Archivio del Tag ‘insediamenti’
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Scordatevi lo Stato palestinese: il Dio di Israele non lo vuole
Mentre esplode il panico mondiale per il coronavirus e la Turchia (Nato) protegge 30.000 terroristi e li usa come arma contro i curdi e la Siria, che sta tentando con l’aiuto della Russia di finire di riprendersi il suo territorio nazionale attorno alla città di Idlib, “Russia Today” annuncia che Netanyahu intende procedere con il progetto per costruire 3.500 abitazioni per i coloni israeliani nel West Bank, cioè in Cisgiordania. Quando ha presentato il suo piano di pace alla Casa Bianca, insieme a Trump, subito dopo Netanyahu ha detto: se i palestinesi accettano la nostra proposta, bene; se non la accettano, noi procediamo comunque. E dato che la proposta (inaccettabile) è stata respinta seccamente, lui procede. Ogni volta che si avvicina una possibile soluzione al conflitto israelo-palestinese, esplode puntualmente una crisi. I governi israeliani si sono sempre detti pronti a discutere: a Oslo l’accordo sembrava vicinissimo. Ogni volta che si arriva a un passo dalla soluzione, poi l’accordo viene fatto saltare. Dopodichè, un pezzo di Palestina viene portato via.Il territorio palestinese è diventato sempre più piccolo e frazionato: per passare da un appezzamento palestinese a un altro bisogna passare attraverso i posti di blocco dell’esercito israeliano. Se guardate la cartina, vi accorgere che l’idea stessa di uno Stato palestinese, oggi, fisicamente, ormai non è più praticabile. Di fatto, uno Stato palestinese non c’è più: la riva occidentale del Giordano se la sono già presa tutta, a pezzettini. E il sistema degli insediamenti dei coloni è fatto in modo scientifico, per continuare a tagliare fuori pezzi di territorio palestinese, in modo che i palestinesi (in gran parte agricoltori) non possano più muoversi per vendere i loro prodotti, né usare le sorgenti d’acqua. Persino per andare a scuola, i bambini palestinesi devono superare posti di blocco. Nel cosiddetto progetto di pace Trump-Netanyahu, come regalo americano, era addirittura previsto un ponte: dalla Striscia di Gaza avrebbe collegato alcuni territori palestinesi. Per non disturbare il possesso israeliano dei Territori Occupati, il ponte li avrebbe scavalcati.Fantastico, no? Noi vi prendiamo la terra, e in cambio vi facciamo il ponte. E dato che l’accordo poi non c’è stato (non poteva esserci), loro adesso si pigliano un altro pezzo di territorio e ci mettono altre 3.500 abitazioni, altre migliaia di persone. Così fanno: creano una nuova località abitata, e poi la militarizzano per evitare controffensive palestinesi di qualunque genere. Questo è il modo con cui Israele si prende tutta la Palestina, e con si troverà a dominare tutto il territorio – per una generazione: poi, quando i palestinesi crsceranno di numero, le cose cambieranno, visto che i campi profughi palestinesi stanno per esplodere, sul piano demografico. Gli israeliani, comunque, pensano ugualmente di estendersi. Ma attenzione: dietro al loro comportamento (prima trattiamo, ma poi rompiamo e prendiamo), c’è sempre l’idea del Grande Israele, cioè la terra che Dio ha dato ad Abramo. Quindi non c’è niente da fare: è quello, che vogliono.Loro vogliono il Libano, vogliono un pezzo di Iraq, un pezzo di Siria. Vogliono farsi il loro territorio “biblico”. Muovendoti su questo terreno, non potrai mai trovare un accordo: dietro a questo ragionamento, che sembra politico ma invece è religioso (di fanatismo religioso), non c’è la possibilità di nessun accordo. Cioè: se Dio ci ha dato questa terra, nessuno può entrare in discussione con Dio, perché è Dio che ce l’ha data, questa terra. Quindi, tutti quelli che ce lo impediscono, non sono contro di noi: sono contro Dio. E quindi non c’è modo di discutere. L’unica possibilità è quella di un’imposizione che la comunità occidentale dovrebbe prima o poi decidere di attuare. Ma ora è tardi, perché non c’è più la possibilità materiale di uno Stato palestinese. Io credo quindi che non ci si possa attendere altro che un peggioramento sistematico, continuo: sangue. Ci sarà ancora tanto sangue, purtroppo.(Giulietto Chiesa, dichiarazioni rilasciate nel colloquio con Massimo Mazzucco durante la trasmissione di “Contro Tv” del 28 febbraio 2020, ripresa su YouTube e sul sito “Luogo Comune”).Mentre esplode il panico mondiale per il coronavirus e la Turchia (Nato) protegge 30.000 terroristi e li usa come arma contro i curdi e la Siria, che sta tentando con l’aiuto della Russia di finire di riprendersi il suo territorio nazionale attorno alla città di Idlib, “Russia Today” annuncia che Netanyahu intende procedere con il progetto per costruire 3.500 abitazioni per i coloni israeliani nel West Bank, cioè in Cisgiordania. Quando ha presentato il suo piano di pace alla Casa Bianca, insieme a Trump, subito dopo Netanyahu ha detto: se i palestinesi accettano la nostra proposta, bene; se non la accettano, noi procediamo comunque. E dato che la proposta (inaccettabile) è stata respinta seccamente, lui procede. Ogni volta che si avvicina una possibile soluzione al conflitto israelo-palestinese, esplode puntualmente una crisi. I governi israeliani si sono sempre detti pronti a discutere: a Oslo l’accordo sembrava vicinissimo. Ogni volta che si arriva a un passo dalla soluzione, poi l’accordo viene fatto saltare. Dopodichè, un pezzo di Palestina viene portato via.
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Trump-Netanyahu, cabaret: la pace, ma senza i palestinesi
Ho appena assistito ad uno spettacolo metafisico. In diretta sulla Cnn, il presidente americano Trump ha annunciato al mondo il suo nuovo piano di pace per la Palestina. Dico “metafisico” perché non mi era mai capitato di assistere ad un annuncio di tale importanza, che prevede un accordo definitivo e duraturo fra Israele e Palestina, con la sola presenza di uno dei due interessati. Accanto a Trump infatti c’era Benjamin Netanyahu, ma non c’era nessuno a rappresentare i palestinesi. La sceneggiata è andata avanti a lungo, con Trump che faceva i complimenti a Netanyahu, il quale lo applaudiva. Poi toccava a Netanyahu parlare, ed era Trump ad applaudirlo. E poi ciascuno ringraziava i propri ambasciatori, come se avessero portato a casa l’impresa del secolo. Sembrava quasi una cerimonia degli Oscar, nella quale i vincitori recitano la lunga litania di ringraziamenti alle mogli, ai produttori, ai parrucchieri, e a tutti quelli che li hanno aiutati a raggiungere quel traguardo.Poi, fra un ringraziamento all’altro, fra un applauso all’altro, Trump ha anche trovato il modo di illustrare alcuni dei dettagli principali di questo presunto accordo. E se è vero che ha apertamente appoggiato la famigerata soluzione dei due Stati, sembra proprio che nei termini dell’accordo vi siano alcune cose assolutamente indigeribili per i palestinesi: fra queste, il mantenimento per Israele degli insediamenti occupati, il mantenimento delle alture del Golan, e soprattutto il fatto che «Gerusalemme debba restare capitale indivisa di Israele». Ma Trump, da buon negoziatore, ha subito aggiunto che i palestinesi riceveranno 50 miliardi di aiuto, come se in qualche modo si potesse barattare la loro storia e la loro tradizione con un semplice assegno – per quanto decisamente cospicuo.Come dicevo, stonava fortemente questo tono celebratorio, nel quale Trump ha parlato come se si trattasse non solo di un accordo già concluso, ma addirittura di un accordo estremamente favorevole per i palestinesi. Mentre tutti i presenti nella stanza continuavano ad alzarsi ogni 30 secondi per fare una standing ovation al duo Trump-Netanyahu, tutti sembravano essersi dimenticati che Abbas ha già respinto questa ipotesi di accordo, ancora prima che venisse presentata al pubblico. Ma tant’è, viviamo nell’era della rappresentazione. Sappiamo benissimo che sia Trump che Netanyahu si trovano in un momento estremamente delicato della loro carriera politica, e che ambedue hanno un grande bisogno di appuntarsi al petto una medaglia importante come quella di uno storico accordo tra Israele e Palestina. Anche se, ovviamente, nessuno si è preoccupato di chiedere ufficialmente ai palestinesi il loro parere.(Massimo Mazzucco, “Trump-Netanyahu: il teatro dell’assurdo”, dal blog “Luogo Comune” del 28 gennaio 2020).Ho appena assistito ad uno spettacolo metafisico. In diretta sulla Cnn, il presidente americano Trump ha annunciato al mondo il suo nuovo piano di pace per la Palestina. Dico “metafisico” perché non mi era mai capitato di assistere ad un annuncio di tale importanza, che prevede un accordo definitivo e duraturo fra Israele e Palestina, con la sola presenza di uno dei due interessati. Accanto a Trump infatti c’era Benjamin Netanyahu, ma non c’era nessuno a rappresentare i palestinesi. La sceneggiata è andata avanti a lungo, con Trump che faceva i complimenti a Netanyahu, il quale lo applaudiva. Poi toccava a Netanyahu parlare, ed era Trump ad applaudirlo. E poi ciascuno ringraziava i propri ambasciatori, come se avessero portato a casa l’impresa del secolo. Sembrava quasi una cerimonia degli Oscar, nella quale i vincitori recitano la lunga litania di ringraziamenti alle mogli, ai produttori, ai parrucchieri, e a tutti quelli che li hanno aiutati a raggiungere quel traguardo.
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Antisionismo e antisemitismo, per Salvini tutto fa brodo
Visto che in Europa sopravvive la vergogna strisciante dell’antisemitismo, la follia criminale che attribuisce responsabilità politiche agli ebrei in quanto tali, Matteo Salvini coglie la palla al balzo per confondere l’antisemitismo con le critiche agli eccessi del sionismo, l’ideologia che consente a una potenza nucleare (lo Stato di Israele) di perseguitare con ogni mezzo i palestinesi, destabilizzando il Medio Oriente da mezzo secolo. Il leader della Lega, scrive Amedeo La Mattina su “La Stampa”, «ha puntato su Gerusalemme da quando, lo scorso anno, è stato accolto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu con tutti gli onori». In quell’occasione, l’ex ministro dell’interno «aveva sostenuto che la Città Santa dovrà essere la capitale di Israele, come ha sempre detto il presidente americano Donald Trump». Salvini lo ha ripetuto il 16 gennaio nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, alla presenza della presidente del Senato Elisabetta Casellati, in un convegno sulle “nuove forme dell’antisemitismo”. La “Stampa” segnala «un costante riallineamento a Washington e un conseguente allontanamento da Mosca», da parte del leghista. Barra dritta su alcuni concetti, ripetuti come un mantra: «L’antisemitismo di certa destra tradizionalista e di certa sinistra è nostro nemico», dichiara Salvini. «Abbiamo il dovere di combattere chi dice che gli ebrei siano i nazisti di oggi: c’è chi lo pensa nel mondo islamico ma anche in certi mondi in Europa».Attenti alle parole: è noto che nessuno, sano di mente, dice o pensa che “gli ebrei” siano “i nazisti di oggi”. Semmai, l’accusa investe il governo israeliano, da decenni dominato dalla destra. E’ stato Netanyahu a compiere spaventosi abusi verso i palestinesi, come i bombardamenti su Gaza costati 1.400 morti tra la popolazione civile (e la coraggiosa protesta dei Refuseniks, i militari israeliani che esercitano l’obiezione di coscienza rifiutandosi di partecipare ad azioni che rischiano di provocare vittime tra i civili). Le cronache di questi anni sono gremite di proteste: a quelle degli arabi e degli occidentali si aggiungono quelle degli stessi ebrei, scandalizzati per la brutalità della violenza israeliana. L’olandese Henk Zanoli (che salvò ebrei dalle persecuzioni naziste) ha chiesto che il suo nome venisse rimosso dal sacrario dei Giusti di Israele, dove si commemorano gli eroi che misero in salvo innocenti durante la Seconda Guerra Mondiale. Il giovanissimo soldato Udi Segal ha preferito andare in carcere, pur di non partecipare alle operazioni militari di repressione contro la popolazione di Gaza. «Ho letto i libri di Ilan Pappe», ha spiegato Segal, alludendo al maggiore storico israeliano contemporaneo, ora costretto a insegnare lontano da Israele dopo aver ricordato che la “pulizia etnica” contro gli arabi in Palestina fu avviata ben prima dell’avvento di Hitler.A descrivere la radice violenta di una certa declinazione del sionismo – sostiene Paolo Barnard – bastano i diari di David Ben Gurion: se il sionismo originario era il sogno di Theodor Herzl (una patria ebraica in Palestina, capace di convivere con gli altri popoli della regione), Ben Gurion lo interpretò in modo anche brutale, non esistando a raccomandare di sterminare donne e bambini nei villaggi palestinesi. Solo più tardi l’immane catastrofe della Shoah spinse il mondo a concedere agli ebrei il loro Stato (accompagnato però dalla nascita di quello parallelo per i palestinesi: uno Stato mai nato, quest’ultimo, in seguito alle guerre che costrinsero il neonato Israele a difendersi dai paesi arabi, che non accettarono la costituzione dello Stato israeliano). La pace separata dell’Egitto con Tel Aviv costò la vita al presidente egiziano Anwar Sadat, assassinato da fondamentalisti islamici, mentre l’unico vero accordo strategico tra israeliani e palestinesi, a metà degli anni ‘90, fu sabotato dall’omicidio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, ucciso da un estremista ultra-sionista. Da allora il conflitto non ha fatto che marcire, impugnato come eterno alibi per giustificare la reciproca ostilità arabo-israeliana, costringendo i palestinesi a pagare un prezzo smisurato. Bombe al fosforo bianco su Gaza, dopo che la Striscia è finita sotto il controllo degli islamisti di Hamas, e incentivo (senza più freni) alla politica degli insediamenti israeliani nei Territori Occupati in Cisgiordania.Recenti gli ultimi due atti, fortemente simbolici: Gerusalemme promossa come futura “capitale israeliana” con la benedizione di Trump, e la trasformazione costituzionale di Israele in “Stato ebraico”, a danno della popolazione non ebrea. Protesta un grande artista come Moni Ovadia, promotore in Occidente della cultura ebraica: «La propaganda più sleale continua ad accusare di antisemitismo chi, come me, si batte semplicemente contro la politica violenta e razzista del governo israeliano». Uno dei leader occidentali del movimento che contesta gli abusi del sionismo contemporaneo è l’inglese Roger Waters: il frontman dei Pink Floyd accusa apertamente Israele di “apartheid” ai danni dei palestinesi, e invita a boicottare i prodotti israeliani. Durissimi con Tel Aviv anche musicisti come Brian Eno e il jazzista ebreo Gilad Atzmon, secondo cui non sono in alcun modo giustificabili le vessazioni quotidiane e le violenze a cui il governo di Israele sottopone l’inerme popolazione palestinese. Con Israele non si scherza: durante l’Operazione Piombo Fuso, i devastanti bombardamenti su Gaza a cavallo tra 2008 e 2009, i Refuseniks furono costretti a ricorrere ad annunci a pagamento, sul quotidiano “Haaretz”, per informare i cittadini della loro protesta: non c’era posto per la voce dei militari dissidenti nella decantata democrazia di Israele, per decenni unico paese a non proporre nelle scuole “Se questo è un uomo” data la posizione di Primo Levi, estremamente critico rispetto al sionismo.Tutt’altra storia è invece quella delle cronache europee che, specie in paesi come la Francia, ripropongono l’abominio dell’antisemitismo, un sentimento che infetterebbe ancora alcuni strati dell’opinione pubblica. Nel convegno romano di Palazzo Giustiniani, a denunciarlo è Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Pubblic Affairs: la lordura antisemita riemerge «nel cuore dell’Occidente», e questo «fa capire che combattere l’antisemitismo significa combattere in difesa della nostra civilizzazione». Oltre al neonazismo fanatico, Gold accusa anche una certa sinistra, che nel difendere i palestinesi tollera l’estremismo islamista, che nega ancora a Israele il diritto di esistere. Ma è proprio lo Stato di Israele, ha precisato l’ambasciatore in Italia Eydar Dror, «la polizza assicurativa di tutti gli ebrei del mondo: grazie a esso – dice Dropr – possono andare a testa alta in tutto il mondo, e in caso di necessità tornare a casa». Per l’ambasciatore, l’antisemitismo è una cartina di tornasole: «Indica il declino della società e ne prevede il crollo». È in questa chiave, sottolinea la “Stampa”, che la presidente Casellati ha parlato della necessità di preservare «una società forte della propria identità, che ripudia l’intolleranza e il razzismo».Temi tornati di attualità, secondo la Casellati, anche a causa di una globalizzazione esasperata che tende a sacrificare le nostre tradizioni e radici culturali. «Ma sono temi che chiamano in ballo Salvini e un pezzo del suo elettorato che viene dalla destra anche estrema», scrive Amedeo La Mattina sulla “Stampa”. «Il leader leghista rifiuta accostamenti con CasaPound e Forza Nuova», e nega di alimentare intolleranza e razzismo. «Accuse assurde», precisa, aggiungendo che il contrasto all’immigrazione e la difesa dei confini non c’entrano nulla con l’intolleranza, il razzismo, la Shoah. Salvini si è detto dispiaciuto che «qualcuno non sia venuto» al convegno. Chiaro il rifermento alla senatrice a vita Liliana Segre, che non ha accettato di partecipare. «Lei ha tanto da insegnare, Carola Rackete no», ha scandito l’ex ministro. La “capitana” viene dunque presa a simbolo di quella sinistra “antisionista e antisemita” che inquieterebbe gli israeliani. Ma ad essere messa alla prova – scrive ancora La Mattina – sarà la sinistra di casa nostra: «Salvini chiede che presto il Parlamento voti sul documento dell’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance) che identifica l’antisemitismo oggi».Da Salvini, non una parola sugli abusi di Israele verso i palestinesi. Al contrario: per il leader della Lega, il vero problema è rappresentato da «una Ue che nega le radici giudaico-cristiane ed etichetta i prodotti israeliani, una Onu che nel 2018 dedica alla condanna di Israele 18 risoluzioni e neanche una a Iran e Turchia». Salvini fa l’ultra-israeliano, schierandosi con il blocco di potere che fa capo a Netanyahu, ignorando le posizioni critiche che emergono dalla stessa società israeliana. Quanto a Gerusalemme capitale, nell’antichissima “città santa” (per ebrei, arabi e cristiani) gli abitanti ultra-ortodossi del quartiere Mea Shearim condannano il sionismo, sostenendo che nemmeno la Bibbia autorizza in alcun modo l’esistenza di uno Stato ebraico. Ma si tratta di argomenti non abbordabili per il capo della Lega, abituato a tagliare tutto a fette grosse. Dopo aver suscitato imbarazzo anche tra i cattolici per l’ostentazione del crocifisso nei comizi politici, è stato l’unico politico europeo (insieme all’inglese Johnson) ad esultare pubblicamente per l’omicidio terroristico del generale Soleimani, eroe nazionale dell’Iran ed emblema di un paese di cui l’Italia resta, a quanto a pare, il primo partner economico. Assediato dalle indagini (tra cui quella sulla missione russa di Savoini), il leghista che ambisce a guidare l’Italia chiede aiuto all’asse Usa-Israele e confonde volutamente l’antisionismo con l’antisemitismo, dopo aver insultato 80 milioni di iraniani.Visto che in Europa sopravvive la vergogna strisciante dell’antisemitismo, la follia criminale che attribuisce responsabilità politiche agli ebrei in quanto tali, Matteo Salvini coglie la palla al balzo per confondere l’antisemitismo con le critiche agli eccessi del sionismo, l’ideologia che consente a una potenza nucleare (lo Stato di Israele) di perseguitare con ogni mezzo i palestinesi, destabilizzando il Medio Oriente da mezzo secolo. Il leader della Lega, scrive Amedeo La Mattina su “La Stampa“, «ha puntato su Gerusalemme da quando, lo scorso anno, è stato accolto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu con tutti gli onori». In quell’occasione, l’ex ministro dell’interno «aveva sostenuto che la Città Santa dovrà essere la capitale di Israele, come ha sempre detto il presidente americano Donald Trump». Salvini lo ha ripetuto il 16 gennaio nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, alla presenza della presidente del Senato Elisabetta Casellati, in un convegno sulle “nuove forme dell’antisemitismo”. La “Stampa” segnala «un costante riallineamento a Washington e un conseguente allontanamento da Mosca», da parte del leghista. Barra dritta su alcuni concetti, ripetuti come un mantra: «L’antisemitismo di certa destra tradizionalista e di certa sinistra è nostro nemico», dichiara Salvini. «Abbiamo il dovere di combattere chi dice che gli ebrei siano i nazisti di oggi: c’è chi lo pensa nel mondo islamico ma anche in certi mondi in Europa».
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Hebron, soldati terrorizzano padre e figlio. Haaretz: nazisti
Ogni giorno dell’ultima settimana ha offerto un esempio della condotta razzista, fascista e brutale dei “combattenti” dell’Idf, l’orgoglio della nazione. Lo stomaco si rivolta tutte le volte che li si vede in azione. Queste sono truppe d’assalto giudeo-naziste. Quest’ultimo video è stato girato martedì scorso ad Hebron. Hebron è una macchia nella società israeliana. Una disgrazia morale in corso. La stessa Hebron da cui Rabin, sì, lo stesso del “retaggio di Rabin,” l’instancabile combattente per la pace, non aveva rimosso i coloni quando c’era stata l’opportunità storica per farlo, dopo il massacro di Baruch Goldstein. Astar Shamir una volta cantava del “posto più in basso di Tel Aviv.” A Tel Aviv, i posti più bassi costituiscono materiale per canzoni pop. Topograficamente, il Mar Morto è il posto più in basso di Israele. Quello più in basso moralmente è Hebron. Nel video due “combattenti” si avvicinano ad un uomo palestinese che cammina con il figlio. Cosa potrebbe esserci di più banale, ordinario e umano di un padre che cammina con suo figlio?Sembra il coro di una canzone di Eli Mohar. Il ragazzo ha una cartella sulla schiena. Padre e figlio stanno camminando per le strade della loro città in autunno. I due “combattenti” gridano al padre e lo spingono. «Non alzare la voce con me», uno dei “combattenti” grida al padre, ammonendolo con il dito. Sembra più l’esperienza di un padre ebreo che cammini con suo figlio per le strade di Berlino nel 1934 che quella di un padre palestinese per le strade di Tel Aviv nel 2019. I “combattenti” dicono che il ragazzo ha lanciato pietre contro di loro. La canzone di Eli Mohar inizia a svanire. La situazione non si adatta nemmeno alla canzone di Yehonatan Gefen “La sedicesima pecora,” non è così bello incontrare le truppe d’assalto sulla strada per l’asilo. Il padre è sbalordito dall’affermazione che suo figlio possa aver lanciato pietre: ha solo cinque anni. (Come dice la canzone), adora il cioccolato, i compleanni e i sacchettini di caramelle. Non i pannolini pieni di escrementi che lanciano i coloni.Inizia un battibecco. Uno dei “combattenti” continua a dire che il bambino ha lanciato pietre e che non gli importa quanti anni abbia. Indossa l’elmetto, è armato di fucile e di chissà cos’altro. Il suo nemico ha solo cinque anni. Un bambino di cinque anni traumatizzato. Anche il “combattente” una volta adorava le gomme da masticare e le caramelle. Uno dei “combattenti” dà uno spintone padre, lo umilia, lo spaventa. Il ragazzo è terrorizzato. Il palestinese chiede che non gli vengano messe le mani addosso. Per tutta risposta, il “combattenti” lo spintonano ancora qualche volta e poi gli dicono di andarsene. A questo punto, uno dei “combattenti” imbraccia il fucile e lo punta sulla faccia del padre, sotto gli occhi del figlio. Guardate il video di Hebron e piangete. Piangete per questo bambino. Piangete per suo padre. Piangete per come si sono ridotti i “combattenti” israeliani. Il padre prende il figlio per mano e si allontanano. Non sono in una canzone di Eli Mohar. Sono in una canzone di Berthold Brecht. Questi “combattenti” hanno perso la loro umanità.(Rogel Alpher, “Questo video girato a Hebron vi farà piangere, pensando a cosa ne è stato dei nostri combattenti”, dalla versione online del quotidiano israeliano “Haaretz” del 7 novembre 2019; articolo tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).Ogni giorno dell’ultima settimana ha offerto un esempio della condotta razzista, fascista e brutale dei “combattenti” dell’Idf, l’orgoglio della nazione. Lo stomaco si rivolta tutte le volte che li si vede in azione. Queste sono truppe d’assalto giudeo-naziste. Quest’ultimo video è stato girato martedì scorso ad Hebron. Hebron è una macchia nella società israeliana. Una disgrazia morale in corso. La stessa Hebron da cui Rabin, sì, lo stesso del “retaggio di Rabin,” l’instancabile combattente per la pace, non aveva rimosso i coloni quando c’era stata l’opportunità storica per farlo, dopo il massacro di Baruch Goldstein. Astar Shamir una volta cantava del “posto più in basso di Tel Aviv.” A Tel Aviv, i posti più bassi costituiscono materiale per canzoni pop. Topograficamente, il Mar Morto è il posto più in basso di Israele. Quello più in basso moralmente è Hebron. Nel video due “combattenti” si avvicinano ad un uomo palestinese che cammina con il figlio. Cosa potrebbe esserci di più banale, ordinario e umano di un padre che cammina con suo figlio?
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Moni Ovadia: accuso Israele, infame chiamarmi antisemita
Chi critica la politica di Israele e in particolare le violazioni dei diritti umani dei palestinesi viene spesso tacciato di anti-semitismo. Come si può sfatare questa accusa? Innanzitutto denunciandola per quello che è: un’infamia, una bieca propaganda per tappare la bocca degli uomini liberi. Una viltà per impedire qualsiasi discorso sull’ingiustizia subita dal popolo palestinese e anche una forma di corto-circuito psicopatologico, di paranoia. E’ come se chi la formula vivesse nella Berlino del 1935 e non in un paese armato fino ai denti, dotato anche di armi nucleari e alleato non solo degli Stati Uniti, ma anche di fatto dell’Egitto, della Giordania e dell’Arabia Saudita. L’unico paese che fa quello che vuole e ignora le risoluzioni dell’Onu senza che la comunità internazionale muova un dito. Io stesso ho subito questa infamia. Siccome l’antisemitismo in Italia è un reato, ho sfidato i miei accusatori a trascinarmi in tribunale, così vedremo come stanno davvero le cose. Inoltre li ho invitati a farsi vedere da uno psichiatra per una lunga terapia. Come giudico la legge approvata un mese fa dal Parlamento israeliano, che dichiara Israele “Stato nazionale del popolo ebraico”? La considero una legge che istituisce “de iure” l’apartheid e il razzismo, che esisteva già “de facto”, ed esprime una logica e una mentalità colonialista. E’ una follia, quando il 20% della popolazione è arabo-palestinese e dunque Israele è già uno stato bi-nazionale.Non sto dicendo che tutti gli israeliani abbiano questa mentalità: ci sono quelli attanagliati dalla paura e preda del mito dell’accerchiamento, quelli che preferiscono non vedere la realtà e quelli che criticano questa politica e pagano le conseguenze del loro coraggio. Purtroppo questi ultimi sono una minoranza, ma nella storia sono state spesso le minoranze a redimere e salvare. La maggioranza ha il diritto di governare, ma non quello di avere ragione. Organizzazioni come “Combatants for Peace” riuniscono israeliani e palestinesi passati alla nonviolenza dopo aver partecipato ad azioni militari gli uni contro gli altri. La Marcia delle Madri ha coinvolto migliaia di donne ebree, musulmane e cristiane per esigere una soluzione nonviolenta del conflitto accettabile dalle due parti. Sono iniziative coraggiose e ammirevoli, portate avanti da persone che vengono boicottate dal governo e accusate di essere contro gli interessi di Israele. Vorrei citare anche i giovani obiettori di coscienza che preferiscono andare in carcere, piuttosto che servire come militari nei territori occupati, e associazioni per i diritti umani come B’Tselem.Due anni fa il suo direttore Hagai El-Ad ha auspicato “azioni immediate” contro gli insediamenti di Israele durante una sessione speciale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sull’occupazione e ha denunciato «l’invisibile, burocratica violenza quotidiana» che i palestinesi subiscono «dalla culla alla tomba». Cosa possiamo fare, come europei e in particolare italiani, per contribuire a una soluzione pacifica del conflitto tra Israele e Palestina? La prima cosa è il lavoro culturale di cui parlavo prima: non smettere mai di ribadire che la denuncia delle ingiustizie e delle sopraffazioni subite dai palestinesi non c’entra niente con l’antisemitismo e la Shoà. In secondo luogo, fare pressione sui governi perché prendano posizione ed esigano il rispetto delle risoluzioni dell’Onu sempre violate da Israele. Terzo, appoggiare il movimento Bds, una campagna globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, chiedendo all’Europa di sequestrare (in quanto illegali) le merci prodotte nei territori occupati e negli insediamenti dei coloni. Il messaggio è semplice, ma molto forte: “Non sono terre vostre, pertanto queste sono merci di contrabbando, fuorilegge, e noi non le vogliamo”.(Moni Ovadia, dichiarazioni rilasciate ad Anna Polo per l’intervista “Accusare di antisemitismo chi critica la politica di Israele è un’infamia”, pubblicata da “Pressenza” e ripresa da “Contropiano” il 9 settembre 2018).Chi critica la politica di Israele e in particolare le violazioni dei diritti umani dei palestinesi viene spesso tacciato di antisemitismo. Come si può sfatare questa accusa? Innanzitutto denunciandola per quello che è: un’infamia, una bieca propaganda per tappare la bocca degli uomini liberi. Una viltà per impedire qualsiasi discorso sull’ingiustizia subita dal popolo palestinese e anche una forma di corto-circuito psicopatologico, di paranoia. E’ come se chi la formula vivesse nella Berlino del 1935 e non in un paese armato fino ai denti, dotato anche di armi nucleari e alleato non solo degli Stati Uniti, ma anche di fatto dell’Egitto, della Giordania e dell’Arabia Saudita. L’unico paese che fa quello che vuole e ignora le risoluzioni dell’Onu senza che la comunità internazionale muova un dito. Io stesso ho subito questa infamia. Siccome l’antisemitismo in Italia è un reato, ho sfidato i miei accusatori a trascinarmi in tribunale, così vedremo come stanno davvero le cose. Inoltre li ho invitati a farsi vedere da uno psichiatra per una lunga terapia. Come giudico la legge approvata un mese fa dal Parlamento israeliano, che dichiara Israele “Stato nazionale del popolo ebraico”? La considero una legge che istituisce “de iure” l’apartheid e il razzismo, che esisteva già “de facto”, ed esprime una logica e una mentalità colonialista. E’ una follia, quando il 20% della popolazione è arabo-palestinese e dunque Israele è già uno stato bi-nazionale.
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Israele in Patagonia, coi soldi inglesi. E quel sommergibile
Perché un miliardario britannico Joe Lewis sta acquistando terre in Patagonia, dove Israle sta mandando “in vacanza” migliaia di soldati, proprio di fronte al mare – affacciato sull’Antartide – dove è scomparso il sommergibile argentino San Juan, alle prese con una imprecisata “missione segreta” di cui però gli inglesi erano al corrente? Se lo domanda un giornista internazionale come Thierry Meyssan, di stanza in Libano: «Probabilmente il San Juan è esploso: la stampa argentina è convinta che abbia urtato una mina o sia stato distrutto da missile nemico». E gli immensi territori in via di acquisizione sud dell’Argentina e anche nel vicino Cile? Per il momento, ragiona Meyssan, «è impossibile stabilire se Israele abbia avviato un programma di sfruttamento dell’Antartide o se stia costruendo una base in cui ripiegare in caso di disfatta in Palestina». Ma il reporter si interroga sulle possibili connessioni “invisibili” che sembrano legare Patagonia e Antartide, Tel Aviv e Londra, la guerra in Siria e la strana sparizione del sottomarino, scomparso (in fondo al mare?) dopo l’ultima comunicazione con la terraferma, il 15 novembre, con a bordo 44 marinai.Nel XIX secolo, ricorda Meyssan su “Rete Voltaire” in un post ripreso da “Megachip”, il governo britannico era indeciso se istallare lo Stato di Israele nell’attuale Uganda, in Argentina o in Palestina. «All’epoca l’Argentina era controllata dal Regno Unito e, per iniziativa del barone francese Maurice de Hirsch, era diventata terra di accoglienza per gli ebrei che fuggivano dai pogrom dell’Europa centrale». Nel XX secolo, dopo il colpo di Stato militare contro il generale Juan Domingo Peron, presidente democraticamente eletto, nelle forze armate si affermò una corrente antisemita: «Questa fazione dell’esercito diffuse una brochure in cui accusava il nuovo Stato d’Israele di preparare un’invasione della Patagonia, il Piano Andinia». Oggi emerge che, «nonostante l’esagerazione dei fatti dell’estrema destra degli anni ’70», esisteva davvero un progetto di insediamento (e non di invasione) in Patagonia, sottolinea Meyssan. «Tutto cambiò con la guerra delle Malvine del 1982, quando la giunta militare argentina tentò di rientrare in possesso delle isole Malvine, della Georgia del Sud e del Sandwich del Sud, territori dal suo punto di vista occupati da un secolo e mezzo dai britannici».L’Onu riconobbe la legittimità della rivendicazione dell’Argentina, ma il Consiglio di Sicurezza ne condannò il ricorso alla forza al fine di recuperare i territori contesi. «La posta in gioco era considerevole», spiega il giornalista francese, «perché le acque territoriali di questi arcipelaghi danno accesso alle ricchezze del continente antartico». Alla fine della guerra delle Malvine, che fece oltre un migliaio di morti (i numeri ufficiali britannici sono di molto inferiori), Londra impose a Buenos Aires un trattato di pace particolarmente duro, che riduceva al minimo le forze armate argentine. «In particolare, all’Argentina venne sottratto il controllo dello spazio aereo del sud del paese e dell’Antartico, che passò alla Royal Air Force». Inoltre, continua Meyssan, ancora oggi «Buenos Aires deve informare il Regno Unito di ogni sua operazione militare». E non tutto è andato liscio, da quelle parti, dopo la guerra della Falkland: «Nel 1992 e nel 1994 due misteriosi attentati, particolarmente sanguinosi e devastanti, distrussero l’ambasciata d’Israele e la sede dell’associazione israelita Amia». Il primo attentato, rivela Meyssan, avvenne subito dopo che i capi della sezione dell’intelligence israeliana per l’America Latina avevano lasciato l’edificio.Il secondo attentato ebbe luogo durante le ricerche congiunte egiziano-argentine per i missili balistici Condor. «Nello stesso periodo la fabbrica principale dei Condor esplose, e i figli dei presidenti Carlos Menem e Hafez al-Assad morirono entrambi in incidenti. Le numerose inchieste che seguirono furono inquinate da una serie di manipolazioni». Dopo aver designato la Siria come responsabile dei due attentati, aggiunge Meyssan, il procuratore Alberto Nisman passò all’Iran, accusandolo di esserne il committente, e a Hezbollah, accusandolo di esserne l’esecutore. «L’ex presidente peronista Cristina Kirchner fu accusata di aver negoziato la chiusura del procedimento contro l’Iran in cambio di un prezzo vantaggioso per il petrolio». Poco dopo, però, «il procuratore Nisman è stato trovato morto in casa e la presidente Kirchner è stata incolpata di alto tradimento». La settimana scorsa, infine, «un nuovo colpo di scena ha mandato all’aria quello che si dava per certo: l’Fbi ha tirato fuori analisi del Dna che dimostrano che il presunto terrorista non era tra le vittime e che tra queste vi era invece un corpo mai identificato». Morale: «Venticinque anni dopo, non si sa ancora nulla degli attentati di Buenos Aires».E intanto, l’interesse anglo-israeliano per il Sud dell’Argentina non ha fatto che aumentare: «Nel XXI secolo, approfittando dei vantaggi ottenuti con il Trattato della guerra delle Malvine, Regno Unito e Israele intraprendono un nuovo progetto in Patagonia. Le sue proprietà si estendono ormai su una superficie più volte multipla dello Stato d’Israele», avverte Meyssan. «Si trovano nella Terra del Fuoco, all’estremo Sud del continente. In particolare, circondano il Lago Escondido, cui impediscono l’accesso nonostante un’ingiunzione della magistratura argentina». Il miliardario inglese Joe Lewis «ha costruito un aeroporto privato con una pista di due chilometri, su cui possono atterrare aerei di trasporto civile e militare». Dalla fine della guerra delle Malvine, l’esercito israeliano organizza in Patagonia “campi di vacanza” (sic) per i suoi soldati. «Ogni anno, da 8.000 a 10.000 soldati trascorrono due settimane nelle proprietà di Joe Lewis». Se negli anni ’70 l’esercito argentino lanciò l’allarme per 25.000 nuovi alloggi rimasti inabitati, dando vita al mito del piano Andinia, oggi ne sono stati costruiti centinaia di migliaia. «È impossibile verificare lo stato di avanzamento dei lavori perché, essendo proprietà privata, Google Earth oscura le fotografie satellitari della zona, così come fa per le istallazioni militari dell’Alleanza Atlantica».Poi c’è il ruolo del vicino Cile, aggiunge Meyssan, che «ha ceduto una base di sottomarini a Israele, dove sono stati scavati tunnel per sopravvivere al rigore dell’inverno polare». Gli indiani Mapuche, che abitano la Patagonia argentina e cilena, sono rimasti sorpresi nell’apprendere che a Londra è stata riattivata la Resistencia Ancestral Mapuche (Resistenza Ancestrale Mapuche – Ram), misteriosa organizzazione che rivendica l’indipendenza. «Inizialmente accusata di essere una vecchia associazione rispolverata dai servizi segreti argentini, la Ram è ora considerata dalla sinistra un movimento secessionista legittimo e dai leader Mapuche un’iniziativa finanziata da George Soros». Infine, in questo scenario opaco, si è inserita la sparizione del sommergibile San Juan, con il quale la marina argentina ha perso i contatti il 15 novembre 2017, dichiarandolo poi “inabissato in mare”. Era uno dei due sottomarini diesel-elettrici Tr 1700, fiore all’occhiello della difesa argentina. «Alla fine il governo ha dovuto ammettere che il sottomarino era in “missione segreta”, non meglio specificata, di cui Londra era a conoscenza». L’esercito statunitense ha partecipato alle ricerche e la marina russa ha inviato un drone in grado di scandagliare i fondali marini a 6.000 metri di profondità, che però non ha trovato nulla. Che sta succedendo, dunque, all’estremo confine meridionale del pianeta?Perché il miliardario britannico Joe Lewis sta acquistando terre in Patagonia, dove Israele sta mandando “in vacanza” migliaia di soldati, proprio di fronte al mare – affacciato sull’Antartide – dove è scomparso il sommergibile argentino San Juan, alle prese con una imprecisata “missione segreta” di cui però gli inglesi erano al corrente? Se lo domanda un giornalista internazionale come Thierry Meyssan, di stanza in Libano: «Probabilmente il San Juan è esploso: la stampa argentina è convinta che abbia urtato una mina o sia stato distrutto da missile nemico». E gli immensi territori in via di acquisizione nel sud dell’Argentina e anche nel vicino Cile? Per il momento, ragiona Meyssan, «è impossibile stabilire se Israele abbia avviato un programma di sfruttamento dell’Antartide o se stia costruendo una base in cui ripiegare in caso di disfatta in Palestina». Ma il reporter si interroga sulle possibili connessioni “invisibili” che sembrano legare Patagonia e Antartide, Tel Aviv e Londra, la guerra in Siria e la strana sparizione del sottomarino, scomparso (in fondo al mare?) dopo l’ultima comunicazione con la terraferma, il 15 novembre, con a bordo 44 marinai.
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Geologo: quei solchi di pneumatici hanno 12 milioni di anni
Fa un certo effetto ascoltare la dichiarazione del dottor Alexander Koltypin, se non altro per il fatto che si tratta di un geologo e direttore del Natural Science Research Center presso l’Università Internazionale Indipendente di Ecologia e Politologia di Mosca. Secondo il ricercatore russo, in diverse località del pianeta è possibile osservare solchi di pneumatici lasciati nel terreno da veicoli pesanti che si possono far risalire a circa 12 milioni di anni fa.Come è possibile? Certamente si tratta di un’affermazione discutibile, dal momento che l’archeologia classica fa risalire l’inizio della civiltà umana a diverse migliaia di anni fa, non milioni. Eppure, Koltypin si dice convinto che sul nostro pianeta esistono numerosi siti archeologici dove è possibile riscontrare indizi che avvalerebbero l’esistenza di civiltà vissute milioni di anni fa. Koltypin è un appassionato sostenitore di questa teoria, tanto da aver denominato il suo sito web ‘Earth before the flood: Disappared Continents and Civilizations‘ (La Terra prima del Diluvio: Continenti e Civiltà scomparse).È proprio dal suo sito che il ricercatore russo afferma che le tracce riscontrate nel sito spagnolo di Castellar de Meca, nella provincia di Valencia, risalirebbero al Miocene medio e tardo (tra i 12 e i 14 milioni di anni fa circa). Il villaggio di Castellar de Meca è un sito archeologico unico nel suo genere. Le rovine mostrano un insediamento fortificato praticamente scavato nella roccia. Gli archeologi ‘ortodossi’ fanno risalire i primi insediamenti umani all’età del bronzo. Koltypin si riferisce all’unico accesso alla cittadella fortificata chiamato “Camino Hondo” sul cui fondo sono impresse le tracce parallele. La spiegazione ufficiale è che si tratta di solchi lasciati dal passaggio di carri trainati da animali. Ma Koltypin non è soddisfatto: «Io non accetto queste spiegazioni», scrive il ricercatore. «I solchi sono troppo profondi per essere stati lasciati da mezzi così leggeri. Dobbiamo pensare a veicoli notevolmente più pesanti».All’epoca il terreno doveva essere umido e morbido, come argilla malleabile. Muovendosi su di esso, un veicolo di grandi dimensioni sarebbe affondato facilmente nel fango, lasciando la doppia traccia di pneumatico. Secondo Koltypin, questi ipotetici veicoli presentavano dimensioni simili ai fuoristrada moderni, ma con pneumatici larghi 23 centimetri. Con il passare degli eoni, il fango si sarebbe pietrificato, lasciando impresse le caratteristiche tracce per i milioni di anni a venire. Lo studio condotto dal ricercatore russo sui depositi minerali che rivestono le tracce e la loro erosione, mostrerebbero la loro incredibile antichità. Sebbene la pietrificazione possa avvenire in poche centinaia di anni, o addirittura pochi mesi, Koltypin sostiene che in questo caso non ci sarebbero dubbi a far risalire le tracce al Miocene. Koltypin ha condotto numerosi studi sul campo in varie località, con diverse pubblicazioni su riviste di geologia. Il ricercatore ipotizza che oltre 12 milioni di anni fa esistesse una rete di strade diffusa in tutto il Mediterraneo.Solchi di ruote pietrificati con caratteristiche simili sono state riscontrate a Malta, in Turchia, Italia, Kazakistan e Francia. A suo avviso, queste strade sarebbero state utilizzate dalle stesse persone che hanno costruito città sotterranee come Derinkuyu, in Cappadocia. Secondo l’archeologia ufficiale, le tracce pietrificate sarebbero state lasciate da diverse civiltà in diversi periodi di tempo. Koltypin, invece, ritiene che esse vadano attribuite ad un’unica civiltà diffusa su tutto il pianeta esistita in un’epoca estremamente remota. Il nostro pianeta ha circa 4,5 miliardi di anni e un passato geologicamente turbolento. Koltypin spiega che eventi geologicamente distruttivi come tsunami, eruzioni vulcaniche, movimenti tettonici e impatti meteoritici possano aver spazzato via gran parte dei resti di queste antichissime civiltà. «Senza significativi ulteriori studi da parte dei grandi gruppi di archeologi, geologi ed antropologi, rimane impossibile rispondere alle domande su queste civiltà dimenticate», conclude Koltypin. «Lo ricorderò sempre a me stesso… molti altri abitanti del nostro pianeta sono stati cancellati dalla nostra storia».(“Geologo russo: in Spagna ci sono tracce di pneumatici antiche 12 milioni di anni”, dal blog “Il Navigatore Curioso”).Fa un certo effetto ascoltare la dichiarazione del dottor Alexander Koltypin, se non altro per il fatto che si tratta di un geologo e direttore del Natural Science Research Center presso l’Università Internazionale Indipendente di Ecologia e Politologia di Mosca. Secondo il ricercatore russo, in diverse località del pianeta è possibile osservare solchi di pneumatici lasciati nel terreno da veicoli pesanti che si possono far risalire a circa 12 milioni di anni fa. Come è possibile? Certamente si tratta di un’affermazione discutibile, dal momento che l’archeologia classica fa risalire l’inizio della civiltà umana a diverse migliaia di anni fa, non milioni. Eppure, Koltypin si dice convinto che sul nostro pianeta esistono numerosi siti archeologici dove è possibile riscontrare indizi che avvalerebbero l’esistenza di civiltà vissute milioni di anni fa. Koltypin è un appassionato sostenitore di questa teoria, tanto da aver denominato il suo sito web ‘Earth before the flood: Disappared Continents and Civilizations‘ (La Terra prima del Diluvio: Continenti e Civiltà scomparse).
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Giulietto Chiesa: illusionismo Trump, vincerà Wall Street
Non ho mai pensato, né detto dunque, che Trump sia “contro il sistema”. Del resto non so bene cosa significhi la parola “sistema”. Se per “sistema” s’intende il capitalismo, la risposta è no. Trump mi pare semmai un capitalista tradizionale. Mentre il turbocapitalismo impersonato da Wall Street è una cosa ormai sostanzialmente diversa. Trump è comunque un miliardario plurimo. Come potrebbe essere contro il capitalismo? Vedo che in molti c’è una grande confusione sui termini. Con quelli tradizionali non si va da nessuna parte. Trump è un fenomeno. Tutto interno alla crisi del capitalismo finanziario. La sua linea non è ancora definita. Come non lo è la sua cultura (non solo la sua cultura politica). Dà l’impressione di avere capito qualche cosa del mondo in cui vive. Ma nemmeno lui è consapevole di cosa sa e di cosa non sa. È inoltre evidente (a me, per lo meno) che non riesce a connettere piani diversi e a cogliere le connessioni tra di essi. Per esempio dice di non volersi ingerire troppo negli affari degli altri. Ma poi si ingerisce subito nel conflitto palestinese schierandosi con le richieste di Netanyahu e degli oltranzisti sionisti per trasferire la capitale di Israele (e quindi l’ambasciata americana) da Tel Aviv a Gerusalemme. Non so se qualcuno gli ha spiegato le conseguenze di questo gesto.Non parliamo del suo atteggiamento verso la Cina. Che sembra essere tornata il nemico principale, come lo era nel famoso documento del Pnac (Project for the New American Century) dei neocon. Se Trump confermerà questa linea, lo scontro con la Cina sarà inevitabile. Cioè sposta in là di qualche anno il pericolo della catastrofe nucleare, o peggio. Altro esempio: cancella il Trattato interpacifico di Obama (e quindi viene visto come un progressista da tutti coloro che erano e sono contro il Ttp e anche contro il Ttip) ma non lo fa per gli stessi motivi con cui, per esempio, io sono contro, insieme a tutti coloro che si sono battuti per fermarlo. Lo fa perché pensa che quei trattati avrebbero favorito la finanza e non fatto aumentare i posti di lavoro americani. Forse ha ragione, ma non è la nostra ragione. Dice di volere riaprire il dialogo con la Russia, ma solo perché pensa che oggi sia conveniente alla politica americana, non perché vuole realisticamente ridimensionare l’America e accettare che sia posta sullo stesso piano dei suoi interlocutori. Mostra aperto disprezzo per l’Europa, ma sembra inconsapevole che, così facendo (e riaprendo il dialogo con Putin), crea un terremoto in Europa di cui sicuramente non sa prevedere le ripercussioni.Insomma voglio dire che i suoi gesti possono apparire a molti di noi come positivi (e alcuni lo sono), ma lo fa sulla base di idee che sono lontanissime da quelle che tutti noi condividiamo, cioè quelle di un mondo giusto e pacifico. Io diffido moltissimo di lui e di coloro che lo circondano. Anche loro sono l’America. Anche loro sono portatori del virus che ci sta portando in guerra con la Natura. Se lui riaprirà il dialogo con la Russia sarà comunque un fatto positivo: perché ci consentirà di respirare qualche anno di più. Ma che questo sia l’inizio della trasformazione degli Stati Uniti in un fattore di pace per il mondo, questo non lo credo. Credo che sia la prosecuzione, in altre forme, del dominio americano sul mondo. Era impossibile quello di Clinton-Bush-Obama. Sarà impossibile anche quello di Trump. Il popolo americano non è in grado di operare questa svolta. Che implicherebbe una vera e propria rivoluzione. Il mostro del denaro ha già ingoiato i cervelli di troppa gente, in America. E gli altri sono in larga maggioranza privati di ogni capacità di organizzazione di un’alternativa.Alla fin fine io credo che non ci sia nessun presidente che possa torcere il braccio a Wall Street e che voglia fare la fine di Kennedy. Neanche Trump potrà farlo. Sarà la crisi di quello che molti chiamano il “sistema” che fermerà Wall Street. Il massimo sarebbe stato, forse, Sanders. Ma non c’è nessun presidente che possa torcere il braccio a Wall Street. Neanche Trump. E Wall Street è il male assoluto per il pianeta Terra. Ma non è nemmeno escluso che Wall Street faccia saltare in aria il mondo quando si accorgerà del disastro che ha creato. Potrà sembrare strano, ma nelle leggi fondamentali della stupidità umana del professor Carlo Maria Cipolla c’è quella che definisce lo stupido come il più pericoloso dei soggetti. Perché è colui che può fare del male agli altri e a se stesso, in quanto stupido. Lo stupido è imparabile. A Wall Street e nella sua filiale, la City di Londra, c’è una altissima concentrazione di stupidi strategici che hanno un potere sterminato. Il “sistema” sono loro. In queste condizioni chi è ottimista è stupido, anche se non abita a Wall Street.(Giulietto Chiesa, “Chi è Trump e dove ci porterà, se resterà”, da “Megachip” del 27 gennaio 2017Non ho mai pensato, né detto dunque, che Trump sia “contro il sistema”. Del resto non so bene cosa significhi la parola “sistema”. Se per “sistema” s’intende il capitalismo, la risposta è no. Trump mi pare semmai un capitalista tradizionale. Mentre il turbocapitalismo impersonato da Wall Street è una cosa ormai sostanzialmente diversa. Trump è comunque un miliardario plurimo. Come potrebbe essere contro il capitalismo? Vedo che in molti c’è una grande confusione sui termini. Con quelli tradizionali non si va da nessuna parte. Trump è un fenomeno. Tutto interno alla crisi del capitalismo finanziario. La sua linea non è ancora definita. Come non lo è la sua cultura (non solo la sua cultura politica). Dà l’impressione di avere capito qualche cosa del mondo in cui vive. Ma nemmeno lui è consapevole di cosa sa e di cosa non sa. È inoltre evidente (a me, per lo meno) che non riesce a connettere piani diversi e a cogliere le connessioni tra di essi. Per esempio dice di non volersi ingerire troppo negli affari degli altri. Ma poi si ingerisce subito nel conflitto palestinese schierandosi con le richieste di Netanyahu e degli oltranzisti sionisti per trasferire la capitale di Israele (e quindi l’ambasciata americana) da Tel Aviv a Gerusalemme. Non so se qualcuno gli ha spiegato le conseguenze di questo gesto.
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Paghiamo il pizzo al Pentagono, purché non faccia più guerre
Non c’è voluto molto per la Lobby di Israele a mettere in ginocchio il presidente Obama per il suo divieto di costruire nuovi insediamenti illegali israeliani nei territori palestinesi occupati. Obama ha scoperto che un semplice presidente americano è impotente quando viene affrontato dalla Lobby di Israele, e che agli Stati Uniti semplicemente non viene permesso di avere una politica in Medio Oriente diversa da quella di Israele. Obama ha anche scoperto che non può cambiare niente, sempre che ne avesse mai avuto l’intenzione. Nell’agenda della lobby militare e della difesa c’è la guerra e uno stato di polizia interno, e un semplice presidente americano non può farci niente. Il presidente Obama può ordinare che vengano chiuse le camere della tortura di Guantanamo, e che i sequestri di persona e le torture vengano fermati, ma nessuno esegue i suoi ordini. In pratica, Obama è irrilevante. Può promettere che porterà a casa le truppe, e la lobby militare dice: “No, invece li manderai in Afghanistan, e nel frattempo inizierai una guerra in Pakistan e costringerai l’Iran in una posizione che ci darà un pretesto per fare una guerra anche lì. Le guerre sono troppo lucrose per noi perchè tu possa fermarle”. E il piccolo presidente dirà: “Sissignore!”.Obama può promettere l’assistenza sanitaria a 50 milioni di americani che non ce l’hanno, ma non può sconfiggere il veto della lobby della guerra e della lobby delle assicurazioni. La lobby della guerra dice che i profitti di guerra sono più importanti dell’assistenza sanitaria e che il paese non si può permettere sia la “guerra al terrore” che la “medicina socializzata”. La lobby delle assicurazioni dice che l’assistenza sanitaria deve venir data dalle assicurazioni sanitarie private; altrimenti non possiamo permettercela. Le lobby della guerra e delle assicurazioni hanno sventolato le loro agende con i contributi versati in campagna elettorale e molto velocemente hanno convinto il Congresso e la Casa Bianca che lo scopo reale del progetto di legge sull’assistenza sanitaria è di salvare soldi tagliando i benefici a “Medicare” e “Medicaid”, e quindi «mettere gli “entitlements” [diritti acquisiti] sotto controllo». “Entitlements” è una parola usata dalla destra per denigrare le poche cose che, in un lontano passato, il governo faceva per i suoi cittadini. La “Social Security” e “Medicare”, ad esempio, vengono denigrati come “entitlements”.La destra continua senza sosta a parlare della “Social Security” e di “Medicare” come se fossero regali dati a persone incapaci che rifiutano di prendersi cura di se stesse, quando in realtà i cittadini vengono di gran lunga sovratassati con un’imposta del 15% nelle loro paghe per avere in cambio dei magri benefici. Infatti per decenni ormai il governo federale ha finanziato le sue guerre e i budget militari con le entrate in surplus raccolte dalla tassa sul lavoro della “Social Security”. Sostenere, come fa la destra, che non possiamo permetterci l’unica cosa nell’intero budget che ha in modo consistente prodotto delle entrate in eccesso sta ad indicare che lo scopo reale è di portare il cittadino medio ad uno stato di indigenza. I veri “entitlements” non vengono mai menzionati. Il budget della “difesa” è un entitlement per il complesso militare e della difesa, sul quale il presidente Eisenhower ci mise in guardia 50 anni fa. Una persona dev’essere folle per credere che gli Stati Uniti, “l’unica superpotenza del mondo”, protetta da oceani ad Est e a Ovest e da Stati-fantoccio a Nord e a Sud, abbia bisogno di un budget della “difesa” superiore all’intera spesa militare del resto mondo messo insieme.Il budget militare è nient’altro che un “entitlement” per il complesso militare e della sicurezza. Per nascondere questo fatto, l’entitlement viene mascherato come una protezione contro i “nemici” e fatto passare attraverso il Pentagono. Io dico, eliminiamo l’intermediario e distribuiamo semplicemente una percentuale del budget federale al complesso militare e della sicurezza. In questo modo non avremo bisogno di inventare scuse per invadere altri paesi e andare a fare la guerra con il solo scopo di dare al complesso militare e della difesa il suo “entitlement”. Sarebbe molto più economico dargli i soldi direttamente, e salverebbe anche un sacco di vite umane e sofferenze in patria e all’estero. L’invasione statunitense dell’Iraq non aveva proprio niente a che fare con gli interessi nazionali americani. Aveva a che fare con i profitti sugli armamenti e con l’eliminazione di un ostacolo all’espansione territoriale israeliana. Il costo della guerra, oltre i 3 trilioni di dollari, è stato di 4.000 americani morti, oltre 30.000 feriti e mutilati, decine di migliaia di matrimoni americani distrutti e carriere perdute, un milione di iracheni morti, quattro milioni di iracheni profughi e un paese ridotto in macerie. Tutto questo è stato fatto per i profitti del complesso militare e della sicurezza e anche affinchè la paranoide Israele, armata con 200 bombe nucleari, potesse sentirsi “sicura”.La mia proposta renderebbe il complesso militare e della difesa ancora più ricco, dato che le compagnie riceverebbero i soldi senza aver bisogno di costruire le armi. Piuttosto, tutti i soldi potrebbero venir usati per bonus multimilionari e dividendi distribuiti agli azionisti. Nessuno, in patria o all’estero, dovrebbe venir ucciso, e il contribuente sarebbe ben più felice. Non c’è alcun interesse nazionale americano nella guerra in Afghanistan. Come rivelato dall’ex ambasciatore britannico Craig Murray, lo scopo della guerra è di proteggere gli interessi della Unocal per un oleodotto che passa attraverso l’Afghanistan. Il costo della guerra è di gran lunga superiore all’investimento dell’Unocal nell’oleodotto. L’ovvia soluzione è di comprare l’Unocal e dare l’oleodotto agli afghani come parziale risarcimento per la distruzione che abbiamo inflitto a quel paese e alla sua popolazione, e di portare le truppe a casa.Il motivo per cui le mie ragionevoli soluzioni non verranno attuate è che le lobby pensano che i loro “entitlements” non potrebbero sopravvivere se diventassero evidenti a tutti. Loro pensano che se il popolo americano sapesse che le guerre stanno venendo combattute per arricchire le industrie degli armamenti e del petrolio, la gente fermerebbe le guerre. In realtà, il popolo americano non ha diritto di opinione su ciò che il “suo” governo fa. I sondaggi mostrano che metà o più della metà del popolo americano non sostiene le guerre in Iraq e Afghanistan e non sostiene l’escalation del presidente Obama per quanto riguarda la guerra in Afghanistan. Nonostante ciò, le occupazioni e le guerre continuano. La Russia di Putin ha già paragonato gli Usa alla Germania nazista, e il premier cinese ha paragonato gli Usa a un debitore irresponsabile e immorale. Gli inglesi stanno indagando sul loro capo criminale, l’ex primo ministro Tony Blair, e l’inganno che mise in piedi contro il suo stesso consiglio dei ministri per fornire una scusa a Bush per la sua invasione illegale dell’Iraq.Agli investigatori inglesi è stata negata l’abilità di presentare accuse penali, ma la questione della guerra basata interamente su una macchinazione di bugie e inganni sta venendo ben diffusa. Riecheggierà per tutto il pianeta, e il mondo vedrà che non esiste un’indagine simile negli Usa, il paese da dove ebbe origine la Guerra Falsa. Nel frattempo, le banche d’investimento Usa, che hanno distrutto la stabilità finanziaria di molti governi, incluso quello degli Usa, continuano a controllare, come hanno sempre fatto fin dall’amministrazione Clinton, la politica economica e finanziaria degli Usa. Il mondo ha sofferto in modo terribile per i gangsters di Wall Street, e adesso guarda all’America con occhio critico. I sondaggi nel mondo mostrano che gli Usa e il suo capo-fantoccio vengono visti come le due più grandi minacce per la pace. Washington e Israele superano nella lista dei più pericolosi il regime pazzoide della Nord Corea. Quando il dollaro sarà sovra-inflazionato da una Washington incapace di pagare i suoi conti, il mondo sarà spinto dall’avidità e cercherà di salvarci per salvare i suoi investimenti, oppure dirà “grazie a Dio, che liberazione”.(Paul Craig Robers, estratti da “Il fantoccio Obama”, intervento pubblicato da “Information Clearing House” e ripreso dal blog “Vox Populi” il 25 agosto 2015. Eminente economista e politologo, Craig Roberts fu tra i più stretti collaboratori di Ronald Reagan).Non c’è voluto molto per la Lobby di Israele a mettere in ginocchio il presidente Obama per il suo divieto di costruire nuovi insediamenti illegali israeliani nei territori palestinesi occupati. Obama ha scoperto che un semplice presidente americano è impotente quando viene affrontato dalla Lobby di Israele, e che agli Stati Uniti semplicemente non viene permesso di avere una politica in Medio Oriente diversa da quella di Israele. Obama ha anche scoperto che non può cambiare niente, sempre che ne avesse mai avuto l’intenzione. Nell’agenda della lobby militare e della difesa c’è la guerra e uno stato di polizia interno, e un semplice presidente americano non può farci niente. Il presidente Obama può ordinare che vengano chiuse le camere della tortura di Guantanamo, e che i sequestri di persona e le torture vengano fermati, ma nessuno esegue i suoi ordini. In pratica, Obama è irrilevante. Può promettere che porterà a casa le truppe, e la lobby militare dice: “No, invece li manderai in Afghanistan, e nel frattempo inizierai una guerra in Pakistan e costringerai l’Iran in una posizione che ci darà un pretesto per fare una guerra anche lì. Le guerre sono troppo lucrose per noi perchè tu possa fermarle”. E il piccolo presidente dirà: “Sissignore!”.
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Israele, guerra e Pil: e i palestinesi diventano schiavi inutili
Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.A sdoganare un linguaggio più che esplicito sono alcuni esponenti dell’establishment di Tel Aviv, come la parlamentare Ayelet Shaked, quella che durante l’ultimo assedio di Gaza esortò a colpire «tutto il popolo palestinese, inclusi gli anziani e le donne, le loro città e i loro villaggi, i loro beni e infrattutture». Anche le donne, colpevoli di allevare «serpenti». Su “The Times of Israel”, Yonahan Gordan spiega «quando si approva un genocidio», e argomenta: «Che altro modo c’è allora per affrontare un nemico di questa natura che non sia lo sterminio completo?». Il vicepresidente del Parlamento israeliano, Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, sollecita l’esercito israeliano a uccidere indiscriminatamente i palestinesi di Gaza e a utilizzare ogni possibile mezzo per farli andar via: «Il Sinai non è lontano da Gaza e possono andarsene, questo sarà il limite dello sforzo umanitario di Israele». Questi appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno crescendo di frequenza, scrive Robinson nella sua analisi, ripresa da “Come Don Chisciotte”.Il clima politico in Israele ha continuato a spostarsi a destra: «Quasi la metà della popolazione ebrea di Israele appoggia una politica di pulizia etnica dei palestinesi», scrive Robinson. Secondo un sondaggio del 2012, «la maggioranza della popolazione appoggia la completa annessione dei Territori Occupati e l’istituzione di uno stato di apartheid». Il timore di una crescita del fascismo in Israele ha portato 327 sopravissuti, discendenti di sopravissuti e vittime del genocidio ebreo perpetrato dai nazisti, a pubblicare una lettera aperta sul “New York Times” del 25 agosto che esprimeva allarme per «la estrema disumanizzazione razzista dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto un picco febbrile». La carta continuava: «Dobbiamo alzare la nostra voce collettiva e usare il nostro potere collettivo per porre fine a tutte le forme di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese». Il problema, aggiunge Robinson, è che lo stesso progetto sionista può essere letto come basato sul genocidio della pulizia etnica: testualmente, l’articolo 2 della convenzione dell’Onu del 1948 definisce il genocidio come “azioni commesse con l’intenzione di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.La drammatica escalation degli ultimi anni, rivela Robinson, ha origini economiche: è la globalizzazione a rendere ormai “superflui” i lavoratori palestinesi, ridotti allo status di “umanità eccedente”. «La rapida globalizzazione di Israele a partire dalla fine degli anni ‘80 coincise con le due Intifada (proteste) palestinesi e con gli accordi di Oslo, negoziati dal 1991 al ‘93 e che naufragarono negli anni seguenti». A premere per gli accordi di pace, i poteri forti finanziari: i focolai geopolitici della guerra fredda avevano ostacolato l’accumulazione di capitali e occorreva “stabilizzare” il Medio Oriente. «Il processo di Oslo – spiega Robinson – si può vedere come un pezzo chiave nel puzzle politico provocato dall’integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalista globale emergente», il contesto nel quale poi si inserirà la stessa “primavera araba”. Gli accordi di Oslo, naturalmente, rimasero lettera morta: avevano promesso ai palestinesi una soluzione definitiva entro 5 anni, con uno statuto per i rifugiati e il loro diritto al ritorno in Palestina, una definizione delle frontiere e della gestione dell’acqua, nonché la ritirata di Israele dai Territori Occupati. Durante il periodo di Oslo, cioè tra il 1991 e il 2003, «l’occupazione israeliana della Cisgiordania e Gaza si intensificò smisuratamente».Perché fallì il processo di pace? Prima di tutto, perché «non era destinato a risolvere la difficile situazione dei palestinesi espropriati, ma a integrare una dirigenza emergente palestinese nel nuovo ordine mondiale e a dare a questa dirigenza una partecipazione nella difesa di quest’ordine, in modo che assumesse un ruolo nella vigilanza interna delle masse palestinesi nei Territori Occupati». C’è anche un profilo finanziario: l’Anp creata a Oslo doveva servire a integrare il capitale palestinese con quello dell’area del Golfo. E si sperava che l’Anp «servisse per mediare nell’accumulazione di capitali transnazionali nei Territori Occupati, mantenendo il controllo sociale sulla popolazione inquieta». Nel frattempo, la nuova economia israeliana – il complesso militare e di sicurezza, altamente tecnologico – si andava integrando col capitale corporativo transnazionale di Usa, Europa e Asia, proiettando l’economia israeliana anche nelle reti economiche regionali (Egitto, Turchia e Giordania). Infine, in quel periodo Israele «visse un episodio di grande immigrazione transnazionale, tra cui l’afflusso di circa un milione di immigrati ebrei, che indebolì la necessità di Israele di manodopera palestinese durante gli anni ‘90».«Fino a che la globalizzazione non prese vita, verso la metà degli anni ‘80, la relazione di Israele coi palestinesi rifletteva il classico colonialismo, nel quale il potere coloniale aveva usurpato la terra e le risorse dei colonizzati per poi farli lavorare, sfruttandoli», scrive il professor Robinson. «Però l’integrazione del Medio Oriente nell’economia globale e la società basata sulla ristrutturazione economica neoliberale, inclusa la ben conosciuta litania di misure quali la privatizzazione, la liberalizzazione del commercio, la supervisione del Fondo Monetario Internazionale sull’austerità e i prestiti della Banca Mondiale, aiutò a provocare la propagazione di pressioni da parte delle masse di lavoratori e dei movimenti sociali e la democratizzazione delle basi, che si riflette nelle Intifada palestinesi, il movimento operaio attraverso il Nordafrica e il malessere sociale, che si resero più visibili nelle rivolte arabe del 2011. Questa onda di resistenza forzò una reazione da parte dei governanti israeliani e dei loro alleati statunitensi».Integrandosi nel capitalismo globale, continua Robinson, l’economia israeliana visse due grandi ondate di ristrutturazione. La prima, negli anni ‘80 e ‘90, fu una transizione dall’economia tradizionale (agricoltura e industria) verso un nuovo modello basato sull’informatica: Tel Aviv e Haifa divennero le Silicon Valley del Medio Oriente, e nel 2000 il 15% del Pil di Israele e il 50% dell’export avevano origine dal settore dell’alta tecnologia. «Poi, dal 2001 in poi, e soprattutto sulla scia del disastro delle dot-com del 2000, che coinvolse imprese che commerciavano in Internet, e della recessione a livello globale, secondariamente per gli accadimenti del 11 Settembre 2001 e la rapida militarizzazione della politica mondiale, si produsse in Israele un altro spasmo volto a supportare un “complesso globale di tecnologie militari, di sicurezza, di spionaggio e di vigilanza contro il terrorismo”». Israele è divenuto la patria di imprese tecnologiche, pioniere della cosiddetta “industria della sicurezza”. «Di fatto, l’economia di Israele si è globalizzata specificamente attraverso l’alta tecnologia militare: gli istituti di esportazione israeliani stimano che nel 2007 c’erano circa 350 imprese transnazionali israeliane dedite ai sistemi di sicurezza, di spionaggio e controllo sociale, che si situarono nel centro della nuova politica economica israeliana».Le esportazioni israeliane di prodotti e servizi collegati alla “lotta al terrorismo” aumentarono del 15% nel 2006 e si prevedeva che sarebbero cresciute del 20% nel 2007, per un valore di 1,2 miliardi di dollari all’anno, secondo Naomi Klein. Questa crescita esplosiva «fa di Israele il quarto trafficante d’armi del mondo, davanti al Regno Unito». Numeri: Israele ha più azioni tecnologiche quotate al Nasdaq (molte collegate all’industria della sicurezza) che ogni altro paese straniero, e ha più brevetti hi-tech registrati negli Usa di quanti ne abbiano Cina e India messe insieme. Oggi, il 60% delle esportazioni israeliane è collegato alla tecnologia, specie nell’industria della sicurezza. In altre parole, sintetizza Robinson, «l’economia israeliana si è alimentata della violenza locale, regionale e mondiale, dei conflitti e delle disuguaglianze». Le sue principali imprese? «Hanno finito per dipendere dal conflitto». La guerra in Palestina, nel Medio Oriente e in tutto il mondo, è ormai un business che influenza l’intero sistema politico dello Stato israeliano.«Questa accumulazione militare è caratteristica anche degli Usa e di tutta l’economia mondiale globalizzata», annotra Robinson. «Viviamo sempre più in un’economia da guerra mondiale e certi stati, come Usa e Israele, sono ingranaggi chiave di questa macchina. L’accumulazione militarista per controllare e contenere gli oppressi e gli emarginati e per sostenere l’accumulazione nella crisi si prestano a tendenze politiche fasciste o a quello che noi abbiamo definito “il fascismo del XXI secolo”». Questo cambia (in peggio) la sorte della popolazione palestinese, che fino agli anni ‘90 era «una forza lavoro a basso costo per Israele». E’ stata soppiantata innanzitutto dal milione di nuovi arrivi dall’Est Europa, dopo il collasso dell’Urss, che hanno incrementato gli insediamenti coloniali: ebrei sovietici, a loro volta «resi profughi dalla ristrutturazione neoliberale post-sovietica». In più, l’economia israeliana cominciò ad attirare manodopera dall’Africa e dall’Asia, «dato che il neoliberismo produsse crisi con milioni di profughi dalle vecchie regioni del Terzo Mondo».Insieme alla recessione, la nuova mobilità lavorativa transnazionale ha permesso all’élite finanziaria mondiale «la riorganizzazione dei mercati del lavoro e il reclutamento di forze lavoro transitorie, private dei loro diritti e facili da controllare». Un’opzione «particolarmente attraente per Israele, dato che elimina la necessità di manodopera palestinese politicamente problematica». Oltre 300.000 lavoratori immigrati – provenienti da Thailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka – ora costituiscono la forza lavoro predominante nell’agroalimentare di Israele, così come la manodopera messicana e centroamericana lo è nell’agroalimentare statunitense, nella stessa condizione precaria di super-sfruttamento e discriminazione. «Il razzismo che molti israeliani hanno mostrato nei confronti dei palestinesi (esso stesso prodotto del sistema di relazioni coloniale) ora si è tramutato in una crescente ostilità verso gli immigrati in generale», osserva Robison, «man mano che il paese si tramuta in una società totalmente razzista».E dato che l’immigrazione globale ha eliminato la necessità di Israele di avere manodopera a basso costo palestinese, quest’ultima si è convertita in una popolazione marginale eccedente. «Prima dell’arrivo dei rifugiati sovietici – scrive Naomi Klein – Israele non poteva neanche per un momento prescindere dalla popolazione palestinese di Gaza o della Cisgiordania; la sua economia non avrebbe potuto sopravvivere senza la mano d’opera palestinese». All’epoca, «circa 130.000 palestinesi abbandonavano le loro case a Gaza e in Cisgiordania ogni giorno e andavano in Israele per pulire le vie e costruire le strade, mentre gli agricoltori e i commercianti palestinesi riempivano camion di mercanzia e le vendevano in Israele e in altre parti dei Territori». Poi, in vista della grande trasformazione strutturale dell’economia israeliana, già nel ‘93 – anno della firma degli accordi Oslo – Tel Aviv inaugurò la politica di chiusura: palestinesi confinati dei Territori Occupati, pulizia etnica e forte aumento degli insediamenti ebraici. Istantaneo il crollo del reddito palestinese, di almeno il 30%, fino al bilancio del 2007, con disoccupazione e povertà al 70%.«Dal ‘93 al 2000, che si pensava dovessero essere gli anni nei quali veniva realizzato l’accordo di “pace” che esigeva la fine dell’occupazione israeliana e lo stabilirsi di uno Stato palestinese – scrive Robinson – i coloni israeliani in Cisgiordania raddoppiarono, arrivando a 400.000, poi a 500.000 nel 2009 e continuarono aumentando. La denutrizione a Gaza è agli stessi livelli di alcune delle nazioni più povere del mondo, con più della metà delle famiglie palestinesi che assumono un solo pasto al giorno. Mano a mano che i palestinesi venivano espulsi dall’economia di Israele, le politiche di chiusura e l’incremento dell’occupazione distrussero a loro volta l’economia palestinese». Il collasso degli accordi di Oslo, insieme a quella che Robinson chiama «la farsa delle negoziazioni di “pace” in corso, nel mezzo di un’occupazione israeliana sempre maggiore», può rappresentare un dilemma politico per i poteri forti transnazionali, che oggi vorrebbero «trovare meccanismi per lo sviluppo e l’assoggettamento dei ricchi palestinesi e dei gruppi capitalisti».In base alla logica perversa dell’élite, quella «del capitale militarizzato, incrostato nell’economia israeliana e internazionale», l’attuale situazione è eccellente: «E’ un’opportunità d’oro per espandere l’accumulazione di capitale per lo sviluppo e la commercializzazione di armi e di sistemi di sicurezza in tutto il mondo, attraverso l’uso dell’occupazione e della popolazione palestinese in cattività come obiettivi d’attacco e prova sul terreno». E’ questa élite affaristica e tecnologico-militare a condizionare oggi la politica di Israele. «La rapida espansione economica per l’alta tecnologia della sicurezza creò un forte desiderio nei settori ricchi e potenti di Israele di abbandonare la pace a favore di una lotta per la continua espansione della “guerra al terrore”», ricorda la Klein. Comodissimo, quindi, il conflitto coi palestinesi: non già come «battaglia contro un movimento nazionalista con mete specifiche al riguardo della terra e dei diritti», ma come «parte della guerra globale al terrorismo, come se fosse una guerra contro forze fanatiche e illogiche basate esclusivamente su obiettivi di distruzione».Israele sa che la pace non rende, scrisse su “Haaretz” nel 2009 Amira Hass, una delle poche voci critiche coraggiose nei media israeliani. L’industria della sicurezza? Fondamentale, per l’export: armi e munizioni si provano tutti i giorni a Gaza e in Cisgiordania. La protezione degli insediamenti? «Richiede uno sviluppo costante della sicurezza, la vigilanza e la dissuasione con strumenti come barriere, fili spinati, videocamere di vigilanza elettroniche e robot». Questi dispositivi «sono l’avanguardia della sicurezza nel mondo sviluppato e servono per le banche, le imprese e i quartieri di lusso a lato dei quartieri malfamati e delle enclavi etniche dove bisogna reprimere le ribellioni». Oggi, i palestinesi “rendono” ancora in un solo modo: come cavie, come bersagli. E se “la pace non rende”, si può immaginare chi investa sulla guerra, il grande business dell’Occidente sfinito dalla crisi e dominato dall’oligarchia globalista, di cui fa parte pienamente anche l’élite israeliana. Quella che ha strappato ai palestinesi le loro terra, ne ha fatto strage (pulizia etnica), ha sfruttato a lungo i superstiti, ma ora li considera “umanità eccedente”, sgradevole, da eliminare in ogni modo. Non c’è più posto, per loro: si accomodino pure sul Sinai, nel deserto.Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.
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Falchi, Wall Street e Israele: tutti pazzi per Hillary Clinton
Aiuto, arriva Hillary Clinton. Facile fare i cinici, di fronte all’inevitabile e imminente campagna presidenziale dell’ex first lady, avverte Glenn Greenwald, che la definisce «una veterana dei giochi di potere di Washington», una persona «squallidamente senz’anima, priva di principi, assetata di potere». A prenotare la Casa Bianca dopo Obama è «il politico americano più banale che possa esserci». Unica qualità teorica: sarebbe la prima presidente donna. Aspetto che verrà sfruttato al massimo, «per oscurare il suo ruolo di guardiana dello status quo», neoliberista e imperiale. Non è solo amica dei grandi “bankster” di Wall Street: è la loro candidata numero uno. In più è la moglie di Bill: «Che sia la beneficiaria di una successione dinastica la rende ancora più invitante, per un mix di noia e disprezzo». Per il “Washington Post”, lei e il marito hanno “guadagnato” decine di milioni di dollari, «in gran parte parlando a globalisti, gruppi industriali, fondi avvoltoio». Il peggio di Wall Street tifa Hillary, a cominciare dal famigerato boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein.Se la propaganda presenterebbe la candidatura come opportunità di ringiovanimento e simbolo di speranza e cambiamento, ci pensa “Politico Magazine” a chiarire “perché Wall Street ama Hillary”, spiega Greenwald, in un post ruipreso da “Controinformazione”. «Giù a Wall Street non credono alla retorica populista della Clinton neanche per un minuto», scrive il magazine. «Mentre l’industria finanziaria effettivamente odia Warren, i grandi banchieri amano la Clinton e in linea di massima la vogliono a tutti i costi come presidente». Tra i super-banchieri dalla sua parte, oltre a Blankfein, spiccano James Gorman e Tom Nides (Morgan Stanley), nonché i capi di Jp Morgan Chase e Bank of America. «Considerano la Clinton una pragmatica risolutrice di problemi poco propensa alla retorica populista», scrive “Politico Magazine”. «Per loro è una che ha l’idea che tutti beneficiamo se Wall Street e il business americano prosperano». Ardente retorica populista? «Nessuno di loro pensa che lei faccia sul serio». La sostanza: «Wall Street, soprattutto, ama i vincitori, tanto più quelli che difficilmente toccheranno troppo il suo salvadanaio».Altro caposaldo della scalata di Hillary, la lobby israeliana. «Se dovesse diventare presidente, rapporti migliori con Israele sarebbero praticamente garantiti», assicura “Foreign Policy”. «Non dimentichiamo che i Clinton hanno già trattato con Bibi primo ministro». Non è mai stato facile, ma il rapporto con Netanyahu era chiaramente «molto più produttivo di quanto vediamo adesso», con Obama. Hillary? «E’ buona per Israele e si relaziona al paese in un modo in cui questo presidente non fa». La Clinton «è di un’altra generazione, e ha lavorato in un mondo politico in cui essere buoni per Israele era sia obbligatorio che intelligente», cioè conveniente. «Siamo chiari: quando si tratta di Israele, non esiste un Bill Clinton 2.0». L’ex presidente è stato probabilmente “unico”, sia «per la profondità dei suoi sentimenti per Israele» che per «la sua disponibilità a mettere da parte le proprie frustrazioni per certi aspetti del comportamento di Israele, come gli insediamenti». Ma questa intesa vale anche per Hillary, garantisce “Foreign Policy”. «Sia Bill che Hillary sono così innamorati dell’idea di Israele e della sua storia unica che sono propensi a fare certe concessioni sul comportamento del paese, come la continua costruzione di insediamenti».Poi ci sono loro, gli interventisti (ovvero i fanatici della guerra). Come Robert Kagan, il super-falco dell’entourage di Obama, marito di Victoria Nuland, architetto del golpe di Kiev per rovesciare il governo ucraino regolarmente eletto e aprire la sfida anche militare con Mosca. Molti “interventisti” come Kagan ripongono le loro speranze proprio nella Clinton, conferma il “New York Times”. «Mi sento a mio agio con lei in politica estera», ha ammesso Kagan, aggiungendo che il prossimo passo, dopo l’approccio “realista” di Obama, «potrebbe in teoria essere qualsiasi cosa Hillary porti in tavola», se eletta alla presidenza. «Se perseguirà la politica che noi crediamo perseguirà», ha aggiunto Kagan, «è qualcosa che si potrebbe chiamare neoconservatrice, ma chiaramente i suoi sostenitori non la definiranno così, la chiameranno in modo diverso». Di fatto, però, le idee sono quelle dei neo-con. Che sempre il “New York Times” ipotizza siano pronti ad allearsi con Hillary, «dopo quasi un decennio di esilio politico». Ovvero: «Mentre castigano Obama, i neo-con forse si stanno preparando per un’impresa più sfrontata: allinearsi con Hillary Rodham Clinton e la sua nascente campagna presidenziale, nel tentativo di tornare al posto di comando della politica estera americana». Lo conferma Max Boot, membro del Council on Foreign Relations: «Nei consigli dell’amministrazione, Hillary era una voce di principio per una posizione forte su questioni controverse, che fosse a supporto dell’insorgenza afghana o dell’intervento in Libia».Esatto: «La signora Clinton ha votato per la guerra in Iraq, ha supportato l’invio di armi ai ribelli siriani, ha paragonato il presidente russo Putin ad Adolf Hitler», scrive il “New York Times. Tuttora, Hillary «supporta appassionatamente Israele e sottolinea l’importanza di “promuovere la democrazia”». Dunque, «è facile immaginare che la signora Clinton nella sua amministrazione farà spazio ai neo-con. Nessuno la potrebbe incolpare di essere debole, nella sicurezza nazionale, con uno come Robert Kagan a bordo». Nel 1972, il primo a tracciare l’identità trasversale della lobby neo-con fu Robert Bartley, editorialista del “Wall Street Journal”, vicino ai neo-con: Bartley, dice il “New York Times”, «definì acutamente il movimento come “un gruppo altalenante tra i due maggiori partiti”», nonostante la decantata democrazia dell’alternanza bipolare. «Perciò beccatevi questo, cinici», conclude Greenwald. «Ci sono sacche di vibrante eccitazione politica che si stanno entusiasmando nel paese per una presidenza di Hillary Clinton. Si fanno poster, si attaccano distintivi, si preparano assegni, si bramano appuntamenti. I costituenti uniti, alleati, sinergici della plutocrazia e della guerra senza fine hanno la loro beneamata candidata. Ed è davvero difficile argomentare che la loro eccitazione ed affetto non sia giustifica».Aiuto, arriva Hillary Clinton. Facile fare i cinici, di fronte all’inevitabile e imminente campagna presidenziale dell’ex first lady, avverte Glenn Greenwald, che la definisce «una veterana dei giochi di potere di Washington», una persona «squallidamente senz’anima, priva di principi, assetata di potere». A prenotare la Casa Bianca dopo Obama è «il politico americano più banale che possa esserci». Unica qualità teorica: sarebbe la prima presidente donna. Aspetto che verrà sfruttato al massimo, «per oscurare il suo ruolo di guardiana dello status quo», neoliberista e imperiale. Non è solo amica dei grandi “bankster” di Wall Street: è la loro candidata numero uno. In più è la moglie di Bill: «Che sia la beneficiaria di una successione dinastica la rende ancora più invitante, per un mix di noia e disprezzo». Per il “Washington Post”, lei e il marito hanno “guadagnato” decine di milioni di dollari, «in gran parte parlando a globalisti, gruppi industriali, fondi avvoltoio». Il peggio di Wall Street tifa Hillary, a cominciare dal famigerato boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein.
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Haaretz: studenti uccisi, Israele punisce palestinesi inermi
Il rapimento e l’omicidio dei tre studenti yeshiva della West Bank è stato interpretato dai palestinesi come un altro incidente in una routine di violenza, di cui Israele è il primo responsabile. Non c’è stata nemmeno una scintilla che somigliasse ad una opposizione o a una protesta, ma non c’è stata nemmeno una scintilla a favore del rapimento, nessuno che abbia chiesto “di più”. Migliaia di famiglie palestinesi sono rimaste per due settimane sotto il rullo del compressore militare israeliano, senza che ci fosse un solo motivo che collegasse questa gente al rapimento dei ragazzi ebrei, senza che fosse mostrata almeno quella naturale compassione che nasce a livello personale. E’ questo il motivo per cui i palestinesi fondamentalmente ritengono che gli israeliani in particolare, ed il mondo in generale, li discriminino quando si parla di violenza.La violenza dei palestinesi merita di essere condannata, e i due responsabili per questa violenza, insieme a tanti che non erano responsabili di nulla, sono stati puniti con grande severità, anche se questa severità ha assunto la natura di una rappresaglia. Al contrario, la continua violenza israeliana – messa in atto dal governo perché si tratta di violenza perpetrata da un governo straniero, dall’esercito e da privati cittadini come i coloni – non solo non viene punita, ma viene anche raccontata. Non la chiamano nemmeno “violenza”, non è qualcosa che interessa gli israeliani e certamente non risveglia in nessuno un sentimento di identificazione con le vittime. Le vittime israeliane della violenza – che sono meno di quelle palestinesi – hanno tutte un nome e una faccia, sia in Israele che nel mondo. Le molte vittime palestinesi, quando va bene, entrano nel conto delle statistiche.Questa affermazione non è solo il punto di vista espresso su un editoriale, ma è alla base della vita quotidiana dei palestinesi. La loro mancanza di compassione in casi particolari, come questo, è la risposta dei palestinesi a questa loro discriminazione. Fintanto che non erano ancora stati trovati i corpi, molti palestinesi non credevano nemmeno che il rapimento fosse mai avvenuto. Per loro, il rapimento era stata tutta una invenzione per ostacolare il governo di unità nazionale palestinese, per annullare i risultati (secondo il punto di vista palestinese) della negoziazione per liberare il soldato rapito Gilad Shalit e per danneggiare Hamas. I palestinesi hanno creduto che il rapimento avrebbe solo portato vantaggi al governo di Benjamin Netanyahu, che il rapimento fosse stato solo un artifizio diplomatico (per esempio, per giustificare il rifiuto europeo e americano e l’opposizione al governo di unità nazionale palestinese).Lo sciopero della fame dei palestinesi in detenzione amministrativa in Israele aveva cominciato a fare eco sui media, e l’omicidio (omicidio, è la parola usata dai palestinesi) di due ragazzi palestinesi a Beitunia fatto dai soldati israeliani aveva rivelato le menzogne esistenti nel resoconto israeliano sull’incidente e l’assoluto imbarazzo delle autorità israeliane. Per un po’, questo aveva fatto sì che anche l’esercito e la polizia di frontiera – sia secondo i manifestanti che secondo i giornalisti – si comportassero in modo stranamente più moderato in presenza di alcune manifestazioni. Così, invece di chiedersi «chi è il palestinese che, con questo atto, è riuscito a vanificare tutti gli ultimi successi palestinesi», si sono tutti rifugiati nelle teorie della cospirazione.Questo atteggiamento ha impedito che qualsiasi discussione pubblica portasse ad una conclusione diversa: non solo non esiste nessuna strategia palestinese unificata, ma è stato dimostrato ancora una volta che, anche all’interno di Hamas, non c’è nemmeno un coordinamento tra tattica e strategia. Il rapimento mette in pericolo il nuovo governo e va contro gli interessi del leader di Hamas e di molti rami del movimento. In questo momento c’era un immediato bisogno del governo di unità nazionale, per sopravvivere alla crisi e riuscire a pagare gli stipendi ai dipendenti di Hamas a Gaza e, a lungo termine, per sbarazzarsi del peso della cronica crisi economica creata dal blocco israeliano. Eppure, anche quelli che erano furiosi – soprattutto nel partito Fatah – contro quegli attori locali che hanno pianificato e messo in atto il rapimento, sono stati costretti a reprimere i loro sentimenti di rabbia alla luce dell’assalto israeliano lanciato contro una parte tanto grande della popolazione palestinese.Altri, tra cui gli oppositori di Hamas, stavano aspettando il momento in cui i rapitori avrebbero dettato le condizioni per la restituzione degli ostaggi (vivi). Nello sbilanciamento di potere tra palestinesi e israeliani, il rapimento è visto come uno strumento legittimo. Gli assassini dovevano aver previsto che i ragazzi rapiti restassero vivi, ma qualcosa è andato storto e questo attesta il dilettantismo e la mancanza di una preparazione adeguata. Ma un dubbio resta sempre vivo: Hamas non ripudia mai pubblicamente chiunque dei suoi membri fallisca o abbia agito di propria iniziativa. In questa atmosfera, quei palestinesi che credono che sia sbagliato uccidere dei ragazzi israeliani inermi, anche se sono coloni o se studiano negli insediamenti, non osano dirlo ad alta voce.Dopo che i palestinesi sono stati costretti ad ammettere che gli israeliani rapiti non erano dei soldati armati, ma solo ragazzi, più volte hanno voluto sottolineare che, comunque, erano dei coloni. Tra i palestinesi, l’opinione prevalente è che gli attacchi contro i coloni siano giustificati, e che dovrebbe essere fatta una distinzione tra i coloni e i cittadini israeliani che vivono al di là della Linea Verde. Un uomo, che dice che non sarebbe mai capace di uccidere personalmente un colono, ha dichiarato che l’attacco a questi coloni è stato interpretato come un segnale lanciato agli israeliani, per far capire che non dovrebbero mandare i propri figli in Cisgiordania, che in quel posto non dovrebbero sentirsi al sicuro, che dovrebbero sapere che la loro presenza significa una spoliazione per i palestinesi. E’ molto dubbio che questo possa essere stato il messaggio che avrebbero voluto mandare quelli che hanno rapito e ucciso i tre ragazzi. Quel che è certo, però, è che al momento non c’è nessun dibattito interno tra i palestinesi sul fatto se l’omicidio sia effettivamente servito per questo obiettivo.(Amira Haas, “I palestinesi reagiscono con indifferenza all’assassinio dei tre ragazzi israeliani”, editoriale pubblicato sul quotidiano israeliano “Haarez” il 2 luglio 2014, tradotto da Bosque Primario per “Come Don Chisciotte”).Il rapimento e l’omicidio dei tre studenti yeshiva della West Bank è stato interpretato dai palestinesi come un altro incidente in una routine di violenza, di cui Israele è il primo responsabile. Non c’è stata nemmeno una scintilla che somigliasse ad una opposizione o a una protesta, ma non c’è stata nemmeno una scintilla a favore del rapimento, nessuno che abbia chiesto “di più”. Migliaia di famiglie palestinesi sono rimaste per due settimane sotto il rullo del compressore militare israeliano, senza che ci fosse un solo motivo che collegasse questa gente al rapimento dei ragazzi ebrei, senza che fosse mostrata almeno quella naturale compassione che nasce a livello personale. E’ questo il motivo per cui i palestinesi fondamentalmente ritengono che gli israeliani in particolare, ed il mondo in generale, li discriminino quando si parla di violenza.