Archivio del Tag ‘integrazione’
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Dall’Ue al Ttip, l’atroce Europa filo-Usa creata per noi idioti
Nel Regno Unito, dove vige maggiore libertà di informazione che da noi, il corrente dibattito sul referendum del 23 giugno sull’uscita dall’Unione Europea ha reso noto all’opinione pubblica il fatto, censurato sul continente europeo, che il progetto dell’unificazione europea è un progetto di Washington varato alla fine degli anni ‘40 per assicurare agli Usa il controllo politico-finanziario del continente a scopi geostrategici ed economici e la sua permanenza nell’impero del dollaro, cioè tra i paesi che continuano ad accettare il dollaro, anche se super-inflazionato e vacillante, e a comperare bonds in dollari anche se spazzatura e a partecipare a guerre e sanzioni volute da Washington anche se contrarie agli interessi nazionali. Notoriamente da decenni gli Usa sono un paese che vive essenzialmente sulle spalle degli altri, comprando a debito beni, materie prime e servizi, e facendo continue guerre per imporre l’accettazione di questo sistema di pagamento. E fra qualche tempo emergerà anche come gli Usa si stanno impegnando per soffocare lo sviluppo e la industrializzazione di fonti alternative e pulite di energia, che soppianterebbero il petrolio, il dollaro come moneta obbligatoria per comprarlo, e le guerre per il petrolio, che sostengono l’elefantiaca industria statunitense degli armamenti.Il progetto ha visto e vede in azione personaggi presentati come padri dell’Europa ma in realtà pagati e diretti da Washington, innanzi tutti Jean Monnet e Robert Schuman. L’idea di unione europea viene inizialmente proposta come comunità del carbone, dell’acciaio e dell’atomo, allo scopo di ingranare tra di loro le economie di Francia e Germania, così da prevenire fantomatici futuri conflitti tra esse. Poi quel primo organismo sviluppa una rovinosa politica agricola comune, diventa un’area di libero scambio; poi assume poteri legislativi e di controllo sempre più ampli sugli Stati nazionali; poi si fa Schengen, la Bce, l’euro, il Trattato di Lisbona che impegna a una crescente integrazione politico-istituzionale, poi il controllo centralizzato dei bilanci e delle banche, e via discorrendo, verso la creazione di un superstato europeo a direzione non democratica, non trasparente e irresponsabile (“non accountable”), con soppressione delle democrazie nazionali parlamentari in quanto “causa di guerre”.Il tory Boris Johnson, ex sindaco di Londra, nel suo intervento pro-Brexit, spiega che i due veri padri dell’Unione Europea, Monnet e Schuman, intendevano creare un senso di identità-solidarietà europea con un metodo della psicologia comportamentale, applicando un principio che era già stato osservato come efficace in altri contesti, cioè – nella fattispecie europea – forzando permanentemente e crescentemente i diversi popoli europei a tenere comportamenti simili tra loro attraverso l’imposizione di regolamentazioni comuni, la moneta comune, l’inno comune, la bandiera comune; imporre un agire comune per far nascere un sentire comune. Decenni dopo, constatiamo che questo metodo ha chiaramente fallito, e ha anzi risvegliato contrapposti nazionalismi, poggianti su oggettive contrapposizioni di interessi soprattutto economici. Risorgono le frontiere, le economie divergono, crescono i movimenti anti-Ue. Ma persino davanti a tali fallimenti, l’oligarchia massonico-finanziaria, liberal-cosmopolita, insiste nel suo programma di unificazione forzata, imponendo crescenti cessioni di sovranità e crescenti sacrifici.Questa evoluzione sta comportando (senza che lo si dica e che si permetta ali popoli di decidere) radicali e surrettizie trasformazioni costituzionali nei vari paesi aderenti, che perdono la loro sovranità a quote crescenti e a vantaggio delle burocrazie centrali, non democratiche e non responsabili, dell’Unione Europea – burocrazie oscenamente strapagate, e tanto corrotte, parassitarie e inefficienti, che da vent’anni l’organismo europeo di revisione dei conti non firma i loro bilanci. L’unica volta che si è fatto un controllo, è scoppiato lo scandalo della Commissione Santer con la commissaria Edith Cresson. Poi hanno deciso che era meglio non controllare più! Incidentalmente: il potere legislativo, come praticamente ogni potere dell’Ue, risiede nella Commissione, non eletta e irresponsabile, che discute e decide in segreto, a porte chiuse, altroché fascismo!Ogni cessione di sovranità a questa burocrazia viene richiesta come condizione per sviluppo e sicurezza, ma l’Unione Europea è sempre più in crisi e sempre più in fondo alla graduatoria dell’Ocse in fatto di crescita – stanno meglio solo i paesi che non hanno aderito all’euro. Questo il bilancio dell’unione e della sua moneta. Un bilancio che dovrebbe svegliare anche le menti più torbide e sognatrici. Solo gli idioti non riconoscono, a questo punto, che il progetto dell’Unione Europea non è mai stato rivolto al progresso e al benessere delle nazioni europei, bensì ad altri fini, a fini di dominazione, di controllo sociale. Informandoci, scopriamo che esso serviva e serve al dominio degli Stati Uniti sull’Europa attraverso un processo col quale il vassallo Germania è stato posto in una condizione di egemonia in Europa soprattutto mediante gli effetti dell’euro e delle politiche fiscali, che hanno prodotto e stanno producendo un forte e crescente indebitamento dei paesi periferici verso la Germania e hanno dato quindi a questa l’iniziativa politica, il controllo delle istituzioni comunitarie e il diritto di veto.La Germania impone, col pretesto di prevenire l’inflazione e di risanare i bilanci dei paesi Pigs, misure recessive, che generano un avvitamento fiscale con conseguenti calo del Pil, aumento del debito, accrescimento della sottomissione a Berlino, che diventa sempre più dominante. Invero l’euro non è una moneta unica, con un unico debito pubblico sottostante, ma un sistema di cambi fissi tra le precedenti valute, con debiti pubblici divisi, nel quale il regolamento delle transazioni internazionali si fa sostanzialmente mediante il rilascio di promesse di pagamento, cioè mediante indebitamento, delle singole banche centrali nazionali dei paesi a deficit commerciale verso quelli con attivo commerciale. I cambi fissi, impedendo l’aggiustamento fisiologico, cioè di mercato, dei rapporti valutare tra paesi con deficit e paesi con un surplus di bilancia commerciale, determinano un crescente deficit e un crescente indebitamento dei paesi meno efficienti soprattutto verso la Germania, ma anche una fuga di imprese, di capitali, di lavoratori e tecnici qualificati, così che la Germania si ritrova con enormi crediti che usa per comprarsi i pezzi più interessanti dei patrimoni e delle economie dei paesi indebitati – cioè trasforma i propri interessi attivi in beni reali dei paesi sottomessi. E l’Italia si ritrova non solo sempre più indebitata, ma sempre più deindustrializzata e sempre più abbandonata da giovani qualificati. Il crollo dei brevetti italiani è solo l’ultima riconferma di questo processo ultraventennale e strutturale di declino.Tale era il disegno europeista reale dietro l’europeismo di facciata concepito dai padri nobili per i figli scemi, dai padri che facevano leva su supposti sentimenti di fratellanza e solidarietà tra i popoli degli Stati europei, quando anche gli idioti sanno che, nella politica, soprattutto quella internazionale, le decisioni vengono prese per convenienza e calcolo, alla ricerca del vantaggio e della sopraffazione. Se teniamo presente questa realtà, non avremo alcuna difficoltà a capire per quale ragione tutte le innovazioni europeiste hanno avuto effetti contrari alle promesse. E per quale ragione ad ogni crisi causata da tali effetti, si è risposto che la cura era “più Europa”, più cessione di sovranità all’Unione, cioè a Berlino. Chi obietta, è estremista e populista, forse pazzo, quindi i suoi argomenti sono invalidi a priori, senza esame del merito, anzi non è nemmeno legittimato a parlare. Stile Stalin.La prossima innovazione, già in avanzato stadio di elaborazione, è il famoso Ttip, il trattato transatlantico di libero commercio, negoziato in segreto, senza che nemmeno i parlamentari possono fare copie delle bozze, e possono consultarle solo per due ore, sorvegliati dai carabinieri, senza poterne trascrivere brani, come recentemente denunciato dal sen. Tremonti. Perché questa segretezza ultra-dittatoriale? Per coprire gli interessi economici retrostanti e i loro progetti: col Ttip le multinazionali statunitensi potrebbero prendersi larghe fette dei mercati nazionali europei (soprattutto in Italia, ai danni dei milioni di piccole imprese che danno il grosso della ricchezza e dei posti di lavoro, e con vantaggio solo di quelle pochissime imprese, perlopiù grandi, di cui gli Usa importano i prodotti. Ossia: il Ttip sarà tutto a vantaggio delle esportazioni americane verso l’Europa e soprattutto verso l’Italia, e a danno dei piccoli produttori europei dai quali dipende il nostro livello di redditi e di occupazione.Le multinazionali americane potrebbero imporre la vendita in Europa senza etichette distintive di loro prodotti Ogm e in generale a rischio, potrebbero richiedere risarcimenti agli Stati che ponessero limiti allora affarismo quand’anche detti limiti siano giustificati da esigenze di tutte era della salute pubblica. Col Ttip disporrebbero anche, ciliegina sulla torta, di un tribunale sovranazionale praticamente organizzato da esse stesse, davanti a cui citare gli Stati dalle cui politiche e legislazioni si ritenessero danneggiate, per farli condannare a risarcire i danni da mancato profitto, e far pagare il risarcimento ai contribuenti. Anche quanto resta di libera ricerca e informazione medico-scientifica sarebbe tolto, perché contrario agli interessi del profitto. Molti economisti e giornalisti e politici in carriera, ipocritamente, dichiarano che il Ttip va bene, a condizione che la politica regolamenti l’affarismo. Ma ciò è proprio quel che il Ttip proibisce. E anche se non lo proibisse, la potenza di questo affarismo già controlla la politica.Se il Ttip passerà, e credo che passerà perché non vi sono in campo dinamiche capaci di contrastarlo, sarà la totale eliminazione, da parte del grande capitale finanziario, di ogni limite e di ogni valore che si opponga ai suoi calcoli e alle sue speculazioni, cioè la fine pratica dell’esistenza del principio politico e del principio legalitario, oltre che dei diritti dell’uomo. Rimarranno solo quelli degli investitori, come li chiama il Ttip, ossia del capitale finanziario. Sarà una riforma non semplicemente dell’economia, ma della società e dello stesso concetto di uomo, il quale sarà ridotto e considerato esclusivamente come componente dei processi finanziari. Il dominio Usa sull’Europa attraverso il processo di unificazione europea sotto il vassallo germanico serve ultimamente a questo.(Marco Della Luna, “Dall’europeismo al Ttip, un piano degli Usa”, dal blog di Della Luna del 24 maggio 2016).Nel Regno Unito, dove vige maggiore libertà di informazione che da noi, il corrente dibattito sul referendum del 23 giugno sull’uscita dall’Unione Europea ha reso noto all’opinione pubblica il fatto, censurato sul continente europeo, che il progetto dell’unificazione europea è un progetto di Washington varato alla fine degli anni ‘40 per assicurare agli Usa il controllo politico-finanziario del continente a scopi geostrategici ed economici e la sua permanenza nell’impero del dollaro, cioè tra i paesi che continuano ad accettare il dollaro, anche se super-inflazionato e vacillante, e a comperare bonds in dollari anche se spazzatura e a partecipare a guerre e sanzioni volute da Washington anche se contrarie agli interessi nazionali. Notoriamente da decenni gli Usa sono un paese che vive essenzialmente sulle spalle degli altri, comprando a debito beni, materie prime e servizi, e facendo continue guerre per imporre l’accettazione di questo sistema di pagamento. E fra qualche tempo emergerà anche come gli Usa si stanno impegnando per soffocare lo sviluppo e la industrializzazione di fonti alternative e pulite di energia, che soppianterebbero il petrolio, il dollaro come moneta obbligatoria per comprarlo, e le guerre per il petrolio, che sostengono l’elefantiaca industria statunitense degli armamenti.
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Brzezinski: Germania, il kapò perfetto per ingabbiare l’Ue
Per capire l’attuale stato dell’Unione Europea, più che le fesserie dette di volta in volta da politicanti ora di finta destra ora di finta sinistra, è indispensabile leggere un libro di Zbigniew Brzezinski, “La Grande Scacchiera”, pubblicato da Longanesi nel lontano 1997. Il libro in questione non è facilmente reperibile e, dopo averlo letto, la cosa non stupisce. Brzezinski, per chi non lo sapesse, è uno dei più influenti player della politica americana da molti anni; appartenente al primo cerchio del potere globale, già ideatore e fondatore di consessi paramassonici potentissimi come la “Trilateral Commission”, Brzezinski fa parte di quella categoria di uomini che i fatti non li analizza: li determina. L’autore ha il dono di parlare chiaro, dipingendo la realtà senza concedere nulla né alla “forma” né al “garbo”. I paesi “amici” dell’America vengono definiti senza tanti giri di parole “Stati vassalli”, da blandire o minacciare a seconda degli interessi contingenti delle élite statunitensi. Brzezinski parte da un dato di fatto: gli Stati Uniti esercitano oggi una indiscutibile leadership sul piano globale, leadership che il definitivo crollo dell’impero sovietico ha reso esclusiva e assoluta. Come mantenere e consolidare un simile primato negli anni a venire?Il libro si snoda intorno a questa priorità, approfondita da Brzezinski con approccio tanto lucido quanto cinico. Il politologo di origine polacca individua nell’Eurasia la zona strategica da presidiare sull’assunto che chi “comanda in Europa comanda nel mondo intero”. Per gli Stati Uniti quindi è decisivo non perdere influenza nel Vecchio Continente, favorendo un progressivo processo di unificazione trainato dall’asse franco-tedesco. Brzezinski sostiene inoltre che, nell’ottica americana, è preferibile avallare la leadership dei tedeschi, considerati più “gestibili” rispetto ai francesi ancora nostalgici di una “grandeur” che ne gonfia l’ego rendendoli più imprevedibili. La Germania, invece, anche per i trascorsi nazisti, senza l’ombrello militare a stelle e strisce non godrebbe di nessuna legittimazione in campo internazionale, onde per cui un eventuale processo di disallineamento da parte delle classi dirigenti teutoniche rispetto agli ordini impartiti da oltre Oceano viene considerato altamente improbabile.Brzezinski, fautore di un progressivo allargamento ad est dell’Europa (cosa poi puntualmente avvenuta), individua per tempo nella Russia il principale antagonista di un simile progetto, dimostrando anche in questo caso di possedere una certa “lungimiranza”. I semi delle odierne tensioni in Ucraina sono già presenti all’interno delle pagine de “La Grande Scacchiera” (pubblicato, lo ricordiamo, quasi venti anni orsono), allorquando Brzezinski preconizza il futuribile ingresso della patria di Poroshenko nella grande famiglia della Ue in un periodo che va dal 2005 al 2010. Nel rapporto con l’Europa l’autore tradisce sentimenti ambivalenti: da un lato ritiene indispensabile scoraggiare il possibile riemergere di nazionalismi intraeuropei non funzionali al controllo americano sul continente; dall’altro però coglie come una Europa politicamente unita avrebbe tutte le carte in regole per ristabilire in termini paritari il rapporto – ora di “puro vassallaggio” – con lo zio Sam. La paralisi odierna è tutta racchiusa nell’analisi di Brzezinski. Ai manovratori serve una “Europa unita ma non troppo”.La lettura del libro in argomento è utile anche per capire le fisime sulle politiche di austerità, considerate da Brzezinski funzionali non tanto al rilancio dell’economia, quanto indispensabili per risvegliare lo spirito di un popolo – quello europeo – ora ripiegato a causa dell’eccesso di benessere. Una tesi che ricorda la “riscoperta della durezza del vivere” teorizzata da un altro bel personaggio come Tommaso Padoa Schioppa. E’ interessante notare infine come Brzezinski, legato a doppio filo ai principali circuiti massonici mondialisti, individui proprio nel “cristianesimo” il collante culturale buono per accelerare il progetto di integrazione comunitaria. A pagina 83 del suo libro l’autore rivendica infatti come “imprescindibile, sul piano politico ed economico, l’azione civilizzatrice dell’Europa cristiana, depositaria di una antica eredità religiosa comune”. Nel libro “Wojtyla segreto” di Galeazzi e Pinotti, d’altronde, si ricostruiscono gli strettissimi rapporti intercorsi fra Giovanni Paolo II e lo stesso Brzezinski, quest’ultimo fortemente sospettato di avere recitato un ruolo nell’elezione del papa polacco, secondo solo a quello esercitato dallo “Spirito”.(Francesco Maria Toscano, “L’Europa di oggi, semplice e ignara pedina nella Grande Scacchiera disegnata da Zbigniew Brzezinski”, dal blog “Il Moralista” del 18 aprile 2016).Per capire l’attuale stato dell’Unione Europea, più che le fesserie dette di volta in volta da politicanti ora di finta destra ora di finta sinistra, è indispensabile leggere un libro di Zbigniew Brzezinski, “La Grande Scacchiera”, pubblicato da Longanesi nel lontano 1997. Il libro in questione non è facilmente reperibile e, dopo averlo letto, la cosa non stupisce. Brzezinski, per chi non lo sapesse, è uno dei più influenti player della politica americana da molti anni; appartenente al primo cerchio del potere globale, già ideatore e fondatore di consessi paramassonici potentissimi come la “Trilateral Commission”, Brzezinski fa parte di quella categoria di uomini che i fatti non li analizza: li determina. L’autore ha il dono di parlare chiaro, dipingendo la realtà senza concedere nulla né alla “forma” né al “garbo”. I paesi “amici” dell’America vengono definiti senza tanti giri di parole “Stati vassalli”, da blandire o minacciare a seconda degli interessi contingenti delle élite statunitensi. Brzezinski parte da un dato di fatto: gli Stati Uniti esercitano oggi una indiscutibile leadership sul piano globale, leadership che il definitivo crollo dell’impero sovietico ha reso esclusiva e assoluta. Come mantenere e consolidare un simile primato negli anni a venire?
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Riparare il sistema: noi, prigionieri di illusioni (magiche)
Ci troviamo in una crisi del sistema, che potrebbe farlo cadere, o semplicemente in una ordinaria crisi nel sistema, oppure (peggio ancora) in una crisi progettata e prodotta dal sistema per perfezionarsi e perpetuarsi? E poi: il genere umano può essere portato ad accettare condizioni di vita tali da farlo regredire a livelli subumani, o da farlo estinguere, in modo che si scongiuri il disastro ecologico? Il capitalismo finanziario digitalizzato e globalizzato tende a smaterializzare ogni bene, merce, servizio, anche gli esseri umani, traducendoli in valori finanziari, ciè in simboli, in numeri, e a metterli online per moltiplicare il profitto contabile che esso per sua natura persegue, ignorando tutto il resto. Il cambiamento consisterà nell’essere tradotti in bits, bites e figures? Che altre trasformazioni ci saranno imposte per renderci idonei a questa traduzione? E che ragion d’essere resterà alla nostra vita biologica, dopo che questa smaterializzazione sarà state eseguita?La logica impellente della massimizzazione del profitto, sostiene Marco Della Luna, non ammette limiti nemmeno morali alla mercificazione di ogni cosa esistente o “esistibile” (futures), né ammette diritti inalienabili, quindi una natura umana (giuridica, genomica) intangibile, un uomo portatore di diritti incondizionati, «perché di ciò che è incondizionato non si può fare trading, e ciò di cui non si può far trading non può generare profitto». Convertire il capitalismo per renderlo solidale con l’umanità e l’ambiente? Pura utopia. Nel libro “Neuroschiavi”, scritto con Della Luna, lo psichiatra Paolo Coni scrive: «Sono un grave paranoico e sto da anni pensando di mettere su un piano per assoggettare tutta la popolazione mondiale ai miei voleri». Un decalogo agghiacciante. Primo, «drogare la popolazione con sostanze d’abuso e farmaci». Poi, «diminuire il Qi generale favorendo programmi d’intrattenimento di massa demenziali, “divertendo” attraverso la solleticazione di impulsi primordiali». Bisogna «distruggere ogni riferimento a tradizioni, cultura e religione, sbandierando, per prevenire obiezioni, che mi sto occupando di favorire la “cultura” della popolazione».E bisogna «distruggere la scuola, riempiendola di contenuti “alternativi” che confondono sugli obiettivi da raggiungere e fare screening psicologico-psichiatrici nelle scuole per individuare bambini disturbati da “normalizzare». Poi occorre «rendere insicura la popolazione facendola invadere da masse informi e incontrollate, non integrabili», e al tempo stesso «fare proclami di integrazione e di accoglienza impossibili da gestire e, mentre la popolazione si sente invasa e impaurita, farla sentire ancora più insicura sbandierando l’apertura dei confini indiscriminata». Economia: «Dopo aver fatto assaporare un periodo di benessere economico teso alla spesa incontrollata, con il denaro che ha sostituito i precedenti valori, provocare una “crisi” economica senza fine dove la popolazione fa fatica a tirare avanti e non ha più valori sostitutivi al denaro, che viene a mancare». Tutto questo, mentre si mostra «gente viziata e ricchissima che guadagna stipendi da mille e una notte per tirare due pedate o cantare una canzoncina, o occuparsi del nostro bene pubblico».Bisogna anche «distruggere quel che resta della famiglia, logorata da anni di leggi contrarie ad incentivarla e da un’ideologia del godimento che l’ha minata culturalmente, rendendola un optional arcobalenato». Infine, conviene «introdurre norme sempre più restrittive della libertà di pensiero, in nome della “democrazia”», e naturalmente «distruggere l’identità di genere fino dalle scuole, confondendo le idee su quelle che sono le basi della personalità individuale». Bisogna anche essere rassicuranti, ricorda Della Luna: «Se c’è un problema di cui manca una soluzione, o non parli del problema, o inventi una soluzione bella, desiderabile, confortante e almeno astrattamente possibile, per quanto irrealistica, o non “falsificabile” – ad esempio, una soluzione “spirituale”». La tua ostentata sicurezza sarà manna, per i clienti: «Avranno un bisogno permanente delle tue prestazioni per stare bene, per vincere, temporaneamente, la paura e la frustrazione». Oggi, infatti, «di fronte a problemi molto grandi, gravi e minacciosi, da cui ci si sente sovrastati, si tende ad accettare soluzioni e speranze irrazionali, inverificabili, o anche magico-religiose». Così, ci abbandoniamo a pericolose illusioni, scrive Della Luna in un post che riprende una recente conferenza.«Quando l’uomo si sente insoddisfatto, in pericolo e sfiduciato, anche delle proprie capacità di analisi razionale, tende a rivolgersi all’irrazionale, al pensiero consolatorio, per un aiuto o una speranza o una profezia, per poter pensare e progettare il proprio domani. E tende ad assumere un atteggiamento psicologicamente regressivo, infantile». E quindi, si sogna a occhi aperti: «La prima illusione è che vi siano sistemi stabili, per loro natura durevoli se non permanenti, simili alle macchine, la cui condizione normale è funzionare uniformemente». In realtà non esistono sistemi stabilili, tutto è sempre dinamico: «Lo Stato repubblicano italiano oggi si chiama ancora Stato italiano e ha la medesima bandiera anche se, rispetto a quando fu fondato, è divenuto una cosa qualitativamente diversa, avendo ceduto a enti non nazionali la sovranità monetaria, di bilancio, legislativa, e avendo così perduto quella sovranità e indipendenza senza cui uno Stato non è più tale, quindi avendo addirittura cessato, giuridicamente e politicamente, di essere uno Stato».La seconda illusione, prosegue Della Luna, è che “noi” facciamo le trasformazioni, il cambiamento. «Le trasformazioni, i cambiamenti, avvengono sì per effetto dell’interazione di azioni umane e di processi naturali (ad esempio, i cambiamenti climatici che desertificarono il prima lussureggiante Nordafrica seimila anni fa), ma gli effetti, gli esiti dell’interazione delle azioni dei vari soggetti, generalmente, nel medio e lungo termine, non corrispondono affatto alle intenzioni né alle previsioni degli autori delle azioni. La storia non è una successione di decisioni o azioni di maggioranze». Il discorso “noi siamo il 999 per mille, voi siete l’l”, fatto da “Occupy Wall Street”, non ha funzionato, naturalmente. «La storia ultimamente mostra sempre più il carattere aperto e non predeterminabile della vicenda del mondo. Ciò si deve al fallimento, avvenuto alla prova dei fatti, dei due grandi paradigmi organici di interpretazione della storia, ossia di quello marxista (con la sua previsione di fine del capitalismo e di rivoluzione) e di quello liberal-capitalista (con la sua previsione di crescita costante del benessere e della libertà)».Il terzo grande paradigma, quello cristiano, e in generale quello religioso, non viene mai smentito perché può sempre rinviare il momento della verifica finale. «Pertanto le interpretazioni e le rassicurazioni religiose e magico-religiose tendono ad occupare lo spazio perduto dalle altre interpretazioni e rassicurazioni, quelle empirico-razionali». Poi c’è un nuovo modello previsionale, che Della Luna ha esplorato in libri come “Oligarchia per popoli superflui”, “Neuroschiavi” e “Cimiteuro”, ossia «il modello definibile come tecno-gestionale che chiamo “demotecnia” in analogia a “zootecnia”: un’élite sovranazionale dominante, detenendo il potere politico ed economico, e disponendo di una tecnologia idonea, ha assunto e conduce la gestione dall’alto e dal di fuori della popolazione terrestre in forme e con rapporti analoghi a quelli della zootecnica, grazie appunto al divario incommensurabile di conoscenze e di mezzi tecnologici a disposizione, simile a quello che divide l’allevatore dagli animali allevati, e alla sua capacità di pianificare e agire sottotraccia per raggiungere obiettivi di lungo termini, soprattutto in fatto di modificazione della società e della cultura». La presente crisi economica «è indotta volontariamente, allo scopo di implementare questo sistema di gestione». Per Della Luna, «è un’operazione di ingegneria sociale che mira non tanto al profitto quanto al controllo». Un sistema di dominazione molto forte, «ma non per questo assolutamente stabile o permanente».La terza illusione è quella della giustizia, sostiene Della Luna (che è un avvocato). Un potere giudiziario che abbia la forza e l’interesse per far valere o ristabilire la legalità e i diritti? «Non c’è. Penso gli ingenui benintenzionati che studiano complesse e coraggiose denunce contro le illegalità del sistema e le presentano a qualche Procura della Repubblica, con alte aspettative. Regolarmente, queste iniziative finiscono nel nulla, ossia nelle sabbie giudiziarie». A prescindere dal fatto che i magistrati hanno poteri di intervenire solo su responsabilità singole e non sistemiche, e che non hanno un potere materiale «nemmeno lontanamente paragonabile a quello degli interessi costituiti in potere statuale», sono essi stessi «in amplissima maggioranza fidelizzati al sistema degli interessi, che percepiamo come ingiusto, mediante la concessione di privilegi e prerogative». La loro funzione «è piuttosto quella di mediare tra l’ordinamento reale del potere e dei suoi interessi, da una parte, e la legalità di facciata dall’altro, cercando di tener nascosto il primo e di preservare l’apparenza di legalità agli occhi della popolazione generale».La quarta illusione, prosegue Della Luna, «è quella della magia delle parole, delle formule magico-giuridico che, nella mente di chi ci crede, sarebbero capaci di alterare la realtà delle forze in campo, della potenza materiale, mentre è vero l’inverso, ossia che il diritto viene creato e plasmato dagli interessi e dai loro rapporti di forza materiale». Il diritto inizia dal rispetto del fatto, e non viceversa. «In questa illusione si trovano coloro che pensano di poter ottenere trasformazioni pratiche del mondo (cioè rinunce ai soprusi che i potenti compiono per il loro tornaconto) usando formule, più o meno elaborate, altisonanti o astruse, invocanti la sovranità o l’indipendenza o la rivendicazione di particolari grafie dei nomi». Della Luna considera tutto questo «una forma di pensiero magico, ossia di un pensiero convinto che certe parole e concetti abbiano in sé il potere di modificare direttamente la realtà». Volendo, si tratta di un’illusione «didatticamente benefica, perché avvia alla consapevolezza del problema fondamentale della teoria del diritto e della filosofia politica», e cioè: se e come il diritto si differenzia dalla potenza di fatto, materiale.A quali condizioni lo Stato può avere pretese di sovranità sugli uomini diverse da quelle basate sulla sua forza materiale di minaccia e coercizione? E quali sono i limiti della legittima azione del potere politico sugli esseri umani e sui loro diritti? «Questa è una importantissima tematica, oggetto di studi e di elaborazione da quasi 25 secoli. Mi auguro che chi si interessa alla sovranità cerchi di informarsi su questa materia, onde non trovarsi a prendere lucciole per lanterne e altri facili abbagli, rendendosi ridicolo, quando può dire, invece, cose sensate». Ed eccoci alla quinta illusione, quella ingegneristica, ossia quella dei tecnici e degli studiosi, soprattutto economisti, che hanno analizzato bene la situazione e hanno capito che cosa non va, che cosa non si deve fare, che cosa si deve invece fare, e si aspettano che sia i potenti che la parte pensante del popolo capisca le loro ragioni, quindi metta in atto i loro consigli. «E insistono a propalarli in scritti, convegni, interventi pubblici, tentativi di entrare in qualche partito. Ma ciò che si aspettano non avviene – e la recente storia economica è piena di ottimi moniti e consigli (circa l’euro o la banca universale o la globalizzazione) rimasti puntualmente disattesi».Non cambia, la situazione di fondo, per tre motivi: i migliori consigli «mirano al bene comune e non a quello di chi ha il potere di decidere». Inoltre «il popolo ha la testa altrove, non si interessa, non capisce, se capisce poi dimentica, e in ogni caso non si organizza e non agisce e si appaga di contentini non strutturali che il potere elargisce al momento opportuno». Infine, «i grandi sistemi super-complessi non possono essere riparati ingegneristicamente come le macchine, non solo perché troppo complessi per essere capiti organicamente, ma anche perché contengono chi li vuole riparare e reagiscono alla sua azione». Poi ci sono «illusioni a base economica, soprattutto quella dei mercati liberi ed efficienti (ossia che prevengono o guariscono rapidamente le crisi economiche)», illusione «smascherata dai fatti oggi sotto gli occhi di tutti». E c’è anche «l’illusione opposta, quella statalista, ossia che l’intervento pubblico possa correggere il mercato agendo su di esso; questa illusione è dissolta dall’osservazione che anche lo Stato, persino lo Stato comunista, viene privatizzato, ossia che organizzazioni private si impadroniscono di esso (il Partito, la mafia, il cartello bancario)».Ci troviamo in una crisi del sistema, che potrebbe farlo cadere, o semplicemente in una ordinaria crisi nel sistema, oppure (peggio ancora) in una crisi progettata e prodotta dal sistema per perfezionarsi e perpetuarsi? E poi: il genere umano può essere portato ad accettare condizioni di vita tali da farlo regredire a livelli subumani, o da farlo estinguere, in modo che si scongiuri il disastro ecologico? Il capitalismo finanziario digitalizzato e globalizzato tende a smaterializzare ogni bene, merce, servizio, anche gli esseri umani, traducendoli in valori finanziari, ciè in simboli, in numeri, e a metterli online per moltiplicare il profitto contabile che esso per sua natura persegue, ignorando tutto il resto. Il cambiamento consisterà nell’essere tradotti in bits, bites e figures? Che altre trasformazioni ci saranno imposte per renderci idonei a questa traduzione? E che ragion d’essere resterà alla nostra vita biologica, dopo che questa smaterializzazione sarà state eseguita?
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Münchau: buone notizie, questa orribile Ue sta per rompersi
Mentre entriamo nella seconda metà del secondo decennio di questo secolo, l’Unione Europea si sta spezzando lungo tre linee di faglia. Una divide il prospero Nord dall’indebitato Sud. La seconda divide una periferia euroscettica da un centro eurofilo. La terza divide un Ovest liberale da un Est sempre più autocratico. Questa è la scena della disintegrazione e della frattura dell’Ue. È difficile fare delle previsioni specifiche per il 2016. Ci sono certamente molti rischi noti: il referendum britannico sull’appartenenza all’Ue; il costante flusso dei profughi; l’ampliarsi degli squilibri economici; il tracollo della Grecia; il sistema bancario italiano sull’orlo dell’insolvenza e le incombenti tensioni tra la Germania e i paesi periferici sulla politica fiscale; la crescita del terrorismo jihadista; l’incertezza politica in Spagna e in Portogallo; la crisi in Ucraina, lungi dall’essere risolta; lo scandalo Volkswagen sulle emissioni, che è passato in secondo piano ma minaccia di sconquassare uno degli ultimi pilastri della forza industriale del continente.Con tutte queste crisi che si svolgono nello stesso momento, mi pare più utile guardare alla figura d’insieme – al rischio sistemico che non viene da una singola crisi in particolare, ma dal fatto di doverne affrontare così tante nello stesso momento. Se fate un passo indietro, vi accorgete che la molteplicità delle crisi non è poi così accidentale. Se create un’unione monetaria senza delle istituzioni economiche, delle politiche fiscali e dei sistemi giudiziari condivisi, alla fine siete condannati a schiantarvi contro un muro. Allo stesso modo, una zona dove le persone possono circolare liberamente senza passaporto, ma priva di un controllo condiviso delle frontiere esterne, non può durare a lungo. C’è uno schema comune sottostante a tutto questo. L’Ue ha una tendenza innata ai cattivi compromessi e alle costruzioni adatte solo al bel tempo. Nell’ultimo anno non è cambiato sostanzialmente niente, eccetto il fatto che il problema è diventato evidente a un maggior numero di persone.La rottura, quando verrà, potrebbe ancora scioccarci. Ma offre anche delle opportunità. Penso che la cosa peggiore che l’Ue possa fare sia quella di continuare a procedere nella stessa direzione in cui è andata finora. I grandi cambiamenti è più facile che siano forzati direttamente dagli elettori – tramite un referendum, come quello che presto si terrà nel Regno Unito – che dai politici e dai diplomatici. Il processo dell’Ue ha la tendenza ad evitare disconinuità improvvise. Le cose andranno in frantumi solo quando le pressioni provenienti dai singoli paesi saranno diventate troppo forti. C’è il rischio che ciò spinga verso una disintegrazione incontrollata. Ma c’è anche una buona possibilità che i leader politici europei siano abbastanza avveduti da muoversi in avanti con spirito costruttivo. L’eventuale scelta del Regno Unito di abbadonare l’Ue potrebbe, alla fine, portare ad una più ampia trasformazione dell’Ue stessa, con un gruppo di paesi più interni che perseguono una maggiore integrazione, e un gruppo di paesi più esterni, come il Regno Unito, che potrebbero trovarsi tranquillamente a proprio agio.Una rottura dell’Eurozona, che tuttora mi aspetto presto o tardi di vedere, offrirebbe anch’essa l’opportunità per un più ampio riaggiustamento. Una volta che vedete l’euro come un sistema di tassi di cambio fissi con una moneta condivisa, anziché come un’unione monetaria irreversibile, la nebbia mentale si dipana. Un tale sistema può funzionare solo tra un piccolo gruppi di paesi con economie fortemente convergenti. L’Austria e la Germania mantengono un tasso di cambio quasi fisso fin dagli anni ’70. Perché non potrebbero continuare a farlo per altri 50 anni? La Francia e la Germania hanno mantenuto un tasso di cambio essenzialmente stabile fin dagli anni ’80. Perché dovrebbero finire sui lati opposti di un sistema di tassi di cambio proprio adesso?L’argomento a favore di una maggiore integrazione economica e politica tra Germania e Francia rimane ancora forte – certamente molto più forte dell’argomento a favore di un’integrazione economica e politica in una Ue dove alcuni paesi sono parte dell’Eurozona, e altri non hanno nessuna intenzione di entrarci. Ma non c’è mai stata una base logica convincente nell’argomento secondo il quale un mercato unico avrebbe bisogno di una moneta unica. Piuttosto è vero l’inverso. I paesi con una moneta unica devono avere un’integrazione dei mercati molto più profonda dei paesi che mantengono la propria moneta. Se accettiamo che l’Ue sia un’unione che contiene diverse monete, e lo dobbiamo fare, dobbiamo anche accettare che essa non sia un unico mercato, ma un insieme di mercati.Al di là della frammentazione economica, per l’Europa c’è la divisione politica tra Est e Ovest. Ungheria e Polonia hanno eletto governi euroscettici di destra. Hanno entrambi ridotto l’indipendenza della magistratura e la libertà di stampa. Da tempo ritengo che l’allargamento dell’unione non sia stata una grande opportunità storica, come si dice di solito, ma invece un errore storico. L’allargamento ha solo aggiunto divisione all’interno dell’Europa, e ha reso l’Ue più disfunzionale. Vedo quindi frammentazioni e rotture non come delle minacce da evitare, ma come delle opportunità da cogliere. La mia previsione per il 2016 è che si vedranno ancora più rotture. La mia speranza è che siano gestite bene.(Walter Munchau, “Una rottura dell’Eurozona sarebbe un’opportunità da cogliere”, dal “Financial Times” del 3 gennaio 2016, tradotto da “Voci dall’estero”).Mentre entriamo nella seconda metà del secondo decennio di questo secolo, l’Unione Europea si sta spezzando lungo tre linee di faglia. Una divide il prospero Nord dall’indebitato Sud. La seconda divide una periferia euroscettica da un centro eurofilo. La terza divide un Ovest liberale da un Est sempre più autocratico. Questa è la scena della disintegrazione e della frattura dell’Ue. È difficile fare delle previsioni specifiche per il 2016. Ci sono certamente molti rischi noti: il referendum britannico sull’appartenenza all’Ue; il costante flusso dei profughi; l’ampliarsi degli squilibri economici; il tracollo della Grecia; il sistema bancario italiano sull’orlo dell’insolvenza e le incombenti tensioni tra la Germania e i paesi periferici sulla politica fiscale; la crescita del terrorismo jihadista; l’incertezza politica in Spagna e in Portogallo; la crisi in Ucraina, lungi dall’essere risolta; lo scandalo Volkswagen sulle emissioni, che è passato in secondo piano ma minaccia di sconquassare uno degli ultimi pilastri della forza industriale del continente.
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Nell’Ue i partiti sono morti, l’ha capito anche la Spagna
Ormai possiamo chiamarla crisi della democrazia, o meglio: crisi della partitocrazia che ha sorretto l’attuale sistema. In Spagna nessuno dei partiti tradizionali – popolari (centrodestra) e socialisti – ha ottenuto la maggioranza assoluta. Come era accaduto in Italia nel 2013 e, a ben vedere, come è avvenuto poche settimane fa in Francia, dove per fermare l’avanzata di Marine Le Pen, Sarkozy e Hollande hanno dovuto coalizzarsi. Fino ad alcuni anni fa, il sistema si reggeva sull’alternanza centrodestra/centrosinistra che permetteva di mantenere ai margini i partiti alternativi e di opposizione. Quindici anni di folli politiche europee hanno portato a una continua erosione delle sovranità nazionali e al simultaneo impoverimento delle economie reali, dunque all’esplosione dell’indebitamento e della disoccupazione, generando per la prima volta dal dopoguerra massicci e spontanei moti popolari di protesta, che si traducono in un crescente consenso per i movimenti politici alternativi.La gente non crede più ai partiti tradizionali perché ne ha constatato l’impotenza. Chiede un cambiamento reale e, non trovandolo, segue “Podemos” e “Ciudadanos” in Spagna, la Le Pen in Francia, il Movimento 5 Stelle e la Lega in Italia. Trattasi, finora, di movimenti di maggioranza relativa o di forte minoranza, che però costringono l’establishment a chiudersi sulla difensiva, aprendo così un nuovo quadro: se centrodestra contro centrosinista non basta più, occorre che centrodestra e centrosinistra si uniscano nel nome, paradossalmente, del Supremo Interesse della Nazione per fermare l’“avanzata populista”, “salvare l’Europa”, “difendere l’euro”, “lottare contro le derive razziste”, eccetera eccetera. Probabilmente andrà a finire così anche in Spagna: una bella ammucchiata Psoe-Popolari. E forse basterà. Per ora. Ma dopo?Se non si affrontano le vere ragioni di questo dilagante e finora irreversibile malcontento, la protesta continuerà a crescere, come ho spiegato nel mio post di sabato 19. E da pacifica rischia di diventare violenta, inducendo l’establishment a risposte ancora più radicali. In fondo Mario Monti l’ha già lasciato intendere, in una recente intervista, affermando che«ci si può addirittura chiedere se la democrazia come noi la conosciamo e l’integrazione internazionale siano ancora compatibili, e questo porrebbe un problema gigantesco. In passato l’integrazione ha diffuso e rafforzato la democrazia in Europa, perché i vari Stati che uscivano da esperienze dittatoriali si sono aggrappati alla Ue per consolidare le loro democrazie – dalla Grecia al Portogallo, agli Stati ex comunisti. Oggi però la democrazia, anzi la deriva delle nostre democrazie, minaccia l’integrazione». Dunque il prossimo passo potrebbe essere la fine della democrazia, come la conosciamo oggi. Tutti sudditi, come nell’Unione Sovietica. Allacciate le cinture. Ci aspettano tempi difficili.(Marcello Foa, “Finta destra contro finta sinistra, anche la Spagna dice basta: il sistema sta crollando”, dal blog “Il cuore del mondo” su “Il Giornale” del 21 dicembre 2015).Ormai possiamo chiamarla crisi della democrazia, o meglio: crisi della partitocrazia che ha sorretto l’attuale sistema. In Spagna nessuno dei partiti tradizionali – popolari (centrodestra) e socialisti – ha ottenuto la maggioranza assoluta. Come era accaduto in Italia nel 2013 e, a ben vedere, come è avvenuto poche settimane fa in Francia, dove per fermare l’avanzata di Marine Le Pen, Sarkozy e Hollande hanno dovuto coalizzarsi. Fino ad alcuni anni fa, il sistema si reggeva sull’alternanza centrodestra/centrosinistra che permetteva di mantenere ai margini i partiti alternativi e di opposizione. Quindici anni di folli politiche europee hanno portato a una continua erosione delle sovranità nazionali e al simultaneo impoverimento delle economie reali, dunque all’esplosione dell’indebitamento e della disoccupazione, generando per la prima volta dal dopoguerra massicci e spontanei moti popolari di protesta, che si traducono in un crescente consenso per i movimenti politici alternativi.
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Il web abbatterà il capitalismo: è la fiaba di Paul Mason
«E’ arrivato un nuovo profeta che promette un postcapitalismo meraviglioso, umano, collaborativo, intellettuale, gratuito». E’ Paul Mason, oracolo di un postcapitalismo che «ci porterà gioia, felicità, condivisione libera e liberazione dalla fatica». Basta «confidare nella potenza rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie», ovvero «credere che il web sia la nuova fabbrica», e che quindi «il suo proletariato digitale, diverso da quello industriale perché più informato e più connesso, possa abbattere questo capitalismo». Tutto bello e affascinante, scrive Lelio Demichelis. Peccato però che se il vecchio proletariato aveva «una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo», prima di sciogliersi in esso e condividerne l’egemonia, «questo proletariato digitale è nato invece già antropologicamente capitalista», vuole essere integrato (connesso) nel sistema, e «pur essendo forse ancora classe in sé (mai così tanti lavoratori precari, della falsa conoscenza, della sharing economy, taylorizzati e fordizzati in rete o uberizzati ovunque)» non sarà mai “classe per sé”, «perché incapace di una coscienza comune e di una progettualità politica alternativa», convinto com’è che «non ci sono alternative».Ciascun componente di questo metaforico proletariato digitale «è stato ormai separato, isolato dagli altri e messo in competizione con gli altri», scrive Demichelis su “Micromega”. «Difficile immaginare la realizzazione di un postcapitalismo se ormai l’essenza della stessa società è il capitalismo più la tecnica». Quale alternativa, dunque, «se ogni giorno il sistema ci educa ad essere capitalisti, se la rete stessa è oggi diventata puro capitalismo (in versione non 2.0 ma 0.0)»? Eppure oggi circola questa nuova versione aggiornata – da Paul Mason, autore di quel “Postcapitalismo” che sta occupando le pagine di media pronti a dare voce ai tecno-entusiasti – della vecchia favola del postcapitalismo che verrà. Mason propone «un mondo senza mercato, i banchieri centrali eletti democraticamente, il potere nelle mani della società civile, un reddito di cittadinanza, l’azzeramento (o quasi) del tempo di lavoro, la produzione di macchine, beni e servizi a costi marginali nulli». Si torna al tempo in cui il web, agli inizi, «già dimostrava la sua sconfinata potenza nel produrre retoriche per sé e per la sua accettazione di massa», una macchina «capace di generare uno sconfinato e inarrestabile storytelling» in grado di «abbattere ogni pensiero critico, ogni analisi razionale, ogni anticonformismo tecnologico».Leggere Mason, continua Demichelis, fa l’effetto di un tempo che si è bloccato alle promesse della new economy degli anni ’90 del secolo scorso (che favoleggiava di fine dei fastidiosi cicli economici, prometteva la liberazione dalla fatica e un lavoro immateriale e intellettuale per tutti), alla fine del lavoro (1995) e all’era dell’accesso (2000) di Jeremy Rifkin, alla wikinomics di Don Tapscott e Anthony Williams (2007), al punkcapitalismo di Matt Mason (2009), passando per l’Howard Rheingold della rete che ci rende intelligenti (2012), al Rifkin (ancora) della società a costo marginale zero (2014), ovvero all’Internet delle cose, all’ascesa del “commons collaborativo” e quindi dell’eclissi del capitalismo. Senza dimenticare Toni Negri e Michael Hardt del Comune (2010), «per non citare che alcuni dei componenti di questo variegato mondo di profeti, di guru del post, abili nell’immaginare il nuovo regno di Dio-tecnica in terra, ma incapaci di fare preliminarmente una doverosa e foucaultiana archeologia dei poteri e dei saperi dominanti nelle società tecno-capitaliste».La loro soluzione per arrivare al postcapitalismo – più tecnologia, quindi condivisione e libera circolazione delle idee – è in contraddizione con la natura stessa della tecnologia, «ormai strettamente integrata al capitalismo (sono una cosa sola)», visto che proprio la tecnologia permette al capitalismo «di sopravvivere alle sue contraddizioni», mentre il capitalismo non è che «la benzina che permette alle nuove tecnologie di essere ciò che sono». Paradossale, aggiunge Demichelis, è dunque immaginare che quella tecnologia che sostiene il capitalismo e che lo ha reso globale (“totalitaria” la sua evangelizzazione) e che si serve del capitalismo per accrescersi, possa giocare contro se stessa liberandosi dal capitalismo che la sostiene. «Curioso: le ideologie o le religioni secolari del ‘900, che credevamo morte, sono in realtà più vive che mai e producono incessantemente nuove favole collettive, nuovi tecno-fideismi e tecno-integralismi che si offrono per dare un senso a un mondo apparentemente senza senso perché liquido, in realtà pesantissimo di connessioni obbligatorie, di incessanti pedagogie di adattamento non solo al mercato quanto alle nuove tecnologie». Come le nuove tecnologie di vent’anni fa «ci affascinano e ci promettono molto, e continuamente cediamo alla loro richiesta di fede». Illusioni: «Sanno di non avere mantenuto le promesse (meno lavoro, meno fatica, più libertà) e provano a rinnovare la promessa, chiedendoci di recitare nuovamente il loro Credo».Giornalista economico di simpatie laburiste, in questo “Postcapitalism” (che uscirà in Italia nei prossimi mesi), Mason scrive che il capitalismo finanziario di questi ultimi anni – erede di quello industriale e mercantile – avrebbe i giorni contati: la rivoluzione informatica determinerebbe una modifica sostanziale dei modi di produzione e di consumo, mettendo in discussione il sistema basato sulla legge della domanda e dell’offerta, della proprietà e dello scambio e inaugurando una nuova economia basata su tempo libero, attività in rete e gratuità. «La tecnologia ha creato una nuova via d’uscita», scrive Mason. «Quello che resta della vecchia sinistra – e di tutte le forze che ne sono state influenzate – si trova di fronte a una scelta: imboccare questa strada o morire». Il capitalismo «non sarà abolito con una marcia a tappe forzate», bensì «grazie alla creazione di qualcosa di più dinamico, che inizialmente prenderà forma all’interno del vecchio sistema, passando quasi inosservato, ma che alla fine aprirà una breccia, ricostruendo l’economia intorno a nuovi valori e comportamenti. Lo chiameremo postcapitalismo».Questo processo sarebbe già iniziato, grazie a tre grandi cambiamenti: nuove tecnologie, informazione dal basso, produzione condivisa. Le nuove tecnologie «hanno ridotto il bisogno di lavoro, rendendo meno netto il confine tra lavoro e tempo libero e meno stringente il rapporto tra lavoro e salario». Vero, ma questo non ha liberato il lavoro, semmai lo ha reso indistinguibile dalla vita (quindi siamo meno liberi), ha moltiplicato ritmi e intensità del lavorare e ha favorito forme di lavoro e di sfruttamento (quasi) senza retribuzione. Inoltre, annota Demichelis, «cancellando la distinzione tra vita e lavoro», le nuove tecnologie hanno prodotto «una società a mobilitazione tecno-economica totale e permanente». E l’informazione? «Sta erodendo la capacità del mercato di determinare i prezzi in modo corretto. I mercati si basano sulla scarsità, mentre l’informazione è abbondante. Il meccanismo di difesa del sistema è formare monopoli – le grandi multinazionali tecnologiche di oggi – su una scala che non ha precedenti negli ultimi duecento anni. Ma questo non può durare, perché contrasta con il bisogno fondamentale dell’umanità di usare le idee liberamente».Assolutamente falso, protesta Demichelis: «Il mercato sa benissimo come determinare i prezzi in modo corretto (per i propri profitti), grazie a delocalizzazioni, precarizzazione, sfruttamento, espropriazione della conoscenza altrui e condivisa, taylorismo digitale e rete», e quindi «usa proprio le nuove tecnologie per farlo». Altrettanto sbagliato è «credere che l’informazione e la conoscenza siano abbondanti (siamo piuttosto in una società della semplificazione, non della conoscenza)». Di fatto, «la conoscenza e l’informazione sono sempre meno libere e sempre più controllate dai motori di ricerca, oltre ad essere fonte (Big Data) di alti profitti per pochi, mentre monopoli sempre più grandi sono sempre più grandi proprio perché noi permettiamo loro di esserlo sempre di più, e perché è nella natura di un capitalismo non controllato». Quanto alla «crescita spontanea della produzione condivisa», con «beni, servizi e organizzazioni che non rispondono più ai principi del mercato e della gerarchia manageriale», Demichelis ribatte: «Anche questo è falso, ormai il mercato è ovunque e in ogni relazione umana (il neoliberismo vive in ognuno di noi come una consolidata disciplina dentro una consolidata biopolitica), il lavoro è sempre più merce e sempre più sfruttato – a meno di considerare produzione condivisa la sharing economy, l’uberizzazione del lavoro, il dover essere imprenditori di se stessi».«Quasi inosservati, nelle nicchie e negli angoli più nascosti del sistema di mercato – aggiunge Mason – interi settori economici stanno cominciando a prendere un’altra strada. Monete parallele, banche del tempo, cooperative e spazi autogestiti sono spuntati come funghi». Favole, replica Demichelis: in verità, da anni, le migliori reatà restano ai margini, senza riuscire a scalfire la potenza di fuoco del tecno-capitalismo. E intanto «i beni comuni vengono aggirati dalle logiche di mercato (come in Italia per l’acqua, nonostante il referendum) e la sharing economy è comunque sotto forma di impresa e agisce secondo il mercato, socializzandolo». Secondo Mason, «Marx immaginava qualcosa di molto simile all’economia dell’informazione in cui viviamo oggi, e aggiunge che la sua venuta farà saltare in aria il capitalismo». Ma in realtà “l’intelletto generale” di Marx «non è qualcosa di simile all’economia dell’informazione», e soprattutto «non farà saltare in aria il capitalismo proprio perché l’economia dell’informazione e della conoscenza è basata anch’essa sulla suddivisione/individualizzazione del lavoro e poi sulla sua integrazione/totalizzazione in qualcosa che è sempre e comunque alienato dal lavoratore stesso», sia esso «uberizzato o lavoratore della conoscenza e dell’informazione».Ci vuole ben altro, per uscire dal tecno-capitalismo: per Demichelis, «occorre una destrutturazione di tutti i meccanismi eteronomi e anti-democratici di messa al lavoro degli uomini (mercato e tecnica)», nonché «una liberazione dai vincoli di connessione (di rete e mercato) e di alienazione», e poi «un anticonformismo digitale, una laicizzazione della società contro l’integralismo religioso del tecno-capitalismo, una separazione netta (ma decisa dagli uomini, non dalle macchine, posto che la loro logica è quella dell’uso esaustivo del tempo e della produttività da accrescere sempre e comunque), tra tempi di vita e tempi di lavoro». Soprattutto, conclude l’analista di “Micromega”, è indispensabile «una riconsiderazione radicale (un rovesciamento) dei rapporti tra economia (che deve tornare ad essere un mezzo) e società (che deve tornare ad essere il fine)». Viceversa, contrariamente al Mason-pensiero, non esiste uscita di sicurezza dal tecno-capitalismo globalizzato che sta destabilizzando il mondo e minando la società occidentale.«E’ arrivato un nuovo profeta che promette un postcapitalismo meraviglioso, umano, collaborativo, intellettuale, gratuito». E’ Paul Mason, oracolo di un postcapitalismo che «ci porterà gioia, felicità, condivisione libera e liberazione dalla fatica». Basta «confidare nella potenza rivoluzionaria e salvifica delle nuove tecnologie», ovvero «credere che il web sia la nuova fabbrica», e che quindi «il suo proletariato digitale, diverso da quello industriale perché più informato e più connesso, possa abbattere questo capitalismo». Tutto bello e affascinante, scrive Lelio Demichelis. Peccato però che se il vecchio proletariato aveva «una propria coscienza di classe capace di fare contrasto al capitalismo», prima di sciogliersi in esso e condividerne l’egemonia, «questo proletariato digitale è nato invece già antropologicamente capitalista», vuole essere integrato (connesso) nel sistema, e «pur essendo forse ancora classe in sé (mai così tanti lavoratori precari, della falsa conoscenza, della sharing economy, taylorizzati e fordizzati in rete o uberizzati ovunque)» non sarà mai “classe per sé”, «perché incapace di una coscienza comune e di una progettualità politica alternativa», convinto com’è che «non ci sono alternative».
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Errore fatale, trattare i migranti come i Goti di Alarico
Nel clima da fine impero in cui siamo immersi fioriscono i paragoni tra l’ondata migratoria attuale e le invasioni barbariche del V secolo. Scrive ad esempio l’antropologa Amalia Signorelli: «Vorrei suggerire all’onorevole Matteo Salvini e a tutti coloro che condividono le sue idee una passeggiata lungo le Mura Aureliane, la possente fortificazione con cui l’imperatore Aureliano (215 – 275 d.C.) circondò Roma, capitale dell’Impero, per metterla al riparo dalle invasioni dei barbari. Si resta affascinati dal diametro della cinta muraria (Roma all’epoca sfiorava il milione di abitanti), dallo spessore delle mura, dalla frequenza delle torri di avvistamento, dall’eccellente protezione dei camminamenti. Un’opera di ingegneria militare ancora oggi esemplare. Che, come tutti sappiamo, non fermò le invasioni barbariche. Se mai, per un paio di secoli, ne ritardò il compimento. Quei barbari non erano bande di briganti dedite al saccheggio, erano popolazioni che si muovevano dall’Est verso Ovest con donne e bambini e che tendevano a stabilirsi nei paesi conquistati». E poi la proposta: «Il rifugiato riceva dallo Stato italiano una cifra giornaliera per il proprio mantenimento e, in segno di gratitudine, si offra volontario per lavori socialmente utili».Questa è l’impostazione politically correct di Amalia Signorelli. Commenta una lettrice: «E purtroppo l’autrice dell’articolo ha ragione, ha dannatamente ragione: i muri non bastano, non basteranno a fermare questa invasione barbarica che produrrà soltanto distruzione, come d’altronde tutte le invasioni. Non è più un fenomeno di immigrazione, è un’incontenibile invasione. Ha ragione l’autrice a paragonarla con quanto successe durante le guerre gotiche. Ma l’autrice omette colpevolmente di ricordare gli episodi di atroce crudeltà. Roma in cinquant’anni passò da un milione di abitanti a trentamila. Fu una carneficina e fu il crollo di una civiltà. Siamo arrivati, purtroppo, a una scelta: o noi o loro». Questa opinione è sostanzialmente condivisa da oltre il 90% dei lettori che commentano. Perciò parliamone apertamente e senza moralismi, o magari utilizzando la storia come metafora. Che vuol dire: “O noi o loro”? Dovremmo sterminarli, riportarli da dove vengono, o cosa?Lo so che il genocidio (non è già in corso?) è un reato, e l’apologia di reato non si può fare; e chi lo commette si autodistrugge. Ma proviamo a ridurre il divario fra opinione pubblica e establishment. I Goti e i loro successori non volevano abbattere l’impero romano, anzi: ma solo inserirsi in un’area sicura (dagli attacchi degli Unni) e ricca. Sounds familiar? Però ne provocarono il crollo. Il declino del reddito pro-capite durò circa mille anni. O più: i contadini del V secolo abitavano case pavimentate e con le tegole sul tetto; in Veneto cento anni fa molti contadini vivevano in abitazioni di paglia. Come gestirono la pressione migratoria nel V secolo? In modi diversi a Oriente e a Occidente. A Costantinopoli, in un caldo giorno di luglio dell’anno 400, fu pogrom. La folla inferocita trucidò tutti i Goti presenti in città: uomini, donne, bambini. Il governo di Arcadio completò la pulizia etnica, anche in Anatolia. La città festeggiò (3 gennaio 401)! I Visigoti di Alarico, invitti da 25 anni, vista la brutta aria, lasciarono la Tracia per l’Italia. E dei Goti in Oriente non si sentì più parlare. Problema risolto.In Occidente, in un caldo giorno di agosto del 405, Stilicone sconfisse un’orda di Goti che (dopo aver messo a ferro e fuoco l’Italia del Nord) assediava Firenze. Fece prigionieri forse 30.000 guerrieri: li risparmiò. Ne inserì 12.000 nell’esercito romano, alloggiando (in servitù) le rispettive donne e bambini presso famiglie padane; tutti gli altri li vendette schiavi. Ma nel 408 Stilicone cadde, e in Padania fu subito pogrom: la folla trucidò le donne e i bambini dei Goti. Allora i padri-mariti disertarono l’esercito romano (gli schiavi abbandonarono i padroni) e si unirono ad Alarico, portando l’esercito visigoto a circa 30.000 soldati. Fino ad allora battuto e ricacciato in Pannonia, Alarico così rinforzato riuscì ad espugnare Roma (410).Morale della favola. O li facciamo fuori tutti, ma proprio tutti, e in un colpo solo, come a Bisanzio. Ma ce la sentiamo di diventare dei genocidi? Oppure è meglio che li trattiamo bene. Perché anche in Oriente, nel 376, quando tutto cominciò, i forse 100.000 Goti che si presentarono alla frontiera sul Danubio chiesero ‘asilo politico’ all’imperatore, aspettarono due mesi la risposta di là dal fiume, entrarono disarmati, e non crearono problemi. Fino a quando – raccontano le fonti romane, non gote – traditi, umiliati, e affamati si ribellarono. E furono 25 anni di saccheggi. Tre strade. Il genocidio. La ri-emigrazione verso altri lidi (Cina? Antartide? I paesi di origine?). L’integrazione: attribuire loro dei diritti e rispettarli. Oppure il caos e la fine della civiltà. Quale preferite?Ps: il padre di Stilicone era Vandalo. E Stilicone fu l’ultimo baluardo di Roma! L’integrazione porta anche benefici. I romani avevano controlli sugli ingressi alle frontiere molto efficaci; e politiche dell’immigrazione molto restrittive (oggi Obama dice: fate di più contro i trafficanti di uomini). Il più bel libro che ho letto sull’argomento è di un italiano (Alessandro Barbero, “Barbari: Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano”, Laterza). I migranti di oggi non sono come quelli del V secolo. Nella società agraria latifondista romana un Goto che arrivava da solo non aveva nessuna possibilità di migliorare la sua condizione economica: poteva fare solo lo schiavo o il servo della gleba. La produzione agricola essendo più o meno data, l’impero non traeva benefici economici dall’immigrazione (a parte l’esercito).Perciò per i migranti al di là delle frontiere l’unico modo per partecipare al benessere romano era organizzare spedizioni armate di massa e costringere con la forza (e i saccheggi) lo Stato romano a venire a patti, a concedere terre e diritti di stanziamento (Alarico fino al 410 non chiese altro). Ma in tal modo i migranti del V secolo impoverirono l’impero, anche fiscalmente (i barbari non pagavano tasse), fino allo stremo. Oggi l’industria e i servizi cambiano la situazione: gli immigrati aumentano la capacità produttiva del paese ospite (perciò si presentano da soli, disarmati, pronti a creare valore e pagare le tasse). Il problema è nostro: organizzarci, investire su di loro per renderli produttivi. E prima ancora, farla finita con la crisi di domanda che non consente neanche a molti europei potenzialmente produttivi (disoccupati) di lavorare.(PierGiorgio Gawronski, “I migranti di oggi non sono come i Goti del V secolo”, da “Il Fatto Quotidiano” del 30 agosto 2015).Nel clima da fine impero in cui siamo immersi fioriscono i paragoni tra l’ondata migratoria attuale e le invasioni barbariche del V secolo. Scrive ad esempio l’antropologa Amalia Signorelli: «Vorrei suggerire all’onorevole Matteo Salvini e a tutti coloro che condividono le sue idee una passeggiata lungo le Mura Aureliane, la possente fortificazione con cui l’imperatore Aureliano (215 – 275 d.C.) circondò Roma, capitale dell’Impero, per metterla al riparo dalle invasioni dei barbari. Si resta affascinati dal diametro della cinta muraria (Roma all’epoca sfiorava il milione di abitanti), dallo spessore delle mura, dalla frequenza delle torri di avvistamento, dall’eccellente protezione dei camminamenti. Un’opera di ingegneria militare ancora oggi esemplare. Che, come tutti sappiamo, non fermò le invasioni barbariche. Se mai, per un paio di secoli, ne ritardò il compimento. Quei barbari non erano bande di briganti dedite al saccheggio, erano popolazioni che si muovevano dall’Est verso Ovest con donne e bambini e che tendevano a stabilirsi nei paesi conquistati». E poi la proposta: «Il rifugiato riceva dallo Stato italiano una cifra giornaliera per il proprio mantenimento e, in segno di gratitudine, si offra volontario per lavori socialmente utili».
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Foa: il tedesco chiagne e fotte (e intanto si pappa la Grecia)
La notizia della vendita di 14 aeroporti greci a una società tedesca, la Fraport, sta suscitando indignazione; eppure non dovrebbe stupire. Noi siamo abituati a mitizzare i tedeschi, a farci intimidire dal loro rigore morale e – da quando il senso di colpa per l’Olocausto è evaporato – anche dal loro senso di superiorità. In realtà sbagliamo e dovremmo cominciare a giudicare le élites tedesche – perché il popolo, come sempre, c’entra poco – per quello che sono. E soprattutto per i loro difetti. Il primo è la superbia: quando il tedesco di successo (e di potere) troppo spesso diventa sprezzante e non sa darsi il senso della misura. L’empatia, il senso delle proporzioni e dell’equilibrio, quel buon senso che induce gli uomini di successo più avveduti a non esagerare, riflettendo i principi di Sun Tzu, scompare. Il tedesco non si accontenta di vincere, deve stravincere e possibilmente schiacciare l’avversario; non concepisce alcuna attenuante né comprensione umana ma soltanto il raggiungimento dei propri obiettivi, in sintonia con la propria concezione morale, che naturalmente coincide con i propri interessi e non contempla né gli interessi né le spiegazioni degli altri, per quanto possano essere fondati.La relatività morale delle élite tedesche è una costante storica, e tra l’altro spiega molti crimini dei tedeschi ai tempi dei nazisti. Ma non solo. Se analizziamo la storia recente ci accorgiamo che questo atteggiamento è ricorrente. Nel suo splendido saggio “Anschluss – L’annessione”, Vladimiro Giacché dimostra come l’unificazione tedesca non abbia condotto al salvataggio della ex Ddr da parte della Repubblica federale tedesca, bensì a una spoliazione del tessuto industriale ed economico della Germania dell’est da parte delle aziende dell’Ovest in sintonia con il sistema bancario e la classe politica, secondo modalità che definire immorali è persino riduttivo. Allora andò in scena un grande furto collettivo, roba da Casta all’ennesima potenza (altro che Italia!), che di fatto trasformò in un insuccesso economico e sociale quello che avrebbe dovuto essere un processo di integrazione economica. La grande ruberia, naturalmente, non fu denunciata dalla stampa e non fu oggetto di commissioni di inchiesta.Il costo sociale fu scaricato sui länder dell’est, che da allora non si sono più ripresi, e quello economico sui conti dello Stato e, indirettamente su tutta l’Europa, che a causa di quella pessima gestione sprofondò, all’inizio degli anni Novanta, in una lunga recessione. Le élites tedesche non hanno mai pagato alla Grecia i debiti di guerra, sostenendo per oltre 50 anni che “non era il momento”. I tedeschi che con tanta irruenza hanno giudicato la Grecia di oggi, dipingendola come corrotta, inaffidabile, indolente, sono gli stessi che le hanno venduto armamenti per miliardi e che coprono, per legge, la corruzione delle proprie aziende all’estero, inclusa Atene (vedi lo scandalo Siemens); sono coloro che un paio di anni fa hanno permesso alle proprie banche di liberarsi del debito pubblico greco, scaricandolo sui contribuenti europei, con un’operazione che ancora una volta fu presentata come un salvataggio naturalmente del popolo greco.I tedeschi non hanno mai messo la Grecia nelle condizioni di risollevarsi veramente ma, d’accordo con la Troika, l’hanno caricata di tasse, balzelli, “riforme” che hanno avuto come unico effetto quello di far crollare del 25% il Pil greco. Le hanno cavato un paio di litri di sangue e poi le hanno detto: non sei abbastanza in forma, devi correre più veloce. Non ti dai abbastanza da fare, devi dare altro sangue. Naturalmente avanzando pretese morali e continuando a incolpare il popolo greco nel suo insieme. A Napoli direbbero che la Germania “chiagne e fotte”. Il fottuto oggi è la Grecia. Oggi. E domani?(Marcello Foa, “Il tedesco chiagne e fotte, e intanto si compra la Grecia”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 19 agosto 2015).La notizia della vendita di 14 aeroporti greci a una società tedesca, la Fraport, sta suscitando indignazione; eppure non dovrebbe stupire. Noi siamo abituati a mitizzare i tedeschi, a farci intimidire dal loro rigore morale e – da quando il senso di colpa per l’Olocausto è evaporato – anche dal loro senso di superiorità. In realtà sbagliamo e dovremmo cominciare a giudicare le élites tedesche – perché il popolo, come sempre, c’entra poco – per quello che sono. E soprattutto per i loro difetti. Il primo è la superbia: quando il tedesco di successo (e di potere) troppo spesso diventa sprezzante e non sa darsi il senso della misura. L’empatia, il senso delle proporzioni e dell’equilibrio, quel buon senso che induce gli uomini di successo più avveduti a non esagerare, riflettendo i principi di Sun Tzu, scompare. Il tedesco non si accontenta di vincere, deve stravincere e possibilmente schiacciare l’avversario; non concepisce alcuna attenuante né comprensione umana ma soltanto il raggiungimento dei propri obiettivi, in sintonia con la propria concezione morale, che naturalmente coincide con i propri interessi e non contempla né gli interessi né le spiegazioni degli altri, per quanto possano essere fondati.
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Ha vinto l’Ue, nemica dell’Europa. Non c’è più niente da fare
La stanca riproposizione del mantra dell’unità politica del continente scansa accuratamente di misurarsi con l’esame clinico obiettivo delle condizioni del progetto. Si tratta di qualcosa di ancora vitale o no? Perché, a sessanta anni dal fallimento del primo progetto di unificazione politica dell’Europa, la Ced, si è sviluppata una crescente integrazione economica e poi monetaria, ma l’unificazione politica si è definitivamente insabbiata? Ci sono stati certamente fattori oggettivi (per tutti: l’irrisolto problema linguistico) ma ci sono stati anche ostacoli soggettivi. Ed allora, chi sono stati (e chi sono tutt’ora) i nemici dell’unione politica europea? Iniziamo dai nemici interni. In primo luogo, ovviamente, i ceti politici nazionali, a parole tutti europeisti ferventi (Inghilterra a parte), ma in concreto preoccupatissimi di perdere potere e ridursi al rango di ceto politico regionale. E al primo posto c’è il governo tedesco, che con questi equilibri fa quello che vuole, ma con un potere centralizzato vedrebbe fatalmente ridursi il suo potere e, soprattutto, a quel punto la moneta sarebbe davvero la moneta dell’Unione e non il marco in uno dei suoi più riusciti travestimenti.A partire dalla bocciatura della Comunità Europea di Difesa, decretata dal Parlamento francese nel 1955, le classi politiche nazionali hanno costantemente ostacolato qualsiasi progetto di integrazione politica e militare. Persino cose innocue e simboliche come la brigata franco-tedesca, sono state lasciate morire nel silenzio. In questo quadro i più attivi affossatori del progetto europeista sono stati i diplomatici, che hanno speso le loro migliori energie per costruire una cattedrale barocca priva di qualsiasi slancio vitale e la riprova venne con il cosiddetto Trattato che adotta una Costituzione Europea di cui si parlò come di “una Costituzione senza Stato” (quindi sempre con l’idea di non dare vita ad uno Stato europeo) che, se ci si pensa su, è una cosa di totale inutilità. Per di più era un testo illeggibile, lunghissimo (600 pagine: non esiste nessuna Costituzione così lunga in tutto il sistema solare), incoerente, complicato e fatto in modo che non avrebbe mai potuto funzionare. Un capolavoro di sabotaggio riuscitissimo.Poi la cosa fu completata dai referendum di Francia e Paesi Bassi. E si capisce perché: in una Europa unita politicamente, non ci sarebbe alcun bisogno di 27 ministeri degli esteri, centinaia di ambasciate reciproche e migliaia nel mondo, basterebbe un’unica diplomazia europea ed uffici di rappresentanza degli ex Stati membri. Cioè un trentesimo dell’attuale personale diplomatico. E gli altri 29 che fanno? E che dire dei comandi militari? Di 28 stati maggiori dovremmo farne uno, poi anche la distribuzione delle forze nazionali sfuggirebbe alle dinamiche delle singole corporazioni militari. E questi sono nemici particolarmente forti, perché trovano nella Nato uno strumento di condizionamento in più. Il minimo che ci si possa attendere è che anche loro cerchino di sabotare il sabotabile. Allora diciamo che questi sabotaggi sono stati un aspetto della nobile lotta in difesa dell’occupazione.Poi, dalla diplomazia e dagli apparati tecnocratici nazionali è sorta l’ “eurocrazia”, l’enorme e pagatissimo apparato che fra Bruxelles, Strasburgo e Francoforte, ha in mano gli affari dell’Unione. Un apparato che, naturalmente, non ha nessun interesse ad avere alcuna autorità politica che lo controlli e diriga la politica europea. La Commissione è praticamente ostaggio di questo apparato che fa il bello ed il cattivo tempo e del Consiglio, con le sue presidenze semestrali, non parliamo nemmeno. E questo apparato, ovviamente, è un altro nemico giurato dell’unità politica del continente. Poi c’è il caso particolare della Bce, un ente di natura privatistica che raccoglie le banche centrali che, a loro volta, hanno board in buona parte composti dai rispettivi grandi enti bancari. Insomma, la creme del ceto finanziario europeo che può fare quel che gli pare senza dar conto a nessuna autorità politica, salvo il governo di Berlino. E dunque, un altro ente interessatissimo a non avere fra i piedi un potere politico centrale.All’elenco, ovviamente, non può mancare quella specie di circo equestre del Parlamento di Strasburgo che se la spassa fra doratissimi ozi. Ma si può tenere un Parlamento che dedica il suo tempo a stabilire quale debba essere il diametro minimo delle vongole, quale la misura media dei cetrioli, o le misure standard e la posizione dei bagni delle case di civile abitazione in tutta Europa? Un Parlamento terreno di pascolo di tutte le lobbies continentali che decidono che si possa fare il cioccolato senza cacao e l’aranciata senza succo d’arancia e come debba essere la confezione dei farmaci, perché occorre fare favori alle grandi industrie alimentari tedesche e francesi, o alla lobby del design industriale. Ogni tanto si affaccia qualche scandalo, subito sopito perché non c’è una magistratura europea che possa vigilare sulla corruzione a Strasburgo, ma state tranquilli che il giorno in cui fosse possibile farlo, il centro del malaffare europeo sarebbe individuato a Strasburgo e persino le amministrazioni di Napoli o Marsiglia sembrerebbero fulgidi esempi di oculata amministrazione. A leggere l’elenco delle decisioni del Parlamento Europeo ci sarebbe da ammazzarsi dalle risate se non ci fosse da piangere.Dunque c’è una grande alleanza fra ceti politici nazionali, tedeschi e inglesi in testa, stati maggiori, tecnocrazia, Bce, Parlamento Europeo il cui grande nemico è l’unione politica europea, ma, siccome non sarebbe carino dirlo, tutti continuano a recitare la parte di ferventi fautori del sogno di Altiero Spinelli, di Cattaneo, di Mazzini, di Monnet… Tutto quello che è stato fatto è all’insegna del finto: come per l’“inno muto”, i disegni delle banconote che riproducono opere d’arte inesistenti, la finta integrazione universitaria, ecc. L’Unione Europea, oggi è solo un’immensa scenografia di tela e cartapesta. Poi ci sono i nemici esterni, in primo luogo gli americani, che hanno interesse ad una Europa immenso mercato unificato, utile ad operazioni come il Ttip, ma che ovviamente non hanno alcun interesse ad una Europa politica che si mette in testa di giocare la partita in proprio e magari scioglie la Nato. Credo possa bastare, questo è il quadro dei nemici che hanno fatto la guerra all’unità politica d’Europa. L’hanno fatta e l’hanno vinta. Non c’è più niente da fare.(Aldo Giannuli, “Perché l’Europa unita non si fa e non si farà? I nemici d’Europa”, dal blog di Giannuli del 1° agosto 2015).La stanca riproposizione del mantra dell’unità politica del continente scansa accuratamente di misurarsi con l’esame clinico obiettivo delle condizioni del progetto. Si tratta di qualcosa di ancora vitale o no? Perché, a sessanta anni dal fallimento del primo progetto di unificazione politica dell’Europa, la Ced, si è sviluppata una crescente integrazione economica e poi monetaria, ma l’unificazione politica si è definitivamente insabbiata? Ci sono stati certamente fattori oggettivi (per tutti: l’irrisolto problema linguistico) ma ci sono stati anche ostacoli soggettivi. Ed allora, chi sono stati (e chi sono tutt’ora) i nemici dell’unione politica europea? Iniziamo dai nemici interni. In primo luogo, ovviamente, i ceti politici nazionali, a parole tutti europeisti ferventi (Inghilterra a parte), ma in concreto preoccupatissimi di perdere potere e ridursi al rango di ceto politico regionale. E al primo posto c’è il governo tedesco, che con questi equilibri fa quello che vuole, ma con un potere centralizzato vedrebbe fatalmente ridursi il suo potere e, soprattutto, a quel punto la moneta sarebbe davvero la moneta dell’Unione e non il marco in uno dei suoi più riusciti travestimenti.
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Hanno ucciso la Grecia, non esiste più. Poi toccherà a noi?
Ma cosa ha a che fare il cosiddetto accordo per la Grecia con l’Europa dei popoli? Cosa ha a che fare il massacro della Grecia e del suo popolo con l’integrazione e l’unità politica europee? Cosa ha a che fare questa Ue con quella prospettiva di crescita, solidarietà, democrazia che milioni di europei hanno creduto e auspicato in questi decenni? Il presunto accordo è soltanto la garanzia perché i creditori e le banche siano soddisfatti. La Grecia è già al default e quelle condizioni servono soltanto a costringere il Parlamento greco a rendere legittime le scorrerie predatorie sui beni pubblici. Un intero paese privatizzato. Beni culturali, paesaggistici, risorse naturali, costituiranno il fondo di garanzia di 52 miliardi di euro per i creditori. Non hanno mai voluto davvero un esito ‘Grexit’: né i tedeschi per i loro maledettissimi interessi né gli americani preoccupati di non regalare la Grecia, che resta strategica nello scacchiere mediterraneo, alla Russia di Putin.È invece quello dell’appropriazione dei beni comuni il tema principale, e senza entrare nel merito delle altre micidiali condizioni come la riforma delle pensioni e del codice civile. Ogni Paese ha delle risorse che non vengono calcolate in termine di ricchezza e Pil: musei, opere d’arte, storiche, monumentali, collezioni, patrimonio librario, isole, coste. Su queste pregiatissime risorse pubbliche stanno orientando i loro artigli le potentissime lobby economico-finanziarie internazionali. E credo che questo sia un rischio assai concreto anche per l’Italia la cui ricchezza in materia è davvero inestimabile. Se il Peloponneso o il Partenone rischiano così in un futuro prossimo di diventare patrimonio privato, lo stesso potrebbe accadere all’Italia. Qualcuno direbbe “ma la Costituzione tutela questi beni”; vero, però i signori della finanza hanno costretto alla costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio: un vero e proprio monstrum giuridico.Vedremo, se una volta chiuso il capitolo ellenico, si riaprirà quello italiano con i licenziamenti nelle Pa e un’ulteriore riforma delle pensioni, preludio all’aggressione ai nostri beni comuni rispetto ai quali, purtroppo dimentichiamo sempre troppo in fretta, un referendum stravinto è rimasto inapplicato! Se davvero dopo la Grecia toccherà all’Italia, i mastini che condurranno l’Eurosummit non dovranno neppure reggere la fatica di sottoporre il premier di turno al massiccio ‘waterboarding mentale’ riservato a Tsipras: temo che cederà subito…(Orazio Licandro, “Grecia, come si privatizza un paese”, dal “Fatto Quotidiano” del 14 luglio 2015).Ma cosa ha a che fare il cosiddetto accordo per la Grecia con l’Europa dei popoli? Cosa ha a che fare il massacro della Grecia e del suo popolo con l’integrazione e l’unità politica europee? Cosa ha a che fare questa Ue con quella prospettiva di crescita, solidarietà, democrazia che milioni di europei hanno creduto e auspicato in questi decenni? Il presunto accordo è soltanto la garanzia perché i creditori e le banche siano soddisfatti. La Grecia è già al default e quelle condizioni servono soltanto a costringere il Parlamento greco a rendere legittime le scorrerie predatorie sui beni pubblici. Un intero paese privatizzato. Beni culturali, paesaggistici, risorse naturali, costituiranno il fondo di garanzia di 52 miliardi di euro per i creditori. Non hanno mai voluto davvero un esito ‘Grexit’: né i tedeschi per i loro maledettissimi interessi né gli americani preoccupati di non regalare la Grecia, che resta strategica nello scacchiere mediterraneo, alla Russia di Putin.
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Tutti bugiardi venduti allo straniero, e noi dovremmo votarli
L’Europa dovrebbe essere solidale con l’Italia nell’affrontare l’emergenza epocale dell’immigrazione di massa, ma non lo è e lascia l’Italia sola, in prima linea, a sostenere tutti i costi, non solo finanziari. In materia economica, l’Europa dovrebbe essere solidale con l’Italia e gli altri paesi più in difficoltà, ma non lo è, e serve gli interessi dei paesi più forti ai danni dei più deboli. Le politiche finanziarie europee dovrebbero tendere a sviluppo e coesione ed essere riviste e corrette alla luce dei risultati negativi e controproducenti, ma non lo sono. Ci hanno imposto tasse e tagli per entrare nell’euro, perché doveva recare stabilità, convergenza e crescita, ma ha portato l’opposto. I vincoli e i controlli europei cui ci hanno sottoposti dovevano portare efficienza e risanamento, e invece i potenti d’Europa si sono alleati con la nostra casta corrotta e inefficiente per meglio sfruttare le disfunzioni italiane, amplificandole e dominandoci.L’accoglienza ai migranti dovrebbe essere possibile e sostenibile; ma, di fronte all’immigrazione di molti milioni di persone, oggettivamente non lo è. Inoltre, l’accoglienza dovrebbe essere motivata da ragioni umanitarie, invece, come rivelato dalle intercettazioni del caso Mafia Capitale, è spinta da speculazioni criminali, dal peculato allo spaccio alla prostituzione al lavoro in nero, servite dall’azione della politica. L’integrazione anche morale e legale degli immigrati nella società che li accoglie, la loro accettazione delle nostre leggi e dei nostri principi, dovrebbero essere la norma, ma non lo sono. La politica dovrebbe lavorare sulle basi di ciò che è, non di ciò che dovrebbe essere e sistematicamente non è. Dovrebbe parlare di che cosa è fattibile con ciò che è disponibile ora (senza aspettare Godot, Bruxelles e il Messia). Non lo fa e continua a propagandare l’irreale, cioè a mentire.Mentire per fare interessi illeciti e nascosti, spesso stranieri.Mentendo, i governi rassicurano, per raccogliere voti, che faranno correggere la politica finanziaria europea, ma non la fanno correggere, anzi la impongono più rigidamente. Mentendo, per raccogliere voti, promettono che l’Europa si farà carico dei costi della gestione dell’immigrazione di massa, ma l’Europa non lo fa. Mentendo, i governi assicurano che siamo fuori dalla crisi, ma debito pubblico, disoccupazione, deindustrializzazione, emigrazione, declino competitivo continuano a peggiorare. Mentendo, i governi si fingono sorpresi, stupiti e delusi che le loro promesse non siano state realizzate dalla realtà. Poi ricominciano con nuove promesse e rassicurazioni. E funziona sempre: il popolo non ha memoria, e se si arrabbia, dopo un poco la sua stessa rabbia impotente lo fa ridesiderare nuove speranze e rassicurazioni, fino alla successiva arrabbiatura. Grillo, Renzi, Grillo… Sinist-Dest-Sinist-Dest… pendolarmente: l’alternanza democratica. Così il popolo non può sfuggire, dice “ahi” ma non si sposta mai, e lo prende e riprende sempre in quel posto. In questo senso, Renzi può ben vantarsi che c’è una “ripresa”.(Marco Della Luna, “Il pendolo democratico”, dal blog di Della Luna del 17 aprile 2015).L’Europa dovrebbe essere solidale con l’Italia nell’affrontare l’emergenza epocale dell’immigrazione di massa, ma non lo è e lascia l’Italia sola, in prima linea, a sostenere tutti i costi, non solo finanziari. In materia economica, l’Europa dovrebbe essere solidale con l’Italia e gli altri paesi più in difficoltà, ma non lo è, e serve gli interessi dei paesi più forti ai danni dei più deboli. Le politiche finanziarie europee dovrebbero tendere a sviluppo e coesione ed essere riviste e corrette alla luce dei risultati negativi e controproducenti, ma non lo sono. Ci hanno imposto tasse e tagli per entrare nell’euro, perché doveva recare stabilità, convergenza e crescita, ma ha portato l’opposto. I vincoli e i controlli europei cui ci hanno sottoposti dovevano portare efficienza e risanamento, e invece i potenti d’Europa si sono alleati con la nostra casta corrotta e inefficiente per meglio sfruttare le disfunzioni italiane, amplificandole e dominandoci.
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L’euro sarà la vostra tomba, parola di Godley (era il 1992)
Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?Dato che il trattato non propone nessuna nuova istituzione oltre alla banca europea, i suoi sponsor devono supporre che non sia necessario nient’altro. Ma questo potrebbe essere corretto solo se le economie moderne fossero dei sistemi che si auto-regolano e che non hanno nessun bisogno di essere gestite. Sono giunto alla conclusione che una tale visione – che le economie siano organismi capaci di auto-regolazione che mai in nessun caso necessitano di una qualche forma di gestione – ha di fatto determinato il modo in cui il Trattato di Maastricht è stato costruito. Si tratta di una versione rozza ed estrema di quel punto di vista che da qualche tempo incarna la saggezza convenzionale dell’Europa (anche se non quella degli Stati Uniti o del Giappone), secondo la quale i governi sono incapaci di perseguire gli obiettivi tradizionali della politica economica, come la crescita e la piena occupazione, e quindi non dovrebbero nemmeno provarci. Tutto ciò che si può legittimamente fare, secondo questo punto di vista, è controllare l’offerta di moneta e tenere il bilancio in pareggio.C’è voluto un gruppo composto in gran parte di banchieri (il Comitato Delors) per giungere alla conclusione che una banca centrale indipendente sia l’unica istituzione sovranazionale necessaria a governare un’Europa integrata e sovranazionale. Ma c’è anche molto di più. Bisogna sottolineare sin dall’inizio che la creazione di una moneta unica nella Ce è veramente destinata a segnare la fine della sovranità delle nazioni che la compongono e del loro potere di agire in modo indipendente sulle grandi questioni. Come ha sostenuto in modo molto convincente Tim Congdon, il potere di emettere la propria moneta, e di intervenire tramite la propria banca centrale, è il fatto principale che definisce l’indipendenza di una nazione. Se un paese rinuncia a questo potere, o lo perde, acquisisce lo status di ente locale o di colonia. Le autorità locali e le regioni ovviamente non possono svalutare. Ma perdono anche il potere di finanziare i deficit con emissione di moneta, e gli altri metodi per ottenere finanziamenti sono soggetti a regolamentazione da parte dell’autorità centrale. Né possono modificare i tassi di interesse.Dato che le autorità locali non possiedono nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica è limitata alle questioni relativamente minori – un po’ più di istruzione qui, un po’ meno di infrastrutture là. Penso che quando Jacques Delors enfatizza la novità del principio di ‘sussidiarietà’, in realtà ci sta solo dicendo che saremo autorizzati a prendere decisioni su un maggior numero di questioni relativamente poco importanti rispetto a quanto potevamo supporre in precedenza. Forse ci permetterà di avere i cetrioli ricurvi, dopo tutto. Veramente un grande affare! Permettetemi di esprimere un punto di vista diverso. Credo che il governo centrale di qualsiasi Stato sovrano dovrebbe impegnarsi con continuità per determinare il livello generale ottimale di servizi pubblici, l’imposizione fiscale complessiva più corretta, la corretta allocazione delle spese tra obiettivi concorrenti e la equa ripartizione della pressione fiscale. Il governo deve anche determinare in che misura qualsiasi disavanzo tra spesa e tassazione debba esser finanziato da un intervento della banca centrale e quanto debba essere finanziato dal prestito pubblico e a quali condizioni.Il modo in cui i governi decidono tutte queste questioni (e alcune altre), e la qualità della loro leadership, in interazione con le decisioni degli individui, delle imprese e del settore estero, determinerà cose come i tassi di interesse, il tasso di cambio, il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. Questo influenzerà anche profondamente la distribuzione del reddito e della ricchezza, non solo tra gli individui ma tra intere regioni, fornendo assistenza, si spera, alle persone colpite dai cambiamenti strutturali. Non si può semplificare troppo sull’utilizzo di questi strumenti, con tutte le loro interdipendenze, volti a promuovere il benessere di una nazione e a proteggerla al meglio possibile dagli shock di varia natura a cui inevitabilmente può andare soggetta. Non vuol dire molto, per esempio, dire che i bilanci dovrebbero essere sempre in pareggio, nel momento in cui un bilancio in pareggio con spesa e tassazione entrambe al 40% del Pil avrebbe un impatto completamente diverso (e molto più espansivo) di un bilancio in pareggio al 10%.Per immaginare la complessità e l’importanza delle decisioni macro-economiche di un governo, basta solo chiedersi quale sarebbe la risposta adeguata, in termini di politica di bilancio, monetaria e valutaria, per un paese che produce grandi quantità di petrolio, ad un aumento del prezzo del petrolio di quattro volte. Sarebbe giusto non fare niente? E non si dovrebbe mai dimenticare che in periodi di fortissima crisi, può anche essere appropriato per un governo centrale peccare contro lo Spirito Santo di tutte le banche centrali e invocare la ‘tassa da inflazione’ – appropriandosi deliberatamente delle risorse e riducendo, attraverso l’inflazione, il valore reale della ricchezza di carta di una nazione. Dopo tutto, era proprio mediante la tassa da inflazione proposta da Keynes che avremmo dovuto fare i pagamenti di guerra. Enumero tutti questi argomenti non per suggerire che la sovranità non dovrebbe essere ceduta per la nobile causa dell’integrazione europea, ma che se i singoli governi rinunciano a tutte queste funzioni, semplicemente queste devono essere assunte da qualche altra autorità.La lacuna incredibile nel programma di Maastricht è che, mentre contiene un progetto per l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente, non esiste nessun progetto per l’analogo, in termini comunitari, di un governo centrale. Eppure dovrebbe semplicemente esistere un sistema di istituzioni che svolgano a livello comunitario tutte quelle funzioni che sono attualmente esercitate dai governi dei singoli paesi membri. La contropartita per rinunciare alla sovranità dovrebbe essere che i paesi membri siano costituiti in federazione, a cui sia affidata la loro sovranità. E il sistema federale, o il governo, come sarebbe meglio chiamarlo, dovrebbe esercitare nei confronti dei suoi membri e del mondo esterno tutte quelle funzioni che ho brevemente descritto sopra. Consideriamo due esempi significativi di ciò che un governo federale, che amministra un bilancio federale, dovrebbe fare. I paesi europei sono attualmente bloccati in una grave recessione. Allo stato attuale, dato che anche le economie degli Stati Uniti e del Giappone sono deboli, non è affatto chiaro quando si potrà avere una ripresa significativa.Le implicazioni politiche di questa situazione stanno diventando spaventose. Eppure l’interdipendenza delle economie europee è già così forte che nessun singolo paese, con l’eccezione teorica della Germania, si sente in grado di perseguire politiche espansive per conto suo, perché ogni paese che cercasse di espandersi per proprio conto incontrerebbe presto un vincolo della bilancia dei pagamenti. La situazione attuale richiede con forza una reflazione coordinata, ma non esistono né le istituzioni né un quadro di pensiero condiviso che potranno condurre a questo desiderabile risultato, che sarebbe di per sé ovvio. Si dovrebbe riconoscere con franchezza che se la depressione dovesse volgere seriamente al peggio – per esempio, se il tasso di disoccupazione dovesse attestarsi in modo permanente intorno al 20-25%, come negli anni Trenta – i singoli paesi prima o poi eserciterebbero il loro diritto sovrano di dichiarare che il movimento di integrazione nel suo insieme è stato un disastro e ritornare al controllo dei cambi e al protezionismo – a un’economia da stato d’assedio, se volete. Ciò equivarrebbe a una riedizione del periodo tra le due guerre.In un’unione economica e monetaria in cui il potere di agire in maniera indipendente venisse effettivamente abolito, una reflazione ‘coordinata’ come quella che adesso sarebbe così urgente e necessaria potrebbe essere intrapresa solo da un governo federale europeo. Senza un’istituzione del genere, la Uem impedirebbe azioni efficaci da parte dei singoli paesi, senza sostituirle con alcunché. Un altro ruolo importante che qualsiasi governo centrale deve svolgere è quello di garantire una rete di sicurezza sui livelli di sussistenza delle regioni che ne fanno parte, che siano in crisi per ragioni strutturali – a causa del declino di alcune industrie, per esempio, o a causa di alcuni cambiamenti demografici economicamente sfavorevoli. Attualmente questo accade nel corso naturale degli eventi, senza che nessuno in realtà ne accorga, perché gli standard comuni dei finanziamenti pubblici (ad esempio, la salute, l’istruzione, le pensioni e le indennità di disoccupazione) e un sistema fiscale comune (auspicabilmente, progressivo) sono entrambi istituiti in via generale su tutte le singole regioni.Di conseguenza, se un settore soffre un grado insolito di declino strutturale, il sistema fiscale genera automaticamente i trasferimenti netti in suo favore. In extremis, una regione che non potesse produrre nulla, non morirebbe di fame perché sarebbe titolare di pensioni, indennità di disoccupazione e reddito dei dipendenti pubblici. Che cosa succede se un intero paese – una potenziale ‘regione’ di una comunità completamente integrata – subisce una battuta d’arresto strutturale? Finché si tratta di uno Stato sovrano, può svalutare la sua moneta. Può quindi commerciare con successo al livello di pieno impiego, a patto che il popolo accetti i necessari tagli dei redditi reali. Con l’unione economica e monetaria, questa strada è ovviamente sbarrata, e la sua prospettiva è veramente grave, a meno che un bilancio federale non adempia a una funzione redistributiva. Come è stato chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall, pubblicata nel 1977, per rinunciare all’opzione della svalutazione ci deve essere una contropartita in termini di redistribuzione fiscale.Alcuni autori (come Samuel Brittan e Sir Douglas Hague) hanno seriamente sostenuto che l’Uem, abolendo il problema della bilancia dei dei pagamenti nella sua forma attuale, in realtà abolirebbe il problema, laddove esso esista, di un persistente fallimento nella competizione sui mercati mondiali. Ma, come sottolineato dal professor Martin Feldstein in un suo importante articolo sull’Economist (13 giugno), questo argomento è pericolosamente errato. Se un paese o una regione non ha il potere di svalutare, e se non è beneficiario di un sistema di perequazione fiscale, allora non c’è nulla che possa impedirgli di subire un processo di irrimediabile tracollo che porterà, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà o alla fame. Sono solidale con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher), che, di fronte alla perdita di sovranità, desiderano scendere all’istante dal treno della Uem. Sono solidale anche con coloro che perseguono l’integrazione nel quadro giuridico di una sorta di costituzione federale, che disponga di un bilancio federale molto più grande del bilancio comunitario. Quello che trovo assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che stanno puntando all’unione economica e monetaria, senza la creazione di nuove istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che alzano le mani con orrore alle parole ‘federale’ o ‘federalismo’. Questa è la posizione attualmente adottata dal governo e dalla maggior parte di coloro che prendono parte al pubblico dibattito.(Wynne Godley, “Su Maastricht e tutto il resto”, profetico intervento apparso sulla “London Review of Book” nel lontano 1992, l’8 marzo, ora riproposto dal blog “Vox Populi”. Economista e autore di svariati saggi, Godley è stato consulente del Tesoro britannico, poi docente del King’s College e direttore di dipartimento all’Università di Cambridge).Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?