Archivio del Tag ‘Ikea’
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Meglio il Premio Ikea: il Nobel ha ignorato i grandi del ‘900
«Basta col Nobel, fate il Premio Ikea». Provocazione d’autore firmata Marcello Veneziani, che su “La Verità” se la ride: avevate dubbi che avrebbero premiato una donna, magari fan di Greta, col Nobel per la Letteratura? Così è stato, con Olga Tokarczuk, polacca, verde, “di sinistra”, che scrive “per superare i confini”, premiata in tandem con Peter Handke. «Si va per gender e non per valore, per messaggio ideologico e non per qualità». L’anno scorso il premio non fu assegnato per via di Jean-Claude Arnault, marito di una giurata, accusato di molestie da 18 donne. «Si può bloccare un evento letterario planetario per un episodio di molestie sessuali, sottomettere il genio alla mannaia del Me Too?», si domanda Veneziani. «Non l’hanno fatto neanche a Hollywood dove sono più fricchettoni correct, dopo la vicenda Weinstein, ben più devastante perché toccava pure gli Oscar mentre qui non ci sono premiati abusanti o abusati sessualmente». Nella fattispecie, «è un mistero il nesso tra la Grande Letteratura e la piccola libidine di un fotografo, marito di una componente della giuria». In passato, continua lo scrittore, la mancata assegnazione del Nobel fu per ragioni come una guerra mondiale. Ma la vergogna del Nobel è un’altra: non sono mai stati premiati alcuni tra i maggiori nomi della letteratura planetaria.«Il premio più prestigioso del mondo – scrive Veneziani – ha dimenticato o rimosso quasi tutto il Grande Novecento letterario». Nomi come Marcel Proust, Franz Kafka, James Joyce, Oscar Wilde: letti e studiati nelle scuole come maestri, ma ignorati dal Nobel, «La stessa sorte, la stessa omertà, ha colpito giganti come Eugéne Ionesco e Aldous Huxley, Paul Valéry e G.K. Chesterton, George Orwell ed Ezra Pound, Ernst Junger e Louis-Ferdinande Céline». Niente Nobel, nemmeno per loro. «Per non dire di Leon Bloy ed Henri de Monterlhant, Fernando Pessoa e Yukio Mishima, Emil Cioran e Gottried Benn, George Bernanos e Stefan Zweig, Karl Kraus e Hugo von Hofmannsthal, e Lev Tolstoj fino a J.R.Tolkien». E l’elenco potrebbe continuare. Non è stata risparmiata nemmeno la letteratura italiana, «dove il Nobel ha dimenticato i due poeti italiani più amati e imitati al mondo, Gabriele D’Annunzio e F.T. Marinetti». Prima di loro il Nobel ha trascurato Giovanni Pascoli e poi Giuseppe Ungaretti. Assenti a Stoccolma anche Curzio Malaparte e Cesare Pavese, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, Giovannino Guareschi e Dino Buzzati. «Sorprendono invece i premiati: da Grazia Deledda a Dario Fo, poi un po’ meglio con Salvatore Quasimodo e soprattutto con Eugenio Montale». Certo, «per fortuna o per errore ci sono pure i nostri Giosuè Carducci e Luigi Pirandello». Ma i quattro quinti della nostra grande letteratura sono stati ignorati dagli svedesi.«Curiosi pure i filosofi premiati col Nobel: un trittico, Bertrand Russell, Henri Bergson e Jean-Paul Sartre (che rigettò il premio)». Ignorati invece Benedetto Croce, José Ortega y Gasset, Miguel de Unamuno, George Bataille, Roger Callois, Gabriel Marcel. «Insomma – conclude Veneziani – il Nobel è una strage di letteratura, un premio ignorante». In molti casi (di assegnazione o di non assegnazione) «ha contato il politically correct, se consideriamo che quasi nessun grande autore scomodo è stato premiato». In compenso «si sono dati premi di genere o etnici», del tipo: quest’anno si premia una femminista, o l’autore di un paese povero. La Svezia, ricorda Veneziani, è la patria del politically correct, più degli Stati Uniti. «I verdetti, emessi da diciotto svedesi, decretano da più di un secolo i falsi destini della letteratura e proclamano i presunti Grandi, salvo poi essere smentiti dai lettori, dal tempo che è galantuomo e dai critici». Un consiglio all’intelligenza svedese: «Visto che capite poco di capolavori ed eccellenze letterarie, lasciate stare la letteratura, dedicatevi all’Ikea dove siete leader. Applicatevi ai mobili in serie, a basso costo, alle viti, ai bulloni, ai montaggi faidate. Al posto del Nobel funzionerebbe meglio il Premio Ikea, con versi smontabili e testi ricomponibili direttamente a casa vostra».«Basta col Nobel, fate il Premio Ikea». Provocazione d’autore firmata Marcello Veneziani, che su “La Verità” se la ride: avevate dubbi che avrebbero premiato una donna, magari fan di Greta, col Nobel per la Letteratura? Così è stato, con Olga Tokarczuk, polacca, verde, “di sinistra”, che scrive “per superare i confini”, premiata in tandem con Peter Handke. «Si va per gender e non per valore, per messaggio ideologico e non per qualità». L’anno scorso il premio non fu assegnato per via di Jean-Claude Arnault, marito di una giurata, accusato di molestie da 18 donne. «Si può bloccare un evento letterario planetario per un episodio di molestie sessuali, sottomettere il genio alla mannaia del Me Too?», si domanda Veneziani. «Non l’hanno fatto neanche a Hollywood dove sono più fricchettoni correct, dopo la vicenda Weinstein, ben più devastante perché toccava pure gli Oscar mentre qui non ci sono premiati abusanti o abusati sessualmente». Nella fattispecie, «è un mistero il nesso tra la Grande Letteratura e la piccola libidine di un fotografo, marito di una componente della giuria». In passato, continua lo scrittore, la mancata assegnazione del Nobel fu per ragioni come una guerra mondiale. Ma la vergogna del Nobel è un’altra: non sono mai stati premiati alcuni tra i maggiori nomi della letteratura planetaria.
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Carpeoro: il Lussemburgo, fogna d’Europa, accusa Salvini?
Si vergogni, il ministro del Lussembugo che osa insultare Matteo Salvini e, con lui, tutti gli italiani: il Granducato è il peggior paese d’Europa. Il ministro degli esteri Jean Asselborn? «E’ veramente uno dei personaggi più volgari e più idioti che io abbia mai visto: spero che mi quereli, perché dovrebbe farlo davanti a un giudice italiano, e lo voglio vedere un giudice italiano che mi condanna di fronte a questo personaggio». Parola di Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, all’indomani delle esternazioni dell’esponente del governo lussemburghese al summit europeo di Vienna. «In Lussemburgo – ha detto Asselborn – avevamo migliaia di italiani che sono venuti a lavorare da noi, erano migranti che guadagnavano i soldi affinché ne poteste avere per i vostri figli». Poi l’elegante chiosa finale («merda!»), pronunciata sbattendo il microfono, in perfetta consonanza con l’aggettivo “vomitevole” con cui il portavoce di Macron ha definito la politica italiana sui migranti. Carpeoro protesta: «Peggio ancora se l’insulto di Asselborn non era riferito a Salvini: vuol dire che era indirizzato a tutti gli italiani». Che hanno sì lavorato come immigrati nel Granducato, arricchendolo, ma mai quanto i maxi-evasori fiscali, anche italiani, di cui il Lussembugo è stato un sontuoso rifugio.«Il Lussembugo è lo Stato più volgare dell’Unione Europea», dice Carpeoro, senza giri di parole. «E’ il paradiso fiscale dove finiscono tutte le porcherie». Ne sa qualcosa lo stesso presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, che è stato «l’artefice delle porcherie fiscali più gravi e più importanti». Quindi, aggiunge Carpeoro, «non mi meraviglia se un ministro del Lussembugo dice che ci hanno dato loro i soldi per fare figli, in passato, perché erano i nostri soldi: hanno preso i soldi dai nostri evasori e poi, in qualche modo, li hanno un po’ riciclati». Tutti addosso a Salvini, oggi? Purché non ci si metta anche il Lussembugo, paese che farebbe meglio a tacere. Certo, aggiunge Carpeoro, sui migranti Salvini sta recitando una parte, come del resto lo stesso Trump. «A me le modalità di Salvini non piacciono», premette Carpeoro, che però aggiunge: «Il fatto che in questo momento si sia reso “nemico” di una serie di poteri e di espressioni del potere, per certi aspetti mi fa piacere». In altre parole: «Salvini fa quello che può, in un base a una situazione politica scardinata da una “sovragestione” che ha gestito crisi e risorse in maniera da metterla in ginocchio, l’Italia». Un establishment di cui anche l’increscioso Lussembugo fa parte, anche se il suo ministro degli esteri ha la faccia tosta – attaccando Salvini – di insultare gli italiani come popolo.Il Lussembugo, ricorda “Money.it”, è un piccolo paese di appena 550.000 abitanti, al confine con il Belgio, la Francia e la Germania. È a tutti gli effetti un paradiso fiscale, «perché applica una legislazione favorevole alle imprese, che permette alle società di risparmiare miliardi in tasse». Amazon, per esempio, ha la sua sede europea in Lussemburgo e trasferiva tutti i guadagni delle vendite realizzate in Europa attraverso il suo ufficio nel Lussemburgo. Banche e multinazionali: sono almeno 350 le società platenarie domiciliate fiscalmente nel Granducato: tra queste Abn Amro, Axa, Barclays, Bnp Paribas, Black e Decker, Carlyle e Citigroup. E poi Commerzbank, Credit Suisse e Deutsche Bank, FedEx, Gazprom, General Electric, Glaxo, Ikea. Ancora: Hsbc, Heinz, Jp Morgan e Pepsi, Procter & Gamble, Vodafone, Volkswagen, Walmart e Disney. Ben figurano anche marchi italiani come Banca Sella e Dolce e Gabbana, Finmeccanica, Intesa SanPaolo, Prada, Unicredit. Senza contare l’azienda più grande, Fiat-Chrysler, ora Fca. «Il trattamento fiscale ricevuto da Fiat in Lussemburgo grazie agli accordi sottoscritti nel 2012 con il Granducato – scriveva il “Fatto Quotidiano” nel 2016 – ha comportato un “vantaggio illegale”, riducendo di 20 volte l’utile imponibile». Per questo il gruppo automobilistico è stato chiamato a restituire «tra i 20 e i 30 milioni di euro», come stabilito dall’antitrust Ue.Quanto a Juncker, che Carpeoro definisce “l’architetto” di questo colossale sistema di evasione fiscale, l’attuale capo dell’Ue – già al vertice della Banca Mondiale, del Fmi e dell’Eurogruppo – guidò proprio il Lussembugo per 18 anni, dopo aver fatto del Granducato un paese-cavia: Juncker, ricorda “Rete Voltaire”, è stato l’uomo che, per anni, ha messo illegalmente sotto sorveglianza i tre quinti dei suoi concittadini, spiati segretamente dallo Srel, l’intelligence lussemburghese. Per questo, accusato nel 2013 da una commissione d’inchiesta, fu costretto alle dimissioni. Storica pedina dei poteri forti, Juncker fu accusato, in patria, di aver fatto schedare migliaia di persone a loro insaputa, dopo aver coperto la strategia della tensione di marca Gladio, basata su attentati “false flag” realizzati in collaborazione con i servizi segreti tedeschi. Strategia accuratamente collaudata proprio in Lussembugo, prima ancora che in Italia, con attentati a industrie, aeroporti, giornali, tribunali e commissariati di polizia. Sciolta ufficialmente la Gladio nel 1990, aggiunge “Rete Voltaire”, i servizi segreti di Juncker avrebbero poi «continuato a spiare illegalmente singoli individui per motivi privati senza che il premier intervenisse». Il loro direttore operativo, inoltre, creò «una società d’intelligence economica, la Sandstone, utilizzando risorse statali».Questo è il paese-modello dal quale il ministro Jean Asselborn dà lezioni a Matteo Salvini, ricordandogli che gli italiani “straccioni” dovrebbero dire grazie, in eterno, al generoso e nobile Lussembugo, il paradiso terrestre dei maggiori evasori fiscali. Un posto dove, secondo il giornale lussemburghese “Wort”, l’establishment politico tentò di fermare la magistratura che stava cercando di far luce sui sanguinosi attentati terroristici che avevano scosso il paese. Per zittire il giudice Robert Biever, che era giunto ad accusare direttamente il ministro della giustizia Luc Frieden di sabotare le indagini, fu scatenata una campagna di disinformazione e discredito, arrivando a incolpare il magistrato di turismo pedofilo in Thailandia. Gli oscuri attentati degli anni ‘80 contro l’innocuo Lussemburgo servivano a creare una tensione allarmante nella popolazione, al fine di far accettare leggi restrittive e un controllo totale su ogni singola persona, come afferma lo storico svizzero Daniel Ganser, che denuncia i contatti “coperti” tra l’intelligence lussemburghese e il Bnd, il servizio segreto della Germania. Legami storici: non a caso è stata Angela Merkel a piazzare Juncker a capo della Commissione Ue.Si vergogni, il ministro del Lussembugo che osa insultare Matteo Salvini e, con lui, tutti gli italiani: il Granducato è il peggior paese d’Europa. Il ministro degli esteri Jean Asselborn? «E’ veramente uno dei personaggi più volgari e più idioti che io abbia mai visto: spero che mi quereli, perché dovrebbe farlo davanti a un giudice italiano, e lo voglio vedere un giudice italiano che mi condanna di fronte a questo personaggio». Parola di Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, all’indomani delle esternazioni dell’esponente del governo lussemburghese al summit europeo di Vienna. «In Lussemburgo – ha detto Asselborn – avevamo migliaia di italiani che sono venuti a lavorare da noi, erano migranti che guadagnavano i soldi affinché ne poteste avere per i vostri figli». Poi l’elegante chiosa finale («merda!»), pronunciata sbattendo il microfono, in perfetta consonanza con l’aggettivo “vomitevole” con cui il portavoce di Macron ha definito la politica italiana sui migranti. Carpeoro protesta: «Peggio ancora se l’insulto di Asselborn non era riferito a Salvini: vuol dire che era indirizzato a tutti gli italiani». Che hanno sì lavorato come immigrati nel Granducato, arricchendolo, ma mai quanto i maxi-evasori fiscali, anche italiani, di cui il Lussembugo è stato un sontuoso rifugio.
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Amazon, Ikea, Fca: miliardari grazie al sangue degli schiavi
Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo, l’ultimo rendiconto ufficiale sul suo patrimonio netto lo fa ammontare a 90 miliardi di euro, più o meno. Questa montagna di soldi l’ha accumulata con Amazon, di cui è fondatore e proprietario. Amazon si presenta con spot pubblicitari buoni e compassionevoli, verso i bambini, i disagiati, gli animali di casa; per tutti c’è un prodotto utile che può essere consegnato in poco tempo, a chi lo ha richiesto, al prezzo di una organizzazione del lavoro e di uno sfruttamento da schiavi. I 4.000 dipendenti del grande magazzino di Piacenza della multinazionale sono scesi in sciopero contro questa oppressione infame. Lo stesso hanno fatto i loro colleghi di Germania. In Gran Bretagna Alan Selby, giornalista del “Mirror”, ha lavorato in incognito nel più grande centro di Amazon in quel paese e ha raccontato la sua terribile esperienza. Salari di fame e 55 ore di lavoro a settimana, per turni devastanti dove si deve correre tra gli scaffali per trovare, confezionare, consegnare prodotti. Si sviene e arrivano le ambulanze, e se non si torna presto al lavoro con il rendimento giusto si viene licenziati. I lavoratori sono bestiame al servizio dei robot, ha sintetizzato Selby.Il padrone e fondatore di Ikea si chiama Ingvar Kartman, in gioventù è stato nazista, ora ha superato i novant’anni e ha lasciato la gestione del gruppo ai figli. Assieme sono una delle famiglie più ricche del mondo, che ha abbandonato la Svezia per pagare meno tasse in Svizzera. Anche Ikea fa pubblicità simpatiche e progressiste, a favore di tutti i tipi di famiglie. Le sue dipendenti però la famiglia fanno fatica anche a vederla. Una madre di due figli, uno dei quali disabile, è stata licenziata a Milano perché non poteva far fronte a un cambio di turni che le rendeva impossibile occuparsi dei suoi figli. Questo atto feroce non è un caso isolato, ci ha pensato la stessa azienda a chiarire che esso è parte di un sistema organico di vessazione del lavoro. Infatti neanche una settimana dopo, a Bari, Ikea ha licenziato un dipendente per un ritardo di 5 minuti. E altri soprusi simili stanno finalmente venendo alla luce.John Elkann è l’ultimo padrone della Fiat, ora Fca, erede e socio della grande e numerosa famiglia miliardaria, anch’essa indisponibile a pagare le tasse nel suo paese. La gestione concreta del gruppo come si sa è affidata a Marchionne, che ha aumentato enormemente i guadagni suoi e i profitti della famiglia. Nel 2019 l’amministratore delegato se ne andrà, ma la famiglia Agnelli continuerà ad accumulare miliardi. Lo ha sempre fatto, anche quando la Fiat non vendeva un’auto. I profitti di famiglia sono sempre stati la sola rigidità dell’impresa, tutto il resto è sempre stato flessibile, il lavoro prima di tutto. Oggi poi la flessibilità è in tempo reale. Così alla fine di ottobre la Fca di Cassino ha lasciato a casa 530 operai assunti a termine, con un semplice Sms. Perché sprecare un colloquio, una parola per delle merci sostituibili in qualsiasi momento? Questo sono e così vengono trattati i lavoratori di Fca. Questi supermiliardari sono vezzeggiati e incensati dai mass media e dagli intellettuali di regime. La politica si prostra i loro piedi. Così Bezos e compagnia controllano il mondo e le nostre vite. Sono straricchi perché in tanti sono poveri e sfruttati.(Giorgio Cremaschi, “Bezos, Kartaman e Elkann: miliardari e schiavisti”, da “L’Antidipomatico” del 30 novembre 2017).Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo, l’ultimo rendiconto ufficiale sul suo patrimonio netto lo fa ammontare a 90 miliardi di euro, più o meno. Questa montagna di soldi l’ha accumulata con Amazon, di cui è fondatore e proprietario. Amazon si presenta con spot pubblicitari buoni e compassionevoli, verso i bambini, i disagiati, gli animali di casa; per tutti c’è un prodotto utile che può essere consegnato in poco tempo, a chi lo ha richiesto, al prezzo di una organizzazione del lavoro e di uno sfruttamento da schiavi. I 4.000 dipendenti del grande magazzino di Piacenza della multinazionale sono scesi in sciopero contro questa oppressione infame. Lo stesso hanno fatto i loro colleghi di Germania. In Gran Bretagna Alan Selby, giornalista del “Mirror”, ha lavorato in incognito nel più grande centro di Amazon in quel paese e ha raccontato la sua terribile esperienza. Salari di fame e 55 ore di lavoro a settimana, per turni devastanti dove si deve correre tra gli scaffali per trovare, confezionare, consegnare prodotti. Si sviene e arrivano le ambulanze, e se non si torna presto al lavoro con il rendimento giusto si viene licenziati. I lavoratori sono bestiame al servizio dei robot, ha sintetizzato Selby.
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Incolore e insapore: la teologia Ikea, glaciazione dell’anima
Lo sguardo cade oltre l’enorme finestra, sulla balaustra con i colori aziendali della multinazionale: azzurro e giallo. Ormai anche nel Mediterraneo ci sono chiari segni di imminente glaciazione importata dal nord. Le dimensioni delle nostre finestre, una volta modeste in relazione al parallelo, oggi aumentano a dismisura come se l’effetto serra al suo interno fosse quello auspicato alle latitudini polari. I colori stessi sono slavati, spenti. Giallino e azzurrino, appunto. Siamo ben distanti dal bianco accecante delle case del sud o dalle colorite case pastello di San Francisco. Anche lì i colori non sono vivaci, ma quelle tinte pastello così varie non possono che mettere buonumore. Parola questa preclusa a giallini e azzurrini, a cui associo piuttosto noia e fastidio. Giallo noia e azzurrino fastidio, abbinamento perfetto per il ristorantino Ikea in cui mi trovo. Uscito dalle casse rigorosamente cashless con la libreria in kit nel carrello avevo visto quell’invitante immagine di fish and chips. “Perchè no?”, mi ero detto. Mi veniva in mente quell’abbuffata di fish and chips in quella bettola vicino a Londra, in quel fast food popolare, trafficato e senza pretese. Le porzioni erano abbondanti e unte, e avevo ancora in bocca quel gusto inesplicabile di merluzzo fritto assieme alle patate fresche. Perchè no?Mi armo quindi di buona volontà e mi avvicino al totem automatico. In teoria le cose erano semplici: con il touch screen si seleziona ciò che si vuole, si paga e si da lo scontrino all’assistente dietro al bancone. Tocco con l’indice il terminale che cambia schermata. Adesso devo pagare. Poco sotto c’è la feritoia dentro cui bisogna far scorrere la banconota. Certo, potrei anche pagare con il bancomat, ma ho una specie di idiosincrasia verso i pagamenti di spiccioli via banca: non ce la faccio, lo trovo di una miseria inenarrabile. Cerco prima con calma poi con un crescendo di disperazione di infilare la banconota ma non c’è verso. Il meccanismo pare rifiutare qualsiasi tentativo. Mi guardo intorno. C’è una coppia di coetanei a cui chiedo lumi. Mi dicono di non saperne granché, osserviamo imbarazzati quel macchinario infernale che mi nega la possibilità di pagare. Poi la signora vede la luce: bisogna dare un consenso via touchscreen.I computer hanno sempre qualche cazzo di meccanismo prioritario che non esiste nelle relazioni tra noi umani. Vogliono sempre qualcosa in più che noi non siamo abituati a dare. Addirittura la meccanica è più umana: l’auto mica ti domanda “sei sicuro che mi vuoi spegnere?” (o che vuoi accendere il tergicristallo e che ne hai diritto) al contrario del computer. Se devo pagare un cassiere non esiste motivo per cui quest’ultimo mi chieda se voglio davvero pagare e resti in attesa che io pigi un preciso tasto che non riesco ad individuare. Se mi trovo davanti a lui è solo per un motivo: devo pagare. Lui incassa e lì finisce la storia. Con i computer questa banale e ampiamente consolidata razionalità non fa parte dell’insieme di logiche perverse che lo animano. A questa incongruenza si somma il delirio del touchscreen. Mi torna in mente quella coppia di turisti a Firenze che mi chiedono se posso fare loro una foto con lo smartphone di ordinanza. No problem, I’m happy to help you. Certo, come no? Ogni volta che lo toccavo quell’oggetto insensato si trasformava in lettore Mp3, client di posta elettronica o qualsiasi altra diavoleria. Niente foto. Alla fine ho dovute passare l’ordigno multifunzione a mia figlia, che ha saputo domarlo.Ecco, quelle logiche non mi appartengono, lo voglio affermare con tutto me stesso. Purtroppo la società digitale non ne può più fare a meno. Lo scopo fu dichiarato nel lontano 1933 alla World’s Fair di Chicago: «Science finds, industry applies, man conforms». Lo scontro è epocale: i comportamenti umani devono fare i conti con procedure di astrazione sempre maggiori voluti da scienza e messi in opera dalla tecnologia. Millenni di consuetudini sociali vanno riviste in funzione dei desiderata di banchieri, tecnologi e scienziati. Maledicendo il momento in cui avevo deciso di dedicarmi alla ristorazione nordica e incapace di accettare la sconfitta inflittami dalla tecnologia cashless, riesco finalmente ad inserire la banconota nella fessura, opportunamente apertasi dopo il complicato comando touchscreen. L’inserviente strappa il biglietto emesso dal totem e in cambio mi porge l’agognata vaschetta. Lascio il carrello fuori ed entro nell’area ristorazione. L’ambiente è anonimo in stile ecochic. Fanno bella mostra di sé l’arredamento in pseudo legno stile nordico dai colori slavati, l’angolo per la raccolta differenziata del pattume ed il finestrone di cui sopra. Nessun accenno ad una qualsiasi vivacità. Alzo lo sguardo oltre la balaustra: anche il mondo lì fuori sembra accogliere il diktat svedese. Un viavai di grigi camion e auto che rallentano per entrare in autostrada, o accelerano per uscirne. Trasporto gommato di merci che vanno a riempire magazzini piccoli e grandi come l’Ikea e agenti di commercio che propongono tali merci. Non riesco ad immaginare altro in quel traffico.Mi appoggio ad un tavolo alto senza sedermi e inizio a mangiare. Nessun gusto particolare, evitiamo le cose definite quindi anche i gusti decisi come capperi e acciughe. Niente che mi ricordi quel fish and chips dei britannici. Eppure anche loro sono ben al nord. Ma hanno le cabine del telefono rosso acceso, scusa se è poco. Per curiosità sono andato a vedere come sono le cabine telefoniche svedesi. Che ci crediate o meno sono colorate sempre in stile “evitiamo ogni entusiasmo”. Tipico il verde affanno, variante del verde marcio. Non se ne esce vivi. Mi viene sete e con un euro si ha la possibilità di bere fino a scoppiare (non di salute, non preoccupatevi). La scelta è enorme: un sacco di distributori automatici. Peccato che i relativi gusti non siano poi così differenti. A parte la base sostanziosa di aspartame (ci scommetto che per dare un bel po’ di gusto dolce non usano lo zucchero) ci sono vari coloranti. Me ne verso un dito alla volta per tipo dentro al bicchiere di carta riciclabile e decido che della semplice acqua è mille volte meglio di quegli intrugli chimici. Ma l’acqua non è presente nei distributori, la vendono solo in bottiglie di plastica (riciclabile) e bisogna fare un altro biglietto al totem. No, grazie. Per oggi basta così. Butto la vaschetta ed il bicchiere di carta nel bidone del riciclo ed esco da quel posto sconsolato.“Ma se ti fa così schifo perché ci vai, allora?”. Giusta domanda. La risposta è semplice: con gli stipendi che girano il risparmio è d’obbligo. Non sarei mai riuscito a comprare l’arredamento della camera di mia figlia da un artigiano senza vendermi un rene. Per carità, paragonare il lavoro di un falegname mobiliere al prodotto industriale svedese è una bestemmia urlata in chiesa alla domenica mattina durante la messa. Diciamo che se mi serve un letto con cassettoni ed un armadio laccato bianco e sono disposto a sorvolare sul fatto che la laccatura in realtà è un deposito di plastica melaminica su strato di avanzi di legno e cartone pressati questa soluzione economica e presuntuosamente ecochic (sempre di riciclo si tratta) può andare bene. Ed il mio rene rimane sempre lì, a mia disposizione. In realtà la multinazionale in questione ha catapultato il gusto verso l’amore (dettato da necessità economiche) per il falso. Anche i poveri possono permettersi il lusso, basta che sia apparente. E qui non c’entrano per nulla i cinesi: è tutta roba made in Eu. Inesorabilmente la nostra percezione, telecomandata dalle lobbies, sta sviluppando un interesse morboso verso l’estetica dimenticandosi l’anima delle cose.Il telefonino è diventato oggetto di culto in quanto virtualizza esteticamente ogni relazione con il reale. La virtualità è oggi la parola d’ordine: gli amici non si incontrano a casa ma su Facebook, i contanti spariscono per lasciare spazio al cashless, il legno viene sostituito da melaminico stampato con venature di varie essenze, il succedaneo dei musicisti si chiama sequencer e via elencando. E’ il trionfo del ready made: i centri commerciali devono essere zeppi di cheap solutions predisposte ad hoc per chi non ha tempo né soldi da perdere in lente operazioni e pianificazioni. E il ready made è l’esatta contrapposizione all’animismo: nulla ha più anima, esiste solo un’unica ontologia digitale. Il trionfo del monoteismo virtuale ed astrattivo. Sconfitta l’idea antica che anche gli oggetti possano avere una propria ontologia con un preciso senso del Sé a cui possiamo essere legati, la postmodernità ci ha consegnato una panoplia di insensatezze il cui unico riferimento è la fenomenologia del digitale. Pensateci un momento: se togliete il digitale dalla vostra vita, cosa resta oggi? Niente Internet, niente computer, niente telefonini, niente tv. Non si salvano neanche le auto: senza il digitale spariscono praticamente tutte quelle che si vedono in giro.In realtà le nostre vite sono comandate dal digitale: la noiosissima e lunghissima serie di zeri ed uno ha preso il sopravvento sull’analogico, ovvero la variazione infinita tra un minimo ed un massimo, capace di sfumature quasi impercettibili. L’oggetto analogico ha un’anima che la mente digitale non riesce più ad individuare e riconoscere. Viviamo in un universo on-off e la narrazione primaria (Big Bang) ci vuole figli casuali di una fluttuazione quantistica. Il ready made nato esattamente un secolo fa come denuncia di un sistema di valori senz’anima (urinoir di Duchamp) è diventato oggi il riferimento culturale primario. L’osservanza delle procedure ha soppiantato la comprensione del disegno generale che non appartiene più all’uomo. Siamo oggetti a disposizione delle macchine e del caso, dice Heisenberg. Triste epilogo della Res Cogitans cartesiana. «I believe that the horrifying deterioration in the ethical conduct of people today stems from the mechanization and dehumanization of our lives. A disastrous by-product of the development of the scientific and technical mentality» (Albert Einstein).(Tonguessey, “Ikea”, da “Come Don Chisciotte” del 24 ottobre 2017).Lo sguardo cade oltre l’enorme finestra, sulla balaustra con i colori aziendali della multinazionale: azzurro e giallo. Ormai anche nel Mediterraneo ci sono chiari segni di imminente glaciazione importata dal nord. Le dimensioni delle nostre finestre, una volta modeste in relazione al parallelo, oggi aumentano a dismisura come se l’effetto serra al suo interno fosse quello auspicato alle latitudini polari. I colori stessi sono slavati, spenti. Giallino e azzurrino, appunto. Siamo ben distanti dal bianco accecante delle case del sud o dalle colorite case pastello di San Francisco. Anche lì i colori non sono vivaci, ma quelle tinte pastello così varie non possono che mettere buonumore. Parola questa preclusa a giallini e azzurrini, a cui associo piuttosto noia e fastidio. Giallo noia e azzurrino fastidio, abbinamento perfetto per il ristorantino Ikea in cui mi trovo. Uscito dalle casse rigorosamente cashless con la libreria in kit nel carrello avevo visto quell’invitante immagine di fish and chips. “Perchè no?”, mi ero detto. Mi veniva in mente quell’abbuffata di fish and chips in quella bettola vicino a Londra, in quel fast food popolare, trafficato e senza pretese. Le porzioni erano abbondanti e unte, e avevo ancora in bocca quel gusto inesplicabile di merluzzo fritto assieme alle patate fresche. Perchè no?
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Nel segno di Olof Palme: le sue idee salverebbero l’Italia
Olof Palme, chi era costui? Il pubblico televisivo conosce Renzi e Grillo, Berlusconi e D’Alema, la Merkel e Draghi. Al massimo Ettore Rosato e Angelino Alfano, il senatore Razzi e il governatore De Luca, o almeno le loro caricature firmate Crozza. Chi ha meno di quarant’anni fatica a mettere a fuoco il museo delle cere: Andreotti e Craxi, Moro, Pertini, Cossiga, Berlinguer. E Olof Palme? Un signore elegante e lontano: svedese, e quindi “strano”, figlio di un’antropologia ormai remota, aliena. Visse prima di Internet, del G8 di Genova e dell’11 Settembre; prima di Facebook, dell’Isis e dell’iPhone. Che c’azzecca, con noi, quel gentleman ante-web che governò il paese dell’Ikea? Bisognerebbe chiederlo a Vincenzo Bellisario, che sta per dare alle stampe “Nel segno di Olof Palme?”, libro che rievoca il testamento democratico di un socialista d’altri tempi, assassinato a Stoccolma – mentre era premier – proprio per evitare che i suoi tempi potessero diventare anche i nostri, cioè diversissimi da quelli di oggi, in cui non si capisce più niente, né si conosce il nome di chi comanda il mondo: si vede solo il sangue che lascia a terra tra un attentato e l’altro, in una guerra permanente fatta anche di profughi e migranti, disoccupazione, crisi finanziarie e disinformazione planetaria.Dunque chi era Olof Palme? Bisognerebbe chiederlo a Gianfranco Carpeoro (Pecoraro, in una vita precedente), avvocato e autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che accusa un’élite occulta, super-massonica, di pilotare settori dell’intelligence Nato per costruire il terrore dell’Isis, dietro il paravento dell’alibi islamista. Obiettivo: manipolare l’opinione pubblica, spaventarla, imporle leggi speciali e distrarla, impedendole di individuare i veri responsabili del disastro economico e sociale in corso, accuratamente progettato da un’oligarchia paramassonica internazionale. Gioele Magaldi, amico di Carpeoro e suo sodale nel Movimento Roosevelt, nel quale milita lo stesso Bellisario, ricorda che il catastrofico 11 settembre del 2001 fu soltanto la seconda fase di un piano di svuotamento della democrazia avviato all’alba di un altro 11 settembre, quello del 1973, quando fu abbattuto il governo cileno di Salvador Allende per instaurare la dittatura di Pinochet. Troppa democrazia rischiava di frenare il grande business? Nel suo libro, Carpeoro ricorda il telegramma con cui Licio Gelli, proprio dal Sudamerica, informava un parlamentare statunitense, Philip Guarino, che anche “la palma svedese” stava per essere abbattuta.La “palma svedese” sarebbe caduta il 28 febbraio 1986, in un agguato a colpi di pistola all’uscita di un cinema nel centro di Stoccolma. «Probabilmente l’assassino di Olof Palme è ancora in vita, e nel delitto potrebbero essere coinvolti la polizia o qualche esponente dell’esercito», afferma il criminologo svedese Leif Gustav Willy Persson, che ha sempre dubitato della colpevolezza di Christer Pettersson, il criminale di strada inizialmente fermato, e poi a sua volta deceduto all’improvviso dopo aver contattato per telefono il figlio di Palme, annunciandogli di avere notizie sulla fine del padre. Si sospetta anche di un altro anomalo decesso, quello del romanziere Stieg Larsson, morto esattamente come il protagonista della sua triologia, “Millennium”, dopo aver condotto indagini riservate sul caso Palme e aver consegnato alla polizia, inutilmente, svariati scatoloni pieni di documenti. Ma chi era, quindi, Olof Palme? Un socialista, un democratico. Il massimo interprete del welfare europeo: pari opportunità per tutti, nessuno deve essere lasciato idietro. Chi paga? Lo Stato: per il bene di tutti, ricchi e poveri. Pur di evitare licenziamenti, Palme arrivò a far rilevare quote di aziende traballanti. Messaggio: il salario dei cittadini-lavoratori viene prima del profitto d’impresa, perché ne va della coesione sociale del sistema-paese.Era pericoloso, Palme? Eccome. Mai e poi mai avrebbe dato il via libera alla nascita di un mostro giuridico come l’Unione Europea, di fatto governata da poche famiglie di oligarchi, proprietari dalle grandi banche cui appartiene la stessa Bce. Olof Palme era convinto di dover «tagliare le unghie al capitalismo», frenandone gli eccessi e gli abusi partendo dal ruolo democratico dello Stato come fattore di equilibrio: proprio quello Stato che l’Ue ha letteralmente demolito e svuotato. Era famoso, Palme: denunciava l’apartheid del Sudafrica e quello di Israele, le malefatte degli Usa nell’America Latina e la dittatura “rossa” dell’Unione Sovietica. Una figura prestigiosa, scomoda. Stava addirittura per essere eletto segretario generale delle Nazioni Unite: una volta all’Onu, sarebbe stato più difficile abbatterla, la “palma svedese”. Andava tolta di mezzo prima. E non è un caso, probabilmente, che tuttora non si sappia nulla di preciso né del killer né dei mandanti, anche se Carpeoro – nel rievocare il famoso telegramma di Gelli rivolto a Guarino – fa il nome di un eminente politologo Usa, Michael Ledeen, all’epoca legato a Guarino. Secondo Carpeoro, l’onnipresente Ledeen («consigliere occulto di Craxi e Di Pietro, Renzi e Grillo») è un tipico esponente dell’élite supermassonica “reazionaria”, protagonista della storica svolta antidemocratica che ha ridotto l’Occidente al deserto attuale, quello della privatizzazione globalizzata e universale, imposta a mano armata, anche con guerre e attentati.«L’Italia è ormai arrivata ad uno stato di coma profondo ed ovviamente irreversibile per almeno una persona su due», scrive Vincenzo Bellisario nell’introduzione al suo volume su Olof Palme, di prossima uscita per le Edizioni Sì (140 pagine, 11 euro). «E se continua su questa strada non c’è alcuna speranza: non c’è un modo per venirne fuori, al momento, considerando gli attuali trattati Ue e l’euro». Ragiona Bellisario: «Le persone ancora “salve” in questo paese sono coloro che hanno avuto la fortuna di essere nati e cresciuti all’interno di famiglie benestanti che gli hanno permesso di studiare con “calma”», magari per poi ottenere “la spinta giusta”. Gli altri che si sono “salvati”? Sono quelli «che hanno avuto la “fortuna” di essere stati assunti anni fa con i cosiddetti “contratti vecchi”», e quelli che sono andati in pensione «ad un’età giusta e con una pensione dignitosa». Per tutti gli altri, oggi, non c’è più storia: «Sono spacciati». Parole che ricordano quelle rievocate dallo stesso Carpeoro, autore di una prefazione al volume: «Oggi è morta la speranza», disse l’avvocato, all’indomani dell’assassinio di Palme in un’assise culturale di area liberal-socialista. Lo corressero: non è vero, possono morire i grandi uomini ma non le loro idee. E’ per questo che all’inizio del 2018, a Milano, Carpeoro sarà tra i promotori di un singolare convegno internazionale del Movimento Roosevelt sulla figura del compianto statista svedese. Se da qualche parte bisogna pur ripartire, per rimettere in piedi la nostra disastrata democrazia, sarebbe un onore ricominciare proprio da Olof Palme: una bandiera da tenere alta, nell’Europa degli oligarchi e degli orchi che ammazzano i paladini della giustizia sociale.Olof Palme, chi era costui? Il pubblico televisivo conosce Renzi e Grillo, Berlusconi e D’Alema, la Merkel e Draghi. Al massimo Ettore Rosato e Angelino Alfano, il senatore Razzi e il governatore De Luca (o almeno le loro caricature firmate Crozza). Chi ha meno di quarant’anni fatica a mettere a fuoco il museo delle cere: Andreotti e Craxi, Moro, Pertini, Cossiga, Berlinguer. E Olof Palme? Un signore elegante e lontano: svedese, e quindi “strano”, figlio di un’antropologia ormai remota, aliena. Visse prima di Internet, del G8 di Genova e dell’11 Settembre; prima di Facebook, dell’Isis e dell’iPhone. Che c’azzecca, con noi, quel gentleman ante-web che governò il paese dell’Ikea? Bisognerebbe chiederlo a Vincenzo Bellisario, che sta per dare alle stampe “Nel segno di Olof Palme?”, libro che rievoca il testamento democratico di un socialista d’altri tempi, assassinato a Stoccolma – mentre era premier – proprio per evitare che i suoi tempi potessero diventare anche i nostri, cioè diversissimi da quelli di oggi, in cui non si capisce più niente, né si conosce il nome di chi comanda il mondo: si vede solo il sangue che lascia a terra tra un attentato e l’altro, in una guerra permanente fatta anche di profughi e migranti, disoccupazione, crisi finanziarie e disinformazione planetaria.
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Allerta sul cibo industriale: rilevati troppi veleni invisibili
Corpi estranei in ritagli di ostie croccanti, salmonella nella soia e nella carne di pollo, livelli eccessivi di “escherichia coli” nei mitili, mercurio nel tonno, frammenti di vetro in ravioli ai funghi, aflatossine nel Grana Padano, couscous con muffe – e la lista è ancora lunga. Sono le anomalie e le irregolarità nei prodotti italiani che hanno preso la via dell’estero o del mercato interno e che sono state rilevate e segnalate, nelle ultime settimane, dal Sistema rapido di allerta europeo per alimenti e mangimi. Il cibo sano pare, dunque, una chimera o almeno una equivalenza impossibile con il cibo industriale, sia prodotto in Italia che all’estero. Qualche altro esempio? Tra i lotti respinti alle frontiere o oggetto di informazione ci sono: migrazione di cromo e manganese da lame per elettrodomestici da cucina provenienti dagli Stati Uniti; mercurio in lombi di pescespada sottovuoto, scongelati dalla Spagna; residui di sostanza proibite (tau-fluvalinato e cloramfenicolo) in propoli crudo dalla ex jugoslava Repubblica di Macedonia; ocratossina A in miscela di caffè tostato da Italia.E ancora: colorante non autorizzato (Reactive Red 195) in concentrato di frutta dal Messico; infestazione da parassiti Anisakis in rana pescatrice refrigerata dalla Francia; presenza di Dna di ruminanti in materiali alimentari provenienti da Danimarca e destinati a mangime. Poi ci sono i ritiri di prodotti per questioni di potenziali allergie o presenza di sostanze estranee. Per esempio, a fine luglio Ikea ha esteso il richiamo delle due tavolette di cioccolato avviato un mese prima per la mancanza delle indicazioni in etichetta di due ad altri sei prodotti al cioccolato. Il motivo è sempre lo stesso: la mancanza dell’indicazione sull’etichetta della frase “può contenere mandorle e nocciole”. Si tratta di una dimenticanza che potrebbe procurare problemi alle persone allergiche o intolleranti. Il richiamo interessa tutti i mercati mondiali e tutti i lotti venduti. Ikea precisa che la presenza di mandorle e nocciole non è occasionale ma che è stata rilevata frequentemente.E ancora, di recente la catena di supermercati Coop ha annunciato il ritiro dagli scaffali dei supermercati delle confezioni di dessert Granarolo 100% vegetale di soia al gusto vaniglia, per possibile presenza di tracce di latte non dichiarate in etichetta. Il 15 luglio 2016 Barilla ha richiamato e ritirato dai punti vendita dieci tipi di pane in cassetta e due torte della Mulino Bianco oltre a un lotto di Maxi Burger Pavesi per sospetta presenza di corpi estranei nel sale utilizzato nelle preparazioni. Secondo il fornitore di sale olandese si tratta di pezzetti di metallo che possono arrivare sino a cinque centimetri. In rete sono apparse centinaia di notizie su questo ritiro e molti giornali cartacei hanno ripreso la notizia. La maggior parte dei supermercati che in teoria dovrebbero essere interessati ad avvisare la clientela, visto che probabilmente hanno venduto i lotti ritirati, ha dimenticato di rilanciare l’allerta e di informare i propri consumatori.Poi la querelle tra la Ferrero e l’associazione dei consumatori tedesca Foodwatch che ha analizzato venti marche di patatine fritte e snack, per verificare la presenza di oli minerali. In tre snack è stata rilevata la presenza di idrocarburi di oli minerali (Moh). Si tratta delle barrette di cioccolato Kinder Ferrero, dei cioccolatini alle nocciole Fioretto di Lindt e dei biscotti al cioccolato Sun Rice di Rübezahl. La maggior concentrazione di Moh è stata riscontrata nelle barrette Kinder, e per questo Foodwatch ha chiesto a Ferrero di ritirare il prodotto. In una mail inviata a “Il Fatto Alimentare”, Ferrero «garantisce che tutti i suoi prodotti sono sicuri per i consumatori. Essi sono infatti pienamente conformi ai requisiti di sicurezza alimentare previsti in tutti i paesi in cui sono commercializzati, spesso superandoli».Ferrero difende i suoi prodotti e ne garantisce la sicurezza: «Benché il tema recentemente sollevato relativo a tracce di oli minerali nei prodotti alimentari sia noto alle autorità competenti e all’industria alimentare già da diversi anni, non vi è ad oggi alcuna regolamentazione specifica in materia». Il problema concerne virtualmente tutti gli imballi alimentari: infatti, tracce minime di oli minerali si ritrovano ovunque nell’ambiente. «Tutti gli imballi Ferrero rispettano pienamente la normativa applicabile relativa ai materiali di contatto alimentare. Tuttavia, in linea con la sua tradizione di continuo miglioramento, dal 2013 Ferrero è impegnata in un processo di revisione di tutti i suoi materiali da imballaggio, al fine di garantire la più alta qualità ai propri consumatori». L’associazione dei consumatori tedesca ha però ricordato il parere emesso nel giugno 2012 e poi aggiornato nell’agosto 2013 dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa).Il testo individua due tipi di Moh per quanto riguarda la sicurezza alimentare: gli idrocarburi saturi (Mosh), che possono accumularsi nei tessuti umani e provocare effetti avversi sul fegato, e quelli aromatici (Moah), che possono agire da cancerogeni genotossici, ovvero possono danneggiare il Dna e provocare il cancro. E quando si parla di cibo industriale, occhio agli ingredienti citati nella pubblicità. Vogliamo parlare dei gelati confezionati? Il “Fatto Alimentare” ha analizzato 104 prodotti scoprendo che la panna è solo uno specchietto per le allodole. L’alternativa c’è. Smetterla con i prodotti industriali acquistati a pacchi e carrelli, che durano un tempo infinito, infarciti di additivi di ogni genere. E riduzione drastica delle proteine animali, dal momento che gli animali sono allevati con abbondanza di antibiotici, ormoni e mangimi addizionati. Sì agli alimenti biologici, in larga parte vegetali, a un’alimentazione basata su cibi freschi cucinati al momento. La salute si guadagna e si mantiene a tavola.(“Cosa c’è dietro al cibo industriale”, da “Il Cambiamento” del 23 agosto 2016).Corpi estranei in ritagli di ostie croccanti, salmonella nella soia e nella carne di pollo, livelli eccessivi di “escherichia coli” nei mitili, mercurio nel tonno, frammenti di vetro in ravioli ai funghi, aflatossine nel Grana Padano, couscous con muffe – e la lista è ancora lunga. Sono le anomalie e le irregolarità nei prodotti italiani che hanno preso la via dell’estero o del mercato interno e che sono state rilevate e segnalate, nelle ultime settimane, dal Sistema rapido di allerta europeo per alimenti e mangimi. Il cibo sano pare, dunque, una chimera o almeno una equivalenza impossibile con il cibo industriale, sia prodotto in Italia che all’estero. Qualche altro esempio? Tra i lotti respinti alle frontiere o oggetto di informazione ci sono: migrazione di cromo e manganese da lame per elettrodomestici da cucina provenienti dagli Stati Uniti; mercurio in lombi di pescespada sottovuoto, scongelati dalla Spagna; residui di sostanza proibite (tau-fluvalinato e cloramfenicolo) in propoli crudo dalla ex jugoslava Repubblica di Macedonia; ocratossina A in miscela di caffè tostato da Italia.
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In campo solo loro, vinceranno il RefeRenzum col 100%
Piazze e vicoli, radio pubbliche e private, Tv, giornali on line e giornali di carta, volantini di Expert, Trony e Ikea, Università e scuole materne, Facebook, Twitter, Instagram, Badoo, pornohub. E poi ancora: Tg, programmi di approfondimento, rassegne stampa notturne, bugiardini dei medicinali, talk-show, varietà (isole dei famosi comprese): la campagna referendaria per il “Sì” del duo Renzi-Boschi – a quattro mesi e passa dal voto – non risparmia alcun luogo fisico, alcun canale di comunicazione per convincere il popolo sovrano ed elettore che deve votare “Sì” al referendum sulla costituzionalizzazione del bonapartismo. L’attività frenetica dei due non conosce soste, limiti, ostacoli. E’ una marcia trionfale verso la schiacciante vittoria plebisciataria che rade al suolo ogni opposizione. Tutte le occasioni sono buone per ribadire che la riforma costituzionale è necessaria, improcrastinabile e santa e che – oltre a Berlinguer, Ingrao, Pajetta, Togliatti, Gramsci, Bordiga, i partigiani buoni e la Terza Internazionale – questa riforma la vuole pure la casalinga di Voghera.Si parla di immigrazione? La riforma è necessaria per arginare i flussi migratori. Il deficit (qualunque deficit, non importa quale, anche un deficit di intelligenza va bene) è oltre i limiti? La riforma lo farà rientrare entro i limiti. Napolitano ha il mal d’auto? La riforma glielo farà passare. La tua connessione internet salta in continuazione? Niente paura, con la riforma sarà stabile e più veloce di prima. Sei stato licenziato? La riforma produrrà nuovi e più gratificanti posti di lavoro tutti per te. Il buttafuori della discoteca non ti ha fatto entrare e ti ha preso a calci perché eri ubriaco come una scimmia già dalle quattro del pomeriggio? Con la riforma non succederà mai più. Mancano, lo dicevo prima, ancora quattro mesi al referendum e già siamo combinati così.Non so quanti italiani resisteranno a questo bombardamento, a questa guerra totale, a questo incubo, per tutto questo tempo. Già tremo all’idea che la notte di ferragosto aprendo un’anguria in spiaggia al falò con gli amici ci possa trovare dentro un volantino con le ragioni per il “Sì” referendario. Il referendum è senza quorum. Questi due, da qui a ottobre, ci avranno sterminato tutti (pure quelli della loro parte) e andranno a votare solo loro. E vinceranno col 100% dei consensi.(Turi Comito, “Vinceranno il RefeRenzum con il 100%”, da “Megachip” del 26 maggio 2016).Piazze e vicoli, radio pubbliche e private, Tv, giornali on line e giornali di carta, volantini di Expert, Trony e Ikea, Università e scuole materne, Facebook, Twitter, Instagram, Badoo, pornohub. E poi ancora: Tg, programmi di approfondimento, rassegne stampa notturne, bugiardini dei medicinali, talk-show, varietà (isole dei famosi comprese): la campagna referendaria per il “Sì” del duo Renzi-Boschi – a quattro mesi e passa dal voto – non risparmia alcun luogo fisico, alcun canale di comunicazione per convincere il popolo sovrano ed elettore che deve votare “Sì” al referendum sulla costituzionalizzazione del bonapartismo. L’attività frenetica dei due non conosce soste, limiti, ostacoli. E’ una marcia trionfale verso la schiacciante vittoria plebisciataria che rade al suolo ogni opposizione. Tutte le occasioni sono buone per ribadire che la riforma costituzionale è necessaria, improcrastinabile e santa e che – oltre a Berlinguer, Ingrao, Pajetta, Togliatti, Gramsci, Bordiga, i partigiani buoni e la Terza Internazionale – questa riforma la vuole pure la casalinga di Voghera.
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Tasse: maxi-sconto a Apple (tanto, il resto lo paghiamo noi)
La propaganda di regime presenta come un grande successo del governo il fatto che la Apple si sia accordata con il fisco italiano per pagare una parte delle tasse finora eluse. Vediamo i conti. Con il trucco della sede fiscale all’estero, pare in Irlanda, la casa della mela morsa non ha pagato allo stato italiano 880 milioni di euro. Ora l’accordo raggiunto prevede il saldo di 318 milioni di euro. Cioè la Apple risparmia definitivamente 562 milioni di euro di tasse dovute che non pagherà mai… Sono una montagna di soldi con cui si potrebbero sostenere un bel po’ di servizi pubblici che invece dovranno subire altri tagli. Quello della Apple non è un caso isolato, la Fca di Marchionne ha trasferito sede fiscale in Gran Bretagna, anche se promette di pagare le tasse in Italia per la produzione locale. Tutte le imprese multinazionali produttive e finanziarie fanno così e sia chiaro che l’evasione fiscale in Europa non avviene trasferendo le sedi alle Isole Cayman, ma giocando tra i paesi della stessa Unione.L’Ikea, con un semplice meccanismo di sedi legali e scatole cinesi tra le sue società tutte dentro la Ue è riuscita a pagare su alcuni miliardi di profitti lo 0,08 % di tasse. Il presidente della commissione Ue Juncker è stato capo del governo in quel Lussemburgo sotto inchiesta per la colossale evasione multinazionale che ha fatto del Granducato la sua patria. Insomma il grande capitale non paga le tasse, e quando proprio gli tocca, lo fa sempre a condizioni di favore. Come del resto succede a tutti i ricchi evasori che portano i soldi a Montecarlo o in Svizzera e che, se scoperti o se si pentono e decidono di tornare alla legalità, se la cavano come la Apple versando un terzo del dovuto. Pensiamo ora invece a Giuseppe Pintossi, operaio metalmeccanico a cui per varie ragioni Equitalia abbia inviato una cartella con la richiesta di 880 euro di tasse arretrate e non pagate. Pintossi vorrebbe anche lui fare come la Apple e quindi vorrebbe chiedere all’agenzia di chiuderla con 318 euro. Anche perché quei 562 euro di tasse risparmiate, alla sua famiglia servirebbero proprio per vivere.Invece sappiamo benissimo come andrà a finire. L’operaio metalmeccanico se fortunato se la caverà pagando 1000 euro di tasse e multe. Se poi dovesse ostinarsi a tirarla in lungo, finirebbe per pagare molto, molto di più delle tasse che gli vengono contestate. Il nostro fisco oggi opera secondo un regime di classe brutale, che ha lo stesso metro di misura dello sceriffo di Nottingham. L’Unione Europea, contrariamente a quanto afferma la propaganda di regime, ha accentuato, razionalizzato e generalizzato quella regola: rubare ai poveri per donare ai ricchi. E così le tasse diventano sempre di più il costosissimo lusso imposto a chi non ce la fa ad arrivare alla fine del mese.(Giorgio Cremaschi, “Le tasse sono il lusso dei poveri”, da “Micromega” dell’8 gennaio 2016).La propaganda di regime presenta come un grande successo del governo il fatto che la Apple si sia accordata con il fisco italiano per pagare una parte delle tasse finora eluse. Vediamo i conti. Con il trucco della sede fiscale all’estero, pare in Irlanda, la casa della mela morsa non ha pagato allo stato italiano 880 milioni di euro. Ora l’accordo raggiunto prevede il saldo di 318 milioni di euro. Cioè la Apple risparmia definitivamente 562 milioni di euro di tasse dovute che non pagherà mai… Sono una montagna di soldi con cui si potrebbero sostenere un bel po’ di servizi pubblici che invece dovranno subire altri tagli. Quello della Apple non è un caso isolato, la Fca di Marchionne ha trasferito sede fiscale in Gran Bretagna, anche se promette di pagare le tasse in Italia per la produzione locale. Tutte le imprese multinazionali produttive e finanziarie fanno così e sia chiaro che l’evasione fiscale in Europa non avviene trasferendo le sedi alle Isole Cayman, ma giocando tra i paesi della stessa Unione.
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L’imam filo-Pd e la fiction del terrore, da Osama all’Isis
“La verità è così preziosa che bisogna proteggerla sempre con una cortina di bugie”. (Winston Churchill). Il livello di propaganda che emana dai media in questa grande campagna d’autunno all’insegna della strategia della tensione globale ha ormai superato ogni limite di tolleranza, per non dire di decenza. Credo che oramai questa cosa del “più la bugia è grossa e più la gente la crederà” stia loro sfuggendo di mano. La saggezza popolare, quella che, nella scritta sul muro qui sopra, sfida il nemico fantasmatico a palesarsi nel reale per un virile e decisivo fare a cazzotti, è sempre pronta a vedere la nudità dell’imperatore e ogni volta che appare un nuovo nemico già ex-amico, una nuova compagine terroristica dal nome improbabile, un nuovo babau – anche se non è ancora stato trovato un caratterista all’altezza dell’Osama Bin Laden fatto morire nell’epico finale della serie “Al Qaeda” – è sempre meno disposta a crederci. La grossezza della bugia deve diventare quindi enormità, essa si gonfia fino a che un giorno, inevitabilmente, non potrà che esplodere in faccia a coloro che l’hanno creata ed hanno continuato a gonfiarla a dismisura credendo di poterlo fare all’infinito.Si comincia a credere sempre meno alla narrazione di ogni ennesimo attentato anche se non si appartiene alla categoria dei complottisti, perché nel mondo dell’informazione mainstream 2.8, stanno esagerando, secondo me, con quella che ormai non è nemmeno più affabulazione ma pura mitopoiesi. E’ una cascata di menzogne con l’aggravante della presunzione dell’idiozia totale dell’ascoltatore. Le palle, di tutti i colori, rotolano in salotto dal televisore trasformandocelo in un’area bimbi dell’Ikea. La creazione del nemico è fatta di caratteristi ed improbabili macchiette che lo risulterebbero anche in un film di 007, dei quali ormai si lanciano al pubblico solo i pochi brandelli rimasti dopo che si sono fatti immancabilmente esplodere, tra cui sempre gli incredibili passaporti intonsi. A volte sono solo nomi senza volto, Carneadi assurti agli onori della cronaca per ancor meno del quarto d’ora sindacale. Immagini fuggenti che però rimangono bene impresse nella mente, come solo i fantasmi riescono a fare.Vogliamo parlare dei famigerati filmati dell’Isis mandati regolarmente alla Signora Katz (alla quale scommetto nessuna intelligence va a chiedere come faccia ad avere sempre il canale aperto con l’Isis)? Lì vale il trucco del “non possiamo ovviamente mostrarvene le immagini”. E’ noto che basta offrire un lieve input al nostro inconscio per farlo scatenate in immaginazioni degne del peggior incubo. All’inizio il messaggio è “Jihadi John è un terrorista islamico che ha tagliato la testa ad un prigioniero occidentale”. Poi vi fanno vedere uno vestito ed incappucciato di nero (il Babau) con un coltello in mano e il prigioniero inginocchiato. Vi descrivono cosa accade in seguito ma non vi fanno vedere ovviamente le immagini, tanto voi ve le figurate lo stesso il più crude possibile e meglio di qualsiasi Eli Roth alla regia. Una volta stabilito il collegamento islamico=tagliagole attraverso lo shock emotivo della decapitazione fantasticata, senza contare l’evocazione di un archetipo come il sacrificio umano, basterà solo nominare “Isis” o anche solo “coltello”, e tutti risponderanno correttamente con la vampata di terrore che paralizza e sconvolge e l’odio verso il boia fantasma di turno.Siamo cani infedeli, è vero, ma cani di Pavlov. Questo è nient’altro che condizionamento operante.Un arnese vecchio come il cucco ma che, a quanto pare, ancora funziona. Non so se ve ne siete accorti ma, con questi ultimi attentati interpretati dai caratteristi islamici, gli sceneggiatori globalisti dello spin-off di “Al Qaeda”, ovvero “Isis”, stanno cercando di palestinizzare l’Europa. E visto che il masterplan in Europa è il governo unico, la sbobba unica europea che governi il meticciato ingovernabile del prossimo regno delle corporation post Ttip, dopo Parigi la prossima location del tour della paura non può che essere Bruxelles. E’ ovvio che, se il terrorismo minaccia Bruxelles, ci vuole più Europa. Con la speranza forse che “sarà l’Isis a far nascere l’Europa” (“il discorso di Hollande tocca un punto cruciale: che è stata colpita l’Europa, non la Francia. E che quando si parla di confini non si parla di quelli nazionali. Forse la tragedia di Parigi può essere la svolta per il Vecchio Continente”).Un’altra cosa che non credo riusciranno a reggere in eterno, oltre le spudorate menzogne, è l’imposizione della dissonanza cognitiva tra Islam terrorista cattivo / Islam di pace e moderato. Già si fatica a capire perché, mentre si sta facendo di tutto per farci percepire gli islamici come terroristi sanguinari e tagliagole, e quindi farceli odiare, allo stesso tempo ci stiano riempiendo di islamici a strafottere, con l’obbligo di accoglierli, amarli e di non indulgere nell’islamofobia (una delle cinquanta sfumature del piagnonismo minoritario politicamente corretto). Ma come si fa? Pretenderebbero che li odiassimo (come Netanyahu, ad esempio) e allo stesso tempo li amassimo cristianamente come Papa Francesco. La percezione quantistica dell’Islam. “Ti odio e poi ti amo e poi ti amo e poi ti odio e poi ti amo”, cantava Mina, ma era una canzone. Qui siamo in guerra e in guerra non è concepibile non sapere chi è il nemico o ondeggiare nell’indeterminazione, a meno che ciò non serva a qualcuno e noi siamo solo pupazzi ammaestrati o i cani di Pavlov di cui sopra.E’ ovvio che non tutti i musulmani sono jihadisti e wahabiti e che non tutti gli imam sono come quello a Brest che insegna ai bambini che la musica è haram e che chi l’ama sarà tramutato in porco, altrimenti non esisterebbe la pregevolissima musica mediorientale.D’altra parte nelle manifestazioni di condanna degli islamici al terrorismo (dallo slogan chiaramente spin #notinmyname), nonostante il tentativo di farle passare per oceaniche dalla solita informazione che esegue solo gli ordini, si è trattato di appena 400-500 gatti tra il solito piddinume da parata ed esclusi l’omaccia della Cgil, il Landini ingolfato, il centrodestra in tracce (Casini e Cicchitto) e le istituzioni in contumacia. A Milano hanno rischiato di essere stati di più al raduno degli ex-paninari in S.Babila. Insomma il “da che parte stanno” che in guerra è di prammatica e durante la Seconda Guerra Mondiale mandò i giapponesi d’America in campi di concentramento, è ancora per noi un mistero. Perciò, quando senti l’Allahu akbar gridato dai saraceni appena sbarcati, è l’antico sangue templare che ti ribolle nelle vene o solo il timore che, una volta in Europa, l’islamico pacifico e moderato getti la maschera e vada a dar di rota alla vecchia scimitarra?Vi è un’innegabile ambiguità islamica che permette a qualcuno di manipolarla a scopo di creazione del caos. Ciò che mi sembra interessante chiedersi, a questo punto, è perché diavolo le istituzioni islamiche, più che scendere inutilmente e vergognosamente in quattro gatti in piazza in favore di telecamera, non denuncino l’evidente strumentalizzazione globalista dei suoi estremisti jihadisti a progetto per scopi che paiono servire più che altro i loro nemici storici ed il loro alleato in bisinissi l’Arabia Saudita, per non parlare dei doppiogiochisti turchi, da sempre con un piede nell’Islam e l’altro in Europa. Perché insomma queste istituzioni moderate, di pace e fratellanza, che dovrebbero rappresentare i buoni ed onesti tra i musulmani, non dicano: “Ci siamo accorti anche noi che è un grande inganno e vogliamo denunciarlo perché ci danneggia come danneggia voi”. Invece, zitti.Cari saraceni, non è che ci state credendo veramente a questa reconquista, per caso? Non crederete anche voi, spero, alla telenovela della Katz con il trailer della Tour Eiffel che crolla nel prossimo episodio? Pensate che facendo i piddini e campagna elettorale per loro, ciò possa servire alla causa del profeta? Ci costringete quindi proprio ad odiarvi, noi che volevamo solo amarvi? Perché sappiate che islamico + piddino raddoppia i punti e si completa prima la raccolta.(Barbara Tampieri aka Lameduck, “Il tempo dell’inganno universale”, da “L’Orizzonte degli Eventi” del 22 novembre 2015).“La verità è così preziosa che bisogna proteggerla sempre con una cortina di bugie”. (Winston Churchill). Il livello di propaganda che emana dai media in questa grande campagna d’autunno all’insegna della strategia della tensione globale ha ormai superato ogni limite di tolleranza, per non dire di decenza. Credo che oramai questa cosa del “più la bugia è grossa e più la gente la crederà” stia loro sfuggendo di mano. La saggezza popolare, quella che, nella scritta sul muro qui sopra, sfida il nemico fantasmatico a palesarsi nel reale per un virile e decisivo fare a cazzotti, è sempre pronta a vedere la nudità dell’imperatore e ogni volta che appare un nuovo nemico già ex-amico, una nuova compagine terroristica dal nome improbabile, un nuovo babau – anche se non è ancora stato trovato un caratterista all’altezza dell’Osama Bin Laden fatto morire nell’epico finale della serie “Al Qaeda” – è sempre meno disposta a crederci. La grossezza della bugia deve diventare quindi enormità, essa si gonfia fino a che un giorno, inevitabilmente, non potrà che esplodere in faccia a coloro che l’hanno creata ed hanno continuato a gonfiarla a dismisura credendo di poterlo fare all’infinito.
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Il bottino dei grandi ladri nel paradiso (fiscale) di Juncker
Jean-Claude Juncker è il nuovo presidente della Commissione Europea. Juncker è stato primo ministro del Granducato (l’unico granducato al mondo!) di Lussemburgo per diciotto anni, un caso di rimarchevole longevità politica, quasi pari a quella di Greenspan alla Fed e di quella di alcuni dittatori africani. Il Lussemburgo è grande come tre quarti della Val d’Aosta, ha una popolazione inferiore a quella di Genova ed il Pil pro capite più alto al mondo (2012). Pochi, ricchi, felici. Come fanno? L’86% della ricchezza è data da servizi e in particolare dalle 152 banche che ivi risiedono, più le finanziarie, i fondi e le 9.000 holding che si godono il vantaggioso ecosistema lussemburghese. Questo irreprensibile paesino, già inserito nella lista grey dei paradisi fiscali e che ha il più alto indice al mondo di corruzione percepita, ha eletto ripetutamente Juncker a suo dominus, un personaggio molto amato in tutto il mondo dato che ben 15 paesi gli hanno voluto riconoscere gran croci e decorazioni al merito e ben più di cinquanta istituzioni accademiche gli hanno tributato premi, menzioni, lauree honoris causa.È stato anche presidente dell’Eurogruppo per otto anni, governatore della Banca Mondiale per sei e anche governatore al Fmi. Questo avvocato che non ha mai esercitato la professione, piace alla gente che piace. Perché? Ecco qui, una ricerchina condotta dall’Icij, il consorzio internazionale dei giornalisti investigativi uscita giusto ieri, dopo che il nostro eroe aveva ironizzato su Renzi ma anche su Cameron (ahi, ahi, ahi, mr. Juncker!). Le 28.000 pagine di documenti riservati setacciate da più di 80 giornalisti di 26 diversi paesi, scoprono l’ovvio: il Lussemburgo è un centro di sistematica evasione fiscale. Pepsi, Ikea, FedEx ed altre 340 compagnie internazionali hanno avuto accordi segreti diretti con il paradiso centro-europeo, per minimizzare il loro prelievo fiscale.Quindi, il capo di questa associazione a delinquere che ha forma addirittura Stato nazionale è stato eletto da centrodestra e centrosinistra continentali a capo dell’Europa, e da questa posizione continuerà a impartire le lezioni su rigore, restrizione dei diritti, sacrifici, deregolamentazioni per fare crescita, ovvero profitto per attori che poi porteranno i sudati proventi della loro stimata intraprendenza in Lussemburgo dove verrà garantito allo 0,1% della popolazione continentale un futuro di benessere e agio in base al fatto che lì si applicano leggi speciali e tasse minime. Sono previste anche bacchettate agli Stati che spendono più di quanto incassano, stante che quanto incassano è meno di quanto potrebbero visto che le grandi imprese pagano le loro tasse direttamente a Juncker. A raccontarlo uno non ci crederebbe.(Gengis Kant, “Chi è Juncker, il nuovo presidente della Commisione Europea”, da “Megachip” del 6 novembre 2014).Jean-Claude Juncker è il nuovo presidente della Commissione Europea. Juncker è stato primo ministro del Granducato (l’unico granducato al mondo!) di Lussemburgo per diciotto anni, un caso di rimarchevole longevità politica, quasi pari a quella di Greenspan alla Fed e di quella di alcuni dittatori africani. Il Lussemburgo è grande come tre quarti della Val d’Aosta, ha una popolazione inferiore a quella di Genova ed il Pil pro capite più alto al mondo (2012). Pochi, ricchi, felici. Come fanno? L’86% della ricchezza è data da servizi e in particolare dalle 152 banche che ivi risiedono, più le finanziarie, i fondi e le 9.000 holding che si godono il vantaggioso ecosistema lussemburghese. Questo irreprensibile paesino, già inserito nella lista grey dei paradisi fiscali e che ha il più alto indice al mondo di corruzione percepita, ha eletto ripetutamente Juncker a suo dominus, un personaggio molto amato in tutto il mondo dato che ben 15 paesi gli hanno voluto riconoscere gran croci e decorazioni al merito e ben più di cinquanta istituzioni accademiche gli hanno tributato premi, menzioni, lauree honoris causa.
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Non trovi lavoro? Ti ha fregato Joseph Lee, 358 anni fa
Prendi il paradigma sociale, quello che oggi suona come una canzone di Gigliola Cinguetti, cioè una roba vecchia, da nonne. Prendilo e pensa a cosa vuole dire. Vuol dire che noi umani viviamo in gruppi, e siccome siamo tutti collegati, ci conviene avere un sistema dove ogni individuo mette un poco del suo per creare una rete di sicurezza comune. Così, se a chiunque capita una sventura, casca nella rete di sicurezza, non si sfracella al suolo, e tutto il sistema continua senza troppi danni. Logico, fila come l’olio. Eppure l’hanno distrutta, la rete. Si chiamava Stato (Sociale). Oggi va di moda un paradigma diverso, che è questo: noi viviamo in gruppi, ma l’individuo è sacro e sovrano, deve poter fare quello che vuole, e soprattutto è personalmente responsabile della sua fortuna/sventura. Faccia il suo interesse individuale con meno regole possibili, lo Stato non deve metterci bocca, e alla fine tutta la società ne trarrà profitto. Questo paradigma si chiama con un nome francese, il Laissez Faire, lasciate fare.Ora mi prudono le dita, comincerei un trattato di 80 pagine su come il Laissez Faire sia diventato modernità, dogma economico unico, Eurozona, Austerità, morte del sociale, morte dei diritti, disoccupazione di massa, Economicidio, etc. Ma no. Ancora solo pochissime righe. Vi faccio notare come funziona il Vero Potere. Prima lezione: quanto vecchie sono le sue idee. Questo mi affascina del Vero Potere. Esso non cambia mai idea, mai. Stabilì i suoi principi secoli fa, e li ripropone oggi identici sotto le vetrate da terzo millennio dell’Eurotower di Francoforte. Il Laissez Faire nasce in particolare nel 1656 da un tizio di nome Josph Lee, che lasciò scritto questo: «E’ una massima innegabile che ciascuno, per la luce della natura e della ragione, farà ciò che torna a suo maggior vantaggio… Il progredire della singola persona tornerà a vantaggio della comunità».Da allora il principio non è mai cambiato. I Neofeudali del Vero Potere lo hanno oggi portato all’apice, con la distruzione della sovranità di spesa degli Stati in Eurozona, dove viene proibito alla collettività di sborsare anche un singolo centesimo per creare il VERO lavoro. Non è la collettività che deve fare rete di sicurezza, mai! L’individuo si arrangi, sgomiti, o si riduca la vita a scaricare bancali all’Ikea dopo 6 anni di università, spacci, lecchi scarpe, faccia la puttana, si arricchisca sulla miseria di milioni di altri, o crepi. E se crepa è colpa sua, “voleva dire che era un inetto” (Margaret Thatcher, Monti, Barroso, Rehn, Amato, Draghi, Lagarde, tutti Mr & Ms Laissez Faire).Un Programma di Piena Occupazione finanziato dallo Stato, a reddito degno per il 100% dei disoccupati italiani, secondo la Mosler Economics Mmt, e che ti salverebbe vita, la dignità e i figli, caro disoccupato, è impossibile in un sistema odierno di Laissez Faire. Mi spiace, anzi, sorry, visto che lo devi a Mr. Joseph Lee che era inglese, e ti ha fottuto 358 anni fa. Il Vero Potere è antico, non cambia mai le sue idee. Impara a conoscerlo, che magari poi sei tu che lo fotti. Se lo conosci lo fotti (qualcuno lo dica ai 5 stelle).(Paolo Barnard, “Non trovi lavoro, ti ha fottuto Joseph Lee 358 anni fa”, dal blog di Barnard dell’11 maggio 2014).Prendi il paradigma sociale, quello che oggi suona come una canzone di Gigliola Cinguetti, cioè una roba vecchia, da nonne. Prendilo e pensa a cosa vuole dire. Vuol dire che noi umani viviamo in gruppi, e siccome siamo tutti collegati, ci conviene avere un sistema dove ogni individuo mette un poco del suo per creare una rete di sicurezza comune. Così, se a chiunque capita una sventura, casca nella rete di sicurezza, non si sfracella al suolo, e tutto il sistema continua senza troppi danni. Logico, fila come l’olio. Eppure l’hanno distrutta, la rete. Si chiamava Stato (Sociale). Oggi va di moda un paradigma diverso, che è questo: noi viviamo in gruppi, ma l’individuo è sacro e sovrano, deve poter fare quello che vuole, e soprattutto è personalmente responsabile della sua fortuna/sventura. Faccia il suo interesse individuale con meno regole possibili, lo Stato non deve metterci bocca, e alla fine tutta la società ne trarrà profitto. Questo paradigma si chiama con un nome francese, il Laissez Faire, lasciate fare.