni sono stati installati, soltanto nella parte occidentale del mondo, quindi nel nord globale, circa un miliardo e quattrocentomila sensori per l’Internet delle cose. Gran parte dei quali sono costruiti nei muri delle case, nei nuovi televisori – in tutti gli apparecchi elettronici che comperiamo – e nelle automobili. Parte di questi sensori, che sono invece fissi, sono inseriti negli spazi pubblici e sono quelli con i quali i nostri meccanismi elettronici si collegano senza che noi lo sappiamo. Queste cose vengono chiamate “Smart”, nel senso che noi sentiamo parlare costantemente di “Smart City”, “Smart Card”, eccetera. Tutte le volte in cui si sente la parola “Smart” io penso sempre che gli “Smart” siano loro e i cretini siamo noi. Qui la situazione sta diventando davvero molto preoccupante. C’è in costruzione un gigantesco dispositivo (e qui proprio la parola “dispositivo” studiata da Foucault è direttamente utilizzabile per parlare dei dispositivi elettronici che noi compriamo). Un gigantesco dispositivo di controllo sociale di tutti quanti, che viene ovviamente sperimentato per fare un passo in avanti in modo da rendere in qualche modo l’umanità coerente con la nuova frontiera.

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