Archivio del Tag ‘Il Blog delle Stelle’
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La sinistra coi migranti, i gialloverdi con i Gilet Gialli europei
Leoluca Orlando e Luigi de Magistris si schierano coi migranti, mentre Luigi Di Maio (e Matteo Salvini) tifano per i Gilet Gialli, provocando l’Eliseo. Posizioni speculari: i titolari della sedicente sinistra difendono gli africani disperati, mentre gli esponenti gialloverdi scelgono gli europei che stanno male, italiani e francesi. «Gilet gialli, non mollate!», scrive Di Maio sul “Blog delle Stelle” a sostegno del movimento che da otto settimane protesta contro Emmanuel Macron. «Sappiamo cosa anima il vostro spirito e perché avete deciso di scendere in piazza per farvi sentire», scrive il vicepremier grillino. «In Francia, come in Italia, la politica è diventata sorda alle esigenze dei cittadini che sono stati tenuti fuori dalle decisioni più importanti che riguardano il popolo. Il grido che si alza forte dalle piazze francesi è in definitiva uno: “fateci partecipare!”». Fa eco il leghista Salvini, che da parte sua assicura «sostegno ai cittadini perbene che protestano contro un presidente che governa contro il suo popolo». Un vero e proprio affronto, per Nathalie Loiseau, ministro francese degli affari europei, che replica piccata: «La Francia si guarda bene dal dare lezioni all’Italia. Salvini e Di Maio imparino a fare pulizia in casa loro».La Francia non ci dà lezioni? «Proprio Macron ci aveva paragonato alla lebbra», la rimbecca Di Maio. Ha ragione: il primo ad attaccare fu proprio Macron, che non esitò a insultare l’Italia. Il suo partito dichiarò «vomitevole» la politica gialloverde sui migranti. C’è dell’altro, naturalmente: Di Maio si spinge a offrire ai Gilet Janunes la piattaforma Rousseu dei 5 Stelle per aggregare singoli e gruppi. All’orizzonte, naturalmente, una possibile alleanza in vista delle europee. Jacline Mouraud, tra i rappresentanti dell’ala moderata del movimento francese, annuncia di lavorare alla creazione del proprio partito politico: lo rivela “France Info”. Obiettivo del partito (battezzato “Les Emergents”, gli emergenti) è una grande riforma fiscale e il «ritorno del sociale» nell’agenda politica. Gilet Gialloverdi? Sicuramente utile, la protesta francese, per ridare fiato al governo Conte, costretto alla resa da Bruxelles sul deficit 2019. Un passo indietro, nella speranza di tornare all’attacco dopo le elezioni di maggio? Applaudire i Gilet Gialli – ostili a Macron, detestato dagli italiani – aiuta certamente i gialloverdi nostrani, impantanati nella palude delle promesse impossibili da mantenere, per via dell’intransigenza austeritaria dell’oligarchia tecnocratica europea.Sul fronte opposto, l’ex sinistra brancola nel buio: sposando la causa dei migranti, punta tutto sui diritti civili (e mette in ombra i diritti sociali confiscati proprio dal potere di Bruxelles, lo stesso contro cui si agitano i Gilet Gialli ora sostenuti anche dall’Italia). Intestandosi la “rivolta dei sindaci” contro il rilancio securitario di Salvini, osserva Carlo Formenti su “Micromega”, le sinistre spostano ulteriormente il baricentro dell’iniziativa politica sul tema dei diritti civili (con priorità assoluta al problema dei migranti) sperando così di dimostrare la propria superiorità morale nei confronti della controparte. In questo modo, non solo non indeboliscono l’avversario, ma – come dimostrato dall’esperienza anche recente – rischiano di rafforzarlo. La sinistra, dice Formenti, è diventata anti-statalista: i gruppi più radicali «concepiscono lo Stato nazionale come un nemico in quanto tale, perché sinonimo di gerarchia, autoritarismo, se non di totalitarismo». Poi ci sono le rivendicazioni di autogoverno di una “società civile” «identificata, di volta in volta, con questa o quella istituzione locale (Comuni, Province, Regioni o altro), per definizione “più vicina ai cittadini”», fino alle “cyber utopie” anarco-capitaliste «che hanno visto i social network (governati da imprese giganti!) scalzare progressivamente le prime comunità virtuali come candidate alla costruzione di forme di democrazia diretta alternative a partiti e corpi intermedi».Avendo sposato queste ideologie, aggiunge Formenti, «non stupisce che le sinistre coltivino l’utopia di una Unione Europea riformata, in cui si creerebbero le condizioni per una governance realmente democratica, e in cui potrebbero sbocciare i “cento fiori” delle più svariate esperienze di autogestione comunitaria locale». È su questo terreno, prosegue l’analista, che le sinistre radicali «finiscono inconsapevolmente per convergere con socialdemocratici e liberali i quali, mentre costruiscono le istituzioni sovranazionali e totalitarie delle grandi lobby finanziarie e industriali, distruggendo le tradizionali istituzioni della democrazia nazionale e del welfare, strizzano l’occhio a volontariato, Ong, no profit e persino alle forme più radicali di autonomia di una società civile chiamata a tappare i buchi di un mondo lacerato dalla colonizzazione del libero mercato». La “guerra” allo Stato-nazione in nome del mito della democrazia diretta e del localismo «non apre la strada alla costruzione di più ampi spazi di democrazia, nella cornice di istituzioni sovranazionali “flessibili”». Al contrario, «accelera il lavoro di distruzione delle garanzie costituzionali che decenni di lotta di classe avevano consentito di conquistare alle classi subalterne».Formenti cita il Subcomandante Marcos: «Nella nuova fase del capitalismo si verifica una distruzione dello Stato nazionale: si sta distruggendo il concetto di nazione, di patria, e non soltanto nella borghesia, ma anche nelle classi governanti». Ancora: «Il progetto neoliberista esige questa internazionalizzazione della storia; pretende di cancellare la storia nazionale e farla diventare internazionale; pretende di cancellare le frontiere culturali». E quindi, «un processo rivoluzionario deve cominciare a recuperare i concetti di nazione e di patria». Nozioni che appartengono sicuramente al caotico “patriottismo rivoluzionario” dei Gilet Gialli, cui ora le forze gialloverdi italiane promettono di dare manforte. Non può sfuggire la visione macroscopica dello scenario: l’ex sinistra italiana si aggrappa ai migranti per tentare di danneggiare Lega e 5 Stelle, che invece guardano alla rivolta francese per provare a colpire il nemico comune, cioè i gestori tecnocratici della Disunione Europea. E quello italiano è tuttora l’unico governo all’opposizione di Bruxelles: teoricamente, un avamposto strategico per il “secondo round” che potrebbe aprirsi dopo le europee. Sempre che – come auspica Di Maio – i Gilet Gialli tengano duro. E che la Francia, nel frattempo, non venga tramortita dai soliti “jihadisti” che sparano sulla folla, dopo aver lasciato il loro passaporto a disposizione del solerte antiterrorismo.Leoluca Orlando e Luigi de Magistris si schierano coi migranti, mentre Luigi Di Maio (e Matteo Salvini) tifano per i Gilet Gialli, provocando l’Eliseo. Posizioni speculari: i titolari della sedicente sinistra difendono gli africani disperati, mentre gli esponenti gialloverdi scelgono gli europei che stanno male, italiani e francesi. «Gilet gialli, non mollate!», scrive Di Maio sul “Blog delle Stelle” a sostegno del movimento che da otto settimane protesta contro Emmanuel Macron. «Sappiamo cosa anima il vostro spirito e perché avete deciso di scendere in piazza per farvi sentire», scrive il vicepremier grillino. «In Francia, come in Italia, la politica è diventata sorda alle esigenze dei cittadini che sono stati tenuti fuori dalle decisioni più importanti che riguardano il popolo. Il grido che si alza forte dalle piazze francesi è in definitiva uno: “fateci partecipare!”». Fa eco il leghista Salvini, che da parte sua assicura «sostegno ai cittadini perbene che protestano contro un presidente che governa contro il suo popolo». Un vero e proprio affronto, per Nathalie Loiseau, ministro francese degli affari europei, che replica piccata: «La Francia si guarda bene dal dare lezioni all’Italia. Salvini e Di Maio imparino a fare pulizia in casa loro».
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Juncker, Barroso, Draghi, Selmayr: l’opaca superlobby Ue
Scarsa trasparenza dei processi decisionali, attività lobbistiche senza un vero controllo, porte girevoli, organi di garanzia e codici etici debolissimi e permeati da influenze politiche e del settore privato. Questi sono solo alcuni dei problemi di questa Europa denunciati dal Mediatore Europeo, quella figura che si occupa di monitorare che le istituzioni europee non inciampino nella cosiddetta “cattiva amministrazione”. E infatti, puntuale come un orologio, il report annuale dell’attività del Mediatore Europeo elenca le numerose gravi criticità che segnano il lavoro delle istituzioni europee e fotografa un’Europa che sembra allontanarsi sempre di più da ciò che doveva essere, la casa comune di tutti i cittadini europei. La Commissione Petizioni è l’unica commissione del Parlamento Europeo che ha il compito di analizzare il report del Mediatore e commentarlo. Quest’anno il compito è stato affidato al gruppo Efdd – Movimento 5 Stelle e, in quanto relatrice, ho cercato di dare ampio supporto all’importante e apprezzabile lavoro di indagine svolto nel 2017 dal Mediatore. Ecco il link al report. Abbiamo sottolineato alcune tra le problematiche più gravi che continuano a gravare sulle istituzioni europee: la scarsa trasparenza dei processi decisionali, le gravissime problematiche etiche che hanno coinvolto anche commissari europei in carica, l’ex presidente della Commissione Europea e l’attuale presidente della Bce.Poi, il quadro giuridico fortemente lacunoso nel prevenire e sanzionare la violazione del dovere di integrità, discrezione e piena indipendenza dall’influenza lobbistica posto in capo ai rappresentanti delle istituzioni Ue. Infine, il diniego di accesso ai documenti delle istituzioni Ue opposto ai cittadini, impedendo loro di esercitare appieno i propri diritti democratici. Su questi temi il Mediatore, al termine delle sue indagini, ha spesso avanzato rilievi critici e raccomandazioni costruttive alle istituzioni europee coinvolte, ma, purtroppo, le risposte sono state troppo spesso insoddisfacenti quando non deprecabili. Tutto questo proprio in un momento in cui l’Ue continua a precipitare in un abisso di discredito e sfiducia agli occhi dei propri cittadini, incapace di cambiare registro sul piano etico, economico e nel complesso politico. Il caso Selmayr è emblematico di come funziona male questa Europa. Questo super-burocrate tedesco è stato voluto da Jean-Claude Juncker col metodo che ormai conosciamo, tanto caro alla Commissione Europea: l’imposizione. Nessuna regola è stata rispettata e il Mediatore Europeo lo ammette, sconfessando di fatto la linea morbida del Parlamento Europeo.Noi eravamo stati gli unici con un emendamento a chiedere il tedesco Selmayr mettesse nero su bianco le sue dimissioni con effetto immediato. Questo per garantire alla successiva Commissione Europea la possibilità di sostituire il segretario generale secondo una procedura legale e più trasparente. Eloquente è il “caso Barroso”: al termine del suo mandato decennale di presidente della Commissione Europea, viene nominato presidente non-esecutivo e “advisor” della banca d’affari Goldman Sachs, tra le più implicate nello scoppio della crisi economica del 2008. La Mediatrice riscontrava all’epoca “cattiva amministrazione” da parte della Commissione Europea sulla gestione del caso. Il Comitato Etico, interno alla Commissione – evidentemente gravato da un deficit di indipendenza dal livello politico – concluse che non vi fossero elementi sufficienti per individuare una violazione di obblighi giuridici da parte di Barroso, tenendo semplicemente conto di una dichiarazione scritta di Barroso stesso nella quale affermava che non era stato ingaggiato da Goldman Sachs per svolgere attività di lobbying.Il 25 settembre 2017 si scopre, invece, che si è svolto un incontro tra Barroso e l’attuale vice-presidente della Commissione Europea, Katainen, registrato come incontro ufficiale con Goldman Sachs, la cui esatta natura, come indicato dalla stessa Mediatrice nella sua indagine, non è apparsa per nulla chiara, sottolineando le comprensibili preoccupazioni circa il fatto che l’ex presidente Barroso utilizzi il suo precedente status e i suoi contatti per esercitare la propria influenza ed ottenere informazioni, ovvero per svolgere attività di lobbying a vantaggio di Goldman Sachs. Altro caso emblematico del 2017 è quello del presidente della Banca Centrale Europea (Bce) e la sua adesione al cosiddetto “Gruppo dei 30”, un’organizzazione privata che annovera tra i membri i rappresentanti di banche sottoposte alla vigilanza diretta o indiretta della Bce. La Mediatrice in merito ha raccomandato al presidente della Bce di sospendere la propria adesione al Gruppo dei Trenta ma a tale richiesta le viene ancora oggi opposto un netto rifiuto a pregiudizio ulteriore dell’immagine di un’istituzione, quale la Bce, che dovrebbe non solo essere ma anche apparire integralmente indipendente da interessi finanziari privati.Sul fronte del processo decisionale a livello Ue, permane il grave deficit di trasparenza riscontrabile nei “triloghi”, ancora completamente inaccessibili al pubblico, nonché nelle procedure seguite in Consiglio, presso il quale continuano a non registrarsi le posizioni assunte dagli Stati membri sui file legislativi e si oppongono ripetuti rifiuti ai cittadini nell’accesso ai documenti. La Mediatrice nel 2017 non ha mancato di qualificare esplicitamente tali condotte da parte del Consiglio come espressione di “cattiva amministrazione”, cui ha fatto seguito nel 2018 la sua relazione speciale focalizzata sui complessivi problemi di trasparenza del processo legislativo del Consiglio. Lo status quo contrasta, peraltro, con l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Giustizia Ue giunta a ribadire, in ultimo nella sentenza De Capitani, che i principi di pubblicità e trasparenza sono inerenti alle procedure legislative dell’Unione. La Corte ha asserito, inoltre, che la mancanza di informazioni e di dibattito in merito al processo legislativo, oltre a rappresentare una chiara violazione dei diritti democratici dei cittadini, ne accresce la loro sfiducia.E’ inaccettabile che ancora oggi non venga adottato un Registro di Trasparenza obbligatorio e giuridicamente vincolante per il settore privato e per tutte le istituzioni ed agenzie dell’Ue per garantire piena trasparenza delle attività di lobbying effettuate. E’ inammissibile che non sussista ancora piena trasparenza sulle informazioni relative ai casi di “porte girevoli”, impedendo di conoscere tempestivamente i nomi di funzionari Ue che all’improvviso lasciano le istituzioni e vengono assunti in ruoli apicali in realtà influenti del settore privato. E’ censurabile che non sussista piena trasparenza e piena indipendenza dal settore privato nella raccolta e valutazione delle prove scientifiche che tanto sdegno hanno suscitato tra i cittadini europei quando si è giunti in sede Ue ad autorizzare e rinnovare l’uso di glifosato, Ogm e pesticidi. Su quest’ultimo aspetto, ho richiesto espressamente che la Mediatrice proceda all’avvio di una specifica indagine strategica.(Elonora Evi, “Raccomandazioni, favori ad amici e conflitti di interessi: ecco le prove di come Juncker amministra (male) l’Ue”, dal “Blog delle Stelle” del 7 settembre 2018. La Evi è un’europarlamentare del gruppo Efdd – Movimento 5 Stelle Europa. L’avvocato tedesco Martin Selmayr, capo di gabinetto della Commissione Europea di Juncker, è considerato il tecnocrate burocrate più potente di Bruxelles, addirittura il vero “presidente ombra”. Emilio De Capitani è invece il docente universitario che pretese dal Parlamento Europeo l’accesso ai documenti contenenti informazioni riguardo alle posizioni delle istituzioni sulle procedure co-legislative in corso, nello specifico sui “triloghi”, i negoziati tra Parlamento e Consiglio Ue con la mediazione della Commissione Europea. La richiesta del professor De Capitani è stata approvata dalla Corte di Giustizia Ue, secondo cui serve più trasparenza da parte delle istituzioni europee sui documenti riguardanti le procedure legislative, che devono essere accessibili a chi ne fa domanda).Scarsa trasparenza dei processi decisionali, attività lobbistiche senza un vero controllo, porte girevoli, organi di garanzia e codici etici debolissimi e permeati da influenze politiche e del settore privato. Questi sono solo alcuni dei problemi di questa Europa denunciati dal Mediatore Europeo, quella figura che si occupa di monitorare che le istituzioni europee non inciampino nella cosiddetta “cattiva amministrazione”. E infatti, puntuale come un orologio, il report annuale dell’attività del Mediatore Europeo elenca le numerose gravi criticità che segnano il lavoro delle istituzioni europee e fotografa un’Europa che sembra allontanarsi sempre di più da ciò che doveva essere, la casa comune di tutti i cittadini europei. La Commissione Petizioni è l’unica commissione del Parlamento Europeo che ha il compito di analizzare il report del Mediatore e commentarlo. Quest’anno il compito è stato affidato al gruppo Efdd – Movimento 5 Stelle e, in quanto relatrice, ho cercato di dare ampio supporto all’importante e apprezzabile lavoro di indagine svolto nel 2017 dal Mediatore. Ecco il link al report. Abbiamo sottolineato alcune tra le problematiche più gravi che continuano a gravare sulle istituzioni europee: la scarsa trasparenza dei processi decisionali, le gravissime problematiche etiche che hanno coinvolto anche commissari europei in carica, l’ex presidente della Commissione Europea e l’attuale presidente della Bce.
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Bavaglio al web in Europa: ce l’hanno fatta, ora sarà legge
Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.«Con la scusa della riforma del copyright, il Parlamento Europeo ha di fatto legalizzato la censura preventiva. Una pagina nera per la democrazia e la libertà dei cittadini», protesta Isabella Adinolfi, europarlamentare 5 Stelle. «Il testo approvato oggi dall’aula di Strasburgo contiene l’odiosa “link tax” e filtri ai contenuti pubblicati dagli utenti. È vergognoso, ha vinto il partito del bavaglio». Purtroppo, aggiunge la Adinolfi, sono stati respinti tutti gli emendamenti che il Movimento 5 Stelle aveva presentato, «in particolare l’articolo 11, che prevede l’introduzione della cosiddetta “link tax”, e il 13, che mira a introdurre una responsabilità assoluta per le piattaforme, nonché un meccanismo di filtraggio dei contenuti caricati dagli utenti», conclude. Che tirasse brutta aria, a Strasburgo, lo si capiva dalle premesse, anticipate di prima mattina dal “Blog delle Stelle”: «L’Europa dei banchieri e dei lobbisti ha scelto la sua preda: il web libero. Anziché scardinare i paradisi fiscali e salvare in modo serio il diritto d’autore, il Parlamento Europeo rischia di usare il copyright come una mannaia dei diritti dei cittadini».Non sono in pochi a ritenere che la riforma – avanzata nel 2016 dall’allora commissario Ue alla Digital Economy Günther Oettinger – potrebbe «distruggere Internet per come lo conosciamo». Per gli europarlamentari rappresentati da Julia Reda, relatrice per il Parlamento Europeo del dossier sulla riforma del copyright e membro del Partito Pirata tedesco, «il progetto limita la libertà di espressione online e mette in difficoltà i piccoli editori e le startup innovative». Di fatto, il divieto di citare liberamente le fonti (con l’introduzione della “link tax”) equivale alla censura preventiva sul web: fine della libera circolazione di contenuti, come finora è stato nella Rete. Gioele Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, punta il dito contro lo stesso Oettinger, il tedesco secondo cui sarebbero stati “i mercati” a “insegnare agli italiani come votare”. Proprio quell’Oettinger, dice Magaldi, milita nei circuiti supermassonici reazionari che hanno trasformato l’Ue in un mostro giuridico, gestito da tecnocrati al soldo di interessi privatistici che mirano a svuotare le democrazie e privatizzare Stati non più sovrani, a cui viene impedito di investire (sotto forma di deficit) per creare occupazione.Comunque lo si legga, l’attacco al web finisce per colpire uno strumento di comunicazione potentissimo, cercando di riportarlo sotto il completo controllo dei media mainstream, spesso protagonisti di un uso pressoché criminale di autentiche “fake news”. Il voto del Parlamento Europeo è stato salutato con soddisfazione da Antonio Tajani, coinvolto – secondo il saggista Gianfranco Carpeoro – nell’operazione che ha portato (premendo su Berlusconi) a bloccare la nomina, alla presidenza della Rai, di Marcello Foa, autorevole giornalista, autore del volume “Gli stregoni della notizia”, che smaschera le tante imposture del mainstream. Secondo Carpeoro, la manovra anti-Foa è nata dalle parti dell’Eliseo: Jacques Attali (mentore di Macron ed esponente della superloggia reazionaria “Three Eyes”) si sarebbe rivolto al massone Tajani e poi allo stesso Berlusconi, dopo essersi consultato con Giorgio Napolitano, che nel libro “Massoni” lo stesso Magaldi presenta come esponente della “Three Eyes”, la medesima superloggia nella quale milita Attali, contigua al mondo supermassonico di cui fa fa parte, da molti anni, il tedesco Oettinger, vero e proprio “architetto” del bavaglio europeo imposto al web.E’ noto a tutti che le oligarchie al potere, in Europa e non solo, hanno sviluppato un’enorme diffidenza nei confronti della Rete: un network che si ritiene abbia avuto un ruolo assai rilevante in tutti i “dispiaceri” che gli elettori hanno rifilato, negli ultimi anni, all’establishment – la Brexit e il referendum di Renzi, quindi l’elezione di Trump e infine il boom dei “gialloverdi” in Italia. «Se Grillo vuole fare politica fondi un partito, se ne è capace», disse Piero Fassino, non immaginando che l’ex comico non solo ce l’avrebbe fatta, ma sarebbe finito praticamente al governo, scalzando il Pd. Il Movimento 5 Stelle è stato creato proprio via web, a partire dalle candidature. Colpire il web in Europa, proprio oggi, significa predisporre contromisure in vista delle elezioni europee 2019, in cui i grandi poteri economici e oligarchici che si nascondono dietro la tecnocrazia Ue temono l’exploit dei partiti “sovranisti” e “populisti”, o meglio democratici. Mentre le televisioni sono letteralmente “militarizzate” dall’establishment, le vendite dei giornali sono in caduta libera. Ecco dunque la necessità, per gli oligarchi, di silenziare in ogni modo il web.Bavaglio al web: alla fine ce l’hanno fatta. Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale. La proposta sul copyright avanzata da Axel Voss è stata adottata con 438 voti a favore, 226 contrari e 39 astensioni, modificando leggermente i contestatissimi articoli 11 e 13, che furono bersaglio – a luglio – di una rumorosa campagna a favore della libertà di Internet. L’articolo 11, ricorda il “Corriere della Sera”, è quello che coinvolge anche la stampa e introduce l’obbligo del pagamento, da parte delle piattaforme come Google e Facebook, per l’utilizzo delle notizie, anche sotto forma di “snippet”, l’anteprima formata da titolo, sommario e immagini che i motori di ricerca catturano automaticamente. «Quindi: non si tratta più di riconoscere solo i diritti dell’intero testo, ma anche della sua presentazione online, che spesso è l’unica a essere consultata dai lettori». L’articolo 13 introduce invece l’obbligo per le piattaforme di mettere dei filtri per bloccare il caricamento dei contenuti protetti. YouTube, ad esempio, sarà direttamente responsabile delle copie e degli spezzoni pirata che vengono caricati dagli utenti. Il via libera della plenaria (arrivato il 12 settembre) apre ora la strada ai negoziati con il Consiglio.
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E le nostre sono anche le autostrade più care d’Europa
La tragedia del ponte Morandi di Genova sta portando alla luce uno dei più grandi scandali del nostro paese, quello legato ai contratti sulle concessioni autostradali a beneficio esclusivo di pochi gruppi industriali privati. Ma come funziona nel resto dell’Europa? Quello italiano è un caso unico: le nostre autostrade sono le più care d’Europa. In Germania, Olanda e Belgio le autostrade sono pubbliche e parzialmente gratuite. Dal primo luglio scorso la Germania ha deciso di inserire un pedaggio solo per i camion, che consentirà di investire entro il 2022 circa 7 miliardi di euro nelle infrastrutture stradali. Per inciso, il governo tedesco ha da poco risolto un contenzioso con alcune aziende a cui aveva dato l’appalto per l’inserimento dei pedaggi per i mezzi pesanti. Il ritardo di 16 mesi nella realizzazione dell’opera, rispetto a quanto previsto dal contratto, è costato alle società una multa di 3,2 miliardi di euro, denaro che è finito nelle casse dello Stato. Esattamente l’opposto di ciò che è accaduto in questi anni in Italia, dove Atlantia si è permessa per anni di non realizzare gli interventi previsti e assolutamente necessari, facendo cassa a scapito dei cittadini senza che lo Stato muovesse un dito. E ora, davanti alla devastazione e ai morti, ha ancora il coraggio di parlare di perdite per gli azionisti, contratti e penali, sostenuta in questa campagna scandalosa dal Partito Democratico e da Forza Italia.Ci sono poi altri paesi come Austria, Svizzera e Slovenia che hanno autostrade a pagamento, ma con prezzi decisamente più convenienti rispetto a quelli italiani. In Austria l’abbonamento alle autostrade costa 87,30 euro l’anno, in Svizzera 40 franchi (circa 38,12 euro), in Slovenia 110 euro. Con questi soldi in Italia si percorrono appena 1.200 chilometri.Regno Unito, Spagna e Francia hanno affidato la gestione delle reti a società private tramite contratti di concessione. A differenza dell’Italia, però, nessun segreto di Stato e soprattutto più gestori, dunque più concorrenza. Nel nostro paese il 70% delle concessioni per la rete autostradale se lo spartiscono da anni due gruppi: il gruppo Atlantia (Benetton) che con Autostrade per l’Italia gestisce oltre 3.000 chilometri, e il gruppo Gavio, che gestisce oltre 1.200 chilometri. Nei pochi paesi dove la concessione è in mano ai privati, inoltre, sono stati stipulati contratti fortemente vincolanti. Nello specifico, in Spagna il pagamento del pedaggio è previsto soltanto sul 20% della rete e viene definito dal ministero dei lavori pubblici. Nel Regno Unito il guadagno degli operatori viene vincolato alla qualità del servizio, al livello di sicurezza e alla capacità di gestire al meglio la circolazione.In Francia sono ben diciannove le società concessionarie, le quali – a fronte della riscossione dei pedaggi – devono assicurare “la costruzione, l’estensione, la manutenzione e il funzionamento della rete”. Ogni cinque anni o in caso di necessità vengono stipulati accordi di piano tra lo Stato e queste società per finanziare ulteriori investimenti inizialmente non previsti. Perché la gestione di un bene pubblico, come la rete autostradale, non deve e non può essere una rendita finanziaria. Chiunque lavori al servizio dello Stato – e dunque dei cittadini italiani – deve garantire una gestione etica di quel bene, ponendo in cima valori quali efficienza, trasparenza, legalità e sicurezza. Se i Benetton hanno potuto lucrare su un bene pubblico indisturbati, però, è perché un’intera classe politica ha offerto loro per anni una sponda politica. I precedenti governi – da Prodi a D’Alema, passando per Berlusconi e Renzi – hanno prima regalato ai Benetton e poi prorogato per periodi sempre più lunghi gran parte della rete autostradale nazionale, senza pretendere investimenti in manutenzione e una compartecipazione degli utili.Tra il 2008 e il 2016, secondo dati del ministero dei trasporti, mancano all’appello 1,5 miliardi di investimenti preventivati sulla rete autostradale, a fronte di un incremento dei pedaggi del 25% (lievitati addirittura del 65,9% dal 1999 al 2013). Insomma, meno investi più guadagni, a scapito della sicurezza. Ma non solo. Oltre a favorire guadagni miliardari, il contratto prevede che, in caso di decadimento della concessione per gravi inadempienze da parte del concessionario, quest’ultimo venga indennizzato di tutti i profitti che avrebbe conseguito per gli anni residui di concessione. In sostanza, un risarcimento per i danni provocati dallo stesso imprenditore negligente. La classica privatizzazione della vecchia politica collusa con le lobbies: del resto, se si può fare un favore a un amico, quest’ultimo poi ricambierà. E in questi casi abbiamo imparato che per certi personaggi le regole non contano, conta solo fare profitti con i soldi dei cittadini italiani (e anche sulla loro pelle). È questa la logica che ha spolpato questo paese negli ultimi trent’anni.(“Italia, le autostrade più care d’Europa. Eccome come funziona degli altri paesi Ue”, dal “Blog delle Stelle” del 24 agosto 2018).La tragedia del ponte Morandi di Genova sta portando alla luce uno dei più grandi scandali del nostro paese, quello legato ai contratti sulle concessioni autostradali a beneficio esclusivo di pochi gruppi industriali privati. Ma come funziona nel resto dell’Europa? Quello italiano è un caso unico: le nostre autostrade sono le più care d’Europa. In Germania, Olanda e Belgio le autostrade sono pubbliche e parzialmente gratuite. Dal primo luglio scorso la Germania ha deciso di inserire un pedaggio solo per i camion, che consentirà di investire entro il 2022 circa 7 miliardi di euro nelle infrastrutture stradali. Per inciso, il governo tedesco ha da poco risolto un contenzioso con alcune aziende a cui aveva dato l’appalto per l’inserimento dei pedaggi per i mezzi pesanti. Il ritardo di 16 mesi nella realizzazione dell’opera, rispetto a quanto previsto dal contratto, è costato alle società una multa di 3,2 miliardi di euro, denaro che è finito nelle casse dello Stato. Esattamente l’opposto di ciò che è accaduto in questi anni in Italia, dove Atlantia si è permessa per anni di non realizzare gli interventi previsti e assolutamente necessari, facendo cassa a scapito dei cittadini senza che lo Stato muovesse un dito. E ora, davanti alla devastazione e ai morti, ha ancora il coraggio di parlare di perdite per gli azionisti, contratti e penali, sostenuta in questa campagna scandalosa dal Partito Democratico e da Forza Italia.
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Toninelli: nazionalizzare le autostrade conviene agli italiani
Che le indagini facciano il proprio corso mi pare naturale. Qui siamo su un altro piano, quello dell’opportunità: come si può pensare che i vertici di un’azienda che non è stata in grado di evitare una strage, facendo ciò che era obbligata per contratto a fare, cioè la manutenzione, possano rimanere al proprio posto? È semplicemente disumano. Autostrade è una società privata e dunque il governo non può obbligarla? Privata è la società, non il servizio pubblico che avrebbe dovuto garantire. Quindi, oltre che legittima, è assolutamente doverosa la richiesta di dimissioni. Anzi, in un paese civile, non sarebbero nemmeno da chiedere. Accettare la proposta di Autostrade di costruire un ponte in acciaio in 8 mesi o scegliere una soluzione diversa con altri soggetti? Non ci sarà alcuno scambio tra eventuali opere di risarcimento danni a cose e beni, semplicemente doverose e scontate, e la procedura di ritiro della concessione già avviata. A parte che ricostruire il ponte è comunque un obbligo in capo al concessionario. Oggi lo Stato sarebbe in grado di costruire da sé il ponte? Difficile per lo Stato fare peggio di ciò che abbiamo visto il 14 agosto.Toglieremo il segreto dalle parti non note dei contratti fra lo Stato e Autostrade e anche sulle altre concessioni con altre società? Assolutamente sì. Non può esistere segreto commerciale o di Stato di fronte a contenuti di preminente interesse pubblico. Stiamo per mettere fine alla opacità che ha garantito il patto inconfessabile tra vecchia politica e certi potentati economici. Togliendo la concessione ad Autostrade, si dice che gli oneri per lo Stato sarebbero comunque alti, fino a 20 miliardi secondo alcune stime. La nazionalizzazione, al netto di un costo iniziale, sarebbe invece sarebbe più conveniente. Pensate a quanti ricavi e margini tornerebbero in capo allo Stato attraverso i pedaggi, da utilizzare non per elargire dividendi agli azionisti, ma per rafforzare qualità dei servizi e sicurezza delle nostre strade. Autostrade ha accumulato 10 miliardi di utili in 15 anni. Nel frattempo, il concessionario resta obbligato a proseguire nell’ordinaria amministrazione dell’esercizio delle autostrade fino al trasferimento della gestione stessa. E d’ora in poi lo dovrà fare con i livelli di manutenzione e di sicurezza previsti dal contratto e dalla legge.Controlli più adeguati, anche da parte del ministero delle infrastrutture? Non mi nascondo dietro un dito: la vecchia politica ha portato lo Stato ad abdicare prima dal suo ruolo di gestore e poi da quello di efficace controllore. Tuttavia le responsabilità sostanziali sulla tenuta strutturale delle opere sono del concessionario. Autocritica da parte di noi 5 Stelle per alcune prese di posizione sulla Gronda, a cominciare dall’aver definito “una favoletta” il rischio che il ponte Morandi crollasse, e più in generale sull’ostilità alla grandi infrastrutture? Il tema Gronda è un falso problema, meschinamente strumentalizzato in questi giorni. Stiamo parlando di un’opera che ottimisticamente sarebbe pronta nel 2029: cosa c’entra con un ponte crollato nel 2018? Non siamo assolutamente contrari alle grandi opere utili. Anzi, ne servono tante al paese. Ma qui c’è un problema diverso, di manutenzione ordinaria e straordinaria dell’esistente. Che è proprio quello che non hanno fatto quelli delle grandi opere che oggi ci contestano e che invece dovrebbero chiedere scusa e poi tacere.(Danilo Toninelli, dichirazioni rilasciate al “Corriere della Sera” per l’intervista pubblicata il 21 agosto 2018, ripresa dal “Blog delle Stelle”).Che le indagini facciano il proprio corso mi pare naturale. Qui siamo su un altro piano, quello dell’opportunità: come si può pensare che i vertici di un’azienda che non è stata in grado di evitare una strage, facendo ciò che era obbligata per contratto a fare, cioè la manutenzione, possano rimanere al proprio posto? È semplicemente disumano. Autostrade è una società privata e dunque il governo non può obbligarla? Privata è la società, non il servizio pubblico che avrebbe dovuto garantire. Quindi, oltre che legittima, è assolutamente doverosa la richiesta di dimissioni. Anzi, in un paese civile, non sarebbero nemmeno da chiedere. Accettare la proposta di Autostrade di costruire un ponte in acciaio in 8 mesi o scegliere una soluzione diversa con altri soggetti? Non ci sarà alcuno scambio tra eventuali opere di risarcimento danni a cose e beni, semplicemente doverose e scontate, e la procedura di ritiro della concessione già avviata. A parte che ricostruire il ponte è comunque un obbligo in capo al concessionario. Oggi lo Stato sarebbe in grado di costruire da sé il ponte? Difficile per lo Stato fare peggio di ciò che abbiamo visto il 14 agosto.
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Autostrade: ma perché cedere ai privati tutti quei miliardi?
Lo Stato italiano incassa il 2,4 per cento netto dei pedaggi autostradali, che peraltro sono in costante aumento e da tempo i più cari d’Europa. Come vengono utilizzati quei soldi di automobilisti e autotrasportatori? La maggior parte dei ricavi al casello, come è noto, vanno a finanziare i guadagni delle società concessionarie (per la maggior parte gruppi privati). Non è un caso che i due principali concessionari (i Benetton e i Gavio) figurino regolarmente tra i Paperoni della Borsa e che stiano facendo, proprio in questi mesi, shopping di società all’estero. Semplificando, potremmo dire che i pedaggi (che ormai sono diventata una vera e proprio tassa occulta e salatissima a carico degli automobilisti) finiscono per finanziare l’espansione dei gruppi privati, le loro acquisizioni, oltre che l’arricchimento personale dei principali azionisti attraverso la distribuzione dei dividendi. Chi deve stabilire se un concessionario come Autostrade per l’Italia, che fa acquisizioni all’estero e distribuisce dividendi molto elevati, gestisce in maniera corretta i soldi dei pedaggi e investe abbastanza per la manutenzione? Spetta al ministero delle infrastrutture e dei trasporti. E’ quest’ultimo, infatti, che gestisce le concessioni dello Stato.Ed è inspiegabile l’ostinazione con cui negli ultimi anni, sotto la gestione dei precedenti governi, il ministero delle infrastrutture abbia autorizzato aumenti delle tariffe a volte davvero esorbitanti, a tutto vantaggio dei privati, e insieme il prolungamento delle concessioni, anche a fronte di investimenti – da parte dei concessionari – inferiori a quelli previsti dal piano economico e finanziario. Perché permettere di aumentare le tariffe e insieme prolungare la durata della concessione, se il concessionario non fa tutto quello che deve? In alcuni casi (si veda per esempio quello che è successo sulla Livorno-Civitavecchia) il ministero ha sfidato l’Europa, incappando in un deferimento alla Corte di giustizia per violazione del diritto Ue, pur di prolungare, ostinatamente, la concessione al gruppo dei Benetton… Come si è arrivati ad affidare la gestione di questo monopolio a privati come le imprese dei Benetton? Che risultati ha prodotto questa scelta compiuta negli anni Novanta? E’ stato nel 1999, all’epoca delle privatizzazioni, volute dal governo Prodi.Secondo alcuni esperti, per altro, la privatizzazione delle autostrade (la “gallina delle uova d’oro”) fu fatta quando non erano più necessarie dismissioni frettolose per tappare le falle dei conti pubblici, e a condizioni a tutti gli effetti assurde per lo Stato. A guidare le operazioni, come presidente dell’Iri, c’era il professor Gian Maria Gros-Pietro, il quale poi, subito dopo la privatizzazione, è stato assoldato dai Benetton come presidente della loro società di gestione delle Autostrade. Il risultato complessivo di questa operazione è che lo Stato ha ceduto un proprio asset importante senza riuscire a strappare condizioni particolarmente vantaggiose per sé (si poteva imporre un prezzo più alto? O almeno canone più oneroso?) e nemmeno per gli utenti-automobilisti (si potevano imporre condizioni più stringenti per i concessionari? O almeno aumenti limitati?). Di fatto si è permesso che una ricchezza pubblica transitasse nelle tasche di alcuni privati.Che giudizio dare di un sistema in cui i concessionari si arricchiscono con i soldi dei cittadini, gestendo un servizio regolato da un contratto secretato e finanziando giornali e politica che dovrebbero controllarne e regolarne l’operato? Dico non da ora che è un sistema folle, che va completamente scardinato. Spiace che ci siano volute decine e decine di vittime perché il paese si accorgesse di questa assurda anomalia. Ma se vogliamo dare un senso alla tragedia, occorre che il sistema delle concessioni sia profondamente rivisto e modificato, in primo luogo per quanto riguarda i concessionari privati (Benetton, Gavio, Toto) ma anche per i concessionari pubblici (si veda il caso Autobrennero). Ovviamente, mentre si procede alla revisione totale del sistema, sarebbe importante fin da subito procedere con il blocco degli aumenti tariffari (che meraviglia se il prossimo Capodanno fosse il primo della storia “No Aumento Pedaggio”) e dei prolungamenti delle concessioni.(“Autostrade: così una ricchezza pubblica è finita nelle tasche di alcuni privati”, intervista di Mario Giordano sul “Blog delle Stelle” del 19 agosto 2018).Lo Stato italiano incassa il 2,4 per cento netto dei pedaggi autostradali, che peraltro sono in costante aumento e da tempo i più cari d’Europa. Come vengono utilizzati quei soldi di automobilisti e autotrasportatori? La maggior parte dei ricavi al casello, come è noto, vanno a finanziare i guadagni delle società concessionarie (per la maggior parte gruppi privati). Non è un caso che i due principali concessionari (i Benetton e i Gavio) figurino regolarmente tra i Paperoni della Borsa e che stiano facendo, proprio in questi mesi, shopping di società all’estero. Semplificando, potremmo dire che i pedaggi (che ormai sono diventata una vera e proprio tassa occulta e salatissima a carico degli automobilisti) finiscono per finanziare l’espansione dei gruppi privati, le loro acquisizioni, oltre che l’arricchimento personale dei principali azionisti attraverso la distribuzione dei dividendi. Chi deve stabilire se un concessionario come Autostrade per l’Italia, che fa acquisizioni all’estero e distribuisce dividendi molto elevati, gestisce in maniera corretta i soldi dei pedaggi e investe abbastanza per la manutenzione? Spetta al ministero delle infrastrutture e dei trasporti. E’ quest’ultimo, infatti, che gestisce le concessioni dello Stato.
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I 5 Stelle: rassegnatevi, la Tav Torino-Lione non si farà più
«Quando studio dossier come quello della Tav Torino-Lione, non posso che provare rabbia e disgusto per come sono stati sprecati i soldi dei cittadini italiani». Le parole di Danilo Toninelli, ministro delle infrastrutture, suonano come campane a morto per il progetto che ha fatto letteralmente impazzire la valle di Susa, scatenando una protesta che si è conquistata un posto importante nell’agenda politica italiana. Sulla scrivania di Giuseppe Conte, scrive la “Stampa”, ora c’è una relazione che il premier ha letto e riletto, «prima di caricarsi anche pubblicamente una decisione che ormai è presa: la Tav non si farà più». Secondo il quotidiano torinese sarebbe scelta quasi obbligata, per il Movimento 5 Stelle, votato in massa dai NoTav. «Erano l’avanguardia territoriale dei grillini contro le grandi opere», scrive Ilario Lombardo, e ora si sentirebbero traditi dalle voci di un possibile ripensamento sulla maxi-opera più controversa d’Europa. Secondo un sondaggio piovuto sul tavolo dei vertici dei 5 Stelle, aggiunge Lombardo sulla “Stampa”, impegni come l’Ilva, la Tav e il Tap potrebbero costare una buona fetta di consenso. «Così, l’alta velocità Torino-Lione verrebbe sacrificata anche per indorare l’ok al Tap, il gasdotto che dovrebbe adagiarsi sulle spiagge pugliesi che è già costato dolenti ferite alla ministra del Sud, la grillina Barbara Lezzi per le forti contestazioni subite».Anche dalla valle di Susa si è alzata la protesta che ha investito Toninelli, appena ha solo accennato alla volontà di «migliorare» la Tav invece di confermare la rinuncia al tunnel. «Luigi Di Maio non può permettersi di liquidare entrambe le promesse elettorali, figlie di campagne identitarie per i grillini», sostiene Lombardo. Il post in cui tre giorni fa Toninelli annunciava un veto su qualsiasi ulteriore firma «ai fini dell’avanzamento dell’opera» è stato un avvertimento e un primo segnale. Rivolto anche all’alleato di governo, la Lega, che invece è stata una grande sostenitrice della Tav. Conte, aggiunge “La Stampa”, sarebbe ormai pronto ad abbracciare il piano di Di Maio e Toninelli, che ha un obiettivo chiaro: «La chiusura della tratta piemontese dell’alta velocità, nascosto dietro a una dichiarazione di intenti più fumosa che parla di “ridiscutere integralmente l’infrastruttura”, esattamente quello che c’è scritto nel contratto di governo, e che per i grillini può essere interpretato anche in maniera radicale». Lo stesso Toninelli, sul “Blog delle Stelle”, non usa però mezzi termini, riguardo al progetto Torino-Lione: «E’ stato enorme lo sperpero di danaro pubblico per favorire i soliti potentati, certe cricche politico-economiche e persino la criminalità organizzata».Impietosa l’analisi del ministro: la parte internazionale della Torino-Lione in teoria dovrebbe costare 9,6 miliardi (il 40% a carico dell’Ue, il 35% a spese Italia e il 25% della Francia), ma già nel 2007 era emerso che il costo vero arriverebbe a 20 miliardi di euro, o addirittura 26 secondo la Corte dei Conti francese, sulla base delle stime del Tesoro di Parigi aggiornate al 2012. Costi folli, per un’opera giudicata inutile: è infatti ormai semi-deserta la linea Torino-Modane che già collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa, nonostante il recente ammodernamento del Traforo del Fréjus, costato 400 milioni. Peggio: nel caso della Torino-Lione sarebbero davvero eccessivi gli oneri gravanti sull’Italia, nonostante il nostro paese sia interessato solo da 12,5 chilometri dell’ipotetico traforo internazionale da scavare per 57,5 chilometri sotto il Moncenisio. «Uno degli aspetti più scandalosi sta proprio lì», sottolinea Toninelli: «I nostri governanti del tempo, stiamo parlando dei primissimi anni Duemila, decisero di accollarsi la parte maggiore delle spese per convincere la Francia, che era giustamente riluttante rispetto alla costruzione dell’opera. Anche perché negli ultimi venti anni lo scambio di merci tra Italia e Francia ha avuto una discesa costante». Da neo-ministro, Toninelli accusa: «Mi son trovato a mettere le mani in un verminaio di sprechi, connivenze corruttive, appalti pilotati, varianti in corso d’opera che hanno fatto esplodere i costi negli anni. E’ difficile raddrizzare la barra, ma dobbiamo farlo. Lo dobbiamo ai nostri concittadini e soprattutto alle generazioni future».Scandalosa la gestione dell’alta velocità ferroviaria in Italia: ci costa in media 28 milioni di euro a chilometro contro i 12 milioni della Spagna, i 13 della Germania e i 15 della Francia. Cifra che sale a 33 milioni di euro a chilometro con le linee in via di costruzione. «E’ per questo che abbiamo avviato una seria revisione progettuale su queste infrastrutture», spiega Toninelli: «Non si può più fare a meno di una rigorosa analisi costi-benefici». Rifarsi al “contratto” di governo, scrive il ministro, pensando soprattutto a Salvini, significa «voler ridiscutere integralmente l’infrastruttura, senza preclusioni ideologiche ma senza subire il ricatto che ci piove in testa e che scaturisce dalle scandalose scelte precedenti». Di qui l’intimazione ai tecnocrati: «Nessuno deve azzardarsi a firmare nulla ai fini dell’avanzamento dell’opera, lo considereremmo come un atto ostile: le opere si fanno se servono ai cittadini, non a chi le costruisce». Il progetto Tav Torino-Lione (tuttora solo cartaceo) è nato da un accordo con la Francia ratificato dal Parlamento. Un’intesa che però, secondo Palazzo Chigi e il ministero dei trasporti, può essere stracciato attraverso una legge e un altro voto alle Camere, sempre che la maggioranza regga e la Lega non si sfili.A oltre 15 anni dal tentativo di avvio del primo cantiere a Venaus, letteralmente fermato dalla protesta popolare, i lavori – sul versante italiano – sono ancora limitati alla sola galleria esplorativa di Chiomonte. Secondo i ministri grillini, scrive la “Stampa”, si tratterebbe semplicemente di restituire i fondi all’Europa (800 milioni di euro) senza penali. «I contatti con i francesi sono continui, ma la parte grillina del governo è decisa ad andare avanti anche a costo di scontri diplomatici con Parigi, con conseguente richiesta di risarcimenti». Il “no” definitivo è previsto per il prossimo autunno, tra ottobre e novembre, quando si concluderà l’analisi costi-benefici, inclusi quelli ambientali. «Ma il destino dell’alta velocità piemontese si incrocia anche con la partita delle nomine in corso in queste ore», aggiunge Lombardo sul quotidiano torinese. «Telt, la società responsabile della realizzazione della Torino-Lione, è per il 50% in mano allo Stato francese e per il restante 50% controllata da Ferrovie, i cui vertici sono stati azzerati da Toninelli l’altro ieri». Tra i valsusini prevale la prudenza: riusciranno davvero, i 5 Stelle, a fermare l’inutile ecomostro che ha finora attratto potentissimi interessi economici, politici e finanziari, al punto da apparire impossibile da fermare?«Quando studio dossier come quello della Tav Torino-Lione, non posso che provare rabbia e disgusto per come sono stati sprecati i soldi dei cittadini italiani». Le parole di Danilo Toninelli, ministro delle infrastrutture, suonano come campane a morto per il progetto che ha fatto letteralmente impazzire la valle di Susa, scatenando una protesta che si è conquistata un posto importante nell’agenda politica italiana. Sulla scrivania di Giuseppe Conte, scrive la “Stampa”, ora c’è una relazione che il premier ha letto e riletto, «prima di caricarsi anche pubblicamente una decisione che ormai è presa: la Tav non si farà più». Secondo il quotidiano torinese sarebbe scelta quasi obbligata, per il Movimento 5 Stelle, votato in massa dai NoTav. «Erano l’avanguardia territoriale dei grillini contro le grandi opere», scrive Ilario Lombardo, e ora si sentirebbero traditi dalle voci di un possibile ripensamento sulla maxi-opera più controversa d’Europa. Secondo un sondaggio piovuto sul tavolo dei vertici dei 5 Stelle, aggiunge Lombardo sulla “Stampa”, impegni come l’Ilva, la Tav e il Tap potrebbero costare una buona fetta di consenso. «Così, l’alta velocità Torino-Lione verrebbe sacrificata anche per indorare l’ok al Tap, il gasdotto che dovrebbe adagiarsi sulle spiagge pugliesi che è già costato dolenti ferite alla ministra del Sud, la grillina Barbara Lezzi per le forti contestazioni subite».
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Niente bavaglio al web, Strasburgo boccia il piano Oettinger
Sventato, per il momento, il temutissimo “bavaglio” al web. L’aveva predisposto la commissione giuridica del Parlamento Europeo su input della Commissione Ue, in particolare del commissario Günther Oettinger, l’uomo che – all’indomani delle elezioni del 4 marzo – disse che sarebbero stati “i mercati” a insegnare a gli italiani come votare. In pratica: con il pretesto della revisione (necessaria) della tutela del copyright, ferma al 2001, l’Unione Europea avrebbe, di fatto, proibito la libera circolazione di contenuti, idee e immagini su Internet, mettendo a tacere blog e social. Ma il passaggio democratico cercato dalla Commissione – la validazione (peraltro non vincolante) del Parlamento Europeo – ha dato esito negativo: 318 i voti contrari e 278 i favorevoli, più 31 astenuti. Merito anche della tambureggiante opposizione scatenatasi proprio via web, a partire dall’allarme lanciato in Italia da Claudio Messora su “ByoBlu”: quasi un milione le firme raccolte in pochi giorni dalla petizione online su “Change.org”. «Oggi è un giorno importante, il segno tangibile che finalmente qualcosa sta cambiando anche a livello di Parlamento Europeo», afferma Luigi Di Maio il 5 luglio, a poche ore dal voto di Strasburgo.La seduta plenaria dell’Europarlamento, scrive il vicepremier grillino sul “Blog delle Stelle”, ha rigettato il mandato sul copyright al relatore Axel Voss, smontando l’impianto della direttiva-bavaglio. La proposta della Commissione Europea ritorna dunque al mittente, rimanendo lettera morta. Per Di Maio il segnale è chiaro: «Nessuno si deve permettere di silenziare la Rete e distruggere le incredibili potenzialità che offre in termini di libertà d’espressione e sviluppo economico». La direttiva avrebbe infatti costretto a ricorrere a speciali iter autorizzativi – anche a pagamento – per la semplice possibilità di inserire un link: procedura che avrebbe segnato in Europa la fine del web così come lo conosciamo, fondato sulla libera condivisione dei contenuti in tempo reale, attraverso la rete dei social media. «In ogni caso, anche qualora il testo fosse passato al vaglio di Strasburgo – avverte Di Maio – ci saremmo battuti in sede di Consiglio; a livello nazionale saremmo invece stati disposti a non recepirla». Lo disse subito, il leader dei 5 Stelle: se l’Ue dovesse malauguratamente adottare quella norma-vergogna, l’Italia eviterebbe di applicarla.«Voglio ringraziare tutti i nostri rappresentanti a Bruxelles e anche gli altri europarlamentari che hanno deciso di seguirci in questa battaglia per la libertà d’informazione», aggiunge lo stesso Di Maio. «Ora si apre una nuova battaglia: nella prossima plenaria si terrà infatti un dibattito politico e la possibilità di presentare emendamenti». Di Maio si dice sicuro che gli articoli più pericolosi della direttiva – l’11 e il 13 – verranno definitivamente rimossi. «Questa direttiva – spiega – riportava infatti due concetti inaccettabili: il primo prevedeva un diritto per i grandi editori di autorizzare o bloccare l’utilizzo digitale delle loro pubblicazioni introducendo anche una nuova remunerazione, la cosiddetta “link tax”, mentre il secondo imponeva alle società che danno accesso a grandi quantità di dati di adottare misure per controllare ex ante tutti i contenuti caricati dagli utenti». Assicura Di Maio: «Questo governo vigilerà affinché la libertà di Internet venga salvaguardata, senza scendere ad alcun compromesso e rifiutando ogni bavaglio».Sventato, per il momento, il temutissimo “bavaglio” al web. L’aveva predisposto la commissione giuridica del Parlamento Europeo su input della Commissione Ue, in particolare del commissario Günther Oettinger, l’uomo che – all’indomani delle elezioni del 4 marzo – disse che sarebbero stati “i mercati” a insegnare a gli italiani come votare. In pratica: con il pretesto della revisione (necessaria) della tutela del copyright, ferma al 2001, l’Unione Europea avrebbe, di fatto, proibito la libera circolazione di contenuti, idee e immagini su Internet, mettendo a tacere blog e social. Ma il passaggio democratico cercato dalla Commissione – la validazione (peraltro non vincolante) del Parlamento Europeo – ha dato esito negativo: 318 i voti contrari e 278 i favorevoli, più 31 astenuti. Merito anche della tambureggiante opposizione scatenatasi proprio via web, a partire dall’allarme lanciato in Italia da Claudio Messora su “ByoBlu”: quasi un milione le firme raccolte in pochi giorni dalla petizione online su “Change.org”. «Oggi è un giorno importante, il segno tangibile che finalmente qualcosa sta cambiando anche a livello di Parlamento Europeo», afferma Luigi Di Maio il 5 luglio, a poche ore dal voto di Strasburgo.
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Di Maio: la vecchia Tv è finita, in Italia la prossima Netflix
Noi del Movimento è da anni che diciamo che con l’avvento della Rete sarebbe cambiato tutto e i media tradizionali ne avrebbero fatto le spese. Non era una profezia fine a sé stessa, ma un indicatore di dove investire per garantire un futuro al nostro paese. Venerdì Morgan Stanley ha pubblicato un report sul futuro della televisione con dati inequivocabili: in Italia al momento Netflix ha una penetrazione stimata attorno al 6%, ma cresce a un ritmo del 3% l’anno e quindi raggiungerà il 20% in 5 anni. Quello sarà il punto di non ritorno che in America ha coinciso con il declino del consumo della Tv tradizionale. Prevedono quindi che nei prossimi 5 anni gli operatori tradizionali italiani ed europei avranno un calo degli utili del 40%. Come conseguenza di questa analisi, Morgan Stanley ha declassato il suo giudizio su alcune aziende, come Mediaset che è passata da 3,8 a 2 con un tonfo in Borsa di quasi il 5% con un’azione che ora vale 2,7 euro. È andata ancora peggio ai tedeschi: ProsiebenSat perde il 7,53% e Rtl il 7,26%. Il motivo del ribasso è spiegato da altri dati presenti nel testo. Pensate che una volta che Netflix entra in una casa, il consumo di Tv tradizionale cade del 16-30%. Per di più è finita la crescita della pubblicità, che rappresenta tra il 50 e il 90% dei ricavi delle Tv tradizionali. Se proiettate questi dati nel tempo è chiaro cosa succederà.Davanti a questo scenario, come ministro dello sviluppo economico con delega alle telecomunicazioni, dico che è tempo che in Italia si inizi ad anticipare il futuro e a fare investimenti che vanno nell’ottica delle nuove tecnologie e non di quelle vecchie. È fondamentale il 5G ad esempio, la banda larga, ma è anche fondamentale incentivare la fornitura di quei servizi che possono essere di supporto alle piattaforme di oggi e nel medio e lungo periodo investire in nuovi modelli di business e nuove tecnologie per sviluppare a casa nostra le piattaforme del futuro. Se la prossima Netflix sarà italiana dipende dagli investimenti che facciamo oggi. Penso a dare un’opportunità alle giovani imprese che si occupano della creazione di nuovi format e di contenuti multimediali, a quelle che realizzano applicazioni in questo settore, a quelle che inventano da zero nuove tecnologie. In definitiva a stimolare creatività e competenze tecnologiche in questi ambiti. Un prodotto italiano di successo diffuso su Netflix o piattaforme simili, sarebbe un volano importante per far conoscere il nostro stile di vita e per far ripartire la nostra industria culturale.Se riusciremo anche a sviluppare delle piattaforme italiane che hanno successo mondiale sarà un ritorno incredibile su tantissimi fronti. Su questo devono interrogarsi anche le grandi aziende culturali del paese, in primis Rai e Mediaset. Per loro sarà fondamentale riuscire a rinnovarsi con nuove persone e nuove idee, pensando a nuovi prodotti e inserendosi in una logica completamente diversa da quella seguita fino ad oggi. In particolare in Rai deve iniziare a trionfare il merito e a entrare aria nuova. Il primo passo è la fine della lottizzazione da un lato e la pretesa di avere editori puri dall’altro. Una cosa è sicura: è un momento di grandi cambiamenti e quindi di enormi opportunità. Con investimenti oculati e un serio indirizzo politico le coglieremo e saremo protagonisti. Forse qualcuno dirà che sto sognando. Me lo dicevano anche nel 2009 e oggi siamo al governo del paese. Inseguiamo i nostri sogni e facciamoli diventare realtà.(Luigi Di Maio, “Le Tv tradizionali hanno i giorni contati, ma la prossima Netflix può essere italiana”, dal “Blog delle Stelle” del 2 luglio 2018).Noi del Movimento è da anni che diciamo che con l’avvento della Rete sarebbe cambiato tutto e i media tradizionali ne avrebbero fatto le spese. Non era una profezia fine a sé stessa, ma un indicatore di dove investire per garantire un futuro al nostro paese. Venerdì Morgan Stanley ha pubblicato un report sul futuro della televisione con dati inequivocabili: in Italia al momento Netflix ha una penetrazione stimata attorno al 6%, ma cresce a un ritmo del 3% l’anno e quindi raggiungerà il 20% in 5 anni. Quello sarà il punto di non ritorno che in America ha coinciso con il declino del consumo della Tv tradizionale. Prevedono quindi che nei prossimi 5 anni gli operatori tradizionali italiani ed europei avranno un calo degli utili del 40%. Come conseguenza di questa analisi, Morgan Stanley ha declassato il suo giudizio su alcune aziende, come Mediaset che è passata da 3,8 a 2 con un tonfo in Borsa di quasi il 5% con un’azione che ora vale 2,7 euro. È andata ancora peggio ai tedeschi: ProsiebenSat perde il 7,53% e Rtl il 7,26%. Il motivo del ribasso è spiegato da altri dati presenti nel testo. Pensate che una volta che Netflix entra in una casa, il consumo di Tv tradizionale cade del 16-30%. Per di più è finita la crescita della pubblicità, che rappresenta tra il 50 e il 90% dei ricavi delle Tv tradizionali. Se proiettate questi dati nel tempo è chiaro cosa succederà.
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Di Maio: niente bavaglio al web, l’Italia si opporrà all’Ue
Sono contento che dopo anni di battaglie oggi ci sia un consenso pressoché unanime nell’affermare che lo sviluppo di Internet, della banda larga, l’accesso alla Rete per tutti e la velocità con cui i cittadini possono operare sul web, sia diventata una cosa scontata. Direi uno dei diritti inalienabili dei cittadini. Tuttavia, ancora oggi e lo voglio dire in questa occasione, la Rete sta correndo un grave pericolo. E il pericolo arriva direttamente dall’Europa e si chiama riforma del copyright. La scorsa settimana è passata una linea che maturava dopo almeno due anni di contrattazioni. Una linea controversa, proposta inizialmente dalla Commissione Europea, che riporta due articoli che potrebbero mettere il bavaglio alla Rete così come noi oggi la conosciamo. Il primo prevede un diritto per gli editori, i grandi editori di giornali, di autorizzare o bloccare l’utilizzo digitale delle loro pubblicazioni introducendo anche una nuova remunerazione per l’editore, la cosiddetta link tax. In poche parole quando noi condividiamo un articolo ed escono quelle tre o quattro righe al di sotto del link, ecco quelle tre o quattro righe verrebbero tassate. Dicono pure che sia un modo per migliorare la qualità dell’informazione.L’Europa dovrebbe puntare sulla cultura e sull’istruzione, per fare in modo che i suoi cittadini capiscano cos’è una fake news; invece preferisce inondare di nuove tasse perfino le tre righe che escono quando condividiamo un articolo o un’informazione in generale. Il secondo articolo è perfino più pericoloso del primo, perché impone alle società che danno accesso a grandi quantità di dati di adottare misure per controllare ex ante tutti i contenuti caricati dagli utenti. Praticamente, qualunque cosa venga caricata che abbia anche solo una parvenza di ledere il diritto d’autore, e con questo mi riferisco a qualsiasi immagine per esempio, e sottolineo qualsiasi, potrebbe essere bloccata da una piattaforma privata. Praticamente deleghiamo a delle multinazionali – e neanche loro credo lo vogliano – che spesso nemmeno sono europee, il potere di decidere cosa debba essere o meno pubblicato. Cosa è giusto o sbagliato. Cosa i cittadini devono sapere e cosa non devono sapere. Se non è un bavaglio questo ditemi voi cos’è un bavaglio. E pensiamo anche alle piccole e medie imprese di questo settore, che non avranno mai la potenza economica per affidarsi ad un algoritmo che decide cosa è giusto e cosa è sbagliato.Quindi mentre si parla di dati statistici che ci vedono occupare la 25a posizione nella classifica dei 28 Stati membri dell’Unione Europea in merito ai progressi del settore digitale. Mentre il quadro sull’utilizzo delle tecnologie Ict da parte di cittadini e imprese mostra un impiego sempre più diffuso ed evoluto di queste tecnologie nelle attività economiche e nella vita quotidiana, l’Unione Europea ha preparato un bavaglio per limitare la libertà d’espressione dei cittadini. È inaccettabile. E come governo ci opporremo. Faremo tutto quello che è in nostro potere per contrastare la direttiva al Parlamento Europeo e, qualora dovesse passare così com’è, dovremo fare una seria riflessione a livello nazionale sulla possibilità o meno di recepirla. Perché Internet dev’essere mantenuto libero, indipendente, al servizio dei cittadini. Nessuno può permettersi di fare azioni di censura preventiva, nemmeno se quel qualcuno si chiama Commissione Europea. Questo provvedimento, contro il buon senso, ci riporterebbe indietro di vent’anni e consentirebbe di concentrare il potere nelle mani di poche persone, di poche piattaforme e di poche multinazionali.Questa direttiva è la plastica dimostrazione che qualcosa in quei palazzi, e mi riferisco al Parlamento Europeo in questo caso, c’è qualcosa che non funziona. E questo qualcosa è una città intera di lobbisti che si muovono all’interno delle istituzioni comunitarie senza l’obbligo di dire cosa fanno, chi rappresentano, con chi parlano, quanto guadagnano e da chi sono pagati. Intendo una città intera di lobbisti che influenza il processo decisionale non a caso, perché stiamo parlando di almeno 30mila lobbisti che ogni giorno entrano in quei palazzi. Non hanno l’obbligo di dichiarare qual è il loro mestiere e possono facoltativamente iscriversi ad un “registro di trasparenza”. Viene sollecitata sin dal 2008 la creazione di un registro obbligatorio per i rappresentanti d’interessi specifici attivi nelle istituzioni dell’Ue, sottolineando come solo uno strumento simile assicurerebbe il pieno rispetto da parte di quest’ultimi del loro codice di condotta. Stranamente non se n’è mai fatto nulla. Il governo italiano non può accettare passivamente un provvedimento studiato e preparato a tavolino dalle lobby dei grandi editori multimiliardari che spostano e occultano il diritto all’informazione. Non è bastato lo scandalo di Cambridge Analityca per fare capire a questi signori che il potere non deve essere accentrato nelle mai di pochi, ma condiviso con i cittadini.(Luigi Di Maio, estratto del post “Salviamo la Rete dal bavaglio europeo: #NoLinkTax”, pubblicato sul “Blog delle Stelle” il 29 giugno 2018).Sono contento che dopo anni di battaglie oggi ci sia un consenso pressoché unanime nell’affermare che lo sviluppo di Internet, della banda larga, l’accesso alla Rete per tutti e la velocità con cui i cittadini possono operare sul web, sia diventata una cosa scontata. Direi uno dei diritti inalienabili dei cittadini. Tuttavia, ancora oggi e lo voglio dire in questa occasione, la Rete sta correndo un grave pericolo. E il pericolo arriva direttamente dall’Europa e si chiama riforma del copyright. La scorsa settimana è passata una linea che maturava dopo almeno due anni di contrattazioni. Una linea controversa, proposta inizialmente dalla Commissione Europea, che riporta due articoli che potrebbero mettere il bavaglio alla Rete così come noi oggi la conosciamo. Il primo prevede un diritto per gli editori, i grandi editori di giornali, di autorizzare o bloccare l’utilizzo digitale delle loro pubblicazioni introducendo anche una nuova remunerazione per l’editore, la cosiddetta link tax. In poche parole quando noi condividiamo un articolo ed escono quelle tre o quattro righe al di sotto del link, ecco quelle tre o quattro righe verrebbero tassate. Dicono pure che sia un modo per migliorare la qualità dell’informazione.
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Rifkin: potere al popolo, così l’Italia cambierà quest’Europa
Il nuovo governo rappresenta una opportunità. Non quella di formare semplicemente un nuovo esecutivo, bensì quella di preparare un piano di lungo termine per trasformare l’economia delle comunità locali, dando più potere al popolo e facendo così dell’Italia, che ha una creatività pro capite straordinaria, il “faro” della trasformazione dell’Ue, per entrare nella nuova fase del “sogno europeo”, in nome del principio di sussidiarietà, che è scritto nei trattati ma viene poco applicato. E’ il momento per tutta Italia di fare un grosso respiro, di fare un passo indietro e di chiedersi: chi siamo noi come popolo? Ho passato trent’anni in Italia, sono stato in ogni comunità locale: la creatività pro capite in Italia è semplicemente straordinaria, perché c’è un’enorme diversità culturale, che è una ricchezza. Oggi ogni regione d’Italia dovrebbe sfruttare il proprio patrimonio culturale, al di là dei confini, iniziando a mostrare l’Italia come il faro della prossima fase del “sogno europeo”. Ricordatevi che sono stati gli italiani, con Altiero Spinelli, a portare l’Europa nel “sogno europeo”. Ora è un nuovo inizio: non penso che nessuno dica di no all’Europa. Ma è tempo di riflettere, a livello italiano ed europeo, su come passare meglio alla prossima fase del sogno europeo. E di fare le trasformazioni necessarie per rendere l’Europa più collaborativa e più forte, più adatta agli interessi delle comunità locali d’Europa: questa è la chiave.Dal voto è emersa volontà della gente di contare di più. Quello attuale è un momento di opportunità per due partiti politici, il Movimento 5 Stelle e la Lega, che hanno passato molto tempo organizzando i rispettivi elettorati, per fare una grossa differenza. Non solamente per avere un altro governo in carica: questa è un’opportunità, non va sprecata. Bisogna creare una road map economica, muovendo verso la Terza Rivoluzione Industriale, portando l’Italia su una strada che può essere il faro per la prossima fase, per quello che vogliamo dappertutto, in Europa e nel mondo: più potere al popolo, più potere distribuito, in modo che le persone possano avere un maggior diritto di parola sul loro destino economico. C’è un principio, nel Trattato di Roma, il principio di sussidiarietà, che dice che il potere deve iniziare nelle comunità locali, dove le persone vivono la loro vita. Il potere deve essere laterale, non verticale. C’è una legittima constatazione che il mondo, per come è governato ora, si sta muovendo troppo verso le élite, e penso che sia una constatazione giustificata, in tutto il pianeta. E ora penso che in posti come l’Italia, ma anche in giro per il mondo, le persone dicano “vogliamo avere più controllo sulla nostra economia e sulle nostre vite”.Questa è una cosa positiva. Non credo che nessuno in Italia dirà che vuole uscire dall’Europa. Ma credo che sia legittimo pensare che ora, dopo cinquant’anni di Ue, ci sono altri cinquant’anni davanti a noi e, quindi, sarebbe bene fare proposte in modo che ogni livello di governance sia più in sintonia con quello che succede tra i 500 milioni di persone che vivono nelle comunità locali. Credo fermamente nel principio di sussidiarietà, che è la rivoluzione che non è ancora accaduta. Il principio di solidarietà è nei trattati e sospetto che molte persone in Europa non sappiano neppure che esiste. Il potere, secondo i trattati, nasce nelle comunità locali e nelle Regioni. Tutto quello che dobbiamo fare è prendere sul serio questo principio e sviluppare un piano per la Terza Rivoluzione Industriale in Italia e in Europa. Questo è il principio basilare della governance europea – in teoria, ma non in pratica. Ora in Europa è un momento in cui gli elettori votano e quello che sento dire loro, al di là della retorica, è “dobbiamo avere un maggior diritto di parola sul nostro destino economico nelle comunità in cui viviamo”.Questo non preclude la globalizzazione, ma diventa glocalizzazione. Ogni comunità locale, grazie alle tecnologie, può impegnarsi con Regioni in tutto il mondo e cercare nuove opportunità economiche: non è teoria, ma pratica, sta già succedendo. Quello di cui abbiamo bisogno ora è una visione di governo che sia commisurata alla piattaforma trasparente e digitale laterale che stiamo creando: e quella visione è il principio di sussidiarietà. Che non preclude l’esistenza degli Stati-nazione, né dell’Ue, ma significa che tutto il potere decisionale deve partire dai luoghi in cui le persone vivono e lavorano. Bisogna creare una road map economica, muovendo verso la Terza Rivoluzione Industriale, portando l’Italia su una strada che può essere il faro per la prossima fase, per quello che vogliamo dappertutto, in Europa e nel mondo: più potere al popolo, più potere distribuito, in modo che le persone possano avere un maggior diritto di parola sul loro destino economico.(Jeremy Rifkin, “Con il governo del cambiamento più potere al popolo e alle comunità locali”, riflessione a margine del Brussels Economic Forum 2018, pubblicata dal “Blog delle Stelle” sulla base della ricostruzione offerta dell’agenzia Adnkronos. Economista, sociologo e ambientalista statunitense, Rifkin è il teorico della Terza Rivoluzione Industriale. Autore di saggi tradotti in tutto il mondo, collabora con alcune tra le più importanti testate giornalitiche europee, come il “Guardian”, “El Pais”, “L’Espresso” e la “Suddeutsche Zeitung”).Il nuovo governo rappresenta una opportunità. Non quella di formare semplicemente un nuovo esecutivo, bensì quella di preparare un piano di lungo termine per trasformare l’economia delle comunità locali, dando più potere al popolo e facendo così dell’Italia, che ha una creatività pro capite straordinaria, il “faro” della trasformazione dell’Ue, per entrare nella nuova fase del “sogno europeo”, in nome del principio di sussidiarietà, che è scritto nei trattati ma viene poco applicato. E’ il momento per tutta Italia di fare un grosso respiro, di fare un passo indietro e di chiedersi: chi siamo noi come popolo? Ho passato trent’anni in Italia, sono stato in ogni comunità locale: la creatività pro capite in Italia è semplicemente straordinaria, perché c’è un’enorme diversità culturale, che è una ricchezza. Oggi ogni regione d’Italia dovrebbe sfruttare il proprio patrimonio culturale, al di là dei confini, iniziando a mostrare l’Italia come il faro della prossima fase del “sogno europeo”. Ricordatevi che sono stati gli italiani, con Altiero Spinelli, a portare l’Europa nel “sogno europeo”. Ora è un nuovo inizio: non penso che nessuno dica di no all’Europa. Ma è tempo di riflettere, a livello italiano ed europeo, su come passare meglio alla prossima fase del sogno europeo. E di fare le trasformazioni necessarie per rendere l’Europa più collaborativa e più forte, più adatta agli interessi delle comunità locali d’Europa: questa è la chiave.
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Centrodestra e Pd, lo squadrone dei candidati impresentabili
Chiuse le liste delle convocazioni dei partiti, dopo notti di lotte all’arma bianca nelle segrete stanze di Arcore e del Nazareno, in attesa di conoscere l’allenatore, ecco la formazione titolare con cui il centrodestra si schiera in campo. Con la fascia di capitano, candidato capolista al Senato in Campania, Luigi Cesaro, detto “Giggino a’ purpetta”, indagato per voto di scambio in riferimento alle ultime elezioni regionali e per minacce a pubblico ufficiale aggravato dalla finalità mafiosa: avrebbe fatto pressioni su una funzionaria del Comune di Marano, che si occupava dei controlli su opere costruite dall’impresa di Aniello e Raffaele Cesaro, suoi fratelli. Antonio Angelucci, premiato per la sua assidua presenza in Parlamento (99.59% di assenze) e per i risultati sul fronte giudiziario con una condanna in primo grado a un anno e 4 mesi per falso e tentata truffa per i contributi pubblici percepiti tra il 2006 e il 2007 per i quotidiani “Libero” e “Il Riformista”; oltre un indagine in corso in merito a un’inchiesta sugli appalti nella sanità della procura di Roma. Per lui il posto di capolista alla Camera nel Lazio.Ugo Cappellacci, capolista in Sardegna, ex governatore, per lui chiesta condanna per abuso d’ufficio nel processo scaturito nell’inchiesta sulla cosiddetta P3; condannato in secondo grado a restituire alla Regione Sardegna circa 220 mila euro. Condannato a due anni e mezzo di reclusione per il crac milionario della Sept Italia, società fallita nel 2010. Fresco di sentenza Michele Iorio, candidato al Senato in Molise, è stato condannato qualche giorno fa dalla corte d’appello di Campobasso a 6 mesi di reclusione per abuso d’ufficio e a un anno di interdizione dai pubblici uffici. In Puglia rispunta una vecchia conoscenza: Domenico Scilipoti. E’ stato condannato a versare 200 mila euro più spese legali per un vecchio debito non pagato. Ma è noto ai più per il suo triplo salto carpiato da Idv all’allora maggioranza, per salvare il governo Berlusconi nel 2010, dando addirittura vita a un neologismo: “scilipotismo”. In Sicilia continua la “dinastia Genovese”. Stavolta tocca a una donna di fiducia dell’ex deputato condannato Francantonio Genovese, Mariella Gullo. Anche lei raggiungerà quota 20mila come toccò prima al cognato e poi al nipote Luigi Genovese alle scorse regionali? Con lei, Urania Papatheu, candidata nel Catanese, con una condanna in primo grado per gli sperperi dell’ex Ente fiera di Messina.La nuove generazione delle Lega marca la sua presenza con Edoardo Rixi, assessore regionale in Liguria e imputato per le spese pazze in Regione Liguria: si sarebbe fatto rimborsare spese private con soldi pubblici. Facce nuove ma vecchi vizi. La Lega infatti candida anche tale Umberto Bossi, condannato a 2 anni e 3 mesi per aver usato i soldi del partito, quindi “provenienti dalle casse dello Stato” a fini privati. Sulla stessa onda, troviamo il redivivo Roberto Formigoni, condannato per corruzione a sei anni e imputato in altri processi: è candidato al Senato come capolista nella formazione del centrodestra ‘Noi con l’Italia’ in Lombardia. Nella stessa formazione, Raffaele Fitto alla Camera in Puglia, la Cassazione ha disposto che sarà un giudice civile a stabilire se, da presidente della Regione Puglia, Raffaele Fitto ha generato danno d’immagine all’ente, dopo che la corte d’appello di Bari l’aveva dichiarato prescritto ma lo condannava al risarcimento nei confronti della Regione.Il Pd, allenato da Renzi con Gentiloni pronto a sostituirlo a seconda dello scenario che si prospetterà, schiera invece in campo. Maria Elena Boschi, il capitano. Aveva promesso di lasciare la politica in caso di sconfitta al referendum e non l’ha fatto. Da ministro per le Riforme si è interessata della sorte di Banca Etruria, l’istituto bancario del padre. Ha sostenuto di averlo fatto per il territorio, infatti si candida a Bolzano nell’uninominale ed è stata piazzata in altri cinque collegi-paracadute: Cremona-Mantova, Lazio 3, Sicilia 1-02, Sicilia 2-03 e Sicilia 2-01. Tutto pur di non farle mollare la poltrona. In Campania c’è Piero De Luca, figlio del governatore della Campania, Vincenzo, capolista alla Camera ovviamente in Campania e candidato all’uninominale di Salerno, il “feudo” del padre. È imputato di bancarotta fraudolenta per il crac della società immobiliare “Ifil”, società satellite degli appalti del ‘sistema Salerno’ quando il padre era sindaco della città. Ma De Luca raddoppia, con la candidatura del suo ex capo staff, Franco Alfieri. Il “signore delle fritture” elogiato dal governatore campano perché sa fare le “clientele come Cristo comanda”, già condannato in appello a restituire 40.000 euro al Comune di Agropoli e imputato per omissione in atti d’ufficio e sottrazione di beni alla loro destinazione: avrebbe lasciato dei beni sequestrati alla camorra, e destinati al Comune di Agropoli, nella disponibilità dei vecchi proprietari. Per i pm non per dimenticanza, ma per ingraziarsi il “clan degli zingari”.In Campania c’è anche Umberto Del Basso De Caro, già sottosegretario ai Trasporti del governo Gentiloni, è indagato per tentata concussione e voto di scambio. In alcune conversazioni intercettate si evincerebbero, per l’accusa, le sue pressioni al dirigente generale di un ospedale per la rimozione o il trasferimento di alcuni funzionari “non graditi” alla moglie, dirigente amministrativo nello stesso nosocomio. In Abruzzo corre Luciano D’Alfonso, governatore in carica, indagato dalla procura de L’Aquila per corruzione, abuso d’ufficio e turbata libertà degli incanti per interventi di manutenzione di case popolari a Pescara e Penne. E’ stato scelto per meriti sul campo da Renzi come capolista del listino al Senato in Abruzzo. Nel Lazio schierati Claudio Mancini e Bruno Astorre, premiati per il rinvio a giudizio nell’inchiesta sui rimborsi e le spese di rappresentanza del gruppo Pd alla Pisana fra il 2010 e il 2012.Stesso criterio usato per le candidature nelle Marche, con Francesco Comi e Paolo Petrini, coinvolti nello scandalo sulle spese pazze in Regione, procedimento ancora aperto dopo che la Cassazione ha annullato il non luogo a procedere disposto dal gup. Anche in Calabria premiati Ferdinando Aiello, Brunello Censore e Antonio Scalzo per il processo disposto a loro carico nell’ambito dell’inchiesta “Rimborsopoli”. Scalzo, in più, ha visto di recente arrestato il suo capostruttura nell’operazione contro la ‘ndrangheta denominata “Stige”, in quanto accusato di concorso esterno alla potente cosca dei Farao-Marincola. Punta di diamante della formazione renziana, Luca Lotti, attuale ministro dello Sport, è indagato nella vicenda Consip, insieme a Renzi Senior e a gran parte del “giglio magico”, per favoreggiamento e rivelazione di segreto. E’ candidato in Toscana, nel collegio di Empoli 8.(“Lo squadrone di candidati impresentabili del centrodestra” e “Figli di e fritture di, gli impresentabili del Pd”, dal “Blog delle Stelle” del 3 febbraio 2018).Chiuse le liste delle convocazioni dei partiti, dopo notti di lotte all’arma bianca nelle segrete stanze di Arcore e del Nazareno, in attesa di conoscere l’allenatore, ecco la formazione titolare con cui il centrodestra si schiera in campo. Con la fascia di capitano, candidato capolista al Senato in Campania, Luigi Cesaro, detto “Giggino a’ purpetta”, indagato per voto di scambio in riferimento alle ultime elezioni regionali e per minacce a pubblico ufficiale aggravato dalla finalità mafiosa: avrebbe fatto pressioni su una funzionaria del Comune di Marano, che si occupava dei controlli su opere costruite dall’impresa di Aniello e Raffaele Cesaro, suoi fratelli. Antonio Angelucci, premiato per la sua assidua presenza in Parlamento (99.59% di assenze) e per i risultati sul fronte giudiziario con una condanna in primo grado a un anno e 4 mesi per falso e tentata truffa per i contributi pubblici percepiti tra il 2006 e il 2007 per i quotidiani “Libero” e “Il Riformista”; oltre un indagine in corso in merito a un’inchiesta sugli appalti nella sanità della procura di Roma. Per lui il posto di capolista alla Camera nel Lazio.