Archivio del Tag ‘Il Secolo XIX’
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Maggiani: mi manca Pertini, la sua fede onesta nel futuro
Sono passati trent’anni e più e Pertini è ancora lì che mi manca. Ho amato quell’uomo come lo hanno amato milioni di suoi concittadini, l’ho amato per le loro stesse ragioni, per le ragioni del suo antipodo Indro Montanelli, “Non è necessario essere socialisti per amare Sandro Pertini. Tutto ciò che egli dice e fa odora di pulizia, di lealtà e di sincerità”. Ma non è questo che me lo fa mancare in modo così struggente, colmo di nostalgia. Mi manca di Sandro Pertini la sua giovinezza. Certo che era vecchio di anni, ma quello anagrafico è stato un particolare di nessuna importanza, ha “preso” il Quirinale che era ancora un ragazzo, a quel tempo lo ero anch’io. Aveva addirittura il portamento della giovinezza, e dietro quei suoi occhialacci aveva il suo sguardo. Aveva della giovinezza la sfacciata sincerità, la sincerità come una sfida, come un gesto di baldanza anche contro l’evidenza, e il candore della malizia proprio come un ragazzo.E la forza, la prestanza, delle idee, mai troppo complicate o ombreggiate, mai troppo prudenti; naturalmente era irascibile, scontroso e affettuoso in modo grandioso, nel modo gradasso dei ragazzi che fa così innamorare le ragazze. Naturalmente fumava come una ciminiera, fumava come se non ci fosse domani, perché per un ragazzo in effetti non c’è domani se il domani è quello dei vecchi, di decadenza e malattia e estinzione, il domani della gioventù è l’avvenire. L’ottuagenario Sandro Pertini era madido di avvenire, aveva tanto di quell’avvenire per le mani che gliene avanzava abbastanza anche per me e per la Repubblica intera. Ecco quello che mi manca di più di quell’uomo, e di me, che la sua, e la mia, gioventù avesse un tale potere da essere la gioventù della Nazione, che la Repubblica potesse ancora essere la giovane repubblica colma di avvenire.Disse Sandro Pertini nel suo ultimo discorso da presidente ai giovani cittadini d’Italia: …E se non volete che le vostre giornate scorrano grigie e monotone, date una nobile ragione alla vostra esistenza. Scegliete voi liberamente, come liberamente scegliemmo noi nella nostra adolescenza. Fate la vostra scelta purché essa presupponga il principio di libertà, se non volete incamminarvi su una strada che vi porterebbe a rovina sicura.(Maurizio Maggiani, “Pertini”, da “Il Secolo XIX” del 25 settembre 2016, articolo ripreso dal sito ufficiale di Maggiani).Sono passati trent’anni e più e Pertini è ancora lì che mi manca. Ho amato quell’uomo come lo hanno amato milioni di suoi concittadini, l’ho amato per le loro stesse ragioni, per le ragioni del suo antipodo Indro Montanelli, “Non è necessario essere socialisti per amare Sandro Pertini. Tutto ciò che egli dice e fa odora di pulizia, di lealtà e di sincerità”. Ma non è questo che me lo fa mancare in modo così struggente, colmo di nostalgia. Mi manca di Sandro Pertini la sua giovinezza. Certo che era vecchio di anni, ma quello anagrafico è stato un particolare di nessuna importanza, ha “preso” il Quirinale che era ancora un ragazzo, a quel tempo lo ero anch’io. Aveva addirittura il portamento della giovinezza, e dietro quei suoi occhialacci aveva il suo sguardo. Aveva della giovinezza la sfacciata sincerità, la sincerità come una sfida, come un gesto di baldanza anche contro l’evidenza, e il candore della malizia proprio come un ragazzo.
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Stampa-Repubblica, pensiero unico in guerra contro di noi
La sinistra comprata all’asta per smantellare i suoi valori e correre fra le braccia del business euro-atlantico. Pensiero unico, ora anche grazie al futuro super-giornale unico, la fabbrica centralizzata di “notizie” che usciranno dal matrimonio tra Fiat e De Benedetti, “Stampa” e “Gruppo Espresso”: con 5,8 milioni di lettori, 2,5 milioni di affezionati utenti del web e 750 milioni di ricavi annuali, «il nuovo colosso potrà assicurarsi il controllo essenziale sulle menti di una decisiva fetta di “decision makers”, assicurandosi inoltre una fetta assolutamente maggioritaria degli afflussi pubblicitari», sostiene Giulietto Chiesa. La posta in palio? Cementare ancora di più il consenso, che è sempre di più «la componente essenziale del grande business di convincere le grandi masse ad essere spennate dal potere». In controluce, si vede «una riformattazione dell’élite dirigente del paese», che archivi in soffitta le frange “superate dagli eventi”, quelle che “si attardano” sulla sovranità nazionale, sugli interessi dell’Italia, e che dunque «non vogliono il conflitto con la Russia».In una nota su “Sputink News”, Chiesa ricorda un recente passaggio dell’ex direttore di “Repubblica”, Ezio Mauro che evoca la “logica della Fiat”, ovvero «perdere quote di sovranità pur di acquisire quella forza e quella superficie che è la miglior difesa del business e del lavoro in tempi di crisi». Dove la “superficie” metaforica di cui si parla «non è solo quella della dimensione di scala italiana, ma è quella dell’Alleanza Atlantica nel suo insieme». Torino e Roma contro Milano e il Nord-est (e anche contro il Sud del paese). «Qui c’è una parte della verità che sta sotto il tappeto. Di cui la vittima cartacea è il povero Corriere della Sera (con la moribonda Rcs abbandonata dalla Fiat, che la lascia nelle mani di Diego della Valle). Ma questi sono dettagli secondari. Come dettagli secondari sono la permanenza dei giornali della destra più o meno berlusconiana, e del solitario “Il Fatto Quotidiano”. Non è con queste forze che si potrà contrastare la marcia trionfale dei corifei unici del pensiero unico».Conclude Chiesa: «Sale in cattedra, con le sue falangi, e con il coro dei canali Rai al completo, la squadra comunicativa che tirerà la voltata di Matteo Renzi per il referendum decisivo che deciderà l’abbandono (se gli riesce, e non è ancora detto) della Costituzione Repubblicana nel corso del 2016». È la stessa squadra che in questi ultimi trent’anni ha in sostanza imposto al paese la «mappa dei valori liberal-democratici» (ancora Ezio Mauro), «stimolando la sinistra a evolversi in questa direzione». Qui, sottolinea Chiesa, “Repubblica” ha giocato il ruolo decisivo, prendendo in mano l’ex Pci «per traghettarlo, armi e bagagli, da sinistra a destra e per mettere i suoi rimasugli, mescolati a quelli della Democrazia Cristiana, nelle mani di Matteo Renzi». Unica “pecca”, di questa parabola, «il non piccolo dettaglio che, lungo la strada discendente, i valori liberaldemocratici sono stati abbandonati da qualche parte sul ciglio. Per essere sostituiti dal business e dalla guerra (che di questo gruppo editoriale nascente sarà senza alcun dubbio la doppia bandiera)».Il maxi-accordo editoriale tra i grandi giornali è perfettamente in linea con la situazione editoriale degli Usa, dove secondo Paul Craig Roberts i maggiori network mediatici della superpotenza sono ormai nelle mani di 5-6 soggetti. Idem, in Italia, il risvolto librario, con l’analogo matrimonio fra Mondadori e Rizzoli, che aumenta l’isolamento (e la debolezza, sul mercato) delle voci indipendenti. In compenso, rilevano diversi analisti, una quota sempre più importante di opinione pubblica ha smesso di fidarsi dei media mainstream, televisivi e cartacei: nessuna persona avveduta e consapevole, secondo lo stesso Craig Roberts, è più disposta a prendere sul serio la narrazione mainstream, preferendo informarsi sui blog. Per Fausto Carotenuto, già operatore strategico dei servizi segreti italiani ora militante nel network “Coscienze in Rete” che produce controinformazione, il super-potere sa di aver perso irrimediabilmente la fiducia del 20-30% della popolazione. Per questo si concentra sulla parte restante, cercando il consenso per la guerra globale in corso: contro i cittadini (perdita di diritti e quote di sovranità) e contro il resto del mondo, devastato da crisi, conflitti e terrorismi pilotati.La sinistra comprata all’asta per smantellare i suoi valori e correre fra le braccia del business euro-atlantico. Pensiero unico, ora anche grazie al futuro super-giornale unico, la fabbrica centralizzata di “notizie” che usciranno dal matrimonio tra Fiat e De Benedetti, “Stampa” e “Gruppo Espresso”: con 5,8 milioni di lettori, 2,5 milioni di affezionati utenti del web e 750 milioni di ricavi annuali, «il nuovo colosso potrà assicurarsi il controllo essenziale sulle menti di una decisiva fetta di “decision makers”, assicurandosi inoltre una fetta assolutamente maggioritaria degli afflussi pubblicitari», sostiene Giulietto Chiesa. La posta in palio? Cementare ancora di più il consenso, che è sempre di più «la componente essenziale del grande business di convincere le grandi masse ad essere spennate dal potere». In controluce, si vede «una riformattazione dell’élite dirigente del paese», che archivi in soffitta le frange “superate dagli eventi”, quelle che “si attardano” sulla sovranità nazionale, sugli interessi dell’Italia, e che dunque «non vogliono il conflitto con la Russia».
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Maggiani: noi ignoranti, prede perfette per banche criminali
E’ mai possibile che alla direzione del sistema bancario italiano possa albergare una, una sola brava persona? Ebbene sì, esiste, esiste perché io lo conosco, conosco un banchiere per bene. Ho sentito dire che anche il ministro Boschi ne conosce uno, che ce l’ha addirittura in casa, e allora fanno già due. Ho chiesto al mio banchiere per bene e mi ha detto che il numero è senz’altro più alto, ne conosce altri quattro o cinque per bene come lui; non mi ha fatto il nome di quello del ministro Boschi, ma immagino che sia stato per una questione di privatezza. Dice che quei quattro o cinque sono tutti piuttosto vecchi come lui, tutti della scuola dei discepoli di Einaudi e Menichella, dice che quelli che sono venuti dopo, i giovanotti, hanno fatto altre scuole, perlopiù istruiti alla disinvoltura, non pochi alla delinquenza bancaria. Dice che questa storia delle “Quattro Banche” è una questione di delinquenti e di Banca d’Italia. Ovvero, ci sono i delinquenti diciamo così “di strada” e poi c’è la Banca d’Italia. La Banca d’Italia ha la facoltà di commettere, diciamo così, degli errori madornali che non ha mai pagato e sa che mai pagherà. Dice che la lobby dei giudici è roba da Ragazzi della via Pal al confronto con quella della Banca d’Italia. Aggiunge che le banche sanno tutto, sempre.Dice che, ad esempio, non hanno bisogno di un giudice per sapere che il signore che vuole aprire un bel conto corrente è un camorrista, e siccome a differenza del giudice non hanno bisogno di prove ma solo di quel che sanno, se il conto glielo aprono è solo perché gli fa piacere lavorare con un camorrista. Dice queste cose con una bella voce da banchiere, meditabonda e dolcemente accentata di un filo di Mezzogiorno, non ha mai rilasciato interviste perché, dice, un banchiere non deve mai mentire e non può sempre dire la verità, dunque è meglio che se ne stia sempre zitto. L’ho ascoltato con rispettoso sgomento, ma il fatto puro e semplice che il sistema bancario sia un’entità che si sostiene su un formidabile potenziale criminogeno e criminale non mi ha terrorizzato. Mi sono fatto prendere dal terrore già qualche anno fa, e ora ne ho a basta. Allora la mia banca, quella che apriva bottega proprio sotto casa, quella dove ci si dava del tu, quella che le impiegate facevano la spesa al tuo stesso banco e gli impiegati giocavano a biliardo nel tuo stesso bar, quella del territorio e della tradizione, quella che figurati se qui ti facciamo degli scherzi da prete; ecco, proprio quella lì ha preso i miei risparmi, quelli che avevo dato in custodia per una oculata e prudente custodia, ci ha fatto un mazzo con quelli di un bel po’ di deficienti come me, e ci si è fatta i suoi porci comodi finché non ne è rimasto che briciole.Come avrò fatto a essere così stupido da fidarmi di una banca che nella sua gloriosa storia aveva da annoverare, a parte i soliti scandali, un presidente che si presentava nelle tivù locali a fare campagna elettorale per il deputato democristiano locale? Ma perché avevo un gran bisogno di fidarmi. Perché come roba di soldi ne ho visti così pochi che non ci ho mai capito niente, un ignorante totale, e gli ignoranti che altro possono fare se non fidarsi? Possono far finta di sapere le cose, e allora è anche peggio. Per noi ignoranti la banca è come il dentista, o il bisagnino, altre due categorie dove il delinquere assume la nobiltà dell’arte. Ci pensi e ci ripensi e poi scegli, e quando hai scelto non ti resta che confidare e affidarti; e i criteri della scelta sono quelli consoni all’ignoranza: il saperci fare, lo sguardo, l’intuito, lo sfinimento, il preventivo, la disposizione della merce, l’odore del locale e del venditore. Cose così, che non sarebbero nemmeno cose da pazzi, criteri infondati, visto che hanno retto per secoli le relazioni commerciali più diffuse senza che la domanda soccombesse all’offerta e ne fosse annientata. Ma se con il bisagnino e il dentista può andare male ma anche bene, e se va male l’uno e l’altro hanno poca speranza di prosperare, per il sistema bancario è schifosamente un’altra storia.Il sistema ha l’opportunità di prosperare nel conflitto di interessi con noi ignoranti, la sua fortuna se la può trovare nella nostra rovina. A quei disgraziati clienti dell’Etruria a voce è stato offerto un investimento a basso rischio, nella carta che gli hanno fatto firmare c’era scritto che si trattava di alto rischio, una minuscola voce maligna annegata in sessanta pagine di modulistica. Sessanta. Chi le ha lette? Nessuno, naturalmente. Del resto perché non fidarsi, non siamo forse davanti a quest’uomo perché ci fidiamo di lui? Quell’uomo non è un criminale, non lui; quell’uomo è un disgraziato che esegue degli ordini e rischia di brutto se non li esegue con zelo, un disgraziato, soprattutto se è giovane, il più delle volte ignorante come noi, visto che è stato addestrato a non sapere le cose. I criminali sono i suoi padroni, i padroni del sistema. I padroni del mondo, in effetti, visto come stanno le cose del mondo.(Maurizio Maggiani, “Banche”, da “Il Secolo XIX” del 13 dicembre 2015).E’ mai possibile che alla direzione del sistema bancario italiano possa albergare una, una sola brava persona? Ebbene sì, esiste, esiste perché io lo conosco, conosco un banchiere per bene. Ho sentito dire che anche il ministro Boschi ne conosce uno, che ce l’ha addirittura in casa, e allora fanno già due. Ho chiesto al mio banchiere per bene e mi ha detto che il numero è senz’altro più alto, ne conosce altri quattro o cinque per bene come lui; non mi ha fatto il nome di quello del ministro Boschi, ma immagino che sia stato per una questione di privatezza. Dice che quei quattro o cinque sono tutti piuttosto vecchi come lui, tutti della scuola dei discepoli di Einaudi e Menichella, dice che quelli che sono venuti dopo, i giovanotti, hanno fatto altre scuole, perlopiù istruiti alla disinvoltura, non pochi alla delinquenza bancaria. Dice che questa storia delle “Quattro Banche” è una questione di delinquenti e di Banca d’Italia. Ovvero, ci sono i delinquenti diciamo così “di strada” e poi c’è la Banca d’Italia. La Banca d’Italia ha la facoltà di commettere, diciamo così, degli errori madornali che non ha mai pagato e sa che mai pagherà. Dice che la lobby dei giudici è roba da Ragazzi della via Pal al confronto con quella della Banca d’Italia. Aggiunge che le banche sanno tutto, sempre.
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Maggiani: rimpiango i piccoli negozi, uccisi dall’avidità
Finiscono un sacco di cose nel tempo della crisi; si estinguono, si dissanguano, si consumano un sacco di cose che avrebbero meritato di esserci, di perdurare, di resistere. Perché la crisi spazza via parecchio dell’inutile e dell’obsoleto, ma anche molto di buono, di utile, di bello. In una minuscola, antica frazione sulla collina del golfo di La Spezia, uno dei non pochi borghi rimasti vivi nonostante i vecchi abbandoni e le recenti speculazioni, un borgo ancora abitato dai vecchi che hanno voluto rimanere e dai giovani che hanno voluto tornare, c’era un piccolo commestibile. Era un presidio importante e amato; gli anziani potevano comprare le cose essenziali senza dover faticosamente scendere in città, i giovani tornavano dal lavoro e lo trovavano aperto alle ore insolite dei loro frettolosi rientri. E siccome la signora che lo gestiva sapeva fare in cucina delle cose molto buone che metteva sul banco, le giovani coppie non sentivano troppo la lontananza dalle vecchie madri cuciniere, e gli operai dei cantieri lungo la strada si godevano confortanti pause del mezzodì, e i girovaghi e i viandanti, tra questi il sottoscritto, se n’erano fatto un prezioso punto di ristoro e soccorso alle crisi ipoglicemiche.Con quel suo minuscolo esercizio la signora che lo gestiva non ci si è davvero arricchita, ma ci sono persone che vivono con piacere anche la semplice condizione di dignitoso sostentamento, appagandosi del necessario e ignorando l’accumulazione. Ora, dicevo, questa piccola, utile e buona cosa non c’è più. Colpa della crisi, ma di un particolare, e singolare, risvolto della crisi. Alla signora del commestibile il titolare della licenza ha chiesto un possente aumento del suo affitto, un aumento che non le permette di sopravvivere. Per inciso, stupidamente e ingenuamente, mi ero fatto l’idea che in questo Paese il commercio fosse attività liberalizzata da anni, così mi pareva per certe leggi di cui ero venuto a conoscenza, salvo constatare che non è così, non per alcuni settori strategici per la conservazione delle vecchie, care rendite di posizione, a ferma tutela del parassitismo nazionale; non solo taxi e farmacie, ma anche, per esempio, commestibili e ristorazione. Comunque, ecco, che il commestibile chiude, e non per questo se ne riapre uno nuovo, perché nessun pazzo è disponibile a farsi strozzare dall’avidità del titolare della licenza che gli dovrebbe consentire di vivere.Non più distante di un paio di chilometri da lì, sta chiudendo, sempre a causa delle pretese del “padrone” della licenza, e in questo caso anche dei muri, una piccola trattoria di collina, presa in gestione, dopo anni di decadenza e abbandono, da un giovane cuoco capace e volenteroso. Che si è rimesso a fare quei tre o quattro piatti della vecchia cucina di cui sentiamo ancora nostalgia, e li fa buoni e sani e alla portata dei più, e solo per questo dovrebbe essere nominato cavaliere del lavoro. Se ne andrà, fine, e al suo posto non ci sarà più niente di buono, perché a quei costi niente di buono può dar da vivere. Ben che vada al goloso proprietario, arriverà un qualche disperato furbastro o un ingenuo incompetente che firmerà un pacco di pagherò che non pagherà, e svanirà nel nulla in una manciata di mesi. Come è già capitato, come continua a succedere in ogni ramo del commercio.Perché se ne contano decine, centinaia di desolanti casi del genere in ogni città, centro storico, periferia e collina, e non si contano più le serrande abbassate e mai più rialzate, le vetrine vuote e le scritte “affittasi” ormai stinte. Come non si contano più i cambi continui di gestione. E c’è qualcosa di raccapricciante in questo. C’è il fatto che in tempo di crisi chi ha la “roba” da ricavarci una rendita di posizione, è preso da una fame di profitto ancor maggiore della sua solita, tipica fame. Una smania di fare ancora più soldi di quanti non ne abbia già fatto, da accecarlo. Sfugge a una qualsivoglia regola dell’accumulo capitalistico il pretendere più di quanto la “roba” valga sul mercato. Sfugge a qualsivoglia ragionevole calcolo preferire nessun reddito a un modesto ma certo reddito. A meno che il calcolo non segua le regole dell’irragionevole, ultra umana avidità che presagisce vacche grasse da mungere e macellare che nessun altro sa immaginare. E a me pare più che un problema sociologico da sottoporre agli economisti, una questione da affrontare nell’ambito della psicoanalisi, là dove getto lo sguardo nello sprofondo delle pulsioni di morte. E vedo in quegli avidi il Mazzarò della novella del Verga che ancora, mi pare, si studia a scuola. Il racconto della “Roba” e di quel tale, Mazzarò, che, dopo una vita dedicata all’accumulo in totale dispregio degli uomini e di Iddio, in punto di morte si mette a distruggere la sua roba urlando a squarciagola: Roba mia vieni con me.(Maurizio Maggiani, “Quei piccoli negozi uccisi dall’avidità”, da “Il Secolo XIX” del 24 giugno 2012).Finiscono un sacco di cose nel tempo della crisi; si estinguono, si dissanguano, si consumano un sacco di cose che avrebbero meritato di esserci, di perdurare, di resistere. Perché la crisi spazza via parecchio dell’inutile e dell’obsoleto, ma anche molto di buono, di utile, di bello. In una minuscola, antica frazione sulla collina del golfo di La Spezia, uno dei non pochi borghi rimasti vivi nonostante i vecchi abbandoni e le recenti speculazioni, un borgo ancora abitato dai vecchi che hanno voluto rimanere e dai giovani che hanno voluto tornare, c’era un piccolo commestibile. Era un presidio importante e amato; gli anziani potevano comprare le cose essenziali senza dover faticosamente scendere in città, i giovani tornavano dal lavoro e lo trovavano aperto alle ore insolite dei loro frettolosi rientri. E siccome la signora che lo gestiva sapeva fare in cucina delle cose molto buone che metteva sul banco, le giovani coppie non sentivano troppo la lontananza dalle vecchie madri cuciniere
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Maggiani: da Craxi a Renzi, i rottamatori della dignità
Non sono andato a votare alle primarie del centrosinistra per non dovermi rassegnare, ancora una volta, a votare per il meno peggio. «Perché nel mazzo c’era da scegliere anche il peggio». E il peggio, «a mio modesto parere, è incarnato nella figura squisitamente allegorica di Matteo Renzi, il Rottamatore». Così lo scrittore Maurizio Maggiani, all’indomani delle consultazioni che hanno coinvolto milioni di elettori. «Il peggio – scrive Maggiani – è la greve allegoria allestita per un tetro carnevale di teste mozzate e biglietti da cento euro sparsi tra la folla», invitata a credere che «non è più questione di destra e sinistra, progressisti e conservatori, ma di vecchie carampane e giovani promettenti», lanciati verso «una felice stagione di destra nella sinistra e di sinistra nella destra». In più, «lo sconcio ed eternamente insaziato appetito di potere dei “vecchi” suscita tale ribrezzo che il primo killer di bella presenza che si fa avanti, ha ottime probabilità di essere assunto per fare il più in fretta possibile il suo sporco lavoro». Proprio come fece, molti anni fa, Bettino Craxi.
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Maggiani: il Tg parla di scippi, mentre la mafia divora l’Italia
Il troppo e troppo stupidamente dimenticato Gian Carlo Fusco, fulgido esempio di uomo di cultura e pugilato, rarissimo esemplare di spezzino che abbia messo il naso fuori dal Golfo senza rimanerne segnato dallo sconforto e dalla depressione, fu chiamato a Milano da Italo Pietra. Il leggendario direttore del “Giorno” lo chiamò per far valere il suo temperamento di pugile, il suo sguardo acuto e la sua bella scrittura come giornalista di inchiesta. Si era all’inizio degli anni ’60, nel cuore del boom economico e di Milano capitale morale, la città era il punto di incontro delle esperienze culturali e artistiche più avanzate d’Europa e incubatrice delle politiche progressiste del Paese. Eppure, eppure… Gatta ci covava, e Fusco fu incaricato di un’inchiesta ai mercati generali, tanto per cominciare, dove forte era il sospetto che qualcosa non andasse.
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Maggiani: eppure gli schiavi di Taranto sono tutti italiani
Quando l’altra mattina ho letto della chiusura degli impianti, dei dirigenti agli arresti e degli operai che manifestavano per avere indietro la “loro” fabbrica e i loro padroni, io me ne stavo seduto sotto un antico ombroso pino davanti a un mare che più azzurro non saprei. Questa primavera ero a Taranto e ho chiesto di vedere l’Ilva, e i quartieri dei suoi operai, e il mare e la campagna intorno, e mi sono fatto un’idea di quanta morte ha generato quella mostruosità, morte di umani e di animali e di terre e di acque e di tutto quanto. Ho visto un luogo di afflizione e sfruttamento, di malattia e distruzione. Ma ho visto anche quanto gli operai fossero orgogliosi del loro lavoro, orgogliosi di guadagnarsi il pane senza doverselo far dare dalla pubblica assistenza nella terra del generale parassitismo.
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Lo show dei media: Torino, diecimila No-Tav e “zero tituli”
“La politica si fa con i titoli”. Credo lo insegnino fin dal primo anno di scuola di giornalismo. Mi dicono che non sono pochi i direttori di testata che sovrintendono personalmente alla titolazione, e – dopo l’avvento della computer-grafica – in qualche giornale locale le figure del direttore/impaginatore/titolista coincidono spesso. Prima che nascesse la rete era difficile al comune cittadino sfuggire all’”orientamento” che veniva imposto attraverso il titolo e faceva un po’ ridere sentir parlare di “separazione dei fatti dalle opinioni” da parte di certi tribuni che usavano le prime pagine come delle mazze da baseball con cui colpire alla nuca i poveri lettori. I quali lettori – frastornati – non proseguivano neanche con la lettura del catenaccio, altro che il testo dell’articolo…
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Scempio Italia, Maggiani: non chiedeteci altri soldi
Io la conosco bene la valle della Magra, da Pontremoli in giù. Chi ci va mai giù lungo il fiume a vedere come è fatto? Io ci vado a vedere la Magra, e lo vedo che cos’è diventata in questi ultimi decenni. È diventata un’unica immensa infinita discarica. Però l’hanno chiamato parco naturale, il parco naturale della Magra. Così io trovo i cartelli del parco ficcati sulle discariche abusive, sugli argini dissolti. Nel Medioevo la Magra andava fuori due volte l’anno, adesso ha ricominciato a uscire due volte l’anno.
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Persino da Putin ci tocca imparare l’orgoglio della dignità
Vorrei raccontarvi di questo fatto curioso ed esotico accaduto nei primi giorni di questa settimana nell’affascinante cornice del concorso Čajkovskij. Ai tempi remoti dell’Unione Sovietica, il concorso Čajkovskij era la massima assise e la più splendente vetrina della cultura musicale dei soviet. A quel tempo in quel disgraziato Paese la cultura musicale classica era ritenuta un’arma micidiale puntata contro l’Occidente; nell’impero del male si contava il più alto tasso mondiale di musicisti di eccellenza; un’arma letale puntata, al pari dei missili atomici, contro il mondo libero. E così come i missili venivano esibiti nell’imponente sfilata sulla piazza Rossa, allo stesso modo i musicisti venivano esibiti sui palcoscenici del concorso Čajkovskij.
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Bluff Fincantieri: tagli evocati solo per piegare gli operai
E’ esplosa la collera dei poveri, avverte la Cei: anche i vescovi in campo, mentre dilaga la protesta dei lavoratori di Fincantieri contro il piano industriale che prevede 2.551 esuberi e la ventilata chiusura di due cantieri. Operai in corteo a Palermo e Ancona, mentre a Castellammare di Stabia la tensione è tale che il sindaco è arrivato a chiedere l’intervento dell’esercito. «Non si può azzerare la cultura della cantieristica ligure», tuonano i sindacati: secondo la Fiom, l’iniziativa di lotta ha ormai coinvolto tutti gli otto cantieri del gruppo. Ma attenti, avverte Fabrizio Tringali su “Megachip”: «Siamo di fronte a un clamoroso bluff: nessuno vuol davvero chiudere cantieri, ma solo costringere gli operai ad accettare peggiori condizioni di lavoro». Come a Mirafiori, sotto le pressioni di Marchionne.
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Tsunami, la grande paura: la Terra non è nostra, ci sfratterà
Ieri ho passato gran parte della giornata a fare quello che hanno fatto altre migliaia di persone in questo Paese e, credo, alcune decine di milioni di altri esseri umani nel mondo: sono rimasto appiccicato al computer per sfogliare le migliaia di pagine sul terremoto e sullo tsunami che hanno devastato il Giappone. Cercando con ossessivo puntiglio le immagini più efficaci, ovvero più tragiche, le più descrittive, ovvero le più orripilanti. In preda, e sono ragionevolmente certo allo stesso modo degli altri milioni di compaesani terresti, a forti e contrastanti sentimenti. Meraviglia, sgomento, pietà, paura. Paura, sopra ogni altra cosa.