Archivio del Tag ‘Incirlik’
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Chossudovsky: terrorismo Usa, mini-atomiche contro l’Iran
Trump ha fatto ammazzare il generale Qasem Soleimani, che aveva cacciato l’Isis prima dall’Iraq e poi dalla Siria. E come c’era arrivato, lo Stato Islamico, in Iraq e in Siria? In carrozza, grazie a Barack Obama. Lo ricorda il professor Michel Chossudowsky, economista canadese e analista geopolitico, direttore del newsmagazine “Global Research”. Nel giugno del 2014, una interminabile processione di pick-up Toyota attraversò 200 chilometri di deserto tra Iraq e Siria, senza che si alzasse in volo un solo jet americano: azzerare la colonna sarebbe stato un gioco da ragazzi. Obama, al contrario, s’inventò la farsa dell’operazione “Responsabilità di proteggere”: una coalizione di 19 paesi, che in tre anni non ha liberato proprio niente. A sgominare l’Isis ha provveduto l’aviazione della Russia, con l’aiuto sul terreno delle forze iraniane del generale Soleimani e gli Hezbollah libanesi in appoggio all’esercito siriano. Che i media occidentali non ne parlino, è motivo di ulteriore vergogna. Ma ormai, ricorda Chossudowsky, tutto il Medio Oriente sa benissimo che sono stati gli Usa e la Nato a creare l’Isis. Per questo Trump scherza col fuoco, mentre l’Iraq intima lo sfratto ai militari americani. E se proprio la Casa Bianca volesse colpire Teheran in modo efficace, secondo Chossudowsky dovrebbe ricorrere alla bomba atomica.Sempre secondo l’analista canadese, peraltro, il Pentagono non è in una posizione ottimale: continua a considerare super-sicura la sua principale base operativa nell’area, quella di Al-Udeid vicino a Doha in Qatar, ignorando che nel frattempo «il Qatar ha normalizzato le sue relazioni con l’Iran, avviando persino una cooperazione militare estesa ad Hezbollah e addirittura ad Hamas». Mentre i bombardamenti e gli attacchi missilistici possono essere lanciati da altre basi in Medio Oriente e da Diego Garcia nell’Oceano Indiano, gli 11.000 soldati più vicini all’Iran sono proprio quelli stanziati in Qatar, cioè in un paese arabo che ha preso le distanze dal terrorisimo sunnita finanziato dall’Occidente, schierandosi apertamente con le forze sciite. Né dovrebbe rassicurare particolarmente il fatto che l’altra grande base della regione, quella di Incirlik, finora strategica in tutte le operazioni a guida Usa-Nato in Medio Oriente, sia sotto il controllo di un partner problematico come la Turchia, che sta trattando l’acquisto con Mosca dei missili anti-missile S-400, che neutralizzano razzi, droni e caccia della Nato. Mentre una guerra contro l’Iran resta sul tavolo del Pentagono, in queste condizioni – secondo “Global Research” – è impensabile una guerra-lampo di tipo convenzionale, con l’impiego simultaneo di forze terrestri e aeronavali.Proprio per questo, aggiunge Chossudowsky, i falchi di Trump pensano ad attacchi missilistici mirati, le cosiddette “operazioni da naso sanguinante”. Tra queste, purtroppo, l’opzione nucleare: cosa che porterebbe inevitabilmente all’escalation “mondiale”, da tutti temuta. Follia? «I pazzi fanno cose pazze», avverte un analista come Edward Curtin, puntando il dito contro gli oligarchi che circondano Trump: il segretario di Stato Mike Pompeo, il consigliere per la sicurezza nazionale Robert O’Brien e lo stesso Brian Hook, rappresentante speciale per l’Iran e consigliere di Pompeo. «Potrebbero “consigliare” al presidente Trump di autorizzare una “operazione da naso sanguinante” contro l’Iran usando armi nucleari tattiche (B61 bunker-buster), che il Pentagono ha classificato come “innocue per i civili perché l’esplosione è sotterranea”. Ma è una bugia, protesta Chossudowsky: «L’arma nucleare tattica ha una capacità esplosiva tra un terzo e 12 volte una bomba di Hiroshima, secondo il “Bulletin of Atomic Scientists”». Proprio le incertezze degli Usa riguardo alla loro supremazia assoluta, sul piano concenzionale, poterebbero spingere i “pazzi” della Casa Bianca a usare le micidiali “bunker-buster”, definite “tattiche”?«Le tensioni tra gli Stati Uniti e l’Iran stanno salendo a spirale verso uno scontro militare che ha una reale possibilità che veda gli Stati Uniti usare armi nucleari», scrive Chossudowsky. «L’assortimento di capacità asimmetriche dell’Iran – tutte costruite per essere efficaci contro gli Stati Uniti – quasi assicura uno scontro del genere. E l’attuale posizione nucleare degli Usa lascia l’amministrazione Trump almeno aperta all’uso di armi nucleari “tattiche” nei teatri convenzionali». Alcuni, nell’attuale amministrazione, potrebbero pensare che la bomba-bunker possa assicurare «una vittoria rapida e decisiva nel centro petrolifero del Golfo Persico». Nel rappoprto del 2029 del “Bulletin of Atomic Scientists”, Hans Kristensen e Matt Korda spiegano che gli Usa dispongono di circa 230 ordigni nucleari tattici. Di queste bombe-bunker, circa 50 sono in Turchia nella base di Incirlik, mentre 180 atomiche “tattiche” sono dislocate nei quattro paesi europei non nucleari: Germania, Belgio, Paesi Bassi e, naturalmente, Italia. Secondo Chossudowsky, il pericolo è reale: «L’uso di armi nucleari “tattiche” non richiede l’autorizzazione del “comandante in capo”, che riguarda esclusivamente le cosiddette armi nucleari strategiche».Trump ha fatto ammazzare il generale Qasem Soleimani, che aveva cacciato l’Isis prima dall’Iraq e poi dalla Siria. E come c’era arrivato, lo Stato Islamico, in Iraq e in Siria? In carrozza, grazie a Barack Obama. Lo ricorda il professor Michel Chossudovsky, economista canadese e analista geopolitico, direttore del newsmagazine “Global Research“. Nel giugno del 2014, una interminabile processione di pick-up Toyota attraversò 200 chilometri di deserto tra Iraq e Siria, senza che si alzasse in volo un solo jet americano: azzerare la colonna sarebbe stato un gioco da ragazzi. Obama, al contrario, s’inventò la farsa dell’operazione “Responsabilità di proteggere”: una coalizione di 19 paesi, che in tre anni non ha liberato proprio niente. A sgominare l’Isis ha provveduto l’aviazione della Russia, con l’aiuto sul terreno delle forze iraniane del generale Soleimani e gli Hezbollah libanesi in appoggio all’esercito siriano. Che i media occidentali non ne parlino, è motivo di ulteriore vergogna. Ma ormai, ricorda Chossudovsky, tutto il Medio Oriente sa benissimo che sono stati gli Usa e la Nato a creare l’Isis. Per questo Trump scherza col fuoco, mentre l’Iraq intima lo sfratto ai militari americani. E se proprio la Casa Bianca volesse colpire Teheran in modo efficace, secondo Chossudovsky dovrebbe ricorrere alla bomba atomica.
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Nucleare-fantasma: bombe in 7 paesi europei, Italia inclusa
Ampiamente documentato: Belgio, Olanda, Germania, Italia e Turchia sono in possesso di armi nucleari che sono dispiegate contro la Russia, l’Iran e altri paesi del Medio Oriente. Lo scrive, su “Global Research”, il professor Michael Chossudovsky, economista dell’università canadese di Ottawa e prezioso osservatore internazionale. Durante i recenti sviluppi, a seguito del fallito colpo di Stato turco del luglio 2016, i media hanno riportato la notizia di armi atomiche, stoccate nella base di Incirlik. La difesa statunitense ha confermato il dispiegamento di 90 cosiddette armi tattiche B61, alcune delle quali sono state poi “decomissionate”. Lo stoccaggio e il dispiegamento delle bombe B61 in questi 5 paesi “non nucleari” ha come obiettivo il Medio Oriente, afferma Chossudovsky. Inoltre, in accordo con il “piano di attacco” predisposto dalla Nato, queste bombe termonucleari (capaci di penetrare e distruggere bunker sotterranei) possono essere lanciate «contro obiettivi come la Russia o nazioni del Medio Oriente, come Iran e Siria», scrive il National Resources Defense Council, nel rapporto “Nuclear Weapons in Europe”.Durante i recenti avvenimenti – scrive sempre Chossudovsky in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte” – la stampa europea, inclusa “Deutsche Welle”, ha confermato il dispiegamento di 50 testate B61 nella base di Incirlik. Ma questo è risaputo moltissimo tempo. «Ci sono voluti 10 anni affinché i media riconoscessero che la Turchia (stato ufficialmente “non nucleare”) possedesse un numero non indifferente di testate nucleari». Le B61 stoccate a Incirlik sono “bombe a gravità” con testate nucleari di una capacità esplosiva di 170 chilotoni, cioè fino a 12 volte la potenza di quella di Hiroshima. «L’accuratezza sul numero esatto di bombe riportate dai media deve essere ancora verificata. Come sappiamo per certo, alcune bombe sono state decommissionate durante gli anni e altre sono state rimpiazzate da una loro versione più recente, tra cui i B61-11. Deve essere sottolineato il fatto che negli ultimi anni il Pentagono ha sviluppato una versione più avanzata del B61, chiamata B61-12, che è in linea per rimpiazzare le versioni vecchie attualmente stoccate in Europa e Turchia. Altre armi nucleari sono in progetto: una testata da un trilione di dollari viene in questo momento contemplata dal Pentagono».Addio al principio di deterrenza, dice Chossudovsky: «Queste cosiddette mini-bombe nucleari esistono per essere usate. Sotto il programma del Pentagono chiamato “Life Extension”, le B61 sono programmate per rimanere operative fino al 2025». Quindi la Turchia è a tutti gli effetti una potenza nucleare non dichiarata? «La risposta è sì, ma ciò si può dire anche di altre quattro nazioni europee: Belgio, Olanda, Germania e Italia, in quanto posseggono bombe B61 dispiegate sotto ordine governativo e aventi come obiettivo la Russia, il Medio Oriente e l’Iran», scrive sempre l’analista canadese. «Lontano dal rendere l’Europa più sicura e meno dipendente da armi nucleari, questo programma rischia di portare più armi nucleari sul suolo europeo e rendere più complicati i tentativi di disarmo multilaterale». Lo ha dichiarato persino l’ex segretario generale della Nato, George Robertson, in una dichiarazione ripresa da “Global Security” già nel 2010. Domande inevitabili: potrebbe l’Italia lanciare un attacco termonucleare? Possono i belgi e olandesi sganciare bombe all’idrogeno su obiettivi nemici? E ancora: può l’aviazione tedesca aver ricevuto un training per effettuare attacchi con bombe 13 volte più potenti di quella di Hiroshima?«Bombe nucleari sono conservate in basi aree in Italia, Belgio, Germania e Olanda», tutti paesi «dotati di forze aeree in grado di usarle», anche secondo “Time Magazine”. Potenze nucleari “fantasma”, accanto alle 5 ufficialmente riconosciute: gli Usa, in Europa la Gran Bretagna e la Francia, quindi la Russia e la Cina. Hanno tutte sottoscritto un trattato di non-proliferazione nucleare. Lo rispettano? Non sembra. Accanto a questi paesi, altre potenze – India e Pakistan, più la Corea del Nord (fuori dal trattato di non-proliferazione) sono state identificate come in possesso di armi nucleari. Tra i “fantasmi”, poi, Chossudovsky annovera anche Israele, «identificato come “Stato nucleare non-dichiarato”». In realtà, scrive il professore, Tel Aviv «produce e dispiega testate nucleari dirette contro obiettivi e militari nel Medio Oriente, inclusa Teheran». Ma, mentre il potenziale iraniano rimane non confermato, quello delle superpotenze atomiche è ben riconosciuto. E gli Usa, aggiunge Chossudovsky, «hanno fornito qualcosa come 480 B61, testate termonucleari», alle nazioni “amiche” e «ufficialmente “non nucleari”».Tra le cinque nazioni nucleari “fantasma”, poi, «la Germania rimane quella in assoluto più nuclearizzata, con tre basi (due delle quali pienamente operative) che potrebbero stoccare fino a 150 testate B61». In accordo con la Nato, queste armi tattiche sono puntate anche in Medio Oriente, scrive Chossudovsky. E la Germania – altra notizia – non è solo un vettore nucleare non dichiarato, ma «produce testate nucleari per la Marina francese». Oltre a ciò, la European Aeronautic Defense and Space Company (Eads) una joint venture franco-ispanico-tedesca controllata dalla Deutsche Aerospace e dal potente gruppo Daimler, «è il secondo più grande produttore di armi europeo, e vende i famosi missili nucleari francesi M51». Tutto questo, naturalmente, con il placet degli Stati Uniti.In altre parole, ignorando le regole dell’Aiea – l’agenzia nucleare delle Nazioni Unite – gli Usa «hanno attivamente contribuito alla proliferazione di armi nucleari». Tant’è vero che «parte integrante dell’arsenale europeo è la Turchia», con le sue 90 testate a Incirlik. Tutto questo – si domanda Chossudovsky – significa che Iran e Russia, potenziali obiettivi di attacco nucleare occidentale, dovrebbero contemplare un “contrattacco nucleare difensivo” contro Belgio, Germania, Olanda, Turchia e Italia? «La risposta è no, neanche ad immaginarlo». Il pericolo viene da una sola parte, la nostra, ribadisce il professore: le potenze nucleari non-dichiarate dell’Europa occidentale hanno continuato per anni a lanciare accuse di vario genere contro Teheran, senza alcuna prova documentata sul “nucleare iraniano”, quando inveve sono loro ad avere la capacità di lanciare un attacco nucleare contro l’Iran. Lo stesso dicasi per le continue minacce nei confronti della Russia di Putin. «Dire che questo è un chiaro esempio di “due pesi e due misure” da parte dell’Aiea e della solita “comunità internazionale” è dire poco».Ampiamente documentato: Belgio, Olanda, Germania, Italia e Turchia sono in possesso di armi nucleari che sono dispiegate contro la Russia, l’Iran e altri paesi del Medio Oriente. Lo scrive, su “Global Research”, il professor Michael Chossudovsky, economista dell’università canadese di Ottawa e prezioso osservatore internazionale. Durante i recenti sviluppi, a seguito del fallito colpo di Stato turco del luglio 2016, i media hanno riportato la notizia di armi atomiche, stoccate nella base di Incirlik. La difesa statunitense ha confermato il dispiegamento di 90 cosiddette armi tattiche B61, alcune delle quali sono state poi “decomissionate”. Lo stoccaggio e il dispiegamento delle bombe B61 in questi 5 paesi “non nucleari” ha come obiettivo il Medio Oriente, afferma Chossudovsky. Inoltre, in accordo con il “piano di attacco” predisposto dalla Nato, queste bombe termonucleari (capaci di penetrare e distruggere bunker sotterranei) possono essere lanciate «contro obiettivi come la Russia o nazioni del Medio Oriente, come Iran e Siria», scrive il National Resources Defense Council, nel rapporto “Nuclear Weapons in Europe”.
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Quel jet russo abbattuto per anticipare il golpe in Turchia
I cieli della Turchia, la notte di venerdì, erano affollati di caccia F-16. I jet si rincorrevano a bassa quota sopra Ankara ed Istanbul illuminandosi reciprocamente con i radar d’attacco, senza però arrivare mai ad aprire il fuoco. E tra i piloti che, nella notte di venerdì, a bordo dei jet F-16, inseguivano ad altissima velocità gli stessi caccia guidati dagli uomini rimasti fedeli al presidente Recep Tayyip Erdogan, c’erano anche i due piloti che il 24 novembre del 2015, al confine tra Siria e Turchia, abbatterono in volo il Su-24 Fencer russo, impegnato nelle operazioni anti-Isis nel nord della Siria, che per 17 secondi violò lo spazio aereo turco. Il quotidiano turco “Hurriyet”, infatti, riferisce che i due piloti coinvolti nell’abbattimento del cacciabombardiere russo, sono coinvolti anche nel golpe fallito contro il presidente Erdogan, e che sono stati posti in custodia cautelare per aver preso parte al tentativo di colpo di Stato.L’abbattimento del velivolo provocò la rottura delle relazioni tra Ankara e Mosca e generò una crisi diplomatica profonda che si è conclusa solo dopo circa otto mesi, nel giugno scorso, quando il Cremlino ha ricevuto le scuse formali per l’abbattimento del jet da parte del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Fino a quel momento, infatti, Ankara aveva sempre rifiutato di assumersi le responsabilità dell’accaduto. Il fatto, però, che i due piloti che obbedirono all’ordine di abbattere il jet russo, figurino ora tra le file dei militari golpisti e oppositori di Erdogan, spinge a ripensare gli eventi del 24 novembre alla luce degli accadimenti dello scorso fine settimana. La spaccatura fra Erdogan ed una parte dei militari, del resto, non è cosa nuova, ma vecchia di almeno dieci anni, e il golpe fallito messo in atto nella giornata di venerdì viene considerato da molti analisti solo l’apice di un processo che va avanti da tempo.C’è quindi chi già pensa che forse, dietro l’abbattimento del caccia di Mosca, impegnato nelle operazioni contro lo Stato Islamico nel nord della Siria, potrebbe non esserci stato un ordine diretto di Erdogan, ma che forse l’iniziativa partì da quegli stessi generali dell’aviazione turca, che risultano, secondo le controverse informazioni a disposizione finora, essere stati alla base dell’organizzazione del tentativo colpo di Stato. «All’epoca dell’incidente fu l’allora premier Ahmet Davutoglu a prendersi la responsabilità di quello che successe e non Erdogan», spiega a “Gli Occhi della Guerra” Alexander Sotnichenko, professore di relazioni internazionali all’Università di San Pietroburgo ed esperto di relazioni russo-turche, «ora Erdogan sta cercando di dimostrare che non fu lui il colpevole di quella vicenda, ma i sostenitori di Gulen».In più, il tentativo di golpe, che avrebbe potuto essere messo in atto in diverse occasioni, ultima quella delle contestate elezioni del 2015, avviene proprio in un momento in cui le relazioni tra Ankara e Washington sono ai minimi storici e mentre è iniziato un percorso di normalizzazione delle relazioni con la Russa. Percorso che ha aperto anche un’ulteriore strada, quella che porta verso una composizione diplomatica della crisi siriana. Le prime tappe di questo percorso sono state la rimozione delle sanzioni, gli incontri al vertice tra i ministri degli esteri dei due paesi e la ripresa del dialogo in diversi settori. Un incontro tra Erdogan e Putin è previsto, inoltre, per la prima settimana di agosto, e secondo alcune indiscrezioni, il bilaterale tra i due leader, che si sarebbe dovuto tenere a settembre, al G20 di Guangzhou, in Cina, sarebbe stato anticipato proprio durante una telefonata tra i due, avvenuta a seguito degli eventi degli ultimi giorni, in cui Mosca si è detta preoccupata della instabilità nell’area, augurando ad Erdogan un «veloce ripristino di un robusto ordine costituzionale e della stabilità».Se le relazioni con la Russia sono tornate buone, quelle tra Washington e Ankara, invece, continuano a precipitare dopo il tentato golpe. La Turchia sta accusando gli Stati Uniti di proteggere l’imam Fethullah Gulen, considerato da Erdogan la mente del golpe fallito in Turchia. Ankara sta chiedendo l’estradizione del dissidente turco che da 15 anni risiede negli Stati Uniti, ma Washington non vuole concederla se non a fronte di prove legali e dell’apertura di un processo formale. Una figura, quella di Gulen, che divide anche gli stessi vertici statunitensi. All’interno dell’amministrazione Obama, svela infatti il “Wall Street Journal”, c’è chi lo considera un settantenne innocuo, e chi ammette che i “gulenisti” abbiano giocato negli ultimi anni, un ruolo di primo piano nel cercare di indebolire l’esecutivo dell’Akp. Proprio Gulen, intanto, da oltreoceano, esclude di avere a che fare con gli esecutori del colpo di Stato e, al contrario, accusa Erdogan di essersi organizzato il golpe da solo, per operare la tanto attesa svolta islamista ed autocratica, dichiarandosi, quindi, sicuro, che la richiesta di estradizione della Turchia agli Usa non andrà a buon fine. Richiesta che Ankara ha inviato nella giornata di martedì.Forse per questo motivo la Turchia continua ad accusare gli Stati Uniti di aver avuto un ruolo, anche se indiretto nel tentativo da parte dei militari di prendere il potere. Il comandante della base aerea di Incirlik, quella messa a disposizione dalla Turchia agli Stati Uniti per i raid contro lo Stato Islamico, il generale Bekir Ercan Van, ed altri dieci militari sono stati arrestati domenica per complicità nel colpo di Stato, e le autorità turche hanno eseguito delle perquisizioni nella base aerea nei pressi del confine siriano per raccogliere prove dell’utilizzo della base da parte dei militari golpisti. I caccia che si sono alzati in volo su Ankara e Istanbul, infatti, si sono riforniti grazie alle 10 cisterne di carburante presenti nel complesso concesso in uso agli americani, che guidano la coalizione internazionale anti-Isis. La Turchia, paese membro della Nato, ha lanciato così una provocazione neanche troppo velata agli alleati di oltreoceano. Provocazione che si era già concretizzata nell’accusa diretta del ministro del lavoro di Ankara, Suleyman Soylu, il quale aveva dichiarato lo scorso 16 luglio che “gli istigatori di questo colpo di stato sono gli Stati Uniti”. Accuse subito definite “false” e “dannose” dal Dipartimento di Stato.(Alessandra Benignetti, “Quel jet russo abbattuto per anticipare il golpe”, da “Il Giornale” del 19 luglio 2016).I cieli della Turchia, la notte di venerdì, erano affollati di caccia F-16. I jet si rincorrevano a bassa quota sopra Ankara ed Istanbul illuminandosi reciprocamente con i radar d’attacco, senza però arrivare mai ad aprire il fuoco. E tra i piloti che, nella notte di venerdì, a bordo dei jet F-16, inseguivano ad altissima velocità gli stessi caccia guidati dagli uomini rimasti fedeli al presidente Recep Tayyip Erdogan, c’erano anche i due piloti che il 24 novembre del 2015, al confine tra Siria e Turchia, abbatterono in volo il Su-24 Fencer russo, impegnato nelle operazioni anti-Isis nel nord della Siria, che per 17 secondi violò lo spazio aereo turco. Il quotidiano turco “Hurriyet”, infatti, riferisce che i due piloti coinvolti nell’abbattimento del cacciabombardiere russo, sono coinvolti anche nel golpe fallito contro il presidente Erdogan, e che sono stati posti in custodia cautelare per aver preso parte al tentativo di colpo di Stato.
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Tutti in guerra, contro l’Isis (anzi, no: contro la Russia)
Fingono, ancora una volta, di contrastare l’Isis. Ma l’unico vero obiettivo da colpire è la Russia. Per questo, il gioco si sta facendo pericoloso. Ne è convinto Maurizio Blondet, secondo cui l’improvviso attivismo militare occidentale in Siria ha il solo scopo di proteggere “Daesh” e i suoi sponsor, cominciando dalla Turchia, e ostacolare l’offensiva di Mosca che ha costretto in ritirata le truppe del Califfo. Di fatto, stiamo andando «alla guerra a passi da gigante», ma si tratta di un «gigante demente», che dopo l’atto di pirateria di Ankara – l’abbattimento del Sukhoi russo – ha deciso di schierare batterie di Patriot al confine tra Turchia e Siria, «come voleva Erdogan (e non aveva finora ottenuto)». Peggio: la Nato vuole inglobare «il microscopico Montenegro (630 mila abitanti)» e lo coinvolge in esercitazioni militari in Ucraina col regime di Kiev, a cui ha già fornito armi letali. Dal canto loro, gli ucraini si offrono di “aiutare la Turchia” con invio di «mais, girasole e petrolio», mentre la Francia si eclissa dietro gli Usa e si prepara a schierarsi con Germania e Gran Bretagna, pronte a effettuare, in Siria, bombardamenti non concertati con Mosca (contro cui Bruxelles, intanto, decide di protrarre le sanzioni).«Cameron – scrive Blondet – ha ottenuto dal suo parlamento il via a “bombardare le basi Isis” in Siria e lo fa senza coordinarsi con i russi. In pratica, un atto di ostilità». E la Ue ha deciso («a porte chiuse, senza consultare i parlamenti per volontà di Angela Merkel»), di prolungare le sanzioni contro Mosca. «Che cosa precisamente la Ue rimproveri alla Russia, non si sa più». Una cosa è evidente: «E’ la Nato a determinare totalmente la politica estera della Ue», commenta “Deutsche Wirtschaft Nachrichten”. Berlino s’impegna per la prima volta a mandare i suoi Tornado a bombardare la Siria, «ormai chiaramente una operazione occidentale per ostacolare la vittoria russa contro l’Isis», anche se dei 93 Tornado che aveva in origine acquistato ne restano operativi solo 29, «aerei vecchi anche di 34 anni, considerati obsoleti». Dei 68 Eurofighter più moderni, continua Blondet, ne restano operativi appena 37. «Però anche Berlino ha annunciato che bombarderà “senza coordinarsi con la Russia”». Conclusione: «La miserabile debolezza con cui gli europei si prestano a queste dementi provocazioni anti-Putin è dimostrata dal fatto che da quando Mosca ha posizionato gli S-400 per contrastare gli aerei turchi, la francese Charles De Gaulle ha smesso di “bombardare l’Isis”».Sono trascorsi almeno otto o nove giorni senza incursioni sulla Siria: senza il permesso di Assad, lo stesso Hollande (che aveva promesso una “risposta spietata” dopo gli attentati di Parigi) non osa rischiare la sua unica portaerei, scrive Blondet. «Per giorni, anzi, la Charles De Gaulle è stata introvabile. Poi si è scoperto che aveva lasciato il Mediterraneo orientale per “rifugiarsi dietro i Patriots Usa in Turchia”». Così Erdogan, «a cui non par vero di trovare ogni giorno più membri della Nato coinvolti nella sua sporca guerra», ha subito consentito ai caccia francesi di andare a “bombardare l’Isis” (e cioè intralciare i russi) dalla base turca di Incirlik. «Insomma tutto l’Occidente, in perfetta malafede, è schierato a dar ragione ad Erdogan e a sostenere di fatto Daesh che cede sotto i colpi russi». Secondo Blondet, il numero delle provocazioni è ormai troppo elevato, per non vedere una volontà precisa. In più, «emerge che quando gli F-16 turchi abbatterono il Sukhoi, erano appoggiati da F-16 americani come deterrente per una rappresaglia russa». Se è vero, «significa che Obama non ha alcuno scrupolo a cominciare un conflitto diretto con Mosca», ha commentato Michael Jabara Carley, docente di politica internazionale alll’Università di Montreal.L’ultima provocazione, per il momento, è forse la più inquietante: «Due sommergibili turchi (Dolunay e Burakreis), scortati dall’incrociatore americano Uss Carney che porta missili balistici Aegis, stanno tallonando la nave da guerra Moskva, armata di missili S-300, al largo di Cipro, in acque internazionali». La cosa è allarmante, sostiene Blondet, perché può essere il preludio alla ritorsione più temuta da Mosca fin dai tempi degli Zar: che la Turchia chiuda alla navigazione russa il Bosforo e i Dardanelli. Il premier turco Davutoglu ha minacciato: «Anche la Russia ha da molto da perdere», da eventuali contro-sanzioni. Se Erdogan chiudesse gli stretti, violerebbe la convenzione internazionale di Montreux, sulla libertà di navigazione, che risale al 1936. In quale sede potrebbe protestare, Mosca? L’Onu? L’Europa? La chiusura degli Stretti renderebbe arduo l’impegno militare russo in Siria. Una trappola pericolosa, secondo Blondet: ricorda le sanzioni con cui Roosevelt lasciò il Giappone con riserve di petrolio per soli 8 mesi, spingendolo in guerra: «E fu l’attesa, auspicata, desideratissima Pearl Harbor».Fingono, ancora una volta, di contrastare l’Isis. Ma l’unico vero obiettivo da colpire è la Russia. Per questo, il gioco si sta facendo pericoloso. Ne è convinto Maurizio Blondet, secondo cui l’improvviso attivismo militare occidentale in Siria ha il solo scopo di proteggere “Daesh” e i suoi sponsor, cominciando dalla Turchia, e ostacolare l’offensiva di Mosca che ha costretto in ritirata le truppe del Califfo. Di fatto, stiamo andando «alla guerra a passi da gigante», ma si tratta di un «gigante demente», che dopo l’atto di pirateria di Ankara – l’abbattimento del Sukhoi russo – ha deciso di schierare batterie di Patriot al confine tra Turchia e Siria, «come voleva Erdogan (e non aveva finora ottenuto)». Peggio: la Nato vuole inglobare «il microscopico Montenegro (630 mila abitanti)» e lo coinvolge in esercitazioni militari in Ucraina col regime di Kiev, a cui ha già fornito armi letali. Dal canto loro, gli ucraini si offrono di “aiutare la Turchia” con invio di «mais, girasole e petrolio», mentre la Francia si eclissa dietro gli Usa e si prepara a schierarsi con Germania e Gran Bretagna, pronte a effettuare, in Siria, bombardamenti non concertati con Mosca (contro cui Bruxelles, intanto, decide di protrarre le sanzioni).
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Siria, la Russia oscura i radar Nato: Pentagono nel panico
L’intervento militare russo in Siria si è trasformato in una manifestazione di potenza che ribalta l’equilibrio strategico mondiale: l’esercito di Mosca ha “accecato” completamente gli Usa e la Nato, impedendo loro di osservare quello che sta accadendo sul terreno. Solo i russi e i siriani hanno la capacità di valutare la situazione sul campo, avverte Thierry Meyssan. Mosca e Damasco intendono sfruttare al massimo il loro vantaggio e quindi mantengono la segretezza delle loro operazioni. Sarebbero già stati uccisi almeno 5.000 jihadisti, fra cui molti capi di Ahrar al-Sham, di Al-Qaeda e dell’Isis, mentre almeno 10.000 mercenari sono fuggiti verso la Turchia, l’Iraq e la Giordania. L’esercito siriano e le milizie libanesi di Hezbollah hanno riconquistato il terreno senza attendere gli annunciati rinforzi iraniani. Il Pentagono è frastornato, «diviso tra coloro che cercano di minimizzare i fatti e di trovare una falla nel sistema russo e quelli che, al contrario, ritengono che gli Stati Uniti abbiano perso la loro superiorità in materia di guerra convenzionale e che avranno bisogno di molti anni per recuperarla».
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Sbriciolare la Siria, con missili Usa e mercenari jihadisti
«Quand’è che un cambio di regime non è un cambio di regime? Quando il regime di turno resta al potere ma perde la sua capacità di governare effettivamente. Ed è questo l’obiettivo della politica estera Usa in Siria, impedire al presidente Bashar Al Assad di governare il paese senza necessità di rimuoverlo fisicamente dall’ incarico». Lo afferma un osservatore internazione come Mike Whitney. «L’idea è semplice: scatenare “jihadisti” appoggiati dietro le quinte per catturare e tenere in scacco vasti territori del paese, in modo che il governo centrale non sia in effettivo controllo del suo paese. E’così che l’amministrazione Obama vorrebbe chiudere l’affare Assad, rendendolo irrilevante». La strategia è spiegata nel dettaglio in uno scritto del Brookings Institute a firma Michael O’Hanlon intitolato: “Decostruire la Siria: una nuova strategia per la più complessa tra le guerre americane”. «L’unico modo realistico di procedere da qui in avanti – afferma O’Hanlon – sarebbe in effetti un piano per decostruire efficacemente la Siria».La comunità internazionale, scrive l’analista Usa, dovrebbe «lavorare a creare sacche» fuori dal controllo di Damasco, per poi «espanderle nel tempo». Letteralmente: «Forze americane, saudite, turche, britanniche, giordane e di altri Stati arabi agirebbero da costante supporto, non soltanto via aria, ma anche mediante l’uso di forze speciali di terra quando necessario», al fianco degli “elementi moderati” sul terreno (“moderati” come quelli che fecero uso di armi chimiche per poi incolpare della strage il regime). «Questo approccio – continua O’Hanlon – consentirebbe di trarre vantaggio dagli ampi spazi aperti desertici siriani che consentirebbero la creazione di zone cuscinetto che si potrebbero tenere sotto costante controllo per riconoscere in tempo ogni possibile segno di attacco nemico». L’obiettivo intermedio, aggiunge lo stratega del Brookings Insitute, sarebbe «una Siria confederale, costituita da varie zone largamente autonome», cioè sottoposte a una forza occidentale «che addestri e equipaggi ulteriori reclute, in modo che le zone possano essere stabilizzate ed eventualmente espanse».«Non è questa la strategia di fondo che vediamo in gioco in Siria già adesso?», si domanda Whitney in un post su “Counterpunch” tradotto da “Come Don Chisciotte”. «E’il caso di notare come O’Hanlon non considera mai neanche un attimo le implicazioni morali di cancellare una nazione sovrana, di uccidere decine di migliaia di civili e di sradicarne altrettanti dalle loro dimore. Questo genere di cose sono semplicemente indifferenti per gli esperti che concepiscono queste strategie imperiali. E’ solo altra farina da macinare». Whitney fa notare inoltre che l’autore dello studio si riferisce a “zone cuscinetto” e “zone sicure”, ovvero «i medesimi termini che sono stati usati ripetutamente nell’ambito dell’accordo Usa-Turchia sull’uso da parte degli americani della base aerea di Incirlik». La Turchia ha chiesto agli Usa di assistere nella creazione di queste “zone sicure” lungo il confine Nord della Siria, in modo che fungano da “santuari” per l’addestramento delle cosiddette forze moderate da impiegare nella “guerra contro l’Isis”. Questo è il piano di O’Hanlon per frammentare lo Stato in milioni di enclaves disconnesse tra loro, «ognuna retta da un manipolo di mercenari armati, affiliati ad Al Qaeda o signori della guerra locali».«Ecco il sogno di Obama di una “Siria liberata”, uno Stato fallito precipatato nell’anarchia con una bella spruzzata di basi americane sopra, così che si potranno arraffare ed estrarne tutte le risorse senza impedimenti», aggiunge Whitney. «Quello che Obama vuole evitare a tutti i costi è un altro imbarazzante flop come l’Iraq, dove la rimozione di Saddam ha lasciato un vuoto di potere e una sensazione di insicurezza che ha portato a violenta e protratta rivolta che è costata cara agli Usa in termini di sangue, finanze e credibilità internazionale». Ecco la strategia oggi è diversa: «Gli obiettivi non sono mai cambiati, cambiano solo i metodi». Il piano, ammete lo stesso O’Hanlon, «non sarebbe diretto soltanto contro l’Isil, ma in parte anche contro Assad, senza mirare a rovesciarlo direttamente, ma piuttosto a negargli ogni possibilità di tornare a governare i territori su cui potrebbe aspirare a riottenere il controllo». Le “zone autonome” sarebbero “liberate” «con l’esplicito intendere che non torneranno mai sotto controllo di Assad o eventuale successore». E attenzione: «Se Assad continuasse a rifiutare di accordarsi per l’esilio, prima o poi si ritroverebbe vicino a costanti minacce al suo potere, se non alla sua persona».Tutto questo, conclude Whitney, significa che «la Siria è designata come laboratorio per la gran strategia per i cambi di regime di O’Hanlon, una strategia nella quale Assad figura come porcellino d’India da esperimenti numero uno». E’ lo stesso O’Hanlon a spiegare che questo piano «scoraggerebbe chi possa pensare che Washington si accontenti di tollerare il governo Assad in quanto male minore». In pratica, per come la vede O’Hanlon, la Casa Bianca dovrebbe «abbandonare la pretesa di stare combattendo l’Isis e ammettere esplicitamente che l’imperativo è “Assad deve sparire”», chiarisce Whitney. Secondo O’Hanlon, «questo aiuterebbe a sistemare le cose con altri membri della coalizione che hanno dubbi rispetto alle reali intenzioni di Washington». L’uomo del Brookings Institute parla chiaro: «Squadre di supporto multilaterali, divise in forze speciali di terra e unità di difesa aerea devono essere sempre pronte al dispiegamento nelle diverse parti della Siria ogni volta che le forze di opposizione riescano a conquistare e mantenere nuove postazioni sicure. Questa chiaramente sarebbe la parte più delicata, e il dispiegare squadroni sarebbe sempre pericoloso. Non bisognerebbe mai ordinare missioni in fretta e furia, ma farlo in maniera ponderata, tuttavia è parte indispensabile dello sforzo».Traduzione di Whitney: «Stivali americani marceranno sul suolo della Siria, possiamo scommetterci. Va benissimo fare il miglior uso della carne da cannone jihadista per condurre la carica e indebolire il nemico, poi al momento giusto basta mandare la prima squadra e si è chiuso l’affare. Questo vuol dire invio di forze speciali, “no fly zone” su tutta la Siria, basi militari sul campo e una bella campagna di propaganda per continuare a convincere la “sheeple” (sheep+people, popolazione gregge) che per difendere la sicurezza nazionale Usa occorre necessariamente distruggere la Siria». Tutto questo, aggiunge Whitney, diventerà chiaro nella “fase due” della guerra, che è sul punto di intensificarsi. Per O’Hanlon, nonostante i rischi, il livello di coinvolgimento militare diretto degli Usa «non sarebbe particolarmente più sostanziale di quello che è stato necessario in Afghanistan durante l’ultimo anno».Per cui, «sarebbe auspicabile che il presidente Obama non guardasse alla questione come un problema da lasciare in eredità al successore, ma piuttosto come una crisi urgente che richiede tutta la sua attenzione e la definizione di una nuova strategia al più presto». Ed ecco dunque il piano per «fare a pezzi la Siria, precipitarla in una crisi umanitaria anche peggiore di quella in cui già si trova e fare crollare Assad senza dover andare in prima persona a rimuoverlo dall’ufficio», scrive Whitney. «Un bel po’ di massacro e distruzione», in un mini-saggio di appena 1.100 parole. «Complimenti all’autore per le doti di sintesi. A noi non resta che domandarci se questi cervelloni stretegici pensano mai a quanto dolore comportano le loro grandi strategie, se gliene freghi almeno qualcosa delle conseguenze». Il piano, peraltro, sembra già in marcia. Subito dopo l’accordo con l’Iran, Obama ha promosso la “no fly zone” sul Kurdistan siriano: prima mossa dell’atroce risiko di cui parla O’Hanlon.«Quand’è che un cambio di regime non è un cambio di regime? Quando il regime di turno resta al potere ma perde la sua capacità di governare effettivamente. Ed è questo l’obiettivo della politica estera Usa in Siria, impedire al presidente Bashar Al Assad di governare il paese senza necessità di rimuoverlo fisicamente dall’ incarico». Lo afferma un osservatore internazione come Mike Whitney. «L’idea è semplice: scatenare “jihadisti” appoggiati dietro le quinte per catturare e tenere in scacco vasti territori del paese, in modo che il governo centrale non sia in effettivo controllo del suo paese. E’così che l’amministrazione Obama vorrebbe chiudere l’affare Assad, rendendolo irrilevante». La strategia è spiegata nel dettaglio in uno scritto del Brookings Institute a firma Michael O’Hanlon intitolato: “Decostruire la Siria: una nuova strategia per la più complessa tra le guerre americane”. «L’unico modo realistico di procedere da qui in avanti – afferma O’Hanlon – sarebbe in effetti un piano per decostruire efficacemente la Siria».