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Ieri il terrorismo, oggi il virus. Stessa regia: la paura
A chiunque abbia vissuto gli attacchi dell’11 settembre 2001 e il fenomeno del cosiddetto Covid-19 del 2020, la memoria potrà servire a mettere in luce un inquietante parallelo tra i due eventi. Tuttavia, se questa memoria si fosse cancellata a causa di una dimenticanza o per colpa dei media mainstream che l’avevano scaricata nel buco della memoria, o se il ricordo non esistesse proprio, o magari la paura o la dissonanza cognitiva ne stessero bloccando la consapevolezza, vorrei sottolineare alcune somiglianze che potrebbero farci prendere in considerazione alcuni parallelismi e connessioni tra queste due operazioni. Il legame principale è che entrambi gli eventi hanno acuito la normale paura che gli esseri umani hanno della morte. Alla base di tutte le paure c’è quella della morte. Una paura che ha radici biologiche e culturali. A livello biologico, tutti reagiamo alla minaccia di morte con la lotta o con la fuga. Culturalmente, ci sono molti modi in cui questa paura può essere attenuata o esacerbata, intenzionalmente o no. Di solito, la cultura, tramite i suoi simboli e i suoi miti, serve ad alleviare la (potenzialmente traumatizzante) paura della morte. La religione è servita a lungo a questo scopo; ma quando la religione perde la presa sull’immaginazione umana, specialmente per quanto riguarda la fede nell’immortalità, come aveva sottolineato Orwell a metà degli anni Quaranta, quello che rimane è un vuoto enorme.Senza quella consolazione, la paura viene di solito esorcizzata con futili espedienti. Nel caso degli attacchi dell’11 settembre 2001 e dell’attuale operazione del coronavirus, la paura della morte è stata usata dalle élite del potere per controllare le popolazioni e portare avanti programmi pianificati da tempo. C’è un filo rosso che collega i due eventi. Entrambi gli eventi erano chiaramente stati previsti e pianificati. Nel caso dell’11 settembre 2001, come avevo argomentato in precedenza, era stato accuratamente predisposto in anticipo un controllo mentale di tipo linguistico, in modo da evocare la paura a livello profondo con l’uso di termini ripetuti, come Pearl Harbor, Homeland, Ground Zero, The Unthinkable e 11 Settembre. Ciascuno di essi, a sua volta, era servito ad aumentare drasticamente il livello di paura. Ognuno di questi termini derivava da riunioni, documenti, eventi, discorsi, tutti profondamente associati al concetto di paura. Questo linguaggio proveniva direttamente dal copione dello stregone capo, non da quello di un apprendista impazzito. E come David Ray Griffin (il principale esperto dell’11 Settembre, insieme ad altri), ha sottolineato in una dozzina di libri meticolosamente discussi e documentati, gli eventi di quel giorno dovevano essere stati attentamente pianificati in anticipo e le versioni ufficiali a posteriori possono essere descritte solo come “miracoli scientifici”, non come teorie scientifiche.Questi “miracoli” comprendono: enormi grattacieli in struttura in acciaio che, per la prima volta nella storia, crollano senza esplosivi o incendi a velocità di caduta libera, fra cui il Wtc-7 che non era nemmeno stato colpito da un aereo; un presunto pilota dirottatore, Hani Hanjour, che riusciva a malapena a far volare un Piper Cub, che avrebbe pilotato un enorme Boeing 757 in una manovra impossibile contro il Pentagono; i controlli di sicurezza in quattro aeroporti che erano venuti a mancare tutti nello nello stesso giorno e nello stesso momento; il fallimento delle sedici agenzie di intelligence statunitensi; l’incapacità dei controllori del traffico aereo, eccetera. L’elenco potrebbe continuare all’infinito. E tutto questo sarebbe stato pianificato da Osama bin Laden. È una favola. Poi abbiamo avuto i famosi attacchi con l’antrace legati all’11 Settembre. Graeme MacQueen, in “The Anthrax Deception” del 2001, mostra chiaramente che, anche qui, si era trattato di una cospirazione interna. Questi eventi pianificati avevano portato all’invasione dell’Afghanistan, al Patriot Act, al ritiro degli Stati Uniti dal Trattato Abm, all’invasione dell’Iraq, alla “guerra al terrore” ancora in corso. Non dimentichiamoci poi di tutti gli anni degli avvertimenti fraudolenti sui pericoli del terrorismo e l’ammonizione del governo a sigillare le finestre con il nastro adesivo per proteggerci da un massiccio attacco chimico e biologico.Arriviamo al 2020. Vorrei iniziare dal fondo, visto che gli avvertimenti contro il pericolo sono ancora freschi nelle nostre menti. Quando erano in corso i blocchi per il Covid-19, mentre le persone desideravano poter tornare ad una vita normale e uscire dalle loro gabbie, era successa una cosa divertente. Gli stessi avvertimenti di pericolo erano comparsi ovunque e nello stesso momento. Avevano mostrato il programma di un possibile allentamento dei controlli governativi da seguire, passo dopo passo, solo se le cose fossero andate secondo i piani. Dal rosso al giallo al verde. Accattivante. Rosso, arancio, giallo, blu, verde. Come per gli allarmi terroristici successivi all’11 settembre 2001. Il Massachusetts, dove vivo, è un cosiddetto Stato blu [a maggioranza democratica] e la sua tabella cromatica termina con il blu, non con il verde, con la fase 4 blu definita «la nuova normalità: lo sviluppo di vaccini e/o trattamenti che consentiranno la ripresa della ‘nuova normalità’». Formulazione interessante. Una frase da ritorno al futuro. Come per le ammonizioni del dopo 11 Settembre che ci invitavano a sigillare le finestre con il nastro adesivo, ora si consiglia a tutti di indossare la mascherina.È interessante notare come la 3M Company, un importante produtore di nastro adesivo, sia anche uno dei principali venditori mondiali di mascherine facciali. La società avrebbe dovuto produrre 50 milioni al mese di mascherine N95 entro giugno 2020 e dovrebbe arrivare 2 miliardi a livello globale entro il prossimo anno. Poi c’è il nastro 3M da mascheratura… ma questo è un argomento appiccicoso. Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, c’era stato ripetutamente detto che il mondo era cambiato per sempre. Ora ci viene detto che, dopo il Covid-19, la vita non sarà più la stessa. Questa è la “nuova normalità,” mentre il mondo post 11 settembre e pre Covid 19 doveva essere stato la vecchia nuova normalità. Quindi tutto è diverso ma anche normale. Quindi, come afferma il sito web del governo del Massachusetts, nei giorni a venire potremmo essere in grado di avviarci verso «la ripresa della ‘nuova normalità’». Questa nuova vecchia normalità sarà senza dubbio una forma di transumanesimo tecno-fascista, messo in atto per il nostro stesso bene. Come nel caso dell’11 Settembre, ci sono numerose prove sul fatto che l’epidemia da coronavirus era stata prevista e pianificata; che la gente è stata vittima di una campagna di propaganda che ha fatto uso di un virus invisibile per indurci alla sottomissione e bloccare l’economia mondiale a favore delle élite globali.È un caso chiaro, come Peter Koenig dice a Michel Chossudovsky in una imperdibile intervista, non è una teoria del complotto ma un palese e concreto piano enunciato nel Rapporto Rockefeller 2010, nell‘Event 201 del 18 ottobre 2019 e, tra l’altro, nell’Agenda 21. Come gli amorfi terroristi e la guerra contro il “terrorismo” (che è una tattica e quindi non un qualcosa che si può combattere), un virus è invisibile, tranne quando i media lo presentano come un pallido mucchio di strane palline fluttuanti, che sono ovunque e da nessuna parte. Guardati le spalle, attento al viso, mascherati, lavati le mani, mantieni le distanze, non sai mai quando quelle puntute palline arancioni potrebbero infettarti. Come per l’11 Settembre, ogni volta che qualcuno mette in dubbio la narrativa ufficiale del Covid-19, le statistiche ufficiali, la validità dei test, l’efficacia delle mascherine, i poteri dietro il tanto decantato vaccino prossimo venturo e le orribili conseguenze dei lockdown che distruggono le economie, uccidono la gente, portano le persone alla disperazione e al suicidio, traumatizzano i bambini, mandano in bancarotta le piccole e medie imprese per arricchire i più ricchi, ecc., i media corporativi deridono i dissidenti alla stregua di pazzi della cospirazione che, così facendo, aiutano il virale nemico. Questo succede anche quando i dissidenti sono medici, scienziati e intellettuali molto rispettati, che vengono regolarmente bannati da Internet.Con l’11 Settembre, inizialmente c’erano stati molti meno dissidenti di quanti ce ne siano ora e quindi l’eliminazione delle opinioni discordanti non aveva avuto bisogno di una censura palese, che ora invece cresce di giorno in giorno. Questa censura interessa tutto Internet, rapidamente e subdolamente, lo stesso Internet che viene imposto a tutti come la nuova normalità secondo il Grande Reset Globale, la bugia digitale [di un futuro] in cui, come ha detto Anthony Fauci, nessuno dovrà più darsi la mano. Un mondo di immagini e di esseri umani astratti in cui, come Arthur Jensen dice a Howard Beal nel film “Network”, «tutte le necessità [saranno] soddisfatte, tutte le ansie tranquillizzate, tutta le noie rallegrate». Una distopia digitale che si sta avvicinando velocemente, come forse la fine di quel filo rosso che va dall’11 settembre ad oggi. Heidi Evens e Thomas Hackett avevano scritto sul “New York Daily News”: «Con l’illusione di sicurezza e di protezione di tutta la nazione ora in frantumi, gli americani iniziano il lento e irregolare processo di guarigione da un trauma che sembra profondamente e crudelmente personale … che lascia i cittadini di tutto il paese con la spaventosa consapevolezza della loro vulnerabilità». L’avevano scritto il 12 settembre 2001.(Edward Curtin, “Dal terrorismo al virus, la distopia avanza”, dal blog di Curtin del 7 settembre 2020; articolo scelto e tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”. Autore di svariati saggi scientifici e divulgativi, il professor Curtin insegna sociologia al Massachusetts College of Liberal Arts).A chiunque abbia vissuto gli attacchi dell’11 settembre 2001 e il fenomeno del cosiddetto Covid-19 del 2020, la memoria potrà servire a mettere in luce un inquietante parallelo tra i due eventi. Tuttavia, se questa memoria si fosse cancellata a causa di una dimenticanza o per colpa dei media mainstream che l’avevano scaricata nel buco della memoria, o se il ricordo non esistesse proprio, o magari la paura o la dissonanza cognitiva ne stessero bloccando la consapevolezza, vorrei sottolineare alcune somiglianze che potrebbero farci prendere in considerazione alcuni parallelismi e connessioni tra queste due operazioni. Il legame principale è che entrambi gli eventi hanno acuito la normale paura che gli esseri umani hanno della morte. Alla base di tutte le paure c’è quella della morte. Una paura che ha radici biologiche e culturali. A livello biologico, tutti reagiamo alla minaccia di morte con la lotta o con la fuga. Culturalmente, ci sono molti modi in cui questa paura può essere attenuata o esacerbata, intenzionalmente o no. Di solito, la cultura, tramite i suoi simboli e i suoi miti, serve ad alleviare la (potenzialmente traumatizzante) paura della morte. La religione è servita a lungo a questo scopo; ma quando la religione perde la presa sull’immaginazione umana, specialmente per quanto riguarda la fede nell’immortalità, come aveva sottolineato Orwell a metà degli anni Quaranta, quello che rimane è un vuoto enorme.
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Conquistare il mondo: l’Occidente spara, la Cina compra
Se dovessimo sintetizzare ciò che accomuna tutti gli imperi nella storia dell’umanità, potremmo indicare questi punti fermi: la volontà di conquistare il mondo intero e una scusa per poterlo conquistare. Inoltre, chi voleva provare a conquistarlo, ha sempre avuto due problematiche da risolvere: la necessità di tenere sotto controllo una grande massa di persone (le masse, infatti, necessitano di essere controllate, altrimenti il caos e il disordine sociale sarebbe ingestibile); da qui scaturisce un’ulteriore esigenza: la necessità di avere un nemico per tenere unito un popolo, Stato, nazione, o altri gruppi sociali, o di dare uno scopo. L’Impero Romano, è noto, voleva conquistare tutto il mondo conosciuto; i Romani realizzarono uno dei più grandi imperi della storia. Il popolo veniva tenuto buono tramite il cosiddetto “panem et circenses” (valido ancora oggi con strumenti come il calcio, il baseball in Usa, la Tv, ecc.). Il nemico era costituito dai barbari che, in quanto esseri inferiori, potevano essere assoggettati. Alessandro Magno voleva voleva conquistare il mondo, e la scusa era quella di imporre ai territori conquistati la cultura avanzata e superiore dell’Antica Grecia (in realtà pare che conoscesse molto poco la cultura greca, e che fosse uno studente mediocre, allievo del grande Aristotele).Gengis Khan divenne il capo di una serie di tribù mongole disunite; aveva bisogno di un nemico, per tenere coesa la gente sotto di lui, e si diede da fare per conquistare tutto il conquistabile, massacrando e distruggendo tutti i popoli che decise di sottomettere. Dopo aver sconfitto i cinesi giurò di unificare tutto il mondo sotto un unico impero. Fondò l’impero più vasto mai conosciuto sulla terra, ma anche il più breve. Uno dei suoi successori, Kublai Khan, conquistò anche la parte merdionale la Cina ma adottò un mezzo singolare, l’unico possibile date le caratteristiche del territorio e della popolazione cinese: si cinesizzò, adottò gli usi e costumi cinesi, e quindi molti non sanno che la dinastia Yuan, che resse la Cina attorno al 1200, era in realtà una dinastia mongola, non cinese. Tamerlano, condottiero turco-mongolo, è considerato uno dei più grandi conquistatori della storia, il cui impero comprendeva l’Asia occidentale e centrale. Si considerava erede di Gengis Khan e aspirava ad emularne le gesta anche lui volendo “conquistare il mondo”. La sua versione dell’Islam, bigotta, crudele e violenta, poco si conciliava con i precetti dell’Islam o la dottrina Sufi dell’amore: egli si considerava la frusta di Allah, mandato a punire gli emiri per le loro ingiustizie. La scusa per invadere l’India nel 1398 fu, ad esempio, che il sultano era troppo tollerante con gli indù.L’Unione Sovietica voleva fare la stessa cosa imponendo il comunismo alle nazioni dell’Europa orientale; il capitalismo aveva fatto il suo corso, ed era ora di instaurare un mondo nuovo. Per fare questo utilizzarono due metodi: l’invasione militare, quando potevano, e il tentativo di conquistare gli altri paesi condizionandone la politica (ovverosia finanziando i partiti comunisti dell’Europa). Né più né meno che quello che hanno fatto gli Usa fino ad oggi. L’Europa non può essere considerata un impero unitario, essendosi per secoli divisa in scaramucce tra Francia, Spagna e Inghilterra, ma ai fini del nostro discorso lo considereremo tale, insieme agli Usa (che, non dimentichiamolo, sono stati fondati dai primi coloni europei). Noi europei abbiamo sempre cercato di conquistare il mondo. Siamo andati in Sud America, abbiamo sterminato i nativi e ci siamo impiantati noi. La stessa cosa abbiamo fatto con il Nord America. Secondo Howard Zinn, sono 9 milioni i nativi americani massacrati perché potessimo insediarci noi europei in Nord America piazzandoci un po’ ovunque: gli spagnoli in Florida, inglesi e olandesi al Nord, i francesi in Canada, e via discorrendo. Gli Usa nascono, quindi, dallo sterminio sistematico dei nativi americani, e dallo sterminio di milioni di africani che venivano trasportati come schiavi per lavorare nei campi.Hitler, che voleva conquistare il mondo, altro non fece che tentare quello che, da secoli, tentavano inglesi, spagnoli, francesi e olandesi, con la differenza che lui tentò di farlo prima di tutto in Europa, e solo dopo si sarebbe allargato al resto del mondo. Ma di fatto, non tentò nulla di diverso da quello che tentarono tutti, e che continuano a tentare tutti. Una volta eliminata la schiavitù, e consolidato il proprio potere economico, gli Stati Uniti d’America hanno dovuto porsi altri obiettivi: di qui la necessità di esportare la democrazia (esattamente come la Russia che voleva esportare il comunismo, come la Chiesa cattolica voleva esportare il cattolicesimo, come alcuni Stati islamici volevano esportare l’Islam, ecc.) verso i nemici che di volta in volta venivano individuati: Vietnam, Corea, Iraq. Dove non sono arrivati con i cannoni, gli Usa sono arrivati con il controllo politico dei vari Stati, come il finanziamento dei partiti a loro graditi, il sostegno alle varie fazioni terroristiche di destra o sinistra, e così via. Quando non c’era alcun motivo o scusa per la conquista, come nel caso delle isole Hawaii, gli Usa si sono limitati a rovesciarne il governo senza motivo, solo per paura che arrivassero prima gli inglesi, o altri Stati europei. Usa ed Europa, quindi, ai nostri fini li considereremo un modello unitario, e lo definiremo “modello occidentale”.I Templari meritano un posto a parte, in questo elenco. Perché anche loro avevano come obiettivo la conquista del mondo allora conosciuto, ma con mezzi e finalità diverse. I Templari volevano abbattere i sovrani assoluti e la Chiesa cattolica, per instaurare un regno di pace, governato da iniziati (cioè da saggi illuminati). Non per niente erano monaci (potere spirituale: saggi, ispirati ad una vita spirituale, in contatto con Dio) e guerrieri (potere temporale). Per instaurare questo governo mondiale non potevano usare la guerra, né potevano dichiarare apertamente il loro intento. Dichiararono formalmente la loro fedeltà alla Chiesa cattolica e al Papa, ma si dettero come unico obiettivo quello di “difendere i pellegrini in Terra Santa”. Questo obiettivo farlocco, in realtà, era la scusa ufficiale per non intervenire mai nelle contese tra i vari sovrani e il Papa, e non prendere mai una vera posizione. Nel frattempo divennero potentissimi, creando commende dal Portogallo alla Terra Santa e un po’ in tutta Europa.A un certo punto diventarono più potenti di qualsiasi sovrano europeo e, di lì a poco, sarebbero stati i veri sovrani dell’Europa e della Palestina; ma furono fermati da Filippo il Bello e Clemente V. Il loro sogno di un mondo migliore, di pace, governato da istanze spirituali oltre che materiali, si infranse quando Jacques de Molay venne messo al rogo. Gli eredi delle istanze templari furono i Rosacroce e la massoneria. Anche loro sognavano un mondo unito e di pace, e si diedero da fare per creare quella che furono poi l’Unione Europea e l’Onu, le prime strutture del Nuovo Ordine Mondiale. Anche se la massoneria dichiara apertamente di non volere certo conquistare il mondo, di fatto è quello il suo obiettivo, ben evidente quando essa proclama orgogliosamente di aver organizzato le varie rivoluzioni (Americana, Francese, Russa, l’Unità d’Italia, ecc.) e che tutti gli uomini più influenti al mondo erano massoni. Il progetto è quello di portare la democrazia in tutto il mondo (anche a colpi di cannone, purtroppo) per creare un mondo sempre più libero e democratico.Anche per la Cina è necessario un discorso a parte, per capire un po’ più a fondo questo popolo dalla tradizione millenaria e dalla cultura straordinaria. Una delle caratteristiche della Cina è di non aver mai conosciuto, in nessuna epoca, il nostro concetto di “democrazia”. La Cina è sempre stata politicamente uno Stato assoluto, dapprima con i vari imperi e le varie dinastie, per poi passare alla dittatura della Repubblica Popolare. L’unico tentativo di dare una Costituzione e delle riforme che garantissero i diritti della popolazione fu quello dell’ultimo sovrano della dinastia Quing, Guanxu, redatte da Kang Youwei nel 1898, ma il tentativo fu affossato sul nascere: l’imperatore venne arrestato con un vero e proprio colpo di Stato da parte dell’imperatrice Cixi. La seconda caratteristica dell’Impero Cinese è quella di non aver mai cercato di sottomettere gli altri Stati con la violenza. La Cina ebbe guerre con gli Stati confinanti, come è ovvio, specialmente Corea e Giappone, ma complessivamente non ebbe mai la mira di conquistare il mondo con la violenza, a meno che non fosse necessario.Questo non perché rispettassero il resto del mondo, ma per una questione culturale; essi si sentivano al centro del mondo, e sentivano loro stessi superiori (come noi europei del resto), e quindi per loro era inevitabile che gli altri Stati si assoggettassero a loro riconoscendone la grandezza. Del resto, grandi lo erano davvero: basti pensare che inventarono la carta secoli prima che la utilizzassimo anche noi; la povere da sparo; il torchio da stampa; e la banconota cartacea ben prima che la utilizzassimo anche noi (durante la dinastia Yuan). Inoltre fin dal secondo secolo d.C. i cinesi inventarono il sistema del concorso pubblico per selezionare i funzionari pubblici più preparati (con 1600 anni di anticipo rispetto a noi). Nel 1271 Kublai Khan, discendente di Gengis Khan (quindi tecnicamente mongolo, non cinese), avendo conquistato la Cina, ne riconobbe l’immenso potenziale culturale e sociale e, anziché distruggerla (come in genere erano soliti fare i mongoli con gli altri nemici), decise di cinesizzarsi egli stesso: diede alla propria dinastia il nome preso dall’I-ching, il Classico dei Mutamenti (dinastia Yuan) e trasferì la capitale a Pechino, ospitando l’imperatore precedente presso di sé e assumendo gli usi e i costumi cinesi.Per capire l’atteggiamento della Cina verso gli altri popoli è significativo un aneddoto. Durante la dinastia Ming, gli Stati vicini facevano a gara per dimostrare la loro sottomissione alla Cina, grazie alla generosità dell’imperatore, assolutamente riconoscente verso tutti coloro che si proclamavano sottomessi. Avvenne che molti cinesi si facevano rasare il capo per passare da tibetani e alcuni si spacciavano per ambasciatori di paesi inventati, tanto era conveniente dichiararsi vassalli della Cina. Uno dei problemi che i Ming ebbero fu, paradossalmente, quello di limitare le troppe dimostrazioni di vassallaggio, anche perché alcuni doni provenienti da altri paesi gravavano poi sull’erario per il loro mantenimento (ad esempio avevano centinaia di tigri regalate dai paesi vicini, ed ogni tigre poi divorava due pecore al giorno, senza contare i costi del personale per sorvegliarle). Quando in Cina arrivarono gli europei, ovviamente si rifiutarono di sottomettersi all’Impero (erano loro ad essere superiori, mica i cinesi), e iniziarono i primi problemi, che portarono alla Guerra dell’Oppio tra Inghilterra e Cina, e a tutta una serie di problematiche che ora sarebbe impossibile affrontare.La violenza, in Cina, ci fu soprattutto all’interno. Nel corso dei vari secoli, tutti gli imperatori avevano avuto lo stesso problema: come poter tenere sottomesse le masse? La risposta, in genere, era il bagno di sangue. In tempi più moderni il problema della Cina rimase lo stesso. Dapprima la Rivolta dei Boxer, con cui vennero massacrati esponenti perlopiù dell’Occidente, cristiani, musulmani, inglesi; poi venne proclamata nel 1911 la Rivoluzione repubblicana; da quel momento ci furono continue guerre civili (si stima in circa 15 milioni di morti il totale dei cinesi che vennero massacrati in questo periodo), finché venne istituita nel 1949 la Repubblica Popolare Cinese; nel 1966 ci fu la cosiddetta Rivoluzione Culturale di Mao, e anche tutto questo periodo fu un massacro che costò la vita a circa 100 milioni di cinesi, in un bagno di sangue che l’umanità non aveva mai conosciuto neanche ai tempi di Tamerlano o della Seconda Guerra Mondiale. Anche la questione tibetana per loro era prevalentemente interna, perché quella del Tibet era sempre stata una regione assoggettata, o comunque vassalla, della Cina.Tralasciando quindi le sporadiche guerre con i confinanti, la Cina ha avuto la guerra prevalentemente al suo interno, ma non è mai andata in Antartide, nelle Hawaii, in Australia, in Africa, dicendo “salve, qui comandiamo noi, ora vi massacriamo tutti perché abbiamo il diritto di uccidervi in nome della superiorità della nostra religione e/o impero”. Se dovessimo fare un paragone, il loro modello di sviluppo nel mondo ricorda più quello dei Templari, che non degli altri imperi (non a caso la tradizione del monaco guerriero da noi fu un’eccezione; tutti i libri concordano su questa particolarità dei Templari, quella di essere insieme monaci e guerrieri; la tradizione del monaco guerriero, invece, in Cina è la norma. I monasteri Shaolin sono luoghi in cui il monaco è anche un guerriero; esattamente come i Templari, anche i monaci Shaolin entravano in azione con i loro mezzi solo per difendere la Cina o l’imperatore, o comunque per difendersi da un pericolo. Più in generale, tutto il Kung Fu è un arte marziale cinese che presuppone però anche una preparazione spirituale oltre che fisica). Ovviamente, ciò che manca all’espansione cinese in Occidente è il fine spirituale proprio dei Templari.La Cina, quindi, ha sempre fatto una cosa molto semplice, che è quella che sta facendo adesso: ha comprato gli altri Stati. E’ arrivata in silenzio, dolcemente, e ha comprato tutto quello che poteva, e senza proteste quando qualcuno li ostacolava. Facciamo un esempio. Quando la Guardia di Finanza fece un’importantissima operazione nel porto di Napoli, che era uno degli scali principali per portare la merce in Italia, la Cina – nonostante il duro colpo – non si scompose. In fondo, dal loro punto di vista, noi avevamo fatto ciò che è giusto, rispettando la legge. Spostarono quindi le loro merci in Grecia, comprando il porto del Pireo per 370 milioni di dollari, dando un grosso e concreto aiuto alla Grecia, in crisi grazie alle dissennate politiche imposte dall’Unione Europea. Alla prima occasione però hanno cercato di tornare in Italia con la questione dei porti di Genova e Trieste. Insomma, la voglia di conquistare il mondo è una costante di tutti gli imperi, ma anche di molte organizzazioni religiose, politiche, e fratellanze esoteriche. Questa voglia di conquista, da parte di un po’ tutti, nasce quindi da due esigenze. In primo luogo perché l’essere umano non è pronto a vivere in pace col proprio vicino (sia esso il vicino di casa, il paesino confinante, la squadra di calcio, o la nazione); per evitare quindi che le masse, fuori controllo, creino il caos a livello sociale, ogni governante deve, consciamente o inconsciamente, trovare un nemico esterno e coalizzare le masse contro questo nemico.Di volta in volta quindi il nemico può essere l’Islam, il comunismo, i cattivi Stati dittatoriali che meritano di essere puniti (chissà poi perché si decide di punire Gheddafi, ad esempio, ma non la Cina, che pure quanto a dittatura non è seconda a nessuno per privazione dei diritti individuali), l’eresia, la crisi economica, il petrolio, la guerra al terrorismo. Ogni scusa è buona pur di conquistare qualcuno e qualcosa. Insomma, per riassumere, oggi abbiamo due modelli a confronto sullo scenario del mondo: il modello occidentale e quello cinese, entrambi con l’obiettivo di conquistare il mondo. La differenza tra i due modelli è che quello vincente è quello cinese, molto più dolce e persuasivo. Non cannoni, ma soldi. La questione però non è così semplice. Sopra questi due modelli, ci sono i vari gruppi finanziari, che sono al di sopra degli Stati e, attualmente, più potenti di essi, e non hanno alcun modello se non quello economico. Del resto anche la distinzione che noi abbiamo fatto tra due modelli, cinese e occidentale, è semplicistica e non risponde alla realtà. La verità è un po’ più complessa, perché i cambiamenti nella storia della Cina, che partono dalla Rivolta dei Boxer in poi, sono – guarda caso – stati fomentati anche dall’Occidente, che è sempre intervenuto pesantemente nelle questioni politiche ed economiche cinesi.Basti pensare che il primo presidente della Repubblica Cinese, Sun Yat-sen, divenne tale proprio dopo un viaggio negli Usa (guarda un po’ che caso). E basti ricordare che la Cina era, fino al 2019, il primo detentore di titoli del debito pubblico americano (attualmente è il Giappone). E, ovviamente, i veri detentori sono i gruppi finanziari, non gli Stati in se stessi. In altre parole, tra Cina e Occidente non è individuabile un confine netto, perché il gioco delle grandi potenze, in realtà, è diretto dall’alto, dall’élite finanziaria globale, con la differenza operativa, tra Cina e Occidente, che una gran parte delle finanze cinesi sono sotto il diretto controllo del governo, mentre da noi i governi (comprese le istituzioni europee) non contano assolutamente nulla, essendo le banche, con la Bce in primis, totalmente indipendenti dal controllo politico e governativo. Se la gran parte dei soldi cinesi è sotto il controllo del governo, una larga parte è in mano ai finanzieri cinesi fuoriusciti dal sistema cinese e arricchitisi grazie alla corruzione dilagante in Cina (non meno che da noi, ovviamente).Per capire la commistione di interessi tra Cina e Occidente, basti ricordare che il coronavirus è partito proprio da Wuhan, sede di un laboratorio per la ricerca sui virus, in cui lavoravano sia cinesi che americani che francesi, in un progetto costato 44 milioni di dollari, finanziato da varie organizzazioni anche americane, tra cui la fondazione di Bill Gates. Un intreccio inestricabile di interessi per cui suona ridicolo accusare i cinesi, o Bill Gates, o l’Oms, da qualunque parte provenga l’accusa. Il punto è che le guerre, oggi, ben difficilmente possono essere condotte contro i vari Stati, perché una vera guerra distruggerebbe il mondo conosciuto grazie alla potenza dei vari arsenali militari. Occorre quindi trovare nuovi nemici; la Corea appare abbastanza ridicola come pericolo per minacciare il mondo; al pericolo del terrorismo islamico che attenta alla sicurezza dell’Occidente con coltelli, o autobus lanciati contro la folla, prima o poi non crederà più nessuno. Per controllare le masse occorre quindi utilizzare altri mezzi, e instillare l’idea di pericoli del tutto diversi, rispetto a quelli che venivano paventati fino a qualche decennio fa.La situazione attuale nasce quindi dall’esigenza dell’élite finanziaria al potere di controllare le masse. Il nemico è il coronavirus, perché è l’unico modello che può essere accettato da larghe fasce della popolazione, e che accomuna tutti, cristiani, atei, islamici, cinesi. Il mezzo di controllo è l’instaurazione di uno Stato di polizia globale, l’abbassamento del numero della popolazione, e soprattutto l’instupidimento delle persone tramite i mezzi come il 5G e i vaccini (Steiner, ai primi del ’900, aveva previsto che i vaccini sarebbero stati utilizzati come arma di controllo globale). L’individuazione di un nemico globale, il virus, richiede soluzioni globali, al fine di ridisegnare la mappa economica e sociale del mondo. Non è uno scenario nuovo, quindi, quello che si sta profilando, rispetto al passato. La novità è solo la gestione globale e internazionale del potere, e lo scenario su cui si gioca la partita, che è, appunto, globale. La vera soluzione, ancora una volta, non sarà globale, ma individuale. In ogni epoca ci sono state persone che hanno combattuto la società in genere pagando le loro scelte con la vita o con il carcere. Si pensi a Martin Luther King, Nelson Mandela, Lu Xiaobo (Premio Nobel per la Pace per il suo impegno a favore dei diritti civili in Cina), Thomas Sankara (il presidente del Burkina Faso), e tanti altri, spesso sconsciuti alla storia.Coloro che sono riusciti a diffondere valori spirituali ad un certo livello sociale, coinvolgendo grandi numeri di persone, sono stati inevitabilmente eliminati dalla scena, come Gandhi o i grandi maestri spirituali dell’umanità (tutti morti avvelenati o assassinati, da Socrate e Pitagora, a Buddha e Maometto, per passare a Steiner, Yogananda, Osho). I maestri spirituali di tutti i tempi, in ogni caso, hanno capito che la vera guerra non è quella contro qualcuno, ma quella contro noi stessi, perché il mondo è sempre stato lo stesso, i meccanismi sono sempre uguali (cambiano solo le forme apparenti della sua manifestazione), e il mondo si può cambiare solo partendo dal cambiamento di noi stessi. Concludo con una frase di Lao Tzu, che viene proprio dalla saggezza cinese, come risposta a chi si domanda come bisogna agire per migliorare la situazione che stiamo vivendo: «Nella vita si dovrebbe agire adottando la semplice Via del Tao: non imponendo i propri desideri al mondo ma seguendo la natura stessa. Eliminando i desideri e lasciando che il Tao pervada l’uomo, si supererà anche la differenza tra buono e cattivo. Ogni attività verrà dal Tao e l’uomo diventerà uno col mondo. Questa è la soluzione di Lao Tzu al problema della felicità».(Paolo Franceschetti, “Obiettivo, la conquista del mondo: Cina e Occidente a confronto”, dal blog “Petali di Loto” del 16 maggio 2020).Se dovessimo sintetizzare ciò che accomuna tutti gli imperi nella storia dell’umanità, potremmo indicare questi punti fermi: la volontà di conquistare il mondo intero e una scusa per poterlo conquistare. Inoltre, chi voleva provare a conquistarlo, ha sempre avuto due problematiche da risolvere: la necessità di tenere sotto controllo una grande massa di persone (le masse, infatti, necessitano di essere controllate, altrimenti il caos e il disordine sociale sarebbe ingestibile); da qui scaturisce un’ulteriore esigenza: la necessità di avere un nemico per tenere unito un popolo, Stato, nazione, o altri gruppi sociali, o di dare uno scopo. L’Impero Romano, è noto, voleva conquistare tutto il mondo conosciuto; i Romani realizzarono uno dei più grandi imperi della storia. Il popolo veniva tenuto buono tramite il cosiddetto “panem et circenses” (valido ancora oggi con strumenti come il calcio, il baseball in Usa, la Tv, ecc.). Il nemico era costituito dai barbari che, in quanto esseri inferiori, potevano essere assoggettati. Alessandro Magno voleva voleva conquistare il mondo, e la scusa era quella di imporre ai territori conquistati la cultura avanzata e superiore dell’Antica Grecia (in realtà pare che conoscesse molto poco la cultura greca, e che fosse uno studente mediocre, allievo del grande Aristotele).
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Siria: Putin ferma l’Isis, cioè Erdogan (che rinnega Ataturk)
Giovedi scorso, all’inizio del colloquio-maratona di Mosca, il presidente russo Vladimir Putin si è rivolto al presidente turco Recep Tayyip Erdogan con quella che probabilmente è la più straordinaria mossa diplomatica di questo giovanissimo 21° secolo. Putin ha detto: «All’inizio del nostro incontro, vorrei esprimere ancora una volta le mie sincere condoglianze per la morte dei vostri militari in Siria. Sfortunatamente, come vi avevo già riferito durante la nostra telefonata, nessuno, comprese le truppe siriane, conosceva i loro spostamenti». È così che un vero leader mondiale dice – di persona, ad un leader regionale – di astenersi dal posizionare le sue forze a sostegno dello jihadismo, in incognito, nel bel mezzo di un esplosivo teatro di guerra. La discussione faccia a faccia fra Putin ed Erdogan, con solo gli interpreti presenti nella stanza, è durata tre ore, prima di un’altra ora con le rispettive delegazioni. Alla fine, tutto si è risolto con Putin che ha trovato un modo elegante di salvare la faccia ad Erdogan per mezzo di, avete indovinato, un ulteriore cessate il fuoco a Idlib (iniziato giovedì a mezzanotte) scritto e firmato in turco, russo ed inglese, “tutti i testi con la stessa validità giuridica”.Inoltre, il 15 marzo comincerà il pattugliamento congiunto turco-russo lungo l’autostrada M4, il che significa che le infinite e mutevoli frange di Al-Qaeda in Siria non potranno riconquistarla. Se tutto questo sembra un déjà vu, è perché lo è. Molte foto ufficiali dell’incontro di Mosca mostrano in primo piano il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov e il ministro della difesa Sergey Shoigu, gli altri due pesi massimi presenti all’incontro, a parte i presidenti. Sulla scia di Putin, Lavrov e Shoigu devono aver aver dato, senza mezzi termini, una bella lavata di capo ad Erdogan. È abbastanza: adesso, per favore, comportati bene oppure pagane le dure conseguenze. Una caratteristica prevedibile del nuovo cessate il fuoco è che sia Mosca che Ankara, che fanno parte del processo di pace di Astana insieme a Teheran, rimangono impegnate a garantire “l’integrità territoriale e la sovranità” della Siria. Ancora una volta, non vi è alcuna garanzia che Erdogan la rispetterà.È fondamentale ricapitolare le cose fondamentali. La Turchia è in una profonda crisi finanziaria. Ankara ha bisogno di soldi, molti soldi. La lira sta crollando. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) ha perso le elezioni. L’ex primo ministro e leader del partito, Ahmet Davutoglu, il teorico del neo-ottomanesimo, ha lasciato il partito e si sta ritagliando la propria nicchia politica. L’Akp è impantanato in una crisi interna. La risposta di Erdogan è stata quella di passare all’offensiva. È così che vorrebbe ripristinare il proprio carisma. Mettiamo insieme Idlib con le sue pretese marittime sulle acque intorno a Cipro e il ricatto all’Unione Europea, attuato sommergendo di rifugiati l’isola greca di Lesbo, e avremo il modus operandi tipico di Erdogan in pieno svolgimento. In teoria, questo nuovo cessate il fuoco costringerà finalmente Erdogan ad abbandonare tutte quelle miriadi di metastasi di Al-Nusra/Isis, quelli che l’Occidente chiama i “ribelli moderati”, debitamente armati da Ankara. Questa è la linea rossa definitiva di Mosca e anche di Damasco. Non sarà lasciato alcun territorio a disposizione degli jihadisti.L’Iraq è un’altra storia: l’Isis è ancora presente tra Kirkuk e Mosul. Nessun fanatico della Nato lo ammetterà mai, ma – ancora una volta – è stata la Russia a prevenire la minaccia dell’”invasione musulmana” dell’Europa pubblicizzata da Erdogan. Anche se, in primo luogo, non si è mai trattato di una vera e propria invasione: solo poche migliaia di migranti economici dall’Afghanistan, dal Pakistan e dal Sahel, non di siriani. Non esiste “un milione” di rifugiati siriani in procinto di entrare nell’Ue. L’Ue, come sempre, continuerà a blaterare. Bruxelles e la maggior parte delle capitali europee non hanno ancora capito che è stato Bashar al-Assad ad aver sempre combattuto Al-Nusra/Isis. Semplicemente, non comprendono la correlazione delle forze sul terreno. La loro posizione di ripiego è sempre stato il disco rotto dei “valori europei”. Nessuna meraviglia che l’Ue sia un attore secondario nell’intera tragedia siriana.Mentre cercavo di collegare le motivazioni di Erdogan-Khan alla storia della Turchia e agli imperi delle steppe, avevo ricevuto un eccellente feedback da alcuni analisti turchi progressisti. La loro posizione, in sostanza, è che Erdogan è un internazionalista, ma solo in termini islamici. Dal 2000 in poi è riuscito a creare un clima di negazione delle antiche motivazioni nazionaliste turche. Usa l’identità turca, ma, come sottolinea un analista, «questo non ha nulla a che fare con i turchi antichi. È un Ikhwan. Neanche a lui importa dei curdi, finché rimangono i suoi ‘islamisti buoni’». Un altro analista sottolinea che «nella Turchia moderna, l’essere ‘turco’ non è legato alla razza, perché la maggior parte dei turchi sono anatolici, una popolazione mista». Quindi, in breve, ciò che interessa ad Erdogan è Idlib, Aleppo, Damasco, La Mecca e non l’Asia sud-occidentale o l’Asia centrale. Vuole essere il “secondo Ataturk”.Eppure nessuno, tranne gli islamisti, lo vede in questo modo, e «talvolta lui mostra la sua rabbia proprio per questo motivo. Il suo unico obiettivo è quello di battere Ataturk e creare un opposto islamico di Ataturk». E la creazione di quell’anti-Ataturk passerebbe attraverso il neo-ottomanesimo. L’eccellente storico indipendente Can Erimtan, che avevo avuto il piacere di incontrare quando viveva ancora ad Istanbul (ora si è auto-esiliato), offre un ampio background eurasiatico dei sogni di Erdogan. Bene, Vladimir Putin ha appena dato un po’ di respiro al secondo Ataturk. Nessuno però scommette più sul fatto che questo nuovo cessate il fuoco non si trasformi in una pira funeraria.(Pepe Escobar, “Putin salva Erdogan da se stesso”, da “Asia Times” del 6 marzo 2020; articolo tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).Giovedì scorso, all’inizio del colloquio-maratona di Mosca, il presidente russo Vladimir Putin si è rivolto al presidente turco Recep Tayyip Erdogan con quella che probabilmente è la più straordinaria mossa diplomatica di questo giovanissimo 21° secolo. Putin ha detto: «All’inizio del nostro incontro, vorrei esprimere ancora una volta le mie sincere condoglianze per la morte dei vostri militari in Siria. Sfortunatamente, come vi avevo già riferito durante la nostra telefonata, nessuno, comprese le truppe siriane, conosceva i loro spostamenti». È così che un vero leader mondiale dice – di persona, ad un leader regionale – di astenersi dal posizionare le sue forze a sostegno dello jihadismo, in incognito, nel bel mezzo di un esplosivo teatro di guerra. La discussione faccia a faccia fra Putin ed Erdogan, con solo gli interpreti presenti nella stanza, è durata tre ore, prima di un’altra ora con le rispettive delegazioni. Alla fine, tutto si è risolto con Putin che ha trovato un modo elegante di salvare la faccia ad Erdogan per mezzo di, avete indovinato, un ulteriore cessate il fuoco a Idlib (iniziato giovedì a mezzanotte) scritto e firmato in turco, russo ed inglese, “tutti i testi con la stessa validità giuridica”.
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Idlib, catastrofe profughi: terroristi Nato, l’ultima vergogna
La parola vergogna probabilmente non basta, per descrivere il martirio della popolazione siriana aggredita dalle milizie terroristiche jihadiste, protette sottobanco dalle forze Nato con l’appoggio di Israele. L’ultimo atto – l’invasione dei profughi, spinti da Erdogan verso l’Ue attraverso la frontiera greca – qualifica anche l’epilogo della crisi, cominciata nel 2011 con un unico obiettivo: far cadere il governo sovrano di Bashar Assad, alleato della Russia e schierato dalla parte dei palestinesi, contro l’apartheid inflitto ai non-ebrei dal regime di Tel Aviv. Se all’inizio dei disordini le manifestazioni antigovernative in Siria avevano assunto la ben nota fisionomia delle rivoluzioni colorate (abbondanti manipolazioni anche violente, alle spalle di frange genuine di protesta spontanea), in breve tempo i manovratori hanno gettato la maschera: i “ribelli siriani” altro non erano che la galassia mercenaria del terrorismo sunnita (Al Qaeda, Isis), alimentata invariabilmente dall’intelligence di paesi come gli Usa, la Francia e la Gran Bretagna, insieme a potenze locali come la Turchia, l’Arabia Saudita e Israele.Culmine della falsificazione: i ripetuti tentativi di addossare al governo siriano la responsabilità delle stragi condotte con gas nervini (responsabilità regolarmente smentita dall’Onu, nel silenzio imbarazzato dei media occidentali che si erano affrettati a incolpare Assad). Il tentativo di far crollare Damasco e smembrare la Siria (a nord, la Turchia avrebbe invaso l’odiato Kurdistan, mentre Israele nel frattempo s’è appropriato del Golan) è stato sventato soltanto dal risoluto intervento militare della Russia, a partire dalla fine del 2015. In pochi mesi, le forze russe – insieme alle milizie libanesi di Hezbollah e ai Pasdaran iraniani guidati da Qasem Soleimani – hanno permesso all’esercito di Damasco di liberare gran parte del paese, scacciando l’incubo del terrore jihadista. Il successo russo (militare, diplomatico e geopolitico) ha messo a nudo le responsabilità dell’Occidente nella spaventosa campagna terroristica organizzata in Siria. Una vittoria imperdonabile, costata probabilmente la vita allo stesso Soleimani, assassinato a tradimento da Trump all’inizio del 2020.Ultimo atto: la sanguinosa farsa messa in scena da Erdogan, che finge di tutelare il confine turco al solo scopo – schierando l’esercito attorno a Idlib – di impedire il consolidarsi della presenza curda. Vari osservatori indipendenti calcolano che a Idlib siano asserragliati non meno di 30.000 terroristi, che fronteggiano l’esercito siriano sotto la protezione diretta delle forze di Ankara, formalmente inquadrate nella Nato. Altro dettaglio: i terroristi protetti dalla Nato hanno tenuto sequestrata la popolazione di Idlib, facendosene scudo. E ora, di fronte all’avanzata siriana supportata dall’aviazione di Mosca, la Turchia non trova di meglio che dare il massimo risalto all’esodo dei profughi, rovesciandoli sulla Grecia, mentre – ancora una volta – il mainstream occidentale tenta di incolpare la Siria, che invece sta cercando di riappropriarsi del proprio territorio e sfrattare i terroristi. Improbabile che la verità emerga, sui grandi media: impossibile accusare gli Stati Uniti, che solo qualche anno fa mandavano in Siria il senatore John McCain a coordinare i tagliagole del “califfo” Al-Baghdadi.La parola vergogna probabilmente non basta, per descrivere il martirio della popolazione siriana aggredita dalle milizie terroristiche jihadiste, protette sottobanco dalle forze Nato con l’appoggio di Israele. L’ultimo atto – l’invasione dei profughi, spinti da Erdogan verso l’Ue attraverso la frontiera greca – qualifica anche l’epilogo della crisi, cominciata nel 2011 con un unico obiettivo: far cadere il governo sovrano di Bashar Assad, alleato della Russia e schierato dalla parte dei palestinesi, contro l’apartheid inflitto ai non-ebrei dal regime di Tel Aviv. Se all’inizio dei disordini le manifestazioni antigovernative in Siria avevano assunto la ben nota fisionomia delle rivoluzioni colorate (abbondanti manipolazioni anche violente, alle spalle di frange genuine di protesta spontanea), in breve tempo i manovratori hanno gettato la maschera: i “ribelli siriani” altro non erano che la galassia mercenaria del terrorismo sunnita (Al Qaeda, Isis), alimentata invariabilmente dall’intelligence di paesi come gli Usa, la Francia e la Gran Bretagna, insieme a potenze regionali: Turchia, Arabia Saudita e Israele.
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Mazzucco: gli Usa, Stato di polizia travestito da democrazia
Da 15 anni denuncio gli americani come burattinai del terrorismo internazionale. Credo di essere l’unica persona al mondo che ha fatto tre documentari diversi sull’11 Settembre, nei quali, in modo sistematico (implicitamente in due, esplicitamente in uno) accuso gli americani di essere i burattinai del terrorismo internazionale. Il mio antiamericanismo me lo sono cresciuto da solo, e molto prima di conoscere Giulietto Chiesa. Ho vissuto negli Stati Uniti per trent’anni, prima dieci anni a New York e poi vent’anni a Los Angeles. Ero andato a Los Angeles nel ‘94 pensando di trasferirmi in America definitivamente perché volevo fare cinema: non perché l’America mi piacesse in modo particolare, ma perché a Hollywood c’era l’ambiente che pensavo di trovare (poi invece la sorpresa è stata un’altra). Così, ho cominciato comunque a conoscere da vicino questa nazione. Intanto io non ce l’ho con gli americani. Si può dire solo in termini generici che io sarei antiamericano. Gli americani sono un popolo di persone sostanzialmente per bene, magari un po’ fessacchiotti e infantili: come nazione, li paragono a un quindicenne in piena esplosione ormonale. Ce l’ho in particolare con le élite che li controllano, e controllano mezzo mondo, o tre quarti del mondo.Una cosa che mi manca, degli Usa, è l’assenza di burocrazia: la facilità di fare business, se lo vuoi fare, senza impedimenti e senza pastoie. Mia moglie s’era messa a disegnare gioielli fatti a mano, che piacevano. Non ha avuto bisogno di nessuna partita Iva: è andata all’ufficio postale, ha complilato un semplice modulo con il suo codice fiscale, ha pagato 20 dollari e dopo mezz’ora aveva la licenza per vendere i suoi gioielli. Una facilità assoluta, nell’andare incontro alle persone, senza costringerle ad avvalersi del commercialista. Quando feci la mia prima patente di guida americana, avendo già la patente italiana dovevo sostenere solo l’esame scritto, senza guida. Superato il test, all’ufficio di New York pochi minuti dopo c’era già la mia patente pronta. Rimpiango dell’America questo non volerti mettere i bastoni tra le ruote, per tutto quello che è burocrazia: mi manca questa capacità di aiutare il cittadino, che in Italia è impensabile (e forse ha ragioni che risalgono a 500 anni fa). E’ chiaro che imporre uno Stato burocratico dà il potere a chi gestisce la burocrazia: se sei un burocrate che ha in mano tutte le carte, puoi favorire chi vuoi e sfavorire gli altri. Un’arma di ricatto, tant’è vero che in Italia, se hai bisogno di qualcosa, la prima domanda è sempre “non è che conosci qualcuno, al ministero?”.La cosa invece che sono felice di aver lasciato in America è quel fastidio sottile di sapere di vivere in uno Stato di polizia travestito da democrazia. In realtà, tanto apparente è la libertà di pensiero, la libertà di espressione, la cosiddetta libertà democratica che c’è in America, quanto invece è strisciante il ferreo controllo mentale sulle tue opinioni. Nel momento stesso in cui tu “sgarri” ed esci da pensiero mainstream, sei automaticamente considerato un paria. Adesso purtroppo la cosa è arrivata anche qui, perché noi seguiamo sempre di qualche anno quello che avviene negli Stati Uniti. Ma quando ho lasciato gli Usa, sei anni fa, avevo già questa sensazione: non potevi parlare con nessuno, liberamente. Qualunque cosa provassi a dire, di fronte cioè a qualunque argomento controverso, vedevi subito occhi sbarrati e persone che sparivano. E questo dovrebbe essere il grande paese della libertà di espressione? E’ un senso diffuso, quello di non potersi esprimere liberamente. Qui, bene o male, puoi ancora farlo. Se al bar ti metti a discutere sull’11 Settembre, non è che ti guardino per forza come un alieno: magari ti contrastano, ma una discussione puoi farla. La tua posizione è comunque accettata. Là invece scatta una sorta di orrore interiore: appena esci dal pensiero unico, sei automaticamente da cancellare dalla società. E questo è molto pesante, specialmente per uno come me, che la pensa diversamente su molti argomenti.Il mio non è un antiamericanismo a priori, le mie opinioni sono argomentate. Dal 2004, quando ho aperto il blog “Luogo Comune”, denuncio i crimini statunitensi: l’invasione americana dell’Iraq ha fatto più di un milione di morti, tra le vittime civili. Mi sembra di aver sempre giustificato, con i dati di fatto, le mie posizioni. Si dice che Qasem Soleimani non avrebbe combattuto l’Isis, e che anzi avrebbe contribuito a farlo crescere? Quando qualcuno ne porterà le prove, sarò ben felice di cambiare idea su Soleimani. Trump è stato incastrato e obbligato a mettere la firma sull’operazione Soleimani dopo che è avvenuta? Non c’è niente di irragionevole, in questa ipotesi. Queste operazioni possono essere giustificate da una impellenza immediata. Cioè: i militari possono tranquillamente aver fatto fuori Soleimani sensa avvisare Trump (cosa che io continuo a pensare che sia successo), mettendolo di fronte al fatto compiuto, dicendogli: si è presentata un’occasione irripetibile per ucciderlo, sulla via dell’aeroporto di Baghdad, senza massacrare civili innocenti. A quel punto, il presidente cosa fa? O denuncia i militari di averlo aggirato, perdendo così le prossime elezioni dimostrando di non essere capace di controllare il Pentagono, oppure abbozza e ci mette la firma.La prima reazione di Trump non è stato un tweet per rivendicare l’uccisione del “cattivo” Soleimani. Su Twitter ha solo pubblicato la foto di una bandiera americana, senza nessuna scritta e senza intestarsi niente. Strano, per uno che “cinguetta” così tanto. Secondo me, Trump stava ancora cercando di capire cosa fosse successo. Quando l’ha capito, non gli è rimasto altro da fare che fingere che l’avesse deciso lui. Uno può sposarla o meno, questa ipotesi, ma è tutt’altro che irragionevole. Apprezzo la reazione missilistica dell’Iran dopo l’omicidio di Soleimani: un atto dimostrativo, che conferma la capacità chirurgica dell’Iran di colpire le basi militari americane nella regione, ma in questo caso senza l’intenzione di provocare vittime. Il Boeing colpito nei cieli di Teheran? In attesa di sapere cosa sia accaduto veramente, dobbiamo intanto registrare le scuse solenni e ufficiali dell’Iran per quello che viene definito un tragico errore. Anche gli Usa abbatterono un volo civile, sotto Clinton, ma il Pentagono smentì le iniziali ammissioni del presidente. E dopo 40 anni aspettiamo ancora le scuse (e la verità) per Ustica.L’Iran sostiene che l’errore – imperdonabile – sia stato causato dallo stato di tensione innescato dagli Usa con l’omicidio del generale Soleimani. Attenzione, Soleimani era a Baghdad in missione diplomatica ufficiale: secondo l’ex primo ministro iracheno Mahdi, stava portando a Baghdad un accordo di de-escalation, quindi di pacificazione, fra l’Iran e l’Arabia Saudita, cioè i maggiori portavoce (sciita e sunnita) che si confrontano a distanza, in Medio Oriente, ovviamente con Israele che sta dalla parte dei sauditi contro l’Iran. Quindi Soleimani in quel momento era un diplomatico, in missione diplomatica. E se c’è una cosa che non si fa, in tutto il mondo, nonostante lo schifo delle guerre, è uccidere i diplomatici: è una regola che vale da sempre. Infatti, lo stesso Soleimani si era esposto alla possibilità di essere colpito: pensava che non avrebbero mai osato fare un’azione del genere. Era convinto di essere sotto immunità diplomatica: in questo sta la gravità dell’accaduto. Poi non so dire quanto fosse criminale, Soleimani, ma – a quel livello – nessuno è uno stinco di santo: non ci sono buoni e cattivi, si combattono guerre pesantissime da 30-40 anni, nella regione petrolifera, ma niente giustifica un atto del genere.Un senatore repubblicano ha protestato apertamente, in televisione, perché una commissione senatoriale americana non ha ottenuto risposte dal Pentagono sui motivi dell’uccisione di Soleimani. La commissione verifica l’azione dei militari e può quindi riferire al Parlamento, dunque ai cittadini, cosa succede. Lo scopo della commissione non è far rivelare al Pentagono i suoi segreti militari, ma è quello di verificare (a porte chiuse) quali sono i motivi che hanno spinto i militari a compiere una determinata operazione. Dopodiché, i senatori possono assicurare di aver ricevuto spiegazioni valide, sia pure non divulgabili per ovvie ragioni di sicurezza nazionale. Invece questo senatore, uscito dai lavori della commissione, ha detto: «Ci hanno dato solo 75 minuti di tempo». Il Pentagono aveva parlato di un “attacco imminente” progettato da Soleimani? Protesta il senatore: «Ogni volta che chiedevamo dov’era, questo attacco imminente, chi lo avrebbe dovuto compiere e contro quale obiettivo, non ci rispondevano. E in più – riferisce sempre il senatore – ci hanno hanno anche detto: “Non permettetevi mai più di dubitare delle nostre scelte militari per un futuro, eventuale attacco all’Iran”». E questo è un senatore repubblicano: non un democratico, che potrebbe avere interesse a contestare l’amministrazione Trump. Ribadisce: al Senato, il Pentagono non ha offerto alcuna giustificazione per l’omicidio del generale Soleimani.(Massimo Mazzucco, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming “Mazzucco Live” dell’11 gennaio 2020, su YouTube. Mazzucco è autore di documentari come “11 settembre 2001 – Inganno globale” uscito nel 2006, “Il nuovo secolo americano” del 2007 e “11 Settembre – La nuova Pearl Harbor”, del 2013).Da 15 anni denuncio gli americani come burattinai del terrorismo internazionale. Credo di essere l’unica persona al mondo che ha fatto tre documentari diversi sull’11 Settembre, nei quali, in modo sistematico (implicitamente in due, esplicitamente in uno) accuso gli americani di essere i burattinai del terrorismo internazionale. Il mio antiamericanismo me lo sono cresciuto da solo, e molto prima di conoscere Giulietto Chiesa. Ho vissuto negli Stati Uniti per trent’anni, prima dieci anni a New York e poi vent’anni a Los Angeles. Ero andato a Los Angeles nel ‘94 pensando di trasferirmi in America definitivamente perché volevo fare cinema: non perché l’America mi piacesse in modo particolare, ma perché a Hollywood c’era l’ambiente che pensavo di trovare (poi invece la sorpresa è stata un’altra). Così, ho cominciato comunque a conoscere da vicino questa nazione. Intanto io non ce l’ho con gli americani. Si può dire solo in termini generici che io sarei antiamericano. Gli americani sono un popolo di persone sostanzialmente per bene, magari un po’ fessacchiotti e infantili: come nazione, li paragono a un quindicenne in piena esplosione ormonale. Ce l’ho in particolare con le élite che li controllano, e controllano mezzo mondo, o tre quarti del mondo.
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Airbnb fa male: il turismo low cost sfratta i meno abbienti
Si presenta come la principale “success story” del capitalismo delle piattaforme digitali: oggi, Airbnb è un impero mondiale. Nata nell’ottobre 2007 a San Francisco con l’intuizione di creare un portale online che coniugasse domanda e offerta del turismo low cost, è diventata un colosso da 30 miliardi di dollari: solo nel secondo trimestre del 2019 ha realizzato oltre un miliardo. In costante espansione, si appresta ad acquisire nuove società con l’obiettivo di avere il monopolio del settore a livello globale. «I numeri del boom sono impressionanti, se pensiamo che il portale ha visto crescere gli annunci pubblicati dagli 8.126 del 2011 ai 400mila attuali», scrivono Vincenzo Carbone e Giacomo Russo Spena su “Micromega”. «Utilizzato soprattutto tra i più giovani e gli squattrinati, da un lato è uno strumento comodo che permette di viaggiare a basso costo, dall’altro è diventato per qualcuno un’attività semi-professionale dando la possibilità a chi ha una camera libera nella propria abitazione di affittarla per brevi periodi». Su ogni transazione effettuata, la piattaforma trattiene una percentuale: il 3% dall’host, una percentuale variabile (fino al 20%) dal turista. La tesi: il turismo low cost promosso da Airbnb è contro i poveri.«Nel suo frame narrativo – continuano Carbone e Russo Spena – Airbnb parla di “città condivisa” rivendicandosi il ruolo di competitor per le catene alberghiere e per il turismo di lusso. Si autorappresenta come l’opzione politicamente corretta: la rivincita del ceto medio e dei meno abbienti e un nuovo modo di viaggiare tramite lo home-sharing». In effetti, il boom delle stanze in affitto porterebbe benefici diffusi anche per i territori, dal ripopolamento dei centri abbandonati alla riqualificazione di intere aree. Ma è tutto oro quel che luccica? Qual è idea di città che si nasconde veramente dietro il business di Airbnb? Dopo anni di studio, Sarah Gainsforth, ricercatrice e giornalista, ha prodotto il libro “Airbnb città merce” (DeriveApprodi), nel quale effettua un’attenta disamina di questa florida società-prodigio della Silicon Valley, focalizzandosi sulle conseguenze urbane del turismo low cost. Il testo, secondo la recensione di “Micromega”, non risulta né ideologico né manicheo. «La retorica fasulla di Airbnb va combattuta con dati reali e storie vere di origine e resistenza», si legge nella prefazione. Dietro il comodo strumento di Airbnb, si celerebbe un modello di città escludente e diseguale.Innanzitutto, il suo business avalla il fenomeno della “gentrification”, ovvero la riqualificazione estetica dei quartieri impoveriti (ma, nello stesso momento, l’aumento dei prezzi e dei valori immobiliari: il che che provoca un ricambio di popolazione e l’espulsione, diretta o indiretta, degli abitanti meno facoltosi). Airbnb contribuisce a questa trasformazione urbana perché gli affitti temporanei di alloggi contraggono l’offerta di case in affitto, favorendo il rialzo dei valori immobiliari e dei canoni di locazione. Secondo la Gainsforth, Airbnb non è altro che «uno strumento di concentrazione della ricchezza proveniente dalla rendita immobiliare: fa profitti imponendo un modello di città sbagliato dove persiste un centro turistico e vetrina e la contemporanea espulsione degli abitanti verso le periferie», che poi diventano contenitori dell’emarginazione sociale. «Che Airbnb favorisca la classe media è una favola», spiega l’autrice in una recente intervista su “Left”: «Se lo fa è soltanto nel mascherare gli effetti delle politiche neoliberiste che sono alla base del suo stesso successo». Peraltro, «il ceto medio è vittima principale delle prassi urbane attivate dall’azienda, in quanto soggetto principale che subisce gli effetti della “gentrification”».Molte città in Europa – da Barcellona a Lisbona – secondo “Micromega” stanno correndo ai ripari per arginare quel turismo di massa che sta devastando il volto dei propri centri, palesandosi come il principale strumento di “gentrification” e di marketing delle città, diventate al tempo stesso “imprenditrici” e merce di consumo. Se il mantra dei nostri tempi è “il turismo genera ricchezza”, la domanda è: per chi? «Questo modello di marketing turistico concentra i profitti nelle mani di pochi operatori privati, principalmente le compagnie aeree, i tour operator e i proprietari immobiliari», sostiene il ricercatore Augustin Cocola-Gant, intervistato nel libro: «Tutti gli altri ne sono esclusi, quella che inizialmente poteva sembrare un’opportunità per la città si sta rivelando una dimensione drammatica». In Italia, città come Firenze, Napoli e Venezia stanno cambiando volto per l’invasione del turismo di massa: «Nel capoluogo toscano, oltre 8.200 annunci per case-vacanze su 11.200 sono nel centro storico, e ciò sta portando all’abbandono dal centro di molti residenti».La “monocultura turistica”, poi, sfrutta (come “merce esperienziale”) ogni valore territoriale, ogni aspetto delle culture materiali: dal patrimonio enogastronomico, alle relazioni sociali nei contesti di vita, dalle sagre ai mercatini tipici, dalle rievocazioni storiche alle più arcaiche pratiche delle culture tradizionali, scrivono Carbone e Russo Spena. Persino nelle forme «polverizzate non governate (immediatamente) dai grandi tour operator», la massificazione dell’industria turistica «ha reso “merce” le esperienze urbane e dei territori», trasfigurando i quartieri. Siti d’interesse turistico «hanno visto progressivamente mutare funzioni e significati», e intere aree urbane «subiscono trasformazioni nella composizione degli abitanti, nelle attività economiche e commerciali, nei tempi di vita, esclusivamente scanditi su quelli del consumo». Un nuovo deserto: «I panorami sociali di queste aree sono spopolati, pochissimi i residenti stabili, mentre le classi meno agiate e le famiglie di ceto medio vengono espulsi», visto che mancano “servizi di prossimità” e i costi crescono.Poi ci sono appartamenti di rappresentanza, usati solo per pochi giorni l’anno: «Case senza abitanti e abitanti senza casa rappresentano un altro stridente paradosso dei territori turistificati, nei quali si generano conflitti sull’uso dello spazio e sui significati attribuiti ai luoghi tra chi li vive quotidianamente e chi, invece, semplicemente, li consuma». Secondo Sarah Gainsforth, una nuova “trappola” dell’economia delle piattaforme digitali si è costituita nell’incontro tra dispositivi tecnologici e meccanismi di autoimpresa: accogliere turisti è rappresentato come un’attività facile (smart) e persino divertente, mentre le tecnologie digitali consentono di intercettare agevolmente la domanda di ospitalità, mentre la condivisione dello spazio domestico costituisce «una modalità creativa per l’integrazione del reddito». L’idea di abitare, scrive “Micromega”, è mutata dalla molecolarizzazione dell’impresa turistica contemporanea: fare soldi con il turismo significa sempre più spesso “vendere” i turisti, «una preziosa merce da mobilitare per carpirne l’attenzione e per estrarne capacità di spesa».La città e il territorio? «Costituiscono un mezzo di produzione, una risorsa estrattiva per questa forma di produzione: i luoghi sono rendite da cui trarre profitto». Di fatto, la finanza «ha ridisegnato le città non più soltanto facilitando l’acquisto delle case attraverso i mutui ipotecari, ma attraverso l’ascesa delle grandi corporazioni immobiliari sostenute dai mercati di capitale internazionale e del capitalismo delle piattaforme come Airbnb». In altre parole, va a farsi benedire la pianificazione urbanistica, insieme con l’idea di città come spazio essenzialmente pubblico. «Già esistono, in Europa, modelli per regolamentare la sharing economy», concludono Carbone e Russo Spena. «Il turismo è un fenomeno complesso che modifica il senso della città ed è necessario governarlo. Non si può più relegare all’economia predatoria delle piattaforme digitali come Airbnb. Ci vogliono scelte politiche innovative, radicali e coraggiose. In Italia quando?».(Il libro: Sarah Gainsforth, “Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale”, DeriveApprodi, 190 pagine, 18 euro).Si presenta come la principale “success story” del capitalismo delle piattaforme digitali: oggi, Airbnb è un impero mondiale. Nata nell’ottobre 2007 a San Francisco con l’intuizione di creare un portale online che coniugasse domanda e offerta del turismo low cost, è diventata un colosso da 30 miliardi di dollari: solo nel secondo trimestre del 2019 ha realizzato oltre un miliardo. In costante espansione, si appresta ad acquisire nuove società con l’obiettivo di avere il monopolio del settore a livello globale. «I numeri del boom sono impressionanti, se pensiamo che il portale ha visto crescere gli annunci pubblicati dagli 8.126 del 2011 ai 400mila attuali», scrivono Vincenzo Carbone e Giacomo Russo Spena su “Micromega“. «Utilizzato soprattutto tra i più giovani e gli squattrinati, da un lato è uno strumento comodo che permette di viaggiare a basso costo, dall’altro è diventato per qualcuno un’attività semi-professionale dando la possibilità a chi ha una camera libera nella propria abitazione di affittarla per brevi periodi». Su ogni transazione effettuata, la piattaforma trattiene una percentuale: il 3% dall’host, una percentuale variabile (fino al 20%) dal turista. La tesi: il turismo low cost promosso da Airbnb è contro i poveri.
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Russia derubata: l’imbroglio americano del Muro di Berlino
Torgau, 25 aprile 1945: si abbracciavano commossi, su un ponte dell’Elba, i soldati russi e americani che avevano combattuto insieme per liberare l’Europa dal nazismo. Ma la storia li avrebbe traditi: la pace sarebbe svanita, perché l’Occidente non sarebbe stato ai patti. Altre lacrime, stavolta in mondovisione, il 9 novembre 1989. Cadeva il Muro di Berlino, che aveva diviso in due l’ex capitale di Hitler per 28 anni. Altro tradimento: gli Usa non avrebbero rispettato la solenne promessa fatta a Gorbaciov di non estendere la Nato verso l’Est Europa. Da allora, finita la guerra fredda e franato l’argine geopolitico dell’Urss, è svanita la pace vagheggiata dall’uomo della Perestrojka: e il mondo è precipitato nel feroce caos della guerra asimmetrica universale, terroristica e senza più frontiere, scatenata dall’élite occidentale globalista e neoliberista contro il resto del mondo. Doveva essere una festa della riconciliazione, il crollo del Muro, e invece è stato l’inizio di un trennennio buio per moltissimi popoli, travolti dalle “guerre americane” (e in Europa, dall’austerity). Ma il destino del pianeta era segnato, da quando scomparve Franklin Delano Roosevelt il 12 aprile 1945. A differenza di Truman, che ne prese il posto, il presidente del New Deal non avrebbe ingannato l’Unione Sovietica, riconoscendole anzi il merito storico di aver stroncato il nazismo a Stalingrado, invertendo il corso della storia oltre un anno prima dello Sbarco in Normandia.E’ la tesi che Giulietto Chiesa espone del provocatorio saggio “Chi ha costruito il muro di Berlino?”, che esplora i decisivi albori del dopoguerra – da Hiroshima alla guerra fredda – frugando, carte alla mano, tra i segreti della nostra storia più recente. Al punto in cui erano, chiusi nell’angolo – sostiene Chiesa – nel 1961 i sovietici non potevano far altro che innalzare quell’odioso, maledetto muro: non avevano i soldi per rispondere ad armi pari alla micidiale offensiva statunitense in Germania Est, realizzata violando tutti gli accordi tra le superpotenze. Per esempio, la decisione (condivisa da Roosevelt e Stalin) di progettare insieme il futuro della Germania, in modo bilaterale. Via Roosevelt, il voltafaccia americano si fece palese. E Berlino, insieme alla Germania Ovest, divenne il perno su cui investire per puntare all’unico crollo che interessasse davvero a Washington: quello di Mosca. Se a Yalta i vincitori si erano accordati lealmente per co-gestire l’imminente dopoguerra, a Potsdam nell’estate del ‘45 gli americani decisero di cambiare passo: le atomiche sul Giappone sarebbero state una minaccia diretta all’Unione Sovietica. Un anno prima, del resto, a Bretton Woods il sistema capitalista (”miracolato” dal New Deal ma pronto a emarginare lo stratega progressista Keynes) aveva stabilito il gold standard, la supremazia del dollaro come valuta internazionale e il ruolo “imperiale” del Fmi rispetto alle banche centrali, tranne quella americana.Non c’è bisogno di dichiararsi anticomunisti per ammettere che, ovunque abbia conquistato il potere, quell’ideologia abbia sistematicamente deluso, tradito e represso il popolo, imponendo un’oligarchia dittatoriale capace di macchiarsi dei peggiori crimini. Preoccupa, semmai, che il Parlamento Europeo abbia appena votato una mozione che equipara il comunismo al nazismo: in 150 anni, ricorda lo storico Alessandro Barbero, la parola “comunismo” ha unito milioni di persone che speravano in un modo migliore, più giusto e solidale, mentre – com’è noto – il nazismo aveva come primo obiettivo il primato “razziale” germanico e lo sterminio degli ebrei. L’aspetto più inquietante, nel caotico dopoguerra (secondo Giulietto Chiesa, e non solo) riguarda lo strano feeling tra l’élite statunitense e la Germania nazista sconfitta: subito dopo lo spettacolare Processo di Norimberga, scrive Chiesa, furono almeno 20.000 i criminali nazisti reclutati da Washington per dar vita ai propri apparati di sicurezza come la Cia, ma anche la Nato e lo stesso esercito della Germania Occidentale, paese scelto – almeno dal 1947, a quanto pare – come leva strategica per scardinare la presa sovietica sull’Est Europa, fino poi a far crollare il regime di Mosca.Eterogenesi dei fini: paradossalmente, osserva Chiesa, è proprio “grazie a Hitler” (aiutato sottobanco dalla finanza facente capo a Rockefeller e Allen Dulles, poi capo della Cia) che l’America ha potuto diventare la superpotenza “imperiale”, unica padrona dei destini europei. «L’Europa che abbiamo ereditato – sostiene Giulietto Chiesa, già militante comunista e a lungo corrispondente da Mosca per “L’Unità” – è il risultato della sottrazione della vittoria alla Russia, dell’impossessarsi della vittoria da parte degli Usa e della fine dell’impero britannico, sostituito dall’impero americano». La sua ricostruzione della crisi di Berlino – culminata con la costruzione del Muro – è decisamente inconsueta. Nel 1946, subito dopo Norimberga, gli Usa decidono di rivalutare il marco della Germania Occidentale di quasi 5 volte il suo valore, nonostante gli accordi iniziali sulla co-gestione, con i russi, del futuro del paese. Tra parentesi: la battaglia di Berlino, culminata il 2 maggio del ‘45, aveva messo l’Armata Rossa nelle condizioni di dilagare in gran parte del territorio tedesco. «Stalin invece si fermò a Berlino, fedele al patto siglato a Yalta con Roosevelt». Salito Truman alla Casa Bianca, «di colpo l’Occidente vuole mezza Germania per sé, inclusa la parte occidentale di Berlino». E cosa fa? Rivaluta la moneta. «Risultato: a Berlino Ovest, da un giorno all’altro, si guadagna 4 volte tanto».Chiesa parla di «banconote preparate segretamente già dal 1947». A Berlino, alla vigilia della costruzione del Muro, 50-60.000 lavoratori dell’Est fanno i pendolari: lavorano nella zona Ovest, passando liberamente da un settore all’altro. All’improvviso, con l’impennata valutaria del marco occidentale, succede questo: all’Est, pane e benzina costano 4 volte meno, quindi i berlinesi dell’Ovest corrono a svuotare i negozi dell’Est. In parallelo, comincia l’esodo: 200.000 tedeschi lasciano Berlino Est per trasferirsi a Berlino Ovest. «In due anni e mezzo, traslocarono quasi 2 milioni di persone». L’Urss, ancora devastata dall’invasione nazista, non aveva i soldi per reagire sul piano economico-finanziario: «Nella Germania Orientale, Mosca aveva promosso infrastrutture avanzate: ospedali, università, centri di ricerca. Ma il livello di vita era quello socialista, come in Urss». Conclusione: «Il Muro di Berlino fu un atto elementare difensivo, al quale non ci si poteva sottrarre (se non arrendendosi)». Si dirà: ha stravinto, in ultima analisi, il modello economico più convincente. L’unico (dei due) capace di motivare gli individui, lasciandoli liberi di parlare, pensare ed esprimersi democraticamente, e soprattutto di conquistare in tempi brevi una condizione di notevole benessere.Giulietto Chiesa non si nasconde, ovviamente, le aberrazioni dello stalinismo: «C’erano stati milioni di arresti, le deportazioni in Siberia, l’industrializzazione mediante lavoro forzato». Eppure, aggiunge, «in quel momento la dirigenza sovietica aveva un enorme consenso popolare: finita la guerra, i russi pensavano che sarebbe cessata anche la repressione, e che si sarebbe cominciato finalmente a vivere, anche in Russia, in condizioni diverse». Attenzione: «La Russia aveva vinto la guerra, sul suo territorio. Aveva avuto 20 milioni di morti: non voleva, né poteva, considerarsi battuta». Orgoglio, e non solo: l’Unione Sovietica aveva sconfitto il nazismo, ereditando solo macerie. Città distrutte, industrie rase al suolo: un sacrificio immenso. L’America? Intatta. Nello Sbarco in Normandia, il 6 giugno 1944, gli alleati ebbero 4.400 morti e quasi 8.000 feriti. Cifre che impallidiscono di fronte a Stalingrado, battaglia decisiva per le sorti della Seconda Guerra Mondiale, protrattasi dal 17 luglio 1942 al 2 febbraio dell’anno seguente. Bilancio: mezzo milione di soldati sovietici uccisi e 650.000 feriti, oltre un milione di perdite inflitte ai tedeschi e ai loro alleati. L’attuale demonizzazione del comunismo pretesa (per legge) dall’Unione Europea finisce per mettere in ombra la storia, scippando un’altra volta la Russia: che, secondo Chiesa, quel dannato Muro fu costretta a erigerlo, dopo esser stata ingannata dall’ex alleato americano.(Il libro: Giulietto Chiesa, “Chi ha costruito il muro di Berlino? Dalla guerra fredda alla nascita della bomba atomica sovietica, i segreti della nostra storia più recente”, Uno Editori, 160 pagine, euro 13,90).Torgau, 25 aprile 1945: si abbracciavano commossi, su un ponte dell’Elba, i soldati russi e americani che avevano combattuto insieme per liberare l’Europa dal nazismo. Ma la storia li avrebbe traditi: la pace sarebbe svanita, perché l’Occidente non sarebbe stato ai patti. Altre lacrime, stavolta in mondovisione, il 9 novembre 1989. Cadeva il Muro di Berlino, che aveva diviso in due l’ex capitale di Hitler per 28 anni. Altro tradimento: gli Usa non avrebbero rispettato la solenne promessa fatta a Gorbaciov di non estendere la Nato verso l’Est Europa. Da allora, finita la guerra fredda e franato l’argine geopolitico dell’Urss, è svanita la pacificazione vagheggiata dall’uomo della Perestrojka: siamo precipitati nel feroce caos della guerra asimmetrica universale, terroristica e senza più frontiere, scatenata dall’élite occidentale globalista e neoliberista contro il resto del mondo e contro le stesse democrazie. Doveva essere una festa della riconciliazione, il crollo del Muro, e invece è stato l’inizio di un trentennio buio per moltissimi popoli, travolti dalle “guerre americane” (e in Europa, dall’austerity). Ma il destino del pianeta era segnato, da quando scomparve Franklin Delano Roosevelt il 12 aprile 1945. A differenza di Truman, che ne prese il posto, il presidente del New Deal non avrebbe ingannato l’Unione Sovietica, riconoscendole anzi il merito storico di aver stroncato il nazismo a Stalingrado, invertendo il corso della storia oltre un anno prima dello Sbarco in Normandia.
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Barbero: pessima idea, equiparare il comunismo al nazismo
Pessima idea, equiparare il simbolo del comunismo – falce e martello – alla svastica hitleriana. A lanciare l’allarme è lo storico Alessandro Barbero, ospite dell’edizione 2019 del Festival Logos di Roma, il 24 ottobre. La tesi: il fascismo è riconducibile al faccione di Mussolini in Italia e l’orrore nazista della Germania è indentificabile in un periodo storico altrettanto circoscritto nel tempo e nello spazio. Al contrario, l’ideale comunista (poi tradito dal regime criminale dell’Urss stalinista) aveva infiammato i cuori di milioni di persone. E’ accaduto in ogni parte del pianeta, nell’arco di 150 anni, da Marx in poi, sulla base di un sogno: un mondo più giusto e migliore, per tutti. Barbero prende così le distanze dall’insidioso documento approvato il 19 settembre dal Parlamento Europeo: il testo condanna il comunismo in quanto sistema politico “totalitario”, equiparandolo al nazifascismo. Con 535 voti a favore, 66 contrari e 52 astenuti, la controversa risoluzione sulla “memoria europea” getta nella spazzatura della storia l’intera esperienza comunista internazionale. Pericolo in vista: «Nella dimensione pratica – riassume “Radio Onda d’Urto – la risoluzione impegna a eliminare qualunque simbologia presente in Europa relativa al movimento comunista internazionale, dai monumenti ai nomi delle strade».Il documento propone una ricostruzione storica più che discutibile, che vede nel patto Molotov-Ribbentrop del 1939 (la spartizione della Polonia con cui Stalin cercò di guadagnare tempo, prima di subire l’invasione hitleriana) l’espressione di un progetto egemonico sull’Europa da parte della Germania nazista e dell’Unione Sovietica. In sostanza, accusando la Russia di non avere fatto i conti con il proprio passato, il Parlamento Europeo dimentica di ricordare che fu proprio l’Urss – a Stalingrado – a fermare l’esercito nazista, permettendo all’Europa occidentale di liberarsi dal terrore totalitario con il successivo aiuto militare degli Usa. A favore del testo, che condanna anche genericamente «tutte le organizzazioni politiche accusate di promuovere l’odio e la violenza politica», hanno votato a favore gli europarlamentari di Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Pd. Nel sanzionare «gli atti di aggressione, i crimini contro l’umanità e le massicce violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime nazista, da quello comunista e da altri regimi totalitari», si esprime «inquietudine per l’uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica e a fini commerciali», ricordando che «alcuni paesi europei hanno vietato l’uso di simboli sia nazisti che comunisti».Attraverso il Parlamento Europeo sta dunque per calare sull’Europa una sorta di “post-verità orwelliana” destinata a mettere al bando, presto o tardi, il simbolo “falce e martello” clamorosamente equiparato alla svastica? A inquietare è il principio: la caccia alle streghe contro la simbologia comunista potrebbe essere l’antipasto di altre successive proibizioni. Vivaci, in Italia, le reazioni contrarie: lo storico dell’arte Tomaso Montanari parla di «squallore», perché è stato dimenticato il ruolo decisivo dell’Urss nella sconfitta del nazismo. Comunismo e nazismo posti sullo stesso piano? «Una falsificazione ignobile, quella della risoluzione votata dal Parlamento Europeo, come è ignobile che a votarla siano stati tanti sedicenti democratici nostrani», insorgono – come riporta “Repubblica” – Francesco Laforgia e Luca Pastorino, rispettivamente senatore e deputato di “Liberi e Uguali”. «Queste distorsioni – aggiungono – sono una pericolosa rilettura che finisce per sdoganare ideologie neo-fasciste». All’attacco anche il deputato Nicola Fratoianni, secondo cui siamo di fronte a «malafede, più che ignoranza».Protesta Massimiliano Smeriglio, eurodeputato Pd, a lungo braccio destro di Zingaretti: «Non si può costringere la storia dentro uno schema parlamentare al solo scopo di tirarla da tutte le parti, per poi finire in uno strano ecumenismo». Un altro eurodeputato Pd, Pierfrancesco Majorino, su Facebook parla di «banalizzazioni pericolose». L’equiparazione tra comunismo e nazismo «fa piangere, innanzitutto sul piano storico». Sulle barricate anche l’Anpi: «In un’unica riprovazione – afferma l’associazione partigiani – si accomunano oppressi e oppressori, vittime e carnefici, invasori e liberatori, per di più ignorando lo spaventoso tributo di sangue pagato dai popoli dell’Unione Sovietica (più di 22 milioni di morti) e persino il simbolico evento della liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa». Secondo l’Anpi, «davanti al crescente pericolo di nazifascismi, razzismi e nazionalismi, si sceglie una strada di lacerante divisione invece che di responsabile e rigorosa unità».Chissà cosa ne direbbe Primo Levi, se fosse vivo: le pagine di un memoriale come “La tregua” propongono un vivido ritratto della prorompente, caotica vitalità delle truppe sovietiche, consapevoli – a ogni livello – si essersi sacrificate non solo per difendere il territorio russo, ma anche per liberare l’Europa dalla barbarie. Dovunque poi sia andato al governo – ammette lo stesso Barbero, storico popolarissimo in Italia grazie anche alla sua presenza televisiva – il comunismo ha agito in modo inaccettabile, deludendo i suoi stessi sostenitori. Chi tende a dichiararsi al tempo stesso antifascista e anticomunista (liberali e socialisti) sottolinea: esattamente come il nazifascismo, anche il comunismo ha finito sempre per sopprimere la democrazia e imporre un’oligarchia autoritaria e spesso violenta, se non addirittura totalitaria come nel caso dello stalinismo. Avverte però il professor Barbero: attenti, a maneggiare la storia in modo frettoloso. Falce e martello, per centinaia di milioni di esseri umani – in tutto il mondo, e per un secolo e mezzo – hanno rappresentato ideali di fraternità e dignità, pace e giustizia sociale. Per Hitler, al copntrario, l’obiettivo supremo era lo sterminio razzista degli ebrei. Sicuri che sia saggio, gettare tutto questo nello stessa fogna dove la storia ha provveduto a relegare l’aberrante nazismo tedesco?Pessima idea, equiparare il simbolo del comunismo – falce e martello – alla svastica hitleriana. A lanciare l’allarme è lo storico Alessandro Barbero, ospite dell’edizione 2019 del Festival Logos di Roma, il 24 ottobre. La tesi: il fascismo è riconducibile al faccione di Mussolini in Italia e l’orrore nazista della Germania è identificabile in un periodo storico altrettanto circoscritto nel tempo e nello spazio. Al contrario, l’ideale comunista (poi tradito dal regime criminale dell’Urss stalinista) aveva infiammato i cuori di milioni di persone. E’ accaduto in ogni parte del pianeta, nell’arco di 150 anni, da Marx in poi, sulla base di un sogno: un mondo più giusto e migliore, per tutti. Barbero prende così le distanze dall’insidioso documento approvato il 19 settembre dal Parlamento Europeo: il testo condanna il comunismo in quanto sistema politico “totalitario”, equiparandolo al nazifascismo. Con 535 voti a favore, 66 contrari e 52 astenuti, la controversa risoluzione sulla “memoria europea” getta nella spazzatura della storia l’intera esperienza comunista internazionale. Pericolo in vista: «Nella dimensione pratica – riassume “Radio Onda d’Urto” – la risoluzione impegna a eliminare qualunque simbologia presente in Europa relativa al movimento comunista internazionale, dai monumenti ai nomi delle strade».
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E’ la Cina a finanziare Erdogan che schiaccia i curdi in Siria
Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno più volte richiamato all’ordine la Turchia. Per essere più convincenti, Washington e Bruxelles sono arrivate a minacciare Ankara di una guerra commerciale, tra possibili dazi, tariffe e sanzioni. Tutte armi, queste, capaci teoricamente di fare a pezzi la fragile economia turca. Eppure, nonostante il rischio di vedere il proprio paese in ginocchio, Recep Tayyip Erdogan non intende fermarsi sul più bello: l’operazione militare in Siria del nord deve proseguire a qualunque costo. Che Erdogan sia solo un incosciente è fuori discussione, perché il Sultano ha in realtà fatto i suoi conti e sa bene quali sono i vantaggi e gli svantaggi nel continuare a fare il bullo di quartiere. Il presidente turco ha lanciato la missione “Fonte di pace” da poche settimane ma i preparativi, in realtà, sono iniziati molti mesi fa. Nel bel mezzo della crisi che stava strozzando la lira turca, diplomatici e tecnici di Ankara si sono rimboccati le maniche per dotare il governo di una sorta di paracadute capace di limitare i danni a una Turchia in caduta libera. E in effetti, senza alcuna protezione, la discesa del paese verso il baratro sarebbe stata rapidissima, sommando la crisi economica alle conseguenze della recente guerriglia contro i curdi.L’assicurazione alla vita della Turchia si chiama Cina. Se la scorsa estate Pechino non avesse effettuato un vero e proprio bailout per salvare la Turchia dal default, oggi Erdogan non avrebbe la forza per muovere neanche un soldato. Secondo quanto riportato da “Bloomberg”, a giugno la Banca Centrale cinese ha trasferito fondi nel paese turco per un valore complessivo di 1 miliardo di dollari, rinsaldando il rapporto lira turca-yuan. Ma non è finita qui, perché Erdogan ha sfruttato al meglio la relazione con Xi Jinping per convincerlo a sborsare 3,6 miliardi di dollari da spendere in vari progetti infrastrutturali. E Xi, considerando la posizione geografica della Turchia, perfetto ponte tra Oriente e Occidente, ha subito accettato, immaginando di potenziare la Nuova Via della Seta. La Cina è insomma riuscita in un colpo solo a rendere vana l’azione economica degli Stati Uniti e rafforzare il progetto della Belt and Road; dall’altra parte, Erdogan si è risollevato e ha potuto organizzare il piano d’invasione della Siria. Il risultato dell’avvicinamento turco alla Cina è che oggi Ankara non si fa impressionare da ipotetiche guerre commerciali. I finanziamenti e i prestiti cinesi consentono alla Turchia di infischiarsene delle minacce statunitensi, almeno per quello che riguarda il breve periodo.Ma Erdogan ha in mente di costruire un ponte stabile che porta dritto nel cuore della Città Proibita di Pechino, perché il Sultano, lo scorso 11 agosto, ha dichiarato di essere pronto a commerciare con la Cina attraverso valute nazionali aggirando il dollaro. Quando gli Stati Uniti hanno minacciato di cancellare l’economia turca, la moneta di Ankara e i rispettivi tassi di interesse locali non hanno battuto ciglio, scendendo di pochissimo. E questo, sottolinea “Asia Times”, è «notevole, data la fragilità della valuta turca all’inizio del 2019». La Cina è un vero e proprio bancomat per Erdogan; ma attenzione, perché il Sultano sta giocando con il fuoco: Pechino sta sì riempiendo la Turchia di soldi, ma il rischio è che il Dragone la inghiotta in un sol boccone non appena lo riterrà necessario. Giusto per rimarcare i rapporti di forza tra Cina e Turchia, vale la pena analizzare il comportamento di Ankara nei confronti degli uiguri. Prima del salvataggio cinese, Erdogan aveva tuonato contro il trattamento cinese riservato alla minoranza turcofona situata nello Xinjiang; dopo il salvataggio, il Sultano si è corretto dicendo che «gli uiguri vivono felici in Cina». Non solo: Ankara ha pure accettato di cooperare con le autorità cinesi per rispedire oltre la Muraglia gli uiguri che si nascondono in Turchia.(Federico Giuliani, “Dietro la Turchia si nasconde la Cina”, dall’inserto “InsideOver” de “Il Giornale” del 22 ottobre 2019).Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno più volte richiamato all’ordine la Turchia. Per essere più convincenti, Washington e Bruxelles sono arrivate a minacciare Ankara di una guerra commerciale, tra possibili dazi, tariffe e sanzioni. Tutte armi, queste, capaci teoricamente di fare a pezzi la fragile economia turca. Eppure, nonostante il rischio di vedere il proprio paese in ginocchio, Recep Tayyip Erdogan non intende fermarsi sul più bello: l’operazione militare in Siria del nord deve proseguire a qualunque costo. Che Erdogan sia solo un incosciente è fuori discussione, perché il Sultano ha in realtà fatto i suoi conti e sa bene quali sono i vantaggi e gli svantaggi nel continuare a fare il bullo di quartiere. Il presidente turco ha lanciato la missione “Fonte di pace” da poche settimane ma i preparativi, in realtà, sono iniziati molti mesi fa. Nel bel mezzo della crisi che stava strozzando la lira turca, diplomatici e tecnici di Ankara si sono rimboccati le maniche per dotare il governo di una sorta di paracadute capace di limitare i danni a una Turchia in caduta libera. E in effetti, senza alcuna protezione, la discesa del paese verso il baratro sarebbe stata rapidissima, sommando la crisi economica alle conseguenze della recente guerriglia contro i curdi.
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Dezzani: guerre per procura, dietro la retorica sui curdi
Il 10 ottobre la Turchia ha infine lanciato l’invasione del Nord della Siria, per debellare le milizie curde alleate degli Usa e scongiurare la nascita di un qualsiasi soggetto autonomo a ridosso dei propri confini: termina dunque così il tentativo delle potenze marittime anglosassoni (cui si somma ovviamente lo Stato di Israele), avviato nel lontano 2011, di alimentare ulteriormente la balcanizzazione della regione mediorientale, introducendo almeno due nuove entità: un Kurdistan e un Sunnistan monopolizzato dall’Isis. Ciò che ci interessa, infatti, è soprattutto leggere i recenti avvenimenti in chiave geopolitica: dove per geopolitica non si intende “rapporti internazionali”, bensì rivalità tra potenze marittime e potenze continentali, tra cui va annoverata a buon diritto (per geografia e quindi “weltanschauung”) anche la Turchia. Non che la condotta di Ankara sia stata sempre lineare: sia ben chiaro. Facendo leva sull’atavico interesse per i territori siriani (la battaglia di Aleppo del 1918 decreta la disfatta militare dell’Impero Ottomano), gli angloamericani attraggono in un primo momento la Turchia nello schieramento delle forze “destabilizzanti”: c’è comunque da dire che Ankara ne accetta pienamente le conseguenze, ospitando sul proprio territorio circa tre milioni di profughi.La manipolazione della Turchia tocca il proprio apice nel novembre 2015, quando l’aviazione turca, contando sull’appoggio della Nato, abbatte il celebre Su-24 nei cieli siriani. Ankara capisce allora che gli angloamericani non hanno nessuna intenzione di impegnarsi militarmente in nuovo conflitto mediorientale: lavorano soltanto per la destabilizzazione a buon mercato della regione, destabilizzazione che, presto o tardi, colpirà anche la Turchia, attraverso la nascita di un Kurdistan filo-occidentale. Inizia così il progressivo avvicinamento dei turchi alla Russia, fonte di non pochi scossoni: primo fra tutti il tentato golpe dell’estate 2016 ed il successivo assassinio dell’ambasciatore Karlov. La reazione scomposta degli angloamericani denota la chiara percezione di rischi insiti nell’alleanza turco-russa: come portare avanti la balcanizzazione della regione, se i russi bombardano l’Isis e i turchi passano nel campo avversario? Operazione impossibile: è dunque sul finire del 2016 che va collocato il punto di svolta nella “guerra per procura” che le grandi potenze potenze combattono in Siria.Neppure l’accanimento della speculazione sulla lira turca riesce a impedire la rielezione del presidente Erdogan nel giugno 2018, né a modificarne la politica estera di tacito sganciamento dalla Nato: le milizie curde dello Sdf e Ypg, che controllano la zona siriana (peraltro scarsamente popolata) a Nord-Est dell’Eufrate sono ormai spacciate, perchè la loro liquidazione è solo questione di tempo. Le potenze angloamericane se ne sono servite (inondando i media occidentali con la propaganda sulle “amazzoni curde” e sull’eroica resistenza di Kobane) promettendo loro uno Stato autonomo, esteso anche al nord dell’Iraq: ma come difenderle, se l’intera manovra iniziata nel 2011 (e costata centinaia di migliaia di morti, specie tra le antichissime comunità cristiane) è fallita? Significherebbe per le potenze marittime proteggere e rifornire (con un ponte aereo?) le roccaforti curde nel cuore della Mesopotamia, un’impresa che gli strateghi angloamericani non prendono neppure in considerazione. Quindi, Donald Trump fa ciò che avrebbe fatto qualsiasi altro inquilino della Casa Bianca: abbandona i curdi al loro destino, dando luce verde all’invasione turca.Si noti, però: con o non senza il placet di Washington, i turchi si sarebbero comunque messi in azione, perché ciò che ormai conta è la coordinazione con la Russia, che “supervisiona” le mosse di Ankara, Teheran, Baghdad e Damasco. Attualmente Ankara si è impegnata a non estendere la sua fascia d’occupazione oltre i trenta chilometri dalla frontiera, ma non è escludibile che in prospettiva questa sia allargata a tutto il “cuneo” siriano a est dell’Eufrate, tra Turchia e Iraq: una zona a maggioranza curda su cui il governo siriano non esercita più nessun controllo da anni. Una politica estera russa moderatamente aggressiva potrebbe sostenere il dinamismo turco verso sud, in cambio, in primis, di un riassetto del Caucaso. Russia e Turchia sono due grandi Stati continentali, che nel corso del Novecento sono stati troppo compressi delle potenze marittime: un’alleanza di ampio respiro apporterebbe vantaggi a entrambe.(Federico Dezzani, “Operazione ‘Fonte di Pace’: l’Heartland si muove”, dal blog di Dezzani dell’11 ottobre 2019).Il 10 ottobre la Turchia ha infine lanciato l’invasione del Nord della Siria, per debellare le milizie curde alleate degli Usa e scongiurare la nascita di un qualsiasi soggetto autonomo a ridosso dei propri confini: termina dunque così il tentativo delle potenze marittime anglosassoni (cui si somma ovviamente lo Stato di Israele), avviato nel lontano 2011, di alimentare ulteriormente la balcanizzazione della regione mediorientale, introducendo almeno due nuove entità: un Kurdistan e un Sunnistan monopolizzato dall’Isis. Ciò che ci interessa, infatti, è soprattutto leggere i recenti avvenimenti in chiave geopolitica: dove per geopolitica non si intende “rapporti internazionali”, bensì rivalità tra potenze marittime e potenze continentali, tra cui va annoverata a buon diritto (per geografia e quindi “weltanschauung”) anche la Turchia. Non che la condotta di Ankara sia stata sempre lineare: sia ben chiaro. Facendo leva sull’atavico interesse per i territori siriani (la battaglia di Aleppo del 1918 decreta la disfatta militare dell’Impero Ottomano), gli angloamericani attraggono in un primo momento la Turchia nello schieramento delle forze “destabilizzanti”: c’è comunque da dire che Ankara ne accetta pienamente le conseguenze, ospitando sul proprio territorio circa tre milioni di profughi.
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Petizione: Sos curdi, via subito i missili italiani dalla Turchia
«Le forze di invasione turche possono contare su missili italiani: chiediamo che il governo li ritiri». Di fronte alla devastante avanzata della Turchia nel nord della Siria, dopo il tacito via libera di Trump, soccombono le milizie curde che per prime si erano battute per fermare l’Isis, la formazione terroristica appoggiata sottobanco da Erdogan. E mentre l’Europa sta a guardare, l’Italia «mantiene ancora nel Sud della Turchia una batteria di missili contraerei Aster 30, con 130 militari italiani assegnati». Lo ricorda il Movimento Roosevelt, che in una petizione su “Change.org” chiede al governo di ritirare il contingente. «Gli Aster 30 sono tra i missili più sofisticati in dotazione alla Nato», si legge nel testo dell’appello. «Questi missili sono stati posizionati durante il conflitto siriano per difendere la Turchia da eventuali attacchi aerei esterni». Oggi, spiega il Movimento Roosevelt, gli Aster «potrebbero attivarsi in caso di intervento siriano a difesa delle truppe curde», tenendo conto anche del fatto che accanto a Damasco è schierata la Russia, con l’appoggio dell’Iran e delle milizie libanesi di Hezbollah. Per il presidente del Movimento Roosevelt, Gioele Magaldi, «è vergognosa l’offensiva di Erdogan contro i curdi, ed è altrettanto ignobile la decisione degli Usa di abbandonare i curdi al loro destino».Secondo Magaldi, Trump sta giocando sporco: il tradimento inflitto ai curdi è un ricatto «nei confronti della massoneria progressista che l’aveva appoggiato alle presidenziali contro la Clinton». Temendo di non essere più sostenuto in vista delle prossime elezioni, ora mostra di cosa sarebbe capace se quel sostegno non gli venisse più confermato, «ben sapendo che il massone reazionario Erdogan, membro della superloggia “Hathor Pentalpha”, è uno dei massimi artefici della nascita dell’Isis, contro cui i curdi si sono battuti eroicamente». Nella petizione su “Change.org” si afferma che l’Italia «non deve appoggiare le mire espansionistiche turche nei confronti del popolo curdo in nessun modo». L’invasione delle aree curde nel nord della Siria «è un attacco proditorio a una popolazione che ha sconfitto il terrorismo dell’Isis con un grandissimo costo di vite umane e con un eroismo che ricorda i combattenti democratici durante la guerra di Spagna». Secondo il Movimento Roosevelt, i curdi «sono il più grande popolo rimasto ancora senza una propria nazione», e in quel territorio «intendono proporre un confederalismo democratico, autonomo e rispettoso dei diritti di genere: una eccezione nella deriva integralista ed autocratica della regione».Le recenti e timide critiche che il ministero degli esteri Luigi Di Maio ha espresso all’ambasciatore turco in Italia «non sono assolutamente sufficienti per rimarcare la netta contrarietà del governo e del popolo italiano a questa invasione». Il Movimento Roosevelt chiede al governo italiano di fare «il minimo e simbolico indispensabile per rimarcare la distanza dell’Italia dall’aggressione turca», ovvero: «Rtirare con effetto immediato la batteria di missili Aster 30 e riportarla in patria insieme al personale italiano». Al dramma che si sta consumando in Siria si aggiunge anche l’imbarazzo atlantico: la Turchia è a tutti gli effetti un paese Nato, e sta invadendo – senza motivo – il territorio di un paese non in guerra con Ankara, la Siria. «Ci aspettiamo anche sanzioni economiche da parte dei paesi della Nato nei confronti della Turchia», sostengono i promotori della petizione. Per parte sua, Magaldi augura a Erdogan di uscire di scena al più presto, visto che ha trasformato la Turchia in una dittatura. E nei confronti dei curdi si fa ambasciatore di una promessa: «Il network internazionale della massoneria progressista, cui appartengo – dice, in un video su YouTube – si adopererà per favorire sviluppi geopolitici che portino, in tempi celeri, a creare finalmente lo Stato autonomo che i curdi meritano di avere».(Su “Change.org” la petizione promossa dal Movimento Roosevelt).«Le forze di invasione turche possono contare su missili italiani: chiediamo che il governo li ritiri». Di fronte alla devastante avanzata della Turchia nel nord della Siria, dopo il tacito via libera di Trump, soccombono le milizie curde che per prime si erano battute per fermare l’Isis, la formazione terroristica appoggiata sottobanco da Erdogan. E mentre l’Europa sta a guardare, l’Italia «mantiene ancora nel Sud della Turchia una batteria di missili contraerei Aster 30, con 130 militari italiani assegnati». Lo ricorda il Movimento Roosevelt, che in una petizione su “Change.org” chiede al governo di ritirare il contingente. «Gli Aster 30 sono tra i missili più sofisticati in dotazione alla Nato», si legge nel testo dell’appello. «Questi missili sono stati posizionati durante il conflitto siriano per difendere la Turchia da eventuali attacchi aerei esterni». Oggi, spiega il Movimento Roosevelt, gli Aster «potrebbero attivarsi in caso di intervento siriano a difesa delle truppe curde», tenendo conto anche del fatto che accanto a Damasco è schierata la Russia, con l’appoggio dell’Iran e delle milizie libanesi di Hezbollah. Per il presidente del Movimento Roosevelt, Gioele Magaldi, «è vergognosa l’offensiva di Erdogan contro i curdi, ed è altrettanto ignobile la decisione degli Usa di abbandonare i curdi al loro destino».
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All’Onu 500 scienziati: da Greta sul clima solo menzogne
È arrivata una letterina all’Onu. Ha la forza di 500 leoni stufi di stare in gabbia. Sono gli scienziati imprigionati nel bozzolo delle idiozie della fake science. Sono 500 tra cattedratici e ricercatori dell’intero orbe terracqueo. Nella missiva contestano i dati inventati e il catastrofismo apocalittico di Greta Thurnberg. Ci giocano la faccia e si espongono al linciaggio social. C’è infatti nonostante un clima, questo sì davvero ignobile e ustionante, da caccia alle streghe alimentato dalla piccola strega, una pattuglia di coraggiosi, inutilmente competenti. Il segretario generale dell’Onu António Guterres, che ha creato un ambiente da tempio della Dea Kalì per ospitare Greta dalle dieci braccia e trentatré trecce, ne ha invitato forse uno, almeno uno a sorte di questi 500? Figuriamoci. Nessun dibattito è ammesso. Cosa daremmo per assistere a uno scambio di tesi e dialoghi alla pari tra il Nobel Carlo Rubbia e questa furiosa creatura che sembra venuta da qualche girone dantesco con quegli occhi infiammati, con quei suoi discorsi sui sogni e sulla purificazione che ricordano quelli della gioventù hitleriana? Ci domandiamo: chi ha organizzato questa sua ascesa, chi organizza i viaggi, quale organizzazione le ha fatto fissare tempi e termini della sua partecipazione a questo evento globale? Ci sono concorsi pubblici per parlare all’Onu?I 500 non hanno avuto citazioni sulle prime pagine del giornalone unico dove si spiega la magia del carisma della ragazzina. Ve ne diamo noi l’avviso, per dare un po’di salutare CO2 a tutti coloro, e sono tanti, che sono stati abbandonati dal servizio pubblico e da quello commerciale, e perciò hanno creduto di essere soli in mezzo a folle oceaniche di pupazzetti robotizzati dalle formule usate anche per aizzare i dobermann. Tranquilli. Non siamo soli. Ci sono gli scienziati, che a differenza di Greta hanno il torto di avere la laurea ed essere in alcuni casi calvi; e c’è anche il buon senso a cui vorremmo fare da megafono.Siamo in un tempo assurdo. Si crede all’onniscienza delle masse e dei suoi like, e per un senso distorto della democrazia, per cui uno vale uno, stiamo arrivando al manicomio universale con l’umanità che segue la pifferaia verso l’abisso. Funziona così. Siccome milioni di ignoranti affermano in corteo, bloccando i parlamenti, che la terra è piatta e l’araba fenice esiste (più o meno siamo a questo punto) allora, essendo molti più dei 500 scienziati, hanno ragione loro. Una bomba atomica, altro che Hiroshima. Per ora non ha fatto morti, ma può fare persino più danni se il missile ideologico lanciato dalla Profetessa Greta all’Onu si tradurrà in scelte politiche.È esattamente il contrario di quanto ci viene fatto bere. Altro che contrasto all’anidride carbonica e agli incendi dell’Amazzonia. Detta così, applausi, ovvio. Chi è favorevole alla invasione della plastica che soffoca pesci e uccelli? Ma non è questo. C’è dietro la follia di chi vuole spegnere il motore del mondo, sulla base di un allarme bugiardo, basato sull’ignoranza di Greta e la furbizia di mestatori che intendono impadronirsi della disperazione indotta da questi poveretti di cervello, a cui strani poteri hanno dato in consegna il giacimento più prezioso di tutti, quello delle coscienze. Greta è adoperata come un’arma di distrazione di massa, ma anche di distruzione di un progresso che si vorrebbe dirigere secondo gli umori oggi della finanza globale, saltando gli Stati, tranne ovviamente la Cina, dove chissà perché Greta non viene trasportata. Altro che purificazione dalle sozzure. Questa gente, che sarebbe la generazione dei liceali del mondo intero con i mestatori interessati delle multinazionali green, vuol spegnerci la luce in casa. Se fosse solo questione di corrente elettrica, ce la caveremmo con le lampade a olio, ma oddio le balene non si possono più cacciare (per fortuna), e però neanche le mucche si potranno allevare, perché producono metano, e bevono acqua, e tutto è sporco, inquinante, vietato, tranne il lusso della barca a vela e dei cibi biologici d’alta gamma.È la rivoluzione dei ricchi giovani del nord, che stanchi di distrarsi solo con le pasticche ci provano inventandosi un viaggio psichedelico nell’età dell’oro della preistoria, dove l’età media era di trenta anni, mentre ancora nell’800 in Europa si era sotto i cinquanta. Questi intendono colonizzare con la loro pseudo-scienza e morale fasulla il resto del pianeta. E il problema è che ce la stanno facendo, stanno rintronando il mondo intero. In nome del diritto a sognare questa signorina con i suoi accoliti ci ricaccia nell’incubo dei tempi in cui la scienza non aveva ancora consentito alla tecnologia di creare e far funzionare quegli strumenti che consentono l’alimentazione di sette miliardi di persone e di portare elettricità, con i suoi benefici di sicurezza e libertà, dove prima era impensabile. Quanto è accaduto all’Onu e da lì è rimbalzato nel mondo, abbattendo i vetri delle nostre case, e gonfiandosi nei nostri tinelli, nei bar e sugli autobus si può sintetizzare così: un fenomeno di ipnosi collettiva ad opera di una maga con le treccine, una creatura arrivata cavalcando i Draghi da qualche saga nordica. Dicendola altrimenti: una strega bambina ci ha gettato un sortilegio. Tutti i potenti del mondo, tranne un ironico Trump e un lievemente dubbioso Macron, si sono prostrati davanti a Greta Thurnberg e alla sua oratoria di una violenza inaudita. La questione molto semplice è che non è vero. È proprio una bugia da bambina delle elementari che ha sbagliato libro delle fiabe. Ma nessuno osa eccepire. Noi, insieme ai 500 sì!(Renato Farina, “Greta Thunberg, cinquecento scienziati scrivono all’Onu: Ma che emergenza è? I dati non sono giusti”, da “Libero” del 25 settembre 2019. Lanciata da Guus Berkhout, geofisico e professore emerito dell’Università dell’Aia, la lettera all’Onu è il risultato di una collaborazione tra scienziati e associazioni di 13 paesi, ricorda “Startmag”: la loro “Dichiarazione europea sul clima” ha lo scopo di far sapere che «non c’è urgenza né crisi climatica». La lettera, ripresa testualmente da “Europe Reloaded”, chiede quindi che le politiche climatiche vengano completamente ripensate, «riconoscendo in particolare che il riscaldamento osservato è inferiore al previsto e che l’anidride carbonica, lungi dall’essere un inquinante, ha effetti benefici per la vita sulla Terra»).È arrivata una letterina all’Onu. Ha la forza di 500 leoni stufi di stare in gabbia. Sono gli scienziati imprigionati nel bozzolo delle idiozie della fake science. Sono 500 tra cattedratici e ricercatori dell’intero orbe terracqueo. Nella missiva contestano i dati inventati e il catastrofismo apocalittico di Greta Thunberg. Ci giocano la faccia e si espongono al linciaggio social. C’è infatti nonostante un clima, questo sì davvero ignobile e ustionante, da caccia alle streghe alimentato dalla piccola strega, una pattuglia di coraggiosi, inutilmente competenti. Il segretario generale dell’Onu António Guterres, che ha creato un ambiente da tempio della Dea Kalì per ospitare Greta dalle dieci braccia e trentatré trecce, ne ha invitato forse uno, almeno uno a sorte di questi 500? Figuriamoci. Nessun dibattito è ammesso. Cosa daremmo per assistere a uno scambio di tesi e dialoghi alla pari tra il Nobel Carlo Rubbia e questa furiosa creatura che sembra venuta da qualche girone dantesco con quegli occhi infiammati, con quei suoi discorsi sui sogni e sulla purificazione che ricordano quelli della gioventù hitleriana? Ci domandiamo: chi ha organizzato questa sua ascesa, chi organizza i viaggi, quale organizzazione le ha fatto fissare tempi e termini della sua partecipazione a questo evento globale? Ci sono concorsi pubblici per parlare all’Onu?