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Dal Lago: voto inutile, partiti immaginari e crisi cronica Ue
I 5 Stelle? Un gruppo di “puri” destinato a fallire. Renzi? La sintesi perfetta di Berlusconi e Grillo. Per Alessandro Dal Lago, filosofo e sociologo, i partiti hanno orientamenti “immaginari”, Berlusconi e Renzi sono perfettamente intercambiabili, i grillini non sono il partito della protesta ma del rifiuto della società e del ritiro nel privato. Intellettuale di sinistra, autore di saggi come “Populismo digitale”, Dal Lago vede nel paese un aumento radicale della diseguaglianza: «Chi resta indietro non avrà speranze». Il voto del 4 marzo?«Ininfluente, perché la riforma elettorale ha introdotto un proporzionale corretto che non permette a nessuna forza di avere il vantaggio che serve per governare». Ci governa l’Unione Europea, «sostenuta da dinamiche economiche di tipo ordoliberista i cui centri decisionali hanno imbrigliato il continente in una serie di vincoli determinati dai trattati». Detto in modo brutale: «Anche se l’Italia avesse rappresentanti massicciamente contrari all’Unione, non potrebbe fare nulla: l’esempio più lampante viene proprio dal Regno Unito, che non sa come uscirne». Pessimismo cosmico: «L’evoluzione di queste dinamiche economico-politiche potrebbe durare anche una trentina d’anni. E potrebbe alimentarsi di una o più crisi di cui non conosciamo la portata».Intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”, Dal Lago vede un’Italia politica che guida a fari spenti nella notte. «In campo ci sono tre grandi soggetti, di cui due in crisi di legittimazione, Pd ed M5S, e il terzo, il centrodestra, già delegittimato 5-6 anni fa, rinato come un’araba fenice ma pronto a dividersi dopo la probabile vittoria». Partiti che «ritraggono orientamenti in larga parte immaginari». Ovvero: «A destra c’è una sorta di Democrazia Cristiana fuori tempo, ma senza essere un partito di massa: Forza Italia, da sempre virtuale, ha avuto in passato il 30 per cento dei voti, oggi è al 17. Si è alleata con un partito ex “catalano”, oggi di destra, e con un partitino di ex fascisti». Poi viene il Pd: «E’ il partito di un uomo solo al comando, che mira a una formazione piccola ma di cui controlla tutte le leve». Infine, il Movimento 5 Stelle: «Un ircocervo né di destra né di sinistra, che fa finta di essere democratico quando è gestito da una società di consulenza aziendale e che oltretutto si sta annacquando giorno dopo giorno».Orientamenti “immaginari”, appunto, «perché il centrosinistra non ha fatto più spesa pubblica e cacciato meno immigrati di quando avrebbe potuto fare il centrodestra al governo. Sono differenze più immaginarie e simboliche che non legate a interessi o politiche materiali». I sondaggisti dicono che l’astensione è intorno al 34% per cento. Un giovane su due potrebbe disertare le urne. Non è una novità: a Ostia (80.000 persone) è andato a votare solo il 33%. «Siamo in una fase di transizione», sostiene Alessandro Dal Lago. «I modelli politici tradizionali sono morti, quelli nuovi ancora non ci sono ma si affacciano nuove dimensioni: la politica non passa più per la televisione e i comizi ma per i social media». Proprio sui social si registra «un distacco crescente dalle azioni e dalle scelte condivise». Vale a dire: «I soggetti interagiscono con l’ambito pubblico rimanendo confinati in una sfera totalmente privata, quella del loro schermo. Fare politica si è ridotto ad assistere alle polemiche su Twitter e Facebook». La politica frana, ovunque: «Negli Stati Uniti c’è un presidente che si vanta di avere il bottone nucleare più grande di quello degli altri. In Francia non c’è più il partito che per quarant’anni si è alternato con la destra alla guida del paese. In tutta Europa crescono i partiti xenofobi. In Italia i giovani del Sud sono destinati a rimanere esclusi o ai margini dei processi produttivi».Si sta scivolando pericolosamente verso un aumento disastroso delle diseguaglianze: «C’è un distacco sempre più netto tra la società digitale post-industriale e quelli che restano indietro, e che non hanno speranze. Un 60enne che faceva l’operaio e perde il lavoro dove va? A lavorare in un call center? Da questo punto di vista il Jobs Act è stato fatto apposta per espellere le persone dal mercato del lavoro. Si dà loro qualche indennità e stop». Processi complicati: troppo, per partiti “immaginari”. «Il centrodestra italiano ha un senso solo nella società degli integrati, di quelli che non vogliono perdere il loro status. Il Pd è ancorato a un sistema di notabilato e di gestione degli interessi radicato in due-tre Regioni, senza le quali non esisterebbe. Il monopolio del voto meridionale da parte del centrodestra non c’è più». Saranno i 5 Stelle a fare il pieno al Sud, ma non sarà un voto di protesta bensì “di distacco”: «Segnala la nuova estraneità al mondo politico. Nelle regioni del Sud gli elettori vedono – a torto – il M5S come l’alternativa elettorale, legale, a una società che non amano, a un sistema di potere che rifiutano».I 5 Stelle? Un gruppo di “puri” destinato a fallire. Renzi? La sintesi perfetta di Berlusconi e Grillo. Per Alessandro Dal Lago, filosofo e sociologo, i partiti hanno orientamenti “immaginari”, Berlusconi e Renzi sono perfettamente intercambiabili, i grillini non sono il partito della protesta ma del rifiuto della società e del ritiro nel privato. Intellettuale di sinistra, autore di saggi come “Populismo digitale”, Dal Lago vede nel paese un aumento radicale della diseguaglianza: «Chi resta indietro non avrà speranze». Il voto del 4 marzo? «Ininfluente, perché la riforma elettorale ha introdotto un proporzionale corretto che non permette a nessuna forza di avere il vantaggio che serve per governare». Ci governa l’Unione Europea, «sostenuta da dinamiche economiche di tipo ordoliberista i cui centri decisionali hanno imbrigliato il continente in una serie di vincoli determinati dai trattati». Detto in modo brutale: «Anche se l’Italia avesse rappresentanti massicciamente contrari all’Unione, non potrebbe fare nulla: l’esempio più lampante viene proprio dal Regno Unito, che non sa come uscirne». Pessimismo cosmico: «L’evoluzione di queste dinamiche economico-politiche potrebbe durare anche una trentina d’anni. E potrebbe alimentarsi di una o più crisi di cui non conosciamo la portata».
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Macron, il gattopardo mannaro spremerà sangue francese
Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi: Emmanuel Macron è il nuovo gattopardo che si aggira per l’Europa, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”. E’ l’ultimo paladino del riformismo europeo, l’uomo della provvidenza. Giovane, rampante, volto pulito e sbarazzino. Ha il merito di aver arginato l’avanzata del “populismo xenofobo”, affermando “l’europeismo” contro il neosovranismo, mandando al settimo cielo personaggi come Angela Merkel, Jean-Claude Juncker e lo statista Angelino Alfano, che twitta: «Brinda la Francia e chi crede nell’Europa, nel libero mercato, nella solidarietà». Piace, Macron, perché è il nuovo che avanza sulle ceneri di un sistema ormai al collasso, tra i socialisti francesi ridotti al livello del Pasok greco e la crisi del gollismo, incapace di arrivare al ballottaggio. Macron si definisce “né di destra né di sinistra”, ma incarna veramente il “nuovo che avanza”? A leggere biografia, programma e dichiarazioni, siamo di fronte ad un caso gattopardesco, insiste Russo Spena: dietro quell’idea di rottura con l’establishment, infatti, si nascondono esattamente gli stessi blocchi di potere e di interessi economici finora perfettamente dominanti.Dopo la prima tornata elettorale, Marta Fana e Lorenzo Zamponi spiegavano su “Internazionale” come il successo di Macron si basasse sulla debolezza del socialista Hamon e del gollista Fillon, e soprattutto sull’ampia visibilità garantitagli dai media, che l’hanno presentato come un argine affidabile contro l’ascesa dei “populisti” di destra e di sinistra: a spaventare i moderati, lo strappo anto-Ue promesso da Le Pen e Mélenchon, che ha messo in allarme soprattutto gli interessi immobiliari di fronte allo spettro di un crollo dei prezzi. Ma Macron non sembra affatto rappresentare un’inversione di rotta nell’Europa dell’austerity, continua Russo Spena: «Ha annunciato, tra le varie misure, di voler tagliare 120mila funzionari pubblici, oltre a proporre una nuova riforma del lavoro». Attenzione: la legge Loi Travail, il Jobs Act francese, già motivo di dure proteste giovanili, «è una sua filiazione politica». E ora il nuovo inquilino dell’Eliseo «è pronto addirittura ad irrigidire alcune norme in materia». Così, la sua svolta graverà «in primo luogo sui lavoratori e sui soggetti sociali più deboli», già in fibrillazione nelle piazze.Secondo un articolo del “Sole24ore”, Macron deciderà di intervenire subito liberalizzando ulteriormente il mercato del lavoro: già a luglio chiederà al Parlamento di votare la legge che consentirà al governo di agire rapidamente con decreti di immediata attuazione su almeno due punti chiave, a rischio di scontrarsi con sindacati e mobilitazioni sociali: il trasferimento di maggiori competenze a livello di categoria e impresa, nonché i tetti alle indennità di licenziamento. Come scrive l’economista Emiliano Brancaccio, «Macron incarna l’estremo tentativo del capitalismo francese di aumentare la competitività, accrescere i profitti e ridurre i debiti per riequilibrare i rapporti di forza con la Germania e stabilizzare il patto tra i due paesi sul quale si basa l’Unione Europea. Al di là degli slogan di facciata, cercherà di sfruttare il crollo dei socialisti e lo spostamento a destra dell’asse della maggioranza parlamentare per promuovere le riforme che gli imprenditori francesi invocano e che, a loro avviso, Hollande ha portato avanti con troppa timidezza».Per dirla con Paolo Barnard: «Il razzismo di Le Pen e ogni altra sua orripilante facciata erano noccioline in confronto al regalo che ci avrebbe fatto la sua vittoria, cioè: fine dell’Ue, dell’Eurozona e dell’economicidio di milioni di famiglie». Veder vincere Marine Le Pen sarebbe stato come «pagare il prezzo del bombardamento di Montecassino per la fine della Germania nazista». Ora abbiamo Macron, che «fa rima col peggio di Wolfgang Schaeuble», ma anche col nome Rothschild, in cui il rampante Emmanuel «fu centrale nella bella fetta di torta (10 miliardi di dollari) che la Nestlé si è pappata dal colosso mondiale dei più potenti e corrotti informatori farmaceutici del mondo, cioè la Pfizer». Peter Brabeck-Letmathe, che era il capo della Nestlé quando rifiutò a Barnard un’intervista per “Report”, «fu un patrigno di Macron mentre ammazzavano qualche milioncino di bambini col loro latte finto, venduto in Africa e in Sud America dicendo alle madri che il latte delle loro tette era infetto». E poi il nome Macron «fa rima con ’sti colossi francesi della sanità privata, roba che la rivoltante UniSalute è una scorreggia in confronto, cioè International Sos, che lavora in 1.000 laboratori-rapina in 90 paesi del mondo estorcendo ad ammalati disperati i risparmi per un’ecografia salvavita».E non è tutto: «Macron prende soldi da Meetic», la piattaforma online per “cuori solitari”, che incassa «una media di 150 milioni di dollari all’anno». E ancora: «Come potevano mancare nell’armadio di Macron nomi come Walter Lippmann, Edward Bernays, Samuel Huntington e Sundar Pichai? Ed ecco che uno dei fratellini di Macron è la Atari Corp., uno dei colossi mondiali della distrazione di massa sul divano, inclusi Casinò Social, e gioco d’azzardo, quelli della “terza ondata di apatizzazione dei popoli”, scritta e studiata a tavolino». Non ha dubbo, Barnard: «Macron è fratellino anche di questi, ’sto tizio descritto dai vostri giornali come “un liberale in economia ma di sinistra sulle questioni sociali”». E questo, spacciato come “il nuovo”, sarebbe il Macron-pensiero: nient’altro che l’ultima puntata del filone lib-lab capeggiato da Tony Blair, quella cosiddetta “terza via” entrata irreversibilmente in crisi. Riciclaggio politico: «L’establishment ha risolto così il modo per sopravvivere al crollo dei partiti tradizionali», dice Russo Spena su “Micromega”. Un circolo vizioso: «Le politiche dei Macron producono, come reazione, le politiche delle Le Pen, per arginare le quali poi i Macron ci chiedono il “voto utile”». Serve un’alternativa vera, perché «il cambiamento non passa per i gattopardi: i Macron non sono la soluzione, ma parte del problema».Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi: Emmanuel Macron è il nuovo gattopardo che si aggira per l’Europa, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”. E’ l’ultimo paladino del riformismo europeo, l’uomo della provvidenza. Giovane, rampante, volto pulito e sbarazzino. Ha il merito di aver arginato l’avanzata del “populismo xenofobo”, affermando “l’europeismo” contro il neosovranismo, mandando al settimo cielo personaggi come Angela Merkel, Jean-Claude Juncker e lo statista Angelino Alfano, che twitta: «Brinda la Francia e chi crede nell’Europa, nel libero mercato, nella solidarietà». Piace, Macron, perché è il nuovo che avanza sulle ceneri di un sistema ormai al collasso, tra i socialisti francesi ridotti al livello del Pasok greco e la crisi del gollismo, incapace di arrivare al ballottaggio. Macron si definisce “né di destra né di sinistra”, ma incarna veramente il “nuovo che avanza”? A leggere biografia, programma e dichiarazioni, siamo di fronte ad un caso gattopardesco, insiste Russo Spena: dietro quell’idea di rottura con l’establishment, infatti, si nascondono esattamente gli stessi blocchi di potere e di interessi economici finora perfettamente dominanti.
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Jobs Act, misero imbroglio fallito: peggior legge di sempre
Il Jobs Act? E’ la peggior legge varata nel dopoguerra, tale da provocare un salto indietro di cinquant’anni. Consiste in una sistematica distruzione dei diritti che assicuravano dignità ai lavoratori italiani. Con la pratica abolizione dell’articolo 18 dello Statuto, i lavoratori sono ormai privi di difesa contro ogni tipo di sopraffazione. Si tratta di un’operazione reazionaria molto articolata. Un attacco scientifico della finanza speculativa. Per ottenere quale risultato? E’ evidente: l’abbassamento del costo del lavoro e la spoliazione dei diritti finalizzati all’umiliazione dei lavoratori. Meno diritti, e anche meno lavoro – e di minor qualità. Il risultato è un fallimento. Il governo Renzi ha pensato di ricorrere a un costosissimo trucco che gli avrebbe consentito poi di propagandare dei risultati: dotare i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato, privi però della garanzia dell’articolo 18, di un incentivo economico davvero poderoso, drogando in questo modo le assunzioni nel periodo subito successivo al Jobs Act, nell’anno 2015. Contratti instabili, senza tutele, che possono essere sciolti con un avviso e un risarcimento. Da qui i licenziamenti cresciuti. Operazione direi criminale, per avere un risultato drogato e limitato nel tempo, con contratti privi di articolo 18.Operazione costosissima: 8.000 euro l’anno per tre anni vuol dire 24.000 euro di decontribuzione a contratto. Si chiama furto di denaro pubblico. Solo che, prima, gli ispettorati Inps vigilavano e controllavano. Ora hanno smesso di farlo. Praticamente abbiamo regalato 10 miliardi agli evasori. Ecco perché sono cresciuti i contratti senza articolo 18. L’unica condizione era che il lavoratore da assumere non avesse già avuto un contratto di lavoro a tempo indeterminato negli ultimi sei mesi precedenti, perché altrimenti tutti sarebbero ricorsi a licenziamenti, immediatamente seguiti dalle assunzioni con l’incentivo. La decontribuzione veniva invece concessa se il lavoratore avesse prima lavorato con contratto precario, perché queste trasformazioni sarebbero state utilizzate dalla propaganda e diventate il fiore all’occhiello del governo Renzi come grande protagonista della lotta al precariato. E i contratti infatti ora diminuiscono. Nel corso del 2015 si sono registrati 1,4 milioni di nuovi rapporti a tempo indeterminato incentivati, ma con quasi 500.000 trasformazioni di contratti a termine e quasi 100.00 di contratti di apprendistato, oltre alle trasformazioni di centinaia di migliaia di “co.co.pro.”, figura giuridica abrogata dal gennaio di quest’anno.Ma c’è dell’altro. Nel 2016, la decontribuzione è stata ridotta per i contratti di quest’ultimo anno da 8.060 a 3.250 e la sua durata decurtata da 36 a 24 mesi. Allora l’imbroglio è stato svelato. L’Inps, infatti, nei primi quattro mesi del 2016 ha accertato una diminuzione del 78% dei contratti a tempo indeterminato, sostituiti da contratti precari e a termine e addirittura voucher, forma di mercificazione inaudita del lavoro umano. Possiamo parlare di bluff, e anche di reato. Le diverse centinaia di migliaia di trasformazioni dei contratti precari nascondevano una circostanza: erano quasi sempre irregolari. Mancava una causale precisa o l’insegnamento, come nell’apprendistato o il progetto, con la conseguenza che, per legge, quei rapporti dovevano essere considerati già tutti a tempo indeterminato fin dal loro inizio. E dunque l’Inps non poteva concedere la decontribuzione legata alla apparente trasformazione nei nuovi contratti a tutele crescenti. La stessa legge 190/2014 vietava di concedere la decontribuzione ai lavoratori che già fossero in realtà a tempo indeterminato nei sei mesi precedenti.Il Jobs Act ha aperto anche la strada ai licenziamenti. E’ diventato un’arma di intimidazione individuale e collettiva. In una fabbrica, i lavoratori dopo aver timbrato l’ingresso volevano indossare i vestiti da lavoro necessari alle condizioni di sicurezza per quella fabbrica e poi cominciare. Il padrone invece pretendeva che la vestizione fosse fatta fuori orario. I lavoratori hanno protestato e il padrone ha licenziato subito il primo di loro che si era rifiutato. Gli altri sono stati così intimiditi. Il licenziato al massimo potrà avere 4 mensilità, e che resti a casa. Queste sono le propagandate tutele crescenti. L’articolo 18 era dunque l’ostacolo da rimuovere, l’architrave da spezzare. Una straordinaria norma anti-ricatto, che consentiva il godimento di altri diritti. Era un diritto-architrave, appunto. Oggi abbiamo lavoratori sotto il regime Fornero e altri con il contratto a tutele crescenti. Un balzo enorme indietro, un peggioramento enorme della disciplina del lavoro.Certamente i lavoratori hanno subìto un insulto, ma si possono riprendere tutele e diritti. Con i referendum della Cgil. Che, se passassero, cancellerebbero le tutele crescenti e abolirebbero i voucher, reintroducendo i limiti di responsabilità nella catena degli appalti. Dobbiamo sfruttrare questa occasione e farne un uso positivo per eliminare l’inferno che si è creato in Italia: via articolo 18, contratti a termine senza causale, licenziamenti e voucher. Peggio di così… Il sistema dei nuovi ammortizzatori? Sono un netto peggioramento. Abolita l’indennità di mobilità, abolite molte causali della cassa integrazione e ridotte le altre. Ora c’è il modello americano, della fabbrica a fisarmonica: licenzio e assumo, lavoratori come stracci. La tanto decantata Naspi è esattamente il contrario di ciò che deve essere la sicurezza sociale, basata com’è sul presupposto assicurativo. Perché penalizza chi ha lavorato poco. La Naspi è ridicola. Questo chiude il cerchio: abbiamo la sottrazione di tutele nel posto di lavoro, non c’è cassa integrazione e mobilità, la Naspi penalizza. Vogliono i lavoratori come cagnolini fedeli ai datori di lavoro.(Piergiovanni Alleva, dichiarazioni rilasciate a Vindice Lecis per l’intervista “Ecco perché il colossale e costoso flop del Jobs Act”, pubblicata su “Fuoripagina” il 21 novembre 2016. Il professor Alleva è uno dei più importanti giuslavoristi italiani: ha insegnato diritto del lavoro nelle università di Bologna e Ancona).Il Jobs Act? E’ la peggior legge varata nel dopoguerra, tale da provocare un salto indietro di cinquant’anni. Consiste in una sistematica distruzione dei diritti che assicuravano dignità ai lavoratori italiani. Con la pratica abolizione dell’articolo 18 dello Statuto, i lavoratori sono ormai privi di difesa contro ogni tipo di sopraffazione. Si tratta di un’operazione reazionaria molto articolata. Un attacco scientifico della finanza speculativa. Per ottenere quale risultato? E’ evidente: l’abbassamento del costo del lavoro e la spoliazione dei diritti finalizzati all’umiliazione dei lavoratori. Meno diritti, e anche meno lavoro – e di minor qualità. Il risultato è un fallimento. Il governo Renzi ha pensato di ricorrere a un costosissimo trucco che gli avrebbe consentito poi di propagandare dei risultati: dotare i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato, privi però della garanzia dell’articolo 18, di un incentivo economico davvero poderoso, drogando in questo modo le assunzioni nel periodo subito successivo al Jobs Act, nell’anno 2015. Contratti instabili, senza tutele, che possono essere sciolti con un avviso e un risarcimento. Da qui i licenziamenti cresciuti. Operazione direi criminale, per avere un risultato drogato e limitato nel tempo, con contratti privi di articolo 18.
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Il No non salva l’Italia? Vero, ma il Sì la peggiora (e molto)
Il voto del 4 dicembre si riduce a un referendum contro Renzi? Ovvio: è stato proprio lui a personalizzare la sfida. E inoltre: la riforma che propone finisce per allontanare ulteriormente il potere dai cittadini. Tutto questo, senza ancora una legge elettorale. Nel caso venisse varato l’Italicum, chi vince si prende tutto. E, con il Sì al referendum, non sarà più ostacolato né dal Senato né dalle Regioni, cui saranno state sottratte molte competenze. Il “fronte del No” spiega così la sua mobilitazione: una sola Camera eletta dai cittadini, l’altra no. E meno voti necessari a eleggere il presidente della Repubblica. Più voti, invece, saranno indispensabili per poter proporre una legge di iniziativa popolare. Inoltre: il governo avrà più poteri, oggi affidati alle Regioni, e le Province saranno definitivamente abolite. A ciò si aggiunge la cancellazione del Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, un ente statale che può proporre iniziative legislative in materia di economia e lavoro, fornendo pareri non vincolanti e solo su richiesta delle istituzioni: Renzi lo presenta come un carrozzone da rottamare.Molte critiche si addensano alla vigilia: Renzi accusa gli oppositori di restare aggrappati a vecchi privilegi di casta, mentre da sinistra a destra di accusa il premier di voler piegare la Costituzione a fini autocratici. Molte voci, poi, considerano la sfida semplicemente inutile e solo retorica, dal momento che la Costituzione è largamente superata dalla legislazione Ue, che ha già ampiamente svuotato nella sostanza la sovranità democratica italiana, col pieno consenso anche degli attuali oppositori di Renzi. Nulla cambierà davvero, in ogni caso, sostengono in molti, perché il vero potere non risiede più a Roma. Per contro, ribattono altri, è proprio il vero potere ad aver imposto a Renzi questa drastica semplificazione istituzionale, che centralizza le grandi decisioni “suggerite” dall’élite finanziaria. Di fatto, quindi, il Sì consegnerebbe alla politica un’Italia ancora più docile e manipolabile dal demiurgo di turno, “l’uomo solo al comando”. Questo, insieme all’ostilità verso Renzi, sembra spingere larghi strati dell’opinione pubblica a scegliere il No, che – stando agli ultimi sondaggi – sarebbe in vantaggio sul Sì di almeno 5 punti.Se vincesse il Sì, alle elezioni politiche si voterebbe solo per la Camera, la sola autorizzata a votare la fiducia al governo. Il nuovo Senato, composto di 100 membri (95 scelti dalle Regioni, tra cui 21 sindaci, e 5 dal presidente della Repubblica) potrebbe pronunciarsi solo sulle leggi costituzionali, quelle che riguardano minoranze linguistiche, i referendum, i trattati Ue, gli enti territoriali. Non è prevista indennità aggiuntiva per i neo-senatori (non avrebbero doppio stipendio), ma resterebbe l’immunità parlamentare. Scomparirebbe anche il limite di età per essere eletti: si potrebbe avere anche meno di 40 anni. Se vincesse il Sì, poi, il capo dello Stato verrebbe eletto solo da deputati e senatori, senza più i 59 delegati regionali. Nelle prime tre votazioni, servirebbero ancora i 2/3 degli aventi diritto, cioè circa 500 elettori; dal 4° al 6° scrutinio basterebbero invece i 3/5 degli aventi diritto (circa 440 elettori); dal 7° in poi, la maggioranza dei 3/5 dei votanti (cioè quelli che presenti in aula e votanti). Il presidente della Repubblica potrebbe sciogliere solo la Camera e non più il Senato. E sarebbe il presidente della Camera (non più quello del Senato) a fare le veci del Quirinale durante l’assenza del Capo dello Stato.Più poteri, inoltre, verrebbero conferiti al governo: nella Costituzione sarebbe inserita una “via preferenziale”, ossia il “voto a data certa”, per consentire all’esecutivo di accelerare l’iter di approvazione di leggi ritenute importanti. Palazzo Chigi potrebbe chiedere alla Camera di inserire un testo tra le priorità, per arrivare al voto definitivo in 70 giorni al massimo, ma starebbe alla Camera accogliere o meno questo iter. Per proporre le leggi di iniziativa popolare, poi, occorrerebbero 150.000 firme, mentre oggi ne bastano 50.000; in compenso, la Camera dovrebbe prounciarsi su ogni legge proposta dai cittadini. Quanto all’abolizione definitiva delle Province – oggi ancora esistenti ma non più elettive, come il futuro Senato previsto dal Sì – il governo propone la loro cancellazione completa (se vince il No, invece, le Province mantengono la loro struttura). Infine, il risidegno delle competenze delle Regioni: tornerebbero di esclusivo appannaggio statale materie come energia, trasporti e infrastrutture strategiche, sicurezza sul lavoro, protezione civile e ricerca scientifica. Alle Regioni resterebbero sanità, politiche sociali, scuola e sicurezza alimentare, ma lo Stato potrebbe intervenire anche su queste materie esercitando una “clausola di supremazia”, scavalcando le Regioni.Mentre il governo Renzi presenta questo pacchetto di riforme come una sorta di snellimento della struttura burocratica statale, il “fronte del No” lo smonta pezzo a pezzo: il bicameralismo resterebbe, con possibili conflitti di competenze, e il costo del Senato sarebbe ridotto solo di un quinto. Chiedere il triplo delle firme per una legge di iniziativa popolare? Significa ostacolare i cittadini. Un accentramento di potere che emerge in modo ancora più netto con l’abolizione delle materie condivise tra Stato e Regioni: è facile prevedere che aumenteranno ricorsi e contenziosi, mentre il livello decisionale – sempre più centralizzato – si allontanerà ulteriormente dai cittadini. Tutto questo, senza neppure sfiorare il problema della legge elettorale, ancora assente: secondo Massimo Fini, si sarebbero dovute invertire le due questioni. E cioè: prima varare una legge elettorale, e poi, semmai, pensare alla Costituzione. «Almeno, sapremmo qual è la consistenza dei partiti che a questa Costituzione dovrebbero poi porre mano». La partita è in mano a sigle come Ncd, Ala e Udc, e non conosciamo neppure la reale consistenza delle due principali formazioni, Pd e 5 Stelle. «Elezioni subito, questa è la questione. Tutto il resto è fuffa». Massimo Fini si dichiara «un astensionista, convinto a votare No» proprio dalla pessima qualità dei fautori del Sì.Il voto del 4 dicembre si riduce a un referendum contro Renzi? Ovvio: è stato proprio lui a personalizzare la sfida. E inoltre: la riforma che propone finisce per allontanare ulteriormente il potere dai cittadini. Tutto questo, senza ancora una legge elettorale. Nel caso venisse varato l’Italicum, chi vince si prende tutto. E, con il Sì al referendum, non sarà più ostacolato né dal Senato né dalle Regioni, cui saranno state sottratte molte competenze. Il “fronte del No” spiega così la sua mobilitazione: una sola Camera eletta dai cittadini, l’altra no. E meno voti necessari a eleggere il presidente della Repubblica. Più voti, invece, saranno indispensabili per poter proporre una legge di iniziativa popolare. Inoltre: il governo avrà più poteri, oggi affidati alle Regioni, e le Province saranno definitivamente abolite. A ciò si aggiunge la cancellazione del Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, un ente statale che può proporre iniziative legislative in materia di economia e lavoro, fornendo pareri non vincolanti e solo su richiesta delle istituzioni: Renzi lo presenta come un carrozzone da rottamare.
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Referendum, Renzi e Jp Morgan ci cedono alle multinazionali
Ridurre i costi della politica e accelerare i tempi di decisione. Sono i due obiettivi agitati da Renzi in vista del referendum sulla “rottamazione” della Costituzione, ma in realtà – ricorda Guglielmo Forges Davanzati – sono la traduzione perfetta dei diktat enunciati nel 2013 da un colosso finanziario come la Jp Morgan, che condanna l’impronta ancora “socialista” della nostra Carta, laddove lascia allo Stato anche funzioni di programmazione economica. Da Renzi, solo propaganda. Tagliare i costi della politica? «Non si capisce per quale ragione non farlo – in modo estremamente più semplice – attraverso l’attuazione delle numerosissime proposte di riduzione degli stipendi e degli emolumenti di chi ci rappresenta». I futuri senatori non saranno più pagati in qualità di membri del Senato? Vero, però «le medesime indennità le percepiranno dalle istituzioni da cui sono espressi». Costi, peraltro, «assolutamente marginali rispetto ai costi che i cittadini italiani (in particolare, i lavoratori dipendenti e le piccole imprese) sostengono per una tassazione che serve solo in misura marginale a pagare il ceto politico».L’attuale super-tassazione, continua Davanzati in una riflessione su “Micromega”, «serve semmai a generare avanzi di bilancio», prescritti dall’euro-politica Ue (pareggio di bilancio) che, di questo passo, “amazza” lo Stato impedendogli di investire e, di conseguenza, stronca l’economia privata, aziende e famiglie. Tuttavia, nel confronto con la media europea, «ci troviamo di fronte al paradosso per il quale siamo maggiormente tassati per pagare più di altri una classe politica che, nella sua espressione governativa, ci somministra dosi di austerità fiscale (riduzioni di spesa combinate con aumenti della pressione fiscale) superiori a quanto accade altrove», scrive Davanzati. Quanto al secondo argomento sventolato da Renzi – la rapidità decisionale («apparentemente inoppugnabile: chi vorrebbe maggiore lentezza delle decisioni?») è quello più rilevante, «giacché attiene ai rapporti fra dimensione economica e sfera delle decisioni politiche». La Costituzione che si intende ridisegnare è «finalizzata a rendere l’economia italiana più attrattiva per gli investitori esteri», in coerenza con la logica della globalizzazione, che però «è in radicale contrasto con la tutela dei diritti, in particolare dei diritti sociali».Ecco dunque «la base teorica della riforma che si intende attuare: il passaggio, niente affatto neutrale, da un modello costituzionale pensato per la tutela dei diritti sociali, attraverso un incisivo intervento pubblico in economia, a un modello costituzionale pensato in una logica di perseguimento di obiettivi di efficienza economica, da perseguire mediante il minimo intervento pubblico in economia (si pensi, a riguardo, alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio)». Governabilità ed efficienza? «Non è affatto scontato che una maggiore rapidità dei tempi della decisione politica implichi un aumento dell’efficienza di sistema, obietta Forges Davanzati. «In altri termini, appare discutibile l’idea che, se anche il superamento di una Costituzione basata sulla tutela di diritti sociali si renda necessario per garantire la ‘governabilità’, quest’ultima produca benessere per tutti». Anche perché il decisore politico sarebbe facilmente “catturato” da gruppi di interesse, interessati al proprio business e non al benessere della comunità nazionale.Attenzione: «Esiste un’ampia letteratura economica che mostra come un fondamentale presupposto per la crescita risieda esattamente nella tutela dei diritti sociali e, a questi connessi, a una più equa distribuzione del reddito». Certo, si tratta di una letteratura «marginalizzata dal pensiero dominante e palesemente non funzionale all’attuale modello di sviluppo, basato semmai su crescenti diseguaglianze distributive e su quella che Luciano Gallino, nei suoi ultimi scritti, definiva la ‘lotta di classe dall’alto’». In questo senso, conclude Davanzati, il referendum di ottobre ha una notevole implicazione economica, visto che «pone in evidenza il fondamentale discrimine fra una visione della carta costituzionale come strumento di tutela delle fasce deboli della popolazione e una visione della stessa come dispositivo finalizzato alla governabilità per l’efficienza, laddove quest’ultima passa attraverso il superamento del modello di democrazia economica delineato nella Costituzione attualmente vigente».Ridurre i costi della politica e accelerare i tempi di decisione. Sono i due obiettivi agitati da Renzi in vista del referendum sulla “rottamazione” della Costituzione, ma in realtà – ricorda Guglielmo Forges Davanzati – sono la traduzione perfetta dei diktat enunciati nel 2013 da un colosso finanziario come la Jp Morgan, che condanna l’impronta ancora “socialista” della nostra Carta, laddove lascia allo Stato anche funzioni di programmazione economica. Da Renzi, solo propaganda. Tagliare i costi della politica? «Non si capisce per quale ragione non farlo – in modo estremamente più semplice – attraverso l’attuazione delle numerosissime proposte di riduzione degli stipendi e degli emolumenti di chi ci rappresenta». I futuri senatori non saranno più pagati in qualità di membri del Senato? Vero, però «le medesime indennità le percepiranno dalle istituzioni da cui sono espressi». Costi, peraltro, «assolutamente marginali rispetto ai costi che i cittadini italiani (in particolare, i lavoratori dipendenti e le piccole imprese) sostengono per una tassazione che serve solo in misura marginale a pagare il ceto politico».
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Lavoratori sotto minaccia, eccoci nel fascismo aziendale
Il quotidiano “Il Sole 24 Ore” anticipa i contenuti del decreto sul demansionamento, che il governo si prepara a varare. «Non è una notizia – afferma Giorgio Cremaschi – perché è oramai scontato che gli esperti ministeriali di Renzi e Poletti operino sotto la dettatura dei tecnici della Confindustria», il cui quotidiano «ci comunica la gioia delle imprese e dei loro uffici legali per il fatto di poter finalmente fare tutto ciò che era proibito dall’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori, senza dover incorrere in costose e spesso perdenti azioni legali». Un regalo ai profitti d’impresa, ai danni dei diritti e del salario dei lavoratori. Di fatto, «una sanatoria per tutti gli abusi ai danni della professionalità delle persone», e cioè «la licenza di mobbizzare e ricattare». Questa, per Cremaschi, «l’infamia di un provvedimento che realizza un altro sogno della Confindustria e produrrà incubi per chi deve subire il potere dell’impresa», amche perché ora «si potrà degradare il lavoratore per ragioni tecniche e organizzative, cioè quando al padrone serve».In teoria, scrive Cremaschi su “Micromega”, il salario dovrebbe rimanere lo stesso, ma senza le indennità. E un operaio montatore che fa i turni o va in trasferta potrà essere degradato a facchino nei magazzini e si vedrà ridotta la paga del 30%. I lavoratori licenziati per ragioni economiche? Potranno conciliare con l’azienda se accettano di riprendere a lavorare a mansione inferiore. «Questo è proprio il corollario che mancava al contratto senza articolo 18. Una misura che farà risparmiare alle imprese sull’indennità di licenziamento, rispondendo chiaramente ad un calcolo preciso degli uffici studi confindustriali». Come si sa, aggiunge Cremaschi, gli incentivi di 8.000 euro all’anno – che sono alla base delle assunzioni, secondo il Jobs Act – presto finiranno. «A quel punto le imprese si troveranno lavoratori licenziabili sì, ma pagando una indennità. Se però quei lavoratori verranno licenziati e poi riassunti con il demansionamento, l’indennità la pagherà il lavoratore con la qualifica più bassa, e per l’impresa sarà come se gli incentivi continuassero».Infine, conclude Cremaschi, se il padrone può degradare quando vuole, il lavoratore non può rivendicare la promozione. Con l’articolo 13 dello Statuto, se si operava per 3 mesi in mansioni superiori si aveva diritto alla qualifica corrispondente. Con il demansionamento, invece, bisognerà aspettare il doppio del tempo, salvo accordi peggiorativi nei contratti. «Insomma, dopo il diritto alla tutela contro il licenziamento ingiusto salta anche quello alla qualifica, e in ogni azienda le direzioni potranno fare di tutto ai propri sottoposti. E questo è il risultato più importante per i padroni: la licenza di mobbing. Le minacce di licenziamento o degradazione in molti caso saranno sufficienti per imporre di lavorare di più e peggio senza chiedere nulla. Il sadismo di certi capi e capetti avrà piena possibilità di dispiegarsi». Inutile girarci attorno: «Quando si dice che quello di Renzi e del suo sponsor Marchionne è fascismo, per ora aziendale, non si esagera: si descrive semplicemente quello che si sta giuridicamente realizzando misura dopo misura con il Jobs Act».Il quotidiano “Il Sole 24 Ore” anticipa i contenuti del decreto sul demansionamento, che il governo si prepara a varare. «Non è una notizia – afferma Giorgio Cremaschi – perché è oramai scontato che gli esperti ministeriali di Renzi e Poletti operino sotto la dettatura dei tecnici della Confindustria», il cui quotidiano «ci comunica la gioia delle imprese e dei loro uffici legali per il fatto di poter finalmente fare tutto ciò che era proibito dall’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori, senza dover incorrere in costose e spesso perdenti azioni legali». Un regalo ai profitti d’impresa, ai danni dei diritti e del salario dei lavoratori. Di fatto, «una sanatoria per tutti gli abusi ai danni della professionalità delle persone», e cioè «la licenza di mobbizzare e ricattare». Questa, per Cremaschi, «l’infamia di un provvedimento che realizza un altro sogno della Confindustria e produrrà incubi per chi deve subire il potere dell’impresa», amche perché ora «si potrà degradare il lavoratore per ragioni tecniche e organizzative, cioè quando al padrone serve».
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Troppi dipendenti pubblici? E’ una leggenda metropolitana
I dipendenti pubblici italiani? Sfaticati e inefficienti. Ma soprattutto: troppi. Quella dell’ipertrofia del pubblico impiego è una delle più tenaci leggende metropolitane sul sistema italiano. Resiste a ogni stagione politica, nonostante le evidenze che la smentiscono. Impietosi i dati forniti dall’Eurispes, che risalgono all’autunno 2014: insieme alla sola Germania, l’Italia è il paese europeo con il minor numero di dipendenti pubblici, in proporzione agli abitanti. Si calcola che bisognerebbe assumerne almeno 200.000, e subito, tra Comuni, scuole, ospedali. Ma i vari governi non sono mai di questo avviso: preferiscono tagliare, lasciando ovviamente inalterate le super-retribuzioni dei massimi dirigenti, cinghia di trasmissione dell’élite che da decenni continua a smantellare la struttura pubblica e la sua capacità di erogare servizi vitali per il cittadino. Ovvia, quindi, la scure di Renzi, che dietro al verbo “sburocratizzare” nasconde la volontà di colpire i lavoratori per tagliare ulteriormente il settore, già oggi tra i più “magri” d’Europa, con appena 58 impiegati ogni mille abitanti, contro i i 94 della Francia, i 92 del Regno Unito e i 65 della Spagna.Pura fantascienza, in Svezia, i 135 lavoratori pubblici ogni mille abitanti. Ci batte solo la “risparmiosa” Germania: il paese europeo che più di ogni altro ha compresso i salari e danneggiato i lavoratori annovera 54 dipendenti statali ogni mille cittadini, 4 meno dell’Italia. Secondo l’Eurispes, negli ultimi dieci anni il nostro paese ha visto diminuire i propri dipendenti pubblici del 4,7%, mentre tutti gli altri partner europei hanno assunto forza lavoro nel pubblico impiego: un incremento del 36,1% in Irlanda, del 29,6% in Spagna, del 12,8% in Belgio e del 9,5% nel Regno Unito. In Italia, gli stipendi del pubblico impiego pesano sul bilancio statale per l’equivalente dell’11,1% del Pil. Anche qui siamo il fanalino di coda: per i dipendenti pubblici la Danimarca spende il 19,2% del suo Pil, la Svezia e la Finlandia il 14,4% mentre Francia, Belgio e Spagna spendono, rispettivamente, il 13,4%, il 12,6% e l’11,9% del loro prodotto interno lordo. Altra bufala storica: la concentrazione del pubblico impiego al Sud: con 409.000 addetti, la Lombardia batte persino il Lazio, nonostante la selva di uffici della capitale. Segue la Campania, ma dopo Milano e Roma.Quanto alla vita quotidiana dietro agli sportelli, sono dolori: l’età media dei dipendenti pubblici è in costante crescita, per colpa del blocco del turnover e dell’aumento dell’età pensionabile. In Francia, circa il 30% dei lavoratori pubblici ha meno di 35 anni, nel Regno Unito gli “under 35” sono il 25% (uno su quattro) mentre in Italia solo il 10%. La percentuale di addetti sotto i 25 anni, inoltre, è pari all’1,3%: una miseria, rileva “Lettera 43”, nonché il segno che il rapporto fra le università e la pubblica amministrazione è tutt’altro che lineare. Roberto Perotti, economista della Bocconi, confronta i nostri stipendi pubblici con quelli del Regno Unito: «Le remunerazioni medie degli insegnanti sono più basse in Italia, sia in termini assoluti che in rapporto al Pil pro capite». Nel nostro paese lo stipendio di un docente delle scuole elementari, incluse le indennità e le spese accessorie, è di 24.849 euro contro i 37.400 (in media) degli inglesi. Idem per gli insegnanti delle superiori: 28.547 euro, contro i 41.930 euro dei britannici. In compenso, nei ministeri, un nostro capo di gabinetto guadagna 275.000 euro l’anno contro i 192.000 del collega inglese, una differenza del 43%. E’ la casta, bellezza: quella che serve ad affondare il sistema, sabotando la “concorrenza” pubblica che tanto infastidisce l’élite privatizzatrice.I dipendenti pubblici italiani? Sfaticati e inefficienti. Ma soprattutto: troppi. Quella dell’ipertrofia del pubblico impiego è una delle più tenaci leggende metropolitane sul sistema italiano. Resiste a ogni stagione politica, nonostante le evidenze che la smentiscono. Impietosi i dati forniti dall’Eurispes, che risalgono all’autunno 2014: insieme alla sola Germania, l’Italia è il paese europeo con il minor numero di dipendenti pubblici, in proporzione agli abitanti. Si calcola che bisognerebbe assumerne almeno 200.000, e subito, tra Comuni, scuole, ospedali. Ma i vari governi non sono mai di questo avviso: preferiscono tagliare, lasciando ovviamente inalterate le super-retribuzioni dei massimi dirigenti, cinghia di trasmissione dell’élite che da decenni continua a smantellare la struttura pubblica e la sua capacità di erogare servizi vitali per il cittadino. Ovvia, quindi, la scure di Renzi, che dietro al verbo “sburocratizzare” nasconde la volontà di colpire i lavoratori per tagliare ulteriormente il settore, già oggi tra i più “magri” d’Europa, con appena 58 impiegati ogni mille abitanti, contro i i 94 della Francia, i 92 del Regno Unito e i 65 della Spagna.
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L’euro sarà la vostra tomba, parola di Godley (era il 1992)
Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?Dato che il trattato non propone nessuna nuova istituzione oltre alla banca europea, i suoi sponsor devono supporre che non sia necessario nient’altro. Ma questo potrebbe essere corretto solo se le economie moderne fossero dei sistemi che si auto-regolano e che non hanno nessun bisogno di essere gestite. Sono giunto alla conclusione che una tale visione – che le economie siano organismi capaci di auto-regolazione che mai in nessun caso necessitano di una qualche forma di gestione – ha di fatto determinato il modo in cui il Trattato di Maastricht è stato costruito. Si tratta di una versione rozza ed estrema di quel punto di vista che da qualche tempo incarna la saggezza convenzionale dell’Europa (anche se non quella degli Stati Uniti o del Giappone), secondo la quale i governi sono incapaci di perseguire gli obiettivi tradizionali della politica economica, come la crescita e la piena occupazione, e quindi non dovrebbero nemmeno provarci. Tutto ciò che si può legittimamente fare, secondo questo punto di vista, è controllare l’offerta di moneta e tenere il bilancio in pareggio.C’è voluto un gruppo composto in gran parte di banchieri (il Comitato Delors) per giungere alla conclusione che una banca centrale indipendente sia l’unica istituzione sovranazionale necessaria a governare un’Europa integrata e sovranazionale. Ma c’è anche molto di più. Bisogna sottolineare sin dall’inizio che la creazione di una moneta unica nella Ce è veramente destinata a segnare la fine della sovranità delle nazioni che la compongono e del loro potere di agire in modo indipendente sulle grandi questioni. Come ha sostenuto in modo molto convincente Tim Congdon, il potere di emettere la propria moneta, e di intervenire tramite la propria banca centrale, è il fatto principale che definisce l’indipendenza di una nazione. Se un paese rinuncia a questo potere, o lo perde, acquisisce lo status di ente locale o di colonia. Le autorità locali e le regioni ovviamente non possono svalutare. Ma perdono anche il potere di finanziare i deficit con emissione di moneta, e gli altri metodi per ottenere finanziamenti sono soggetti a regolamentazione da parte dell’autorità centrale. Né possono modificare i tassi di interesse.Dato che le autorità locali non possiedono nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica è limitata alle questioni relativamente minori – un po’ più di istruzione qui, un po’ meno di infrastrutture là. Penso che quando Jacques Delors enfatizza la novità del principio di ‘sussidiarietà’, in realtà ci sta solo dicendo che saremo autorizzati a prendere decisioni su un maggior numero di questioni relativamente poco importanti rispetto a quanto potevamo supporre in precedenza. Forse ci permetterà di avere i cetrioli ricurvi, dopo tutto. Veramente un grande affare! Permettetemi di esprimere un punto di vista diverso. Credo che il governo centrale di qualsiasi Stato sovrano dovrebbe impegnarsi con continuità per determinare il livello generale ottimale di servizi pubblici, l’imposizione fiscale complessiva più corretta, la corretta allocazione delle spese tra obiettivi concorrenti e la equa ripartizione della pressione fiscale. Il governo deve anche determinare in che misura qualsiasi disavanzo tra spesa e tassazione debba esser finanziato da un intervento della banca centrale e quanto debba essere finanziato dal prestito pubblico e a quali condizioni.Il modo in cui i governi decidono tutte queste questioni (e alcune altre), e la qualità della loro leadership, in interazione con le decisioni degli individui, delle imprese e del settore estero, determinerà cose come i tassi di interesse, il tasso di cambio, il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. Questo influenzerà anche profondamente la distribuzione del reddito e della ricchezza, non solo tra gli individui ma tra intere regioni, fornendo assistenza, si spera, alle persone colpite dai cambiamenti strutturali. Non si può semplificare troppo sull’utilizzo di questi strumenti, con tutte le loro interdipendenze, volti a promuovere il benessere di una nazione e a proteggerla al meglio possibile dagli shock di varia natura a cui inevitabilmente può andare soggetta. Non vuol dire molto, per esempio, dire che i bilanci dovrebbero essere sempre in pareggio, nel momento in cui un bilancio in pareggio con spesa e tassazione entrambe al 40% del Pil avrebbe un impatto completamente diverso (e molto più espansivo) di un bilancio in pareggio al 10%.Per immaginare la complessità e l’importanza delle decisioni macro-economiche di un governo, basta solo chiedersi quale sarebbe la risposta adeguata, in termini di politica di bilancio, monetaria e valutaria, per un paese che produce grandi quantità di petrolio, ad un aumento del prezzo del petrolio di quattro volte. Sarebbe giusto non fare niente? E non si dovrebbe mai dimenticare che in periodi di fortissima crisi, può anche essere appropriato per un governo centrale peccare contro lo Spirito Santo di tutte le banche centrali e invocare la ‘tassa da inflazione’ – appropriandosi deliberatamente delle risorse e riducendo, attraverso l’inflazione, il valore reale della ricchezza di carta di una nazione. Dopo tutto, era proprio mediante la tassa da inflazione proposta da Keynes che avremmo dovuto fare i pagamenti di guerra. Enumero tutti questi argomenti non per suggerire che la sovranità non dovrebbe essere ceduta per la nobile causa dell’integrazione europea, ma che se i singoli governi rinunciano a tutte queste funzioni, semplicemente queste devono essere assunte da qualche altra autorità.La lacuna incredibile nel programma di Maastricht è che, mentre contiene un progetto per l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente, non esiste nessun progetto per l’analogo, in termini comunitari, di un governo centrale. Eppure dovrebbe semplicemente esistere un sistema di istituzioni che svolgano a livello comunitario tutte quelle funzioni che sono attualmente esercitate dai governi dei singoli paesi membri. La contropartita per rinunciare alla sovranità dovrebbe essere che i paesi membri siano costituiti in federazione, a cui sia affidata la loro sovranità. E il sistema federale, o il governo, come sarebbe meglio chiamarlo, dovrebbe esercitare nei confronti dei suoi membri e del mondo esterno tutte quelle funzioni che ho brevemente descritto sopra. Consideriamo due esempi significativi di ciò che un governo federale, che amministra un bilancio federale, dovrebbe fare. I paesi europei sono attualmente bloccati in una grave recessione. Allo stato attuale, dato che anche le economie degli Stati Uniti e del Giappone sono deboli, non è affatto chiaro quando si potrà avere una ripresa significativa.Le implicazioni politiche di questa situazione stanno diventando spaventose. Eppure l’interdipendenza delle economie europee è già così forte che nessun singolo paese, con l’eccezione teorica della Germania, si sente in grado di perseguire politiche espansive per conto suo, perché ogni paese che cercasse di espandersi per proprio conto incontrerebbe presto un vincolo della bilancia dei pagamenti. La situazione attuale richiede con forza una reflazione coordinata, ma non esistono né le istituzioni né un quadro di pensiero condiviso che potranno condurre a questo desiderabile risultato, che sarebbe di per sé ovvio. Si dovrebbe riconoscere con franchezza che se la depressione dovesse volgere seriamente al peggio – per esempio, se il tasso di disoccupazione dovesse attestarsi in modo permanente intorno al 20-25%, come negli anni Trenta – i singoli paesi prima o poi eserciterebbero il loro diritto sovrano di dichiarare che il movimento di integrazione nel suo insieme è stato un disastro e ritornare al controllo dei cambi e al protezionismo – a un’economia da stato d’assedio, se volete. Ciò equivarrebbe a una riedizione del periodo tra le due guerre.In un’unione economica e monetaria in cui il potere di agire in maniera indipendente venisse effettivamente abolito, una reflazione ‘coordinata’ come quella che adesso sarebbe così urgente e necessaria potrebbe essere intrapresa solo da un governo federale europeo. Senza un’istituzione del genere, la Uem impedirebbe azioni efficaci da parte dei singoli paesi, senza sostituirle con alcunché. Un altro ruolo importante che qualsiasi governo centrale deve svolgere è quello di garantire una rete di sicurezza sui livelli di sussistenza delle regioni che ne fanno parte, che siano in crisi per ragioni strutturali – a causa del declino di alcune industrie, per esempio, o a causa di alcuni cambiamenti demografici economicamente sfavorevoli. Attualmente questo accade nel corso naturale degli eventi, senza che nessuno in realtà ne accorga, perché gli standard comuni dei finanziamenti pubblici (ad esempio, la salute, l’istruzione, le pensioni e le indennità di disoccupazione) e un sistema fiscale comune (auspicabilmente, progressivo) sono entrambi istituiti in via generale su tutte le singole regioni.Di conseguenza, se un settore soffre un grado insolito di declino strutturale, il sistema fiscale genera automaticamente i trasferimenti netti in suo favore. In extremis, una regione che non potesse produrre nulla, non morirebbe di fame perché sarebbe titolare di pensioni, indennità di disoccupazione e reddito dei dipendenti pubblici. Che cosa succede se un intero paese – una potenziale ‘regione’ di una comunità completamente integrata – subisce una battuta d’arresto strutturale? Finché si tratta di uno Stato sovrano, può svalutare la sua moneta. Può quindi commerciare con successo al livello di pieno impiego, a patto che il popolo accetti i necessari tagli dei redditi reali. Con l’unione economica e monetaria, questa strada è ovviamente sbarrata, e la sua prospettiva è veramente grave, a meno che un bilancio federale non adempia a una funzione redistributiva. Come è stato chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall, pubblicata nel 1977, per rinunciare all’opzione della svalutazione ci deve essere una contropartita in termini di redistribuzione fiscale.Alcuni autori (come Samuel Brittan e Sir Douglas Hague) hanno seriamente sostenuto che l’Uem, abolendo il problema della bilancia dei dei pagamenti nella sua forma attuale, in realtà abolirebbe il problema, laddove esso esista, di un persistente fallimento nella competizione sui mercati mondiali. Ma, come sottolineato dal professor Martin Feldstein in un suo importante articolo sull’Economist (13 giugno), questo argomento è pericolosamente errato. Se un paese o una regione non ha il potere di svalutare, e se non è beneficiario di un sistema di perequazione fiscale, allora non c’è nulla che possa impedirgli di subire un processo di irrimediabile tracollo che porterà, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà o alla fame. Sono solidale con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher), che, di fronte alla perdita di sovranità, desiderano scendere all’istante dal treno della Uem. Sono solidale anche con coloro che perseguono l’integrazione nel quadro giuridico di una sorta di costituzione federale, che disponga di un bilancio federale molto più grande del bilancio comunitario. Quello che trovo assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che stanno puntando all’unione economica e monetaria, senza la creazione di nuove istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che alzano le mani con orrore alle parole ‘federale’ o ‘federalismo’. Questa è la posizione attualmente adottata dal governo e dalla maggior parte di coloro che prendono parte al pubblico dibattito.(Wynne Godley, “Su Maastricht e tutto il resto”, profetico intervento apparso sulla “London Review of Book” nel lontano 1992, l’8 marzo, ora riproposto dal blog “Vox Populi”. Economista e autore di svariati saggi, Godley è stato consulente del Tesoro britannico, poi docente del King’s College e direttore di dipartimento all’Università di Cambridge).Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?
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Licenziare il precariato? Lavoro a minuti e nero di gruppo
La nuova disciplina del lavoro (job) varata pochi giorni fa dal governo (government) e ottusamente osteggiata dai sindacati (trade unions), rappresenta per i lavoratori italiani una grande occasione di riscatto, crescita e progresso (anal intruder). Ce lo confermano, tra l’altro, i festeggiamenti di numerosi lavoratori precari sottopagati, italiani fin qui ignobilmente sfruttati che finalmente vedono una luce in fondo al tunnel, gente come Sergio Marchionne, Angelino Alfano, Maurizio Lupi e Giorgio Squinzi, titolare di un’associazione che li riunisce da anni. Naturalmente ci vorrà qualche tempo perché la grande riforma si affermi nel paese, un periodo di assestamento necessario a migliaia di imprenditori per accorgersi che un lavoratore venticinquenne affamato e disposto a tutto è preferibile a un lavoratore cinquantenne cresciuto dando un certo valore alla parola “diritti” (rights).Molto bene anche la legalizzazione della pratica del demansionamento (mobbing) per cui un impiegato potrà essere spostato al reparto pulizie cessi senza possibilità di ricorso, e se deciderà di licenziarsi per questo non potrà contare sul reintegro ma soltanto su un risarcimento economico (two onions and one tomato). Ma la più entusiasmante novità riguarda la scomparsa dei lavoratori precari, che da oggi non esistono più e sono un ricordo del passato, anche se alcune categorie di privilegiati ancora resistono ed altre se ne creeranno. Eccole:I Lavoratori a Progetto del Settimo Giorno – Chiamati il giovedì per un progetto che terminerà il venerdì mattina, potranno puntare tutto su un malore del capo del personale che li proroghi fino a domenica sera (il famoso settimo giorno). Compiuti i settant’anni, avranno una pensione commisurata al loro impegno, pari al decimo della somma algebrica tra giorni lavorati e settimane passate a curarsi l’ulcera, per un somma non eccedente i sei euro al mese.I Lavoratori Intermittenti – Ispirati alle allegre lucine dell’albero di Natale, potranno mangiare solo in alcuni giorni e digiunare invece a intervalli regolari. La riforma prevede per loro un’indennità di disoccupazione, quantificata in sette undicesimi della quarta parte del salario dell’ultimo giorno lavorato, solo se precedente al giugno del 1924. In più, alcuni benefits, come la pensione sociale – dopo i settant’anni – di euro 4,75. Lordi.I Lavoratori Licenziati Collettivi – Nonostante i volenterosi sforzi del governo, non si è trovata parola più gentile di “licenziati” (nemmeno in inglese, straordinario!) per definire questi (ex) lavoratori. Il fatto di essere licenziati in compagnia (collettivamente) addolcisce un po’ il loro triste destino: non saranno soli, insomma, ma in compagnia dei loro (ex) colleghi. Questo potrà garantire qualche forma di socialità, come per esempio il digiuno collettivo, il lavoro nero collettivo, lo sfratto collettivo (per quelli in affitto).I Lavoratori a Partita Iva – Sicuro rifugio dalla crisi, molti lavoratori ex-precari cederanno alla tentazione di diventare imprenditori, aprendo una Partita Iva e avviando così una revisione della loro collocazione sociale che avrà come primo passo l’aperto disprezzo per i lavoratori dipendenti, considerati privilegiati con troppi diritti.Come si vede, ogni sostanziale riforma richiede tempo. Ma tutti questi piccoli problemi aperti non possono fare ombra alla grande novità, quella accolta con fragorosi applausi di approvazione delle parti più deboli della società, come Giorgio Squinzi e Sergio Marchionne.(Alessandro Robecchi, “Lavoro a minuti e nero di gruppo, così si licenzia il precariato”, da “Micromega” del 25 febbraio 2015).La nuova disciplina del lavoro (job) varata pochi giorni fa dal governo (government) e ottusamente osteggiata dai sindacati (trade unions), rappresenta per i lavoratori italiani una grande occasione di riscatto, crescita e progresso (anal intruder). Ce lo confermano, tra l’altro, i festeggiamenti di numerosi lavoratori precari sottopagati, italiani fin qui ignobilmente sfruttati che finalmente vedono una luce in fondo al tunnel, gente come Sergio Marchionne, Angelino Alfano, Maurizio Lupi e Giorgio Squinzi, titolare di un’associazione che li riunisce da anni. Naturalmente ci vorrà qualche tempo perché la grande riforma si affermi nel paese, un periodo di assestamento necessario a migliaia di imprenditori per accorgersi che un lavoratore venticinquenne affamato e disposto a tutto è preferibile a un lavoratore cinquantenne cresciuto dando un certo valore alla parola “diritti” (rights).
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Carne da macello, il libro dell’orrore del subdolo Jobs Act
Trasportava ogni giorno, per i grigi corridoi della banca, un carrello carico di oggetti di cancelleria. E lo faceva piangendo sommessamente, porgendo le penne, i quaderni, le gomme, i fogli richiesti da quelli che erano stati i suoi colleghi, almeno fino a quando la banca non aveva deciso, per “ragioni di riorganizzazione interna”, di sottrarlo ai compiti di impiegato addetto alla gestione dei flussi contabili e di assegnarlo alle nuove mansioni di riordino e consegna dei materiali e degli strumenti di lavoro, quasi un “cartolaio ambulante”. Ormai svuotato da mesi di umiliazione personale e professionale, impossibilitato a ricollocarsi sul mercato per la progressiva perdita della propria qualificazione, aveva deciso di ottenere giustizia invocando i principi dell’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori: nessuno può essere adibito a mansioni lavorative inferiori rispetto a quelle di assunzione, né può vedersi diminuita la retribuzione; ogni patto o accordo contrario è nullo, anche se sottoscritto con il consenso dello stesso lavoratore.Quella che alcuni anni fa era stata una vertenza a lieto fine, con il risarcimento per il “lavoratore carrellista” degli ingenti danni patrimoniali e non patrimoniali subiti e la reintegra nelle originaria mansioni, oggi è soltanto un malinconico ricordo. L’approvazione dell’articolo 55 dello “Schema di decreto legislativo recante il testo organico delle tipologie contrattuali e la revisione della disciplina delle mansioni, in attuazione della legge 183 del 10 dicembre 2014” infatti, con l’introduzione nell’articolo 2103 della possibilità di assegnare unilateralmente il lavoratore “a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore” nel vago e generico caso di “modifica degli assetti organizzativi aziendali”, addivenendo anche alla decurtazione degli “elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa”, ha ufficialmente cancellato con un tratto di penna decenni di civiltà del lavoro, riportandolo a condizioni addirittura anteriori all’approvazione del codice civile del 1942.Partiamo proprio da questo punto, per capire la “modernità regressiva” dell’ultima riforma introdotta dal Jobs Act. Addirittura nella versione originaria dell’articolo 2103, approvata nel 1942 con il codice civile (siamo dunque ancora sotto l’egida di un ormai decadente regime fascista), il legislatore prevedeva la possibilità di demansionare unilateralmente il lavoratore, subordinata tuttavia ad un doppio limite rappresentato dalla “irriducibilità della retribuzione” e dalla necessità di mantenere la “posizione sostanziale”. Ne sono derivate, nella prassi giurisprudenziale, rigide interpretazioni che hanno spesso censurato i demansionamenti unilaterali che si sostanziavano non solo in un oggettivo mutamento del contenuto professionale dell’attività lavorativa, ma anche in alterazioni soggettive del prestigio sociale, del prestigio morale e della dignità professionale del lavoratore.L’apice della civiltà del lavoro, come testè accennato, si è raggiunto con l’introduzione dell’articolo 13 da parte dello Statuto dei Lavoratori (legge 300 del 1970) che, nel novellare l’articolo 2013 imponendo il principio della irriducibilità delle mansioni e della retribuzione lavorativa, ha perseguito due fini di rilievo costituzionale: il primo, relativo allo scopo dell’attività lavorativa, che deve sostanziarsi non solo nella finalità produttiva, ma anche nell’accrescimento professionale del lavoratore, così come prescritto dall’articolo 35, 2° comma della Costituzione, secondo il cui disposto la Repubblica “cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”. Il secondo, naturalmente connesso con il primo, inerisce alla dignità del lavoratore e della persona stessa: il lavoro infatti, oltre che strumento di affrancamento dal bisogno, è anche e soprattutto espressione e realizzazione della personalità del lavoratore, la cui realizzazione professionale ne è al contempo la sintesi ed il punto di arrivo. Naturale, dunque, il legame individuato dalla giurisprudenza tra il divieto di demansionamento dell’articolo 2103 e i diritti fondamentali garantiti dall’articolo 2 della Costituzione.La modifica contenuta nello schema di decreto approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri del 20 febbraio, al contrario, proprio in ragione degli amplissimi poteri conferiti al datore di lavoro, pare trarre ispirazione da un modello imprenditoriale diffuso qualche secolo fa, agli albori della prima rivoluzione industriale o, se si vuole richiamare i “tempi moderni”, agli standard lavorativi cinesi. E’ opportuno premettere come questa norma, a differenza del contratto “a tutele crescenti”, si applichi a tutti i lavoratori, iniettando il veleno di una flessibilità liquida anche ai rapporti di lavoro in corso. Questa autentica rivoluzione del lavoro, dunque, si sostanzia – come vedremo – in una universale liquefazione del lavoro, che coinvolge tanto i nuovi quanto i vecchi assunti. L’ulteriore lettura del “nuovo” articolo 2103, tuttavia, lascia senza parole. Il meccanismo principale è esposto nel secondo comma: il datore di lavoro, adducendo una qualsivoglia “modifica degli assetti organizzativi aziendali” che “incidono sulla posizione del lavoratore”, può assegnarlo a mansioni “appartenenti al livello di inquadramento inferiore”.Via libera dunque alla possibilità di demansionare unilateralmente il lavoratore, con l’accortezza di “travestire” il provvedimento con una delle molteplici e possibili ragioni organizzative aziendali: il lavoratore, dunque, potrà anche precipitare dai vertici ai piedi della scala delle mansioni, non essendo in nessun modo reperibile nel testo della norma il riferimento ad un livello immediatamente inferiore, ma solo ad un generico “livello inferiore”. Ovviamente, se alle mansioni di precedente assegnazione erano legate delle speciali indennità (quali, ad esempio, l’indennità di maneggio del denaro o indennità relative ad altri rischi), queste saranno eliminate con le nuove mansioni inferiori: semaforo verde, dunque, anche alla riducibilità della retribuzione. Il menù predisposto per imprenditori particolarmente voraci si arricchisce di un’ulteriore scelta à la carte: la riduzione integrale della retribuzione al nuovo livello della mansione inferiore, nel caso in cui il demansionamento sia frutto di un “accordo” tra le parti, giustificato dall’ “interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione”, dall’ “acquisizione di una diversa professionalità” o dal “miglioramento delle condizioni di vita del lavoratore”.Siamo al trionfo dell’ipocrisia legale; appare sarcasticamente beffardo il riferimento all’interesse del lavoratore all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita operato dalla norma, considerando che gli accordi in questione comporterebbero in concreto una doppia perdita: di professionalità, tarpata da mansioni dequalificanti, e di retribuzione, ridotta ai nuovi inferiori livelli. Di più ed oltre, questi accordi di demansionamento lungi dall’essere frutto della “spontanea volontà delle parti”, potrebbero essere oggetto di una pressante coazione, che coinvolgerebbe soprattutto i lavoratori “a tutele crescenti” privi dello scudo dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e sotto la spada di Damocle del licenziamento a indennizzo ridotto. Ma vi è qualcosa di ben più grave, che sembra motivato più da ragioni vendicative che da motivazioni tecnico-produttive, quasi fossero i lavoratori i colpevoli della devastante crisi economica.Si tratta del comma terzo, che è opportuno riportare per intero, al fine di comprenderne tutta la sua gravità: “Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”. Vediamone le possibili implicazioni. La norma implicitamente dice, in modo apparentemente neutro, che in caso di mutamento unilaterale delle mansioni, il datore di lavoro può anche omettere l’obbligo di formazione del dipendente alle nuove mansioni: in questo caso, l’assegnazione alle mansioni – ad esempio – inferiori sarà comunque valida e legittima, ed il lavoratore – di conseguenza – dovrà proseguire nello svolgimento delle nuove prestazioni lavorative, anche senza la dovuta formazione. E’ l’attacco diretto – e subdolo – alla sicurezza del lavoro, al principio consolidato per cui la formazione e l’addestramento specifico del lavoratore in caso di trasferimento o cambiamento di mansioni (articolo 37, comma 4, decreto legge 81/2008, “Codice della sicurezza”) è il primo strumento di prevenzione degli infortuni sul lavoro.Le conseguenze di questa abominevole disciplina sono tanto semplici da comprendere quanto agghiaccianti: il prestatore di lavoro che venisse preposto a nuove mansioni e che, ad esempio, dovesse passare dalla scrivania all’utilizzo di un macchinario della catena di montaggio, potrà essere preposto anche senza alcuna specifica formazione all’utilizzo della macchina. L’adibizione, comunque, sarà valida, con la conseguenza che il lavoratore sarà obbligato a svolgere le nuove prestazioni lavorative e ad utilizzare il macchinario senza alcuna specifica cognizione: come dire, a suo rischio e pericolo. Con la correlativa, possibile responsabilità disciplinare e risarcitoria diretta del lavoratore per gli eventuali errori compiuti nello svolgimento della nuova prestazione lavorativa e che provocassero, ad esempio, un danno aziendale. E se il lavoratore destinatario del mutamento di mansioni dovesse essere vittima di un infortunio a causa dell’assenza di specifica formazione?E’ molto probabile che, in caso di richiesta di risarcimento dei danni da parte del lavoratore, il datore di lavoro si difenderà sostenendo la legittimità della propria condotta e rifiutando qualsivoglia responsabilità risarcitoria, confortato dal sigillo di legge per cui “il mancato adempimento non determina comunque nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”. Interpretazione assolutamente plausibile in assenza di altre specificazioni in merito alle conseguenze sulla sicurezza lavorativa che il legislatore delegato, colpevolmente, ha omesso. Stiamo dunque parlando della clamorosa e palese violazione del principio cardine del diritto del lavoro, contenuto nel noto articolo 2087 (rubricato “tutela delle condizioni di lavoro”), secondo il cui disposto “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Il lavoratore non vale più neanche il prezzo di un costo di formazione e di addestramento: è ormai diventato solo “carne da macello”.Del resto, che la liberalizzazione di fatto delle condotte demansionanti sia il punto di arrivo del processo di “merficicazione” del lavoro e dei lavoratori è desumibile anche dalla considerazione che, con il rinnovato articolo 2103, si conferisce il formale visto di “legalità” a comportamenti che decenni di studi di sociologia del lavoro – oltre che di pronunce giurisprudenziali – hanno definito sia come espressione del cosiddetto “mobbing”, sia come generatori di danni esistenziali, biologici e professionali nella sfera dei lavoratori vittime di tali condotte. Realtà concreta e realtà normativa si allontanano definitivamente, portando al cortocircuito della giustizia. Gli apologeti della “modernità lavorativa” certamente canteranno l’inno alla flessibilità nella gestione lavorativa e all’ormai raggiunta produttività, anticamera della “crescita”; uno sguardo meno ideologico alla viva realtà del lavoro, al contrario, evidenzierebbe come alla base di questa nuova disciplina non vi possa essere nessuna esigenza economico-produttiva, poiché vanificata dalla creazione di lavoratori dequalificati, trasformati in mere “pedine”, scarnificati della propria professionalità e, dunque, tutt’altro che produttivi.Al contrario, sottese all’approvazione di questa norma – che costituisce l’autentico architrave della “riforma del lavoro” – vi sono ragioni politiche: di una politica che parla le parole della nuova Costituzione materiale (o Controcostituzione), in cui il nuovo articolo 2103 è la leva per lo scardinamento di fatto dell’articolo 1 della Costituzione, ove la dignità del lavoro è schiacciata sotto il tallone delle esigenze produttive di impresa e delle ferree ed ineluttabili leggi neoliberiste di mercato. Di fronte a questo sconfortante panorama, dinanzi alla definitiva eclissi del valore fondante e formante della Repubblica, non puo’ non tornare alla mente il severo monito del nichilismo giuridico che, con uno sguardo intriso di dolente realismo, individua nel “valore il principio sostenuto dalla volontà più forte ed efficace. Carte Costituzionali ed altre solenni dichiarazioni sempre contengono norme, poste dalla volontà umana, e quindi trasgredibili modificabili revocabili. Nulla sfugge alla distruttiva temporalità dell’uomo”. Nemmeno la laica sacralità della “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, oseremmo aggiungere.(Domenico Tambasco, “Il Jobs Act e i lavoratori carne da macello”, da “Micromega” del 23 febbraio 2015).Trasportava ogni giorno, per i grigi corridoi della banca, un carrello carico di oggetti di cancelleria. E lo faceva piangendo sommessamente, porgendo le penne, i quaderni, le gomme, i fogli richiesti da quelli che erano stati i suoi colleghi, almeno fino a quando la banca non aveva deciso, per “ragioni di riorganizzazione interna”, di sottrarlo ai compiti di impiegato addetto alla gestione dei flussi contabili e di assegnarlo alle nuove mansioni di riordino e consegna dei materiali e degli strumenti di lavoro, quasi un “cartolaio ambulante”. Ormai svuotato da mesi di umiliazione personale e professionale, impossibilitato a ricollocarsi sul mercato per la progressiva perdita della propria qualificazione, aveva deciso di ottenere giustizia invocando i principi dell’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori: nessuno può essere adibito a mansioni lavorative inferiori rispetto a quelle di assunzione, né può vedersi diminuita la retribuzione; ogni patto o accordo contrario è nullo, anche se sottoscritto con il consenso dello stesso lavoratore.
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Cremaschi: Jobs Act, l’atroce legge del regime in arrivo
Il governo Renzi concede alle imprese libertà di spionaggio sui dipendenti, con telecamere e quant’altro. E questa violazione elementare dei diritti della persona viene da quegli stessi politici che si indignano di fronte a intercettazioni telefoniche della magistratura che tocchino loro o le loro amicizie. Con il demansionamento si afferma la licenza di degradare il lavoratore dopo una vita di fatiche per migliorarsi. E questo lo sostengono coloro che ogni secondo sproloquiano sulla necessità di premiare il merito. Con la riforma degli ammortizzatori sociali si tagliano la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione e per il futuro le si dimensiona in rapporto alla anzianità di lavoro effettivo. Cioè i giovani e le donne prenderanno meno degli anziani maschi. E questo in nome di un modello sociale scandinavo sbandierato dagli estensori del Jobs Act per ignoranza o per pura menzogna. Infine si aggiunge agli altri contratti precari, che al di là delle chiacchiere restano e con i voucher si estendono, quello a “tutele crescenti” per i nuovi assunti.Costoro in realtà nella loro crescita non incontreranno mai più l’articolo 18, quindi il loro contratto a tempo indeterminato in realtà sarà finto, perché essi saranno licenziabili in qualsiasi momento. Un contratto a termine al minuto, una ipocrita beffa. L’articolo 18 resterà come patrimonio personale dei vecchi assunti, quindi non solo mano mano si ridurrà la platea di chi usufruisce di quel diritto, ma saranno la stesse imprese a essere poste in tentazione di accelerare il ricambio dei loro dipendenti. Perché tenersi il lavoratore che ha ancora la tutela dell’articolo 18, quando se ne può assumere uno senza, pagato un terzo in meno? Renzi non fa niente di nuovo, anzi applica il principio classico degli accordi di concertazione: il “doppio regime”. I diritti contrattuali, le retribuzioni, le condizioni di orario e le qualifiche, l’accesso alla pensione, son stati negli ultimi trenta anni ridotti per tutti, ma ai nuovi assunti venivano negati completamente, a quelli con più anzianità di lavoro invece un poco restavano.I diritti non potevano più essere trasmessi da una generazione all’altra, ma diventavano una sorta di rendita personale per le generazioni che abbandonavano il lavoro. Questi accordi, sottoscritti dai sindacati confederali e applauditi dagli innovatori ora fan di Renzi, hanno creato l’apartheid. Renzi stesso mente sapendo di mentire quando sostiene di voler abolire la disparità di diritti, invece tutti i suoi provvedimenti la rafforzano ed estendono. Il Jobs Act aggiunge ferocia a ferocia, non cambierà nulla nelle dimensioni della disoccupazione, anzi i disoccupati aumenteranno, come è avvenuto in Grecia e Spagna che hanno per prime seguito la via oggi percorsa dal governo. Il Jobs Act non risolverà uno solo dei problemi produttivi delle imprese, soprattutto di quelle più piccole che non hanno mai avuto l’articolo 18, ma che sono in crisi più delle grandi. E allora perché si fa?Perché come scrivevano il 5 agosto 2011 Draghi e Trichet e come aggiungeva nel 2013 la banca Morgan, la protezione costituzionale del lavoro è un lusso che l’Italia non può più permettersi. I padroni d’Europa e della finanza vogliono un lavoro low cost in una società low cost, e tutto ciò che si oppone a questo loro disegno va trattato come un nemico. Cgil, Cisl e Uil in questi anni han lasciato passare tutto, sono state di una passività che il presidente del consiglio Monti arrivò persino a vantare all’estero. Eppure a Renzi non basta ancora, per lui i sindacati devono generosamente suicidarsi per fare spazio al nuovo. E questa è la seconda vera ragione del Jobs Act e del fanatismo con cui viene sostenuto: il valore simbolico reazionario dell’attacco all’articolo 18, che Renzi fa proprio per mettersi a capo di un regime.Un regime che non è il fascismo del secolo scorso, ma è un sistema autoritario che nega la sostanza sociale della nostra Costituzione e riduce la democrazia ad una parvenza formale, fondata sul plebiscitarismo mediatico e sull’assenza di diritti veri. Il Jobs Act è parte di una restaurazione sociale e politica peggiore di quella della signora Thatcher, perché fatta trent’anni dopo. Una restaurazione con la quale si pensa di affrontare la crisi economica per rendere permanenti le politiche di austerità, che, secondo la signora Lagarde direttrice del Fondo Monetario Internazionale, in Europa non son neppure cominciate. Una restaurazione che nel paese del gattopardo richiede un ceto politico avventuriero disposto a interpretarla come il nuovo che avanza. Per questo il governo Renzi è il governo della menzogna e l’affermazione della verità è il primo atto di resistenza contro il regime che vuole costruire.(Giorgio Cremaschi, “Jobs Act, un manifesto della malafede”, da “Micromega” del 22 settembre 2014).Il governo Renzi concede alle imprese libertà di spionaggio sui dipendenti, con telecamere e quant’altro. E questa violazione elementare dei diritti della persona viene da quegli stessi politici che si indignano di fronte a intercettazioni telefoniche della magistratura che tocchino loro o le loro amicizie. Con il demansionamento si afferma la licenza di degradare il lavoratore dopo una vita di fatiche per migliorarsi. E questo lo sostengono coloro che ogni secondo sproloquiano sulla necessità di premiare il merito. Con la riforma degli ammortizzatori sociali si tagliano la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione e per il futuro le si dimensiona in rapporto alla anzianità di lavoro effettivo. Cioè i giovani e le donne prenderanno meno degli anziani maschi. E questo in nome di un modello sociale scandinavo sbandierato dagli estensori del Jobs Act per ignoranza o per pura menzogna. Infine si aggiunge agli altri contratti precari, che al di là delle chiacchiere restano e con i voucher si estendono, quello a “tutele crescenti” per i nuovi assunti.
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Triste miracolo: paghe da fame per un tedesco su quattro
Mario Monti, 20 gennaio 2013: «Noi ammiriamo la Germania e vogliamo imitarla in alcune riforme». Beppe Grillo, 15 marzo 2013: «Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca, quel che ha dato buoni risultati in Germania lo vogliamo anche noi» Matteo Renzi, 17 marzo 2014: «La pretesa di creare posti di lavoro con una legislazione molto severa e strutturata è fallita, dobbiamo cambiare le regole del gioco: in questo senso abbiamo nella Germania il nostro punto di riferimento». “Fare come la Germania” è il mantra di tutti, fino al Jobs Act renziano. Storia: nel 2003 il socialdemocratico Schroeder ha smantellato i diritti sociali e tagliato gli stipendi ai lavoratori, per poter rilanciare un’economia basata interamente sull’export e quindi sul basso costo del lavoro. La riforma prende il nome da Peter Hartz, industriale della Volkswagen. Un genio? Fate voi: “Hartz ammette di aver corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere”, titolò di recente il “Sole 24 Ore”. Facile, no? Risultato: nel regno della Merkel dilagano i mini-job da 450 euro, che dopo una vita di lavoro danno diritto a una pensione di 200 euro mensili.Sul sito “MeMmt.info”, Daniele Della Bona ripercorre i passaggi chiave del falso “miracolo” tedesco, basato sul doppio ricatto imposto ai lavoratori e ai partner europei, costretti alla politica di rigore per colpire l’industria nazionale e quindi smantellare la concorrenza industriale, dell’Italia in primis, così scomoda per la manifattura tedesca. Per Roland Berger, storico consulente di Berlino, la chiave delle riforme iniziate nel 2003 è stata «una liberalizzazione del mercato del lavoro», con stipendi rimasti al palo rispetto all’incremento della produttività, a tutto vantaggio del capitale industriale. «Poi è seguito il taglio dei costi del sistema sociale, l’aumento dell’ età pensionabile a 67 anni, la creazione di un segmento di bassi salari». Una confessione peraltro tardiva, rileva Della Bona nel post ripreso dal blog “Vox Popoli”. Più tempestivo era stato lo stesso Schroeder, il cancelliere che regalò un maxi-sconto a Gazprom per poi essere profumatamente assunto dalla compagnia russa. Già nel 2005, al World Economic Forum di Davos, Schroeder ammise: «Abbiamo dato vita ad uno dei migliori settori a bassa salario in Europa».La chiave del boom tedesco sono i famigerati mini-job, per i quali non è obbligatorio neppure versare contributi sociali. Paghette da fame, per 15 ore settimanali. In compenso, il business trova super-conveniente questa formula di assunzione: nel 2003 i minijobber erano 5 milioni e mezzo, nel 2011 erano almeno 7,5 milioni. Una catastrofe, secondo Della Bona, per i lavoratori tedeschi: esplosione di operai con bassi salari, boom del lavoro temporaneo e part-time, crollo dei salari reali medi, aumento della disuguaglianza sociale e reddituale, calo delle tutele contrattuali per tutti i lavoratori. A chi era funzionale questo disegno? E chi ne ha tratto beneficio? «La prima conseguenza è stata quella di creare un mercato del lavoro altamente segmentato», con alcuni lavoratori ben pagati e «un esercito di bassi salariati, spesso costretti a chiedere un sussidio per sopravvivere o a svolgere un secondo lavoro: fra i minijobber sono 2,5 milioni quelli con un secondo impiego». Non a caso, la quota di lavoratori nella categoria a basso salario (cioè inferiore ai 2/3 del salario medio) è il 24,3% degli occupati: è pagato con un’elemosina un lavoratore tedesco su 4, cioè quasi 8 milioni e mezzo di occupati.Nel 2010, secondo Eurostat, all’interno dell’Unione Europea, su 27 paesi membri soltanto 6 avevano una quota di lavoratori a basso salario maggiore di quella tedesca: Estonia, Cipro, Lituania, Lettonia, Polonia e Romania. «Non solo 8,4 milioni di lavoratori percepivano nel 2012 una paga oraria inferiore ai 9,30 euro, ma – di questi – 6,6 milioni guadagnavano meno di 8,5 euro all’ora, 5,7 milioni meno di 8 euro, 4 milioni meno di 7 euro, 2,5 meno di 6 euro e 1,7 milioni avevano una paga oraria inferiore addirittura ai 5 euro». Non solo i mini-job “costano” pochissimo e fanno “risparmiare” anche sui contributi previdenziali, ma minacciano di terremotare l’impianto socio-produttivo della Germania, perché creano «le premesse per sostituire lavoratori che avevano contratti a tempo indeterminato». Secondo l’Instituts für Arbeitsmarkt und Berufsforschung (Iab), «il fenomeno è maggiormente visibile nei servizi: qui, molti minijobber svolgono lavori in precedenza assegnati ad occupati a tempo pieno – ma lo fanno con una paga più bassa». Le prove della sostituzione sono visibili anche nel commercio al dettaglio, nel turismo, nella sanità e nel sociale, scrive lo Iab, istituto di ricerca interno all’Agenzia federale per il lavoro. «Soprattutto nelle piccole aziende con meno di 10 dipendenti, i ricercatori hanno potuto confermare che la creazione di nuovi minijobs va di pari passo con l’eliminazione degli occupati a tempo pieno con regolare contratto».I ricercatori dello Iab ritengono «un pericolo» la sostituzione dei lavoratori regolari nelle piccole imprese: indeboliscono le casse sociali e quindi il sistema sociale tedesco. «In particolare, i lavoratori che per un lungo periodo hanno svolto un minijob, rischiano la trappola della povertà in vecchiaia a causa di una pensione troppo bassa». Non solo: «I minijobber non hanno diritto alle ferie e non hanno accesso ai bonus e alle indennità aziendali». Un trend che viene confermato dai dati dell’Ocse: la quota complessiva di lavoratori a tempo determinato e part-time è aumentata notevolmente a partire dal 2003, superando abbondantemente la soglia del 50% fra i giovani occupati tedeschi. «Non dovrebbe dunque stupire che i salari reali medi siano calati in Germania fra il 2003 e il 2009 di oltre il 6%». La situazione tedesca ha allarmato persino l’Ilo, l’International Labour Office delle Nazioni Unite, secondo cui il boom della Germania non è affatto dovuto a un aumento della produttività, ma solo al super-sfruttamento dei lavoratori sottopagati, dal momento che «gli sviluppi della produttività sono rimasti in linea con gli altri paesi dell’Eurozona».Il trucco, a tutto danno dei lavoratori tedeschi, sono state «politiche di deflazione salariale che non solo hanno avuto un impatto sui consumi privati, ma hanno anche condotto ad un ampliamento delle disuguaglianze reddituali ad un velocità mai vista prima, nemmeno dopo la riunificazione, quando molti milioni di persone della Germania Est persero il loro lavoro». Addirittura la Commissione Europea, nel 2012, «ormai a babbo morto», si è accorta del problema, aggiunge Della Bona. Il commissario europeo agli affari sociali, Laszlo Andor, intervistato dal giornale tedesco “Faz.net”, ha infatti riconosciuto che «il mercato del lavoro in Germania è sempre più segmentato», visto che «un gran numero di occupati ha solo un minijob». Pessimo scenario: «Se continua così – avverte Andor – il divario fra lavori regolari e minijobs crescerà rapidamente: i minijobber rischiano di restare in questa situazione e di cadere nella trappola della povertà». La stretta tedesca sui salari, dice ancora il commissario europeo, ha danneggiato gli altri Stati Ue: «Con la sua politica mercantilista, la Germania ha rafforzato gli squilibri in Europa e causato la crisi».Meglio tardi che mai, dirà qualcuno. Peccato che adesso tutti ripetano che anche i paesi del Sud Europa dovrebbero fare come la Germania, ben interpretata dalla stessa Merkel a Davos nel 2013: «Per ottenere riforme strutturali è necessario esercitare pressione», ha detto la cancelliera, ammettendo che «anche in Germania i disoccupati sono dovuti arrivare fino a 5 milioni, prima di ottenere la disponibilità all’attuazione delle riforme strutturali». Rispondendo ai Verdi, nella primavera 2013 il governo tedesco ha risposto – mentendo – che la mancanza di competitività dei paesi in crisi nasce da salari troppo alti e scarsa produttività. La strada maestra, ovviamente, sarebbe «la flessibilizzazione del salario, che in futuro dovrà essere orientato allo sviluppo della produttività», per «garantire l’occupazione e aumentarla». Ci sarebbe da ridere, se non fosse che tutti i partner europei – a cominciare da Renzi – mostrano di credere ancora, nei fatti e negli atti di governo, alla fiaba atroce dell’austerity espansiva made in Germany. I lavoratori tedeschi sono condannati anche dall’Epl, l’indice di protezione del lavoro dell’Ocse, che misura la facilità con la quale si può essere licenziati. Quando si parla di Germania, sottolinea Della Bona, dobbiamo tenere a mente che a Berlino ci sono le grandi multinazionali mercantiliste e i lavoratori, e che l’euro ha beneficiato sicuramente le prime e danneggiato enormemente i secondi.«La politica economica e commerciale tedesca di tipo mercantilistico (esportare il più possibile e ridurre le importazioni per mantenere un saldo estero positivo: “essere competitivi”, come si dice spesso sui media) ha dapprima condotto a una forte riduzione dei salari dei lavoratori tedeschi, fortemente scesi in termini reali a partire soprattutto dal 2003», e ora minaccia – di conseguenza – di mettere in crisi il bilancio statale (esattamente come in Italia) a causa del crollo dei consumi interni e del gettito fiscale. «Se il salario non cresce, difficilmente il lavoratore tedesco può comprare beni e servizi prodotti a casa propria o all’estero: meno soldi hai e meno cose compri». Ci guadagna solo l’industriale tedesco, che fa affari d’oro in due modi: sottopagando i lavoratori e beneficiando della politica europea decisa a Berlino per colpire la concorrenza, come quella italiana. Il super-export tedesco è esploso alla fine degli anni ‘90, «mentre il volume dei consumi delle famiglie, gli investimenti interni e i salari reali sono rimasti pressoché stazionari». Non stupisce che, dall’ingresso nell’euro fino alla crisi finanziaria del 2007, la Germania sia stata il paese che è cresciuto meno in Europa, come conferma l’outlook 2013 del Fmi.Infine, a completare l’affresco ci sono i dati – truccati – della disoccupazione. Ufficialmente, l’Agenzia federale per il lavoro a settembre 2012 parla di 2,7 milioni di disoccupati e di 5 milioni di “persone in età lavorativa ricevono un sussidio di disoccupazione”. Con questi numeri si arriva ad un tasso di disoccupazione di circa l’11.9 %, rileva Della Bona. Ma la stessa agenzia fornisce anche il motivo per cui circa 2,3 milioni di persone in grado di lavorare, destinatarie di un sussidio di disoccupazione, non siano incluse nel tasso di disoccupazione ufficiale: «Non vengono considerati disoccupati tutti coloro che si trovano all’interno di un programma di politica del mercato del lavoro (formazione e inserimento)», cioè quasi 1 milione di persone. Anche chi ha un basso reddito, e per questo riceve un’integrazione, non viene considerato disoccupato: erano 655.000 persone già nel maggio 2012. Sono escluse dal calcolo dei disoccupati altre 630.000 persone, quelle che ricevono un sussidio perché crescono dei figli o vanno a scuola. Poi ci sono 248.000 persone assistite perché “non capaci di lavorare”, e altri 235.000 individui “anziani” che ricevono un sussidio perché hanno più di 58 anni e negli ultimi 12 mesi, semplicemente, non hanno più lavorato. Solo metà dei beneficiari del sussidio è registrata come disoccupata, ammette la stessa agenzia. Anche così, truccando le cifre, la Germania continua a raccontare il suo miracolo triste da 400 euro al mese.Mario Monti, 20 gennaio 2013: «Noi ammiriamo la Germania e vogliamo imitarla in alcune riforme». Beppe Grillo, 15 marzo 2013: «Dobbiamo realizzare un piano comparabile con l’Agenda 2010 tedesca, quel che ha dato buoni risultati in Germania lo vogliamo anche noi» Matteo Renzi, 17 marzo 2014: «La pretesa di creare posti di lavoro con una legislazione molto severa e strutturata è fallita, dobbiamo cambiare le regole del gioco: in questo senso abbiamo nella Germania il nostro punto di riferimento». “Fare come la Germania” è il mantra di tutti, fino al Jobs Act renziano. Storia: nel 2003 il socialdemocratico Schroeder ha smantellato i diritti sociali e tagliato gli stipendi ai lavoratori, per poter rilanciare un’economia basata interamente sull’export e quindi sul basso costo del lavoro. La riforma prende il nome da Peter Hartz, industriale della Volkswagen. Un genio? Fate voi: “Hartz ammette di aver corrotto i sindacalisti Vw ed evita 10 anni di carcere”, titolò di recente il “Sole 24 Ore”. Facile, no? Risultato: nel regno della Merkel dilagano i mini-job da 450 euro, che dopo una vita di lavoro danno diritto a una pensione di 200 euro mensili.