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Auto elettrica Eni-Enel, l’Italia potrebbe stupire il mondo
Ministro Di Maio, ma perché noi italiani non potremmo sorprendere tutti, per una volta? Disponiamo di due colossi, Eni ed Enel, in grado di trasformarsi in attori mondiali di primo piano nel nuovo business planetario dei veicoli elettrici. «Quello che sta accadendo è lo sbattere assieme di due industrie come non è mai accaduto prima nella storia», assicura Erik Fairbairn di Pod Point Ltd, l’azienda di punta inglese per le stazioni di ricarica degli “electric vehicles” (auto, scooter, camion, bus). Una frase lapidaria, sottolinea Paolo Barnard, che descrive «uno dei fenomeni più impensati ed eclatanti dell’economia globale», ovvero «la forzata fratellanza dei colossi del petrolio con quelli dell’elettricità a fronte della rivoluzione mondiale degli “Ev”, nella consapevolezza che il futuro del motore a combustione è segnato». Infatti, Big Oil e Big Utilities si sono lanciate insieme con acquisizioni miliardarie per non perdere una grossa fetta dell’industria dei trasporti di domani, che sarà sempre più a “carburante” elettrico: un affare globale da trilioni di dollari, euro, yuan e yen. La Royal Dutch Shell, aggiunge Barnard, ha calcolato ormai con certezza che il settore perderà oltre 10 milioni di barili di petrolio al giorno per il consumo nei trasporti entro il 2040, a favore dell’elettricità. Di più: la Cina ha stabilito per legge la più alta quota obbligatoria al mondo di “Ev” sul suo mercato, e nelle aziende, entro il 2030.Il governo del gigante asiatico ha stanziato 50 miliardi di dollari d’incentivi per gli “electric vehicles” per i prossimi due anni: Pechino sarà il maggior mercato di veicoli “Ev” del pianeta entro 12 anni, con una richiesta da far impallidire il resto del mondo. «La Volkswagen l’ha capito da un pezzo e ha sborsato subito un anticipo di 10 miliardi per arrivare per prima in Cina (poi la gente si chiede perché la Germania vince)». Per i prossimi sette anni, prosegue Barnard, aziende come Volkswagen, Bmw, Ford e Toyota hanno investito un totale di 165 miliardi di dollari nei veicoli elettrici, «non solo perché gli idrocarburi stanno distruggendo il clima e saranno man mano banditi, ma anche (più cinicamente) perché la tecnologia ha già oggi superato i due ostacoli maggiori allo sviluppo degli “Ev”, che erano l’autonomia (oggi siamo oltre i 500 km con una carica) e i tempi per le ricariche (le batterie Toshiba ricaricano un’auto in 6 minuti)». E poi, appunto, c’è l’immensa torta del mercato cinese. Per questo, oggi, le stime della maggiori “consultancies” internazionali danno il mercato globale degli “Ev” in crescita a ritmi pazzeschi: si parla dell’8.600% (ottomilaseicento per cento) nei prossimi 22 anni. E qui, scrive Barnard rivolgendosi a Di Maio, l’Italia potrebbe avere un’idea dirompente che la proietterebbe ai primi posti al mondo nella Disruption, la rivoluzione del lavoro indotta dalle nuove tecnologie, rilanciando economia e occupazione.Basterebbe che Eni ed Enel, cioè Big Oil e Big Utility in Italia, si lanciassero in una joint-venture «ben oltre il solito mercato delle stazioni di ricarica per “Ev”». Secondo Barnard potrebbero unire le loro imponenti forze (tecnologie avanzate, risorse e know-how) per sbarcare sul mercato dei produttori di veicoli elettrici, «in diretta competizione coi leader mondiali come Volkswagen, Bmw o Tesla, per anche superarli e divenire protagonisti di quello che è destinato a essere il più ricco mercato globale dei trasporti su terra». Ragiona Barnard: Eni ed Enel sono “sorelle”, insieme al ministero del Tesoro, e quindi – nel giro di neppure vent’anni – le ricadute sarebbero immense, per lo Stato e per l’economia, per il lavoro e per l’ambiente. «Un picco verso l’alto di Pil fra meno di vent’anni non è futurismo», assicura Barnard. Al contrario, sarebbe «l’occupazione e la società dei nostri figli alle elementari o alle medie adesso, ma anche di molti di noi, e con ricadute essenziali sui pensionati per ovvi motivi». Eni ed Enel potrebbero cioè attuare la Disruption del settore auto, senza più Sergio Marchionne e John Elkann. Basterebbe allineare l’Italia alle maggiori potenze economiche, dove i giganti petroliferi si stanno “gemellando” con i giganti delle utilities, mettendo in campo un’arma in più: la capacità competitiva del binomio Eni-Enel.Mentre il fenomeno si concentra sulla distribuzione del nuovo “carburante” elettrico, scrive Barnard, citando joint-ventures «tutte dedicate alle stazioni di ricarica degli “Ev”», non risulta che nessuno dei colossi mondiali abbia ancora pensato di «usare il proprio strapotere economico e tecnologico per entrare nel mercato dei veicoli, non solo rifornirli». E c’è un buon motivo, spiega Barnard: nella quasi totalità dei casi studiati – Usa e Gran Bretagna, Svezia, Giappone, Germania, Francia, Cina – i giganti esteri di petrolio e utilities risiedono in paesi con industrie automobilistiche già in prima linea negli “Ev”. Non l’Italia, però: «La sparpagliata anglo-olandese-italiana Fiat Chrysler Automobiles ha annunciato, con l’evidente riluttanza di Marchionne ben espressa alla “Reuters” nel gennaio 2018, un misero investimento di 9 miliardi di dollari negli “Ev”, che è quasi un decimo di quello della Volkswagen». Ecco il perché della proposta per l’Italia avanzata da Barnard: un marchio automobilistico Eni+Enel+Ev (col Tesoro).«Si tratta di saper vedere avanti, cioè di avere la cosiddetta “vision”», sottolinea il giornalista: «Sono certo che almeno all’Eni esiste una conoscenza approfondita dei mercati cosiddetti South Asia, China and Southeast Asia, e dell’esplosivo potenziale d’acquisto che stanno sviluppando, tale da umiliare tutto l’Occidente fra una manciata d’anni». Quindi, un’impresa come quella delineata non nascerebbe certo senza un mercato, anzi: e domani, quando «le vendite internazionali di “Ev” saranno a 9 zeri e straripanti», è facile prevedere quale indotto di lavoro l’industria automobilistica Eni+Enel+Ev creerebbe in un paese come l’Italia, che – ricorda Barnard – è ancora la prima nazione al mondo «per densità di piccole medie imprese». Praterie sconfinate di occupazione: dall’impiego negli stabilimenti alla costruzione delle infrastrutture sul territorio per le colonne di ricarica. Barnard insiste sul potenziale rivoluzionario della Disruption in atto: Artificial Intelligence e Machine Learning stanno cambiando volto al lavoro sul pianeta, facendo sparire mestieri e creandone di nuovi. Una delle applicazioni più studiate, e su cui sono stati investiti enormi capitali, sono le auto “driverless”: «E’ solo una questione di quando arriveranno, non “se”».E quindi, insiste Barnard, «un’Italia con due colossi tecnologici nazionali, Eni+Enel, già lanciati nel settore automobilistico e dei trasporti con gli “Ev”, diverrebbe anche leader delle “driverless”, con gli sbocchi economici e d’occupazione che si possono immaginare». Cosa stiamo aspettando, se è vero che – per la prima volta nella storia – i giganti del petrolio e quelli delle utilities marciano insieme, mentre l’industria dell’auto sta investendo centinaia di miliardi nei veicoli elettrici? «Non vedo perché il nostro gigante del petrolio, Eni, e il nostro gigante utility, Enel, non possano unire le loro grandi tecnologie per non solo competere nel settore rifornimenti, ma proprio per ridare all’Italia un marchio dell’auto del futuro, per la felicità del Tesoro a Roma, del Pil e dell’occupazione». Scrive Barnard, rivolto a Di Maio: «Ministro, il lavoro per gli italiani non si crea con decreti a mo’ di cerotti occupazionali appiccicati di qua e di là in quello che è un bagno di sangue di disoccupazione a due cifre. Il vero lavoro duraturo, a vita e remunerato bene – aggiunge Barnard – si crea solo con una “vision” di grande respiro». Per una volta, conclude il giornalista, l’Italia potrebbe tornare a stupire tutti, se solo lo volesse.Ministro Di Maio, ma perché noi italiani non potremmo sorprendere tutti, per una volta? Disponiamo di due colossi, Eni ed Enel, in grado di trasformarsi in attori mondiali di primo piano nel nuovo business planetario dei veicoli elettrici. «Quello che sta accadendo è lo sbattere assieme di due industrie come non è mai accaduto prima nella storia», assicura Erik Fairbairn di Pod Point Ltd, l’azienda di punta inglese per le stazioni di ricarica degli “electric vehicles” (auto, scooter, camion, bus). Una frase lapidaria, sottolinea Paolo Barnard, che descrive «uno dei fenomeni più impensati ed eclatanti dell’economia globale», ovvero «la forzata fratellanza dei colossi del petrolio con quelli dell’elettricità a fronte della rivoluzione mondiale degli “Ev”, nella consapevolezza che il futuro del motore a combustione è segnato». Infatti, Big Oil e Big Utilities si sono lanciate insieme con acquisizioni miliardarie per non perdere una grossa fetta dell’industria dei trasporti di domani, che sarà sempre più a “carburante” elettrico: un affare globale da trilioni di dollari, euro, yuan e yen. La Royal Dutch Shell, aggiunge Barnard, ha calcolato ormai con certezza che il settore perderà oltre 10 milioni di barili di petrolio al giorno per il consumo nei trasporti entro il 2040, a favore dell’elettricità. Di più: la Cina ha stabilito per legge la più alta quota obbligatoria al mondo di “Ev” sul suo mercato, e nelle aziende, entro il 2030.
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Ma non fuggono dalla fame, gli africani che sbarcano da noi
Gli immigrati che arrivano in Europa dall’Africa sono per lo più (oltre l’80%) giovani maschi, di età compresa tra i 18 e i 34 anni, che viaggiano da soli. Le coppie e le famiglie sono una minoranza. Provengono da una serie di paesi dell’Africa subsahariana, anche se quest’anno c’è stato un picco di emigranti tunisini, con una prevalenza dall’Africa centrale e occidentale, da paesi come Nigeria, Senegal, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana. La loro condizione sociale? Non è facile dirlo, perché ci sono situazioni anche molto diverse tra loro. Va detto, comunque, che esiste sul tema dell’immigrazione un falso mito: la maggioranza non fugge da situazioni di estrema povertà. In genere sono persone provenienti da centri urbani, ed è lì che maturano l’idea di lasciare il paese. Dunque mi sembra corretto sostenere che il grosso dei migranti appartenga al ceto medio: persone non ricche, ma nemmeno povere, in grado di pagare profumatamente chi organizza i viaggi. Un paio d’anni fa, in un’intervista, il ministro dei Senegalesi all’Estero ha detto: «Qui non parte gente che non ha nulla, parte gente che vuole di più». L’idea diffusa in Africa è che basta arrivare in Europa per godere del benessere, senza considerare però che dietro la ricchezza prodotta ci sono dei sacrifici.Ad alimentare questa illusione sono vari fattori. Uno su tutti: i trafficanti, che come è noto gestiscono la gran parte dei viaggi verso l’Europa. Sono loro che rafforzano questa idea, lo fanno ovviamente per procurarsi clienti. È utile sottolineare che il 13 giugno è stato pubblicato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) un rapporto dal quale emerge che nel 2016 queste organizzazioni criminali hanno trasportato almeno 2,5 milioni di persone, delle quali quasi 400.000 verso l’Italia, ricavandone in tutto da 5,5 a 7 miliardi di dollari. Il rapporto spiega dettagliatamente come funziona l’avvicinamento ai clienti, l’opera di convincimento, nonché quali sono le varie tariffe. Chi arriva in Europa, per lo più, non fa altro che alimentare verso i propri parenti e amici in Africa l’idea che sia giunto ad un traguardo per cui vale la pena spendere e rischiare. La tendenza è quella di descrivere situazioni positive, anche quando non lo sono, per giustificare la propria scelta. Ma va detto che spesso, in effetti, chi arriva non ha nulla di cui lamentarsi: siccome quasi tutti chiedono e ottengono asilo, almeno nei primi anni godono di un sistema di protezione e di assistenza da far invidia a chi non è ancora partito.Le traversate nel deserto, i campi di detenzione libici, le tragedie nel Mediterraneo: non dovrebbero rappresentare un deterrente nei confronti di chi vuole partire? Il punto è che queste situazioni le conosciamo più noi che loro. L’accesso ai mezzi d’informazione degli africani, anche di coloro che vivono nelle città, è molto limitato. Detto ciò, molti conoscono i rischi e sono disposti ad accettarli, così come non si può escludere che molti altri, magari in un primo momento intenzionati a partire, desistano proprio alla luce di queste tragedie. A tal proposito vorrei sottolineare l’importanza del lavoro di controinformazione che stanno svolgendo alcuni soggetti in Africa. Alcuni governi, così come molte conferenze episcopali africane, si stanno spendendo per spiegare ai giovani quanto costa, quanto si rischia e quanto poco si ottiene, nel lungo periodo, ad emigrare in paesi dove non c’è occupazione né possibilità concreta di integrazione economica e sociale. Stanno svolgendo questo lavoro i governi del Senegal e del Niger – dal 2014 anche quello del Mali, il quale sta facendo una forte propaganda per dimostrare che un paese dal quale emigrano i suoi cittadini più giovani e forti non crescerà mai. E ancora: quello della Sierra Leone, a partire dall’anno scorso e in collaborazione con le autorità religiose, sia cristiane che islamiche. Sono piccoli passi in avanti che incoraggiano i giovani non a fuggire ma a restare, per migliorare il proprio paese.L’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) parla di oltre 60 milioni di profughi in generale. Se poi parliamo di rifugiati, ovvero di persone che fuggono all’estero da guerre e persecuzioni, la cifra è di circa 20 milioni. Di questi, soltanto una minoranza esigua arriva in Italia, chiede asilo e lo ottiene: per quantificare, nel 2015 sono stati 3.555, nel 2016 4.940 e nel 2017 6.578. Perché sono così pochi? Perché la maggior parte di chi fugge da una guerra trova asilo appena varca il confine; del resto, la Convenzione di Ginevra prevede che il profugo chieda tempestivamente asilo nel primo paese che ha firmato la Convenzione in cui mette piede. C’è poi un secondo motivo: chi fugge sotto la minaccia di persecuzione e di guerra cerca di rimanere il più vicino a casa perché l’idea è quella di tornarci il prima possibile.Quanto incide sull’emigrazione anche lo sfruttamento delle risorse? C’è il land grabbing, ossia l’accaparramento delle terre da parte di paesi stranieri o industrie. Sicuramente sono fattori che hanno una loro incidenza. Le responsabilità vanno trovate anzitutto nei governi africani, i quali – per restare al tema del land grabbing – preferiscono vendere le terre ad industrie o a paesi che hanno fame di terre coltivabili (Cina, India, Arabia Saudita) incassando subito del denaro piuttosto che incentivare l’agricoltura locale anche tramite investimenti. L’Africa è ricca di risorse minerarie, penso al cobalto ma soprattutto al petrolio, il quale viene acquistato e pagato dalle compagnie, ma il problema è capire dove vanno a finire i soldi. Nel 2014, su 77 miliardi di dollari che avrebbe dovuto incassare l’ente nazionale del petrolio nigeriano, 14 non sono mai stati depositati. Sono finiti in qualche conto corrente, mentre sarebbero dovuti servire per lo sviluppo sociale del paese. La Nigeria, pur essendo il primo produttore di petrolio del continente, importa il greggio già raffinato dall’estero.L’Africa da oltre 20 anni registra una crescita economica notevole, e in prima fila ci sono i paesi da cui proviene la maggior parte dei migranti, solo che queste risorse vengono dilapidate o se ne giovano poche élite. Al recente Consiglio Europeo, gli Stati si sono impegnati a contribuire ulteriormente al Fondo Ue per l’Africa inviando altri 500 milioni. È un modo per “aiutarli a casa loro” o per alimentare la corruzione? Questi 500 milioni sono un ulteriore quantitativo, che si aggiunge ai miliardi che ogni anno vengono destinati all’Africa dalla cooperazione allo sviluppo di Stati Uniti ed Europa. Infatti quando sento invocare un “Piano Marshall per l’Africa” resto basita, perché di risorse ne vengono già inviate in modo ingente, ma i destinatari, cioè i governi, sono poco affidabili. Un esempio: in Somalia, che è uno dei paesi maggiormente assistiti, la Banca Mondiale qualche anno fa ha dimostrato che ogni 10 dollari che vengono elargiti al governo, 7 spariscono nel nulla.E’ possibile che, dove è forte la presenza del radicalismo islamico, quei soldi che spariscono nel nulla finiscano ad arricchire i gruppi jihadisti? Chi lo sa. Certo è che questi gruppi hanno fonti di reddito molto robuste e sponsor molto potenti. Inoltre sono spesso invischiati in traffici illegali: spaccio di droga, di armi, bracconaggio. Anni fa si è scoperto che gli Al Shabaad della Somalia ottengono circa il 40% dei proventi dalla vendita di zanne di elefante. Considerate che in Kenya c’è un detto: “Oggi è stato ucciso un elefante, domani sarà ucciso un uomo”, proprio per sottolineare la correlazione tra bracconaggio e terrorismo. Una ricerca delle Nazioni Unite rivela che nel 2050 ci sarà un’ulteriore crescita demografica dell’Africa e un declino dell’Occidente. L’immigrazione di massa come fenomeno sempre più ineluttabile? Anzitutto si tratta di proiezioni, non di dati certi. Non è affatto detto che tra trent’anni la situazione rimarrà la stessa di oggi, in termini demografici.Delle buone politiche familiari e un cambio culturale potrebbero invertire la tendenza demografica in Occidente, così come è possibile in primo luogo che la popolazione africana non aumenterà come l’Onu prevede (già si registra una piccola variazione verso il basso rispetto ai pronostici di pochi anni fa) e poi che l’Africa diventi finalmente un continente in grado di svilupparsi e di convincere i propri giovani a non fuggire alimentando i traffici clandestini di migranti. A mio avviso il modus operandi di molte Ong è molto discutibile, perché entrano in contatto diretto con i trafficanti e prevedono il trasbordo quasi in acque territoriali libiche per poi dirigersi verso l’Italia, anche se battono bandiera di un altro Stato e se il porto più vicino sarebbe altrove. Già il precedente governo, con il ministro Minniti, aveva sollevato il problema e aveva pensato di prendere provvedimenti. Il nuovo governo si sta dimostrando solo più determinato, ma l’intento è rimasto quello di far rispettare la sovranità nazionale e le leggi internazionali.Chiudere i porti significa smettere di “restare umani”? L’Europa in generale, ma nello specifico l’Italia, sono molto lontane dalla fase più prospera della loro storia: gli ultimi dati ci parlano di 5 milioni di italiani in povertà assoluta e centinaia di migliaia di italiani emigrano all’estero; l’Italia è 20esima tra i paesi di emigrazione. In questa situazione, è solo giusto impedire a delle persone di raggiungere un paese che può assisterli nel breve periodo, ma che non è in grado di garantire loro un futuro dignitoso. Chi arriva dall’Africa in Italia ha remotissime possibilità di costruirsi una vita: il più delle volte è destinato a vivere di espedienti, a lavorare in nero e in condizioni disumane magari in qualche campo di pomodori oppure ad ingrossare le fila della criminalità organizzata. Chiudere i porti può essere un modo per scoraggiare i viaggi clandestini. È importante che si alimenti il passaparola tra migranti stessi. Esistono tantissime testimonianze di giovani che hanno iniziato il viaggio verso l’Europa ma che non sono riusciti ad arrivare a destinazione, i quali affermano che se lo avessero saputo non avrebbero speso soldi e sprecato anni della propria vita per un’impresa così aleatoria. L’unico modo per scoraggiare questi progetti senza futuro è proprio quello di dimostrare che il viaggio della speranza è un’illusione, che a destinazione non si arriva: e chiudere i porti è il messaggio più netto che possa giungere.(Anna Bono, dichiarazioni rilasciate a Federico Cenci per l’intervista “Bisogna scoraggiare gli africani a emigrare, ecco perché”, pubblicata da “In Terris” l’11 luglio 2018. Africanista dell’università di Torino, la professoressa Bono ha pubblicato importanti studi sul fenomeno dell’immigrazione di origine africana).Gli immigrati che arrivano in Europa dall’Africa sono per lo più (oltre l’80%) giovani maschi, di età compresa tra i 18 e i 34 anni, che viaggiano da soli. Le coppie e le famiglie sono una minoranza. Provengono da una serie di paesi dell’Africa subsahariana, anche se quest’anno c’è stato un picco di emigranti tunisini, con una prevalenza dall’Africa centrale e occidentale, da paesi come Nigeria, Senegal, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana. La loro condizione sociale? Non è facile dirlo, perché ci sono situazioni anche molto diverse tra loro. Va detto, comunque, che esiste sul tema dell’immigrazione un falso mito: la maggioranza non fugge da situazioni di estrema povertà. In genere sono persone provenienti da centri urbani, ed è lì che maturano l’idea di lasciare il paese. Dunque mi sembra corretto sostenere che il grosso dei migranti appartenga al ceto medio: persone non ricche, ma nemmeno povere, in grado di pagare profumatamente chi organizza i viaggi. Un paio d’anni fa, in un’intervista, il ministro dei Senegalesi all’Estero ha detto: «Qui non parte gente che non ha nulla, parte gente che vuole di più». L’idea diffusa in Africa è che basta arrivare in Europa per godere del benessere, senza considerare però che dietro la ricchezza prodotta ci sono dei sacrifici.
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Il Pd è finito perché ha scelto la finanza archiviando Keynes
L’ultima assemblea nazionale del Pd consegna alla storia della sinistra italiana una fotografia drammatica e al tempo stesso quasi patetica, dopo il ko del 4 marzo e poi quello delle amministrative. Quello che addirittura lascia esterrefatti, scrive Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, è che il partito è privo di qualsiasi strategia: ci si trova di fronte all’ennesimo ed effimero rinvio del nulla, del vuoto pneumatico. C’è il fantasma di Renzi, il Re degli Sconfitti, che arriva a contestare tutti, da Gentiloni a Martina, preoccupato solo di galleggiare ancora tra le macerie di un partito dal quale non si salva nessuno. Da Rold segnala la retromarcia di Bersani, che definisce «uomo di sinistra, magari anche di modeste ma oneste visioni politiche», che ha invitato i dirigenti Pd a fare un passo indietro per tornare ad ascoltare la società italiana. E poi c’è il lamento del leghista Giancarlo Giorgetti, navigato sottosegretario alla presidenza del Consiglio: è preoccupato, Giorgetti, che il governo gialloverde non abbia una vera opposizione, cosa che rende ancora più desolante la già fragile democrazia italiana. Velo pietoso sugli scenari da “fronte antipopulista” evocando Macron, cioè il politico francese che odia l’Italia. La realtà della sinistra italiana sarebbe lampante, dice Da Rold, se solo il Pd si decidesse a vederla: il centrosinistra è tale solo di nome, perché di fatto ha svolto una politica neoliberista, tipica della destra antisociale.Tra i tanti peccati che ha da scontare, scrive Da Rold, l’ex sinistra italiana «deve fare i conti con l’accettazione quasi acritica del “pensiero unico” neoliberista, scambiato per modernità». Nei dettagli, deve scontare il via libera alla nuova funzione della banca dopo l’abbandono del Glass-Steagall Act voluto da Roosevelt per separare nettamente il credito produttivo dalla finanza speculativa. L’ex sinistra, aggiunge l’analista, «non può dimenticarsi della concezione di un capitalismo basato su un’impresa responsabile, che cura innovazione, investimenti e occupazione». Tantomeno la sinistra poi dimenticarsi «del welfare, dei diritti dei lavoratori conquistati in anni di lotte sindacali», all’epoca in cui si puntava alla piena occupazione. «Il capitalismo che ha conosciuto e con cui si è confrontata la sinistra europea, dopo l’ultimo conflitto mondiale, era il capitalismo già corretto da Keynes, dal welfare di Lord Beveridge, dalla lezione della grande crisi del 1929 risolta da Roosevelt», scrive Da Rold. «E’ vero che la sinistra italiana, unica in Occidente, straparlava di Lenin più ancora che di Marx e conosceva poco Keynes. Ma nella sostanza, il boom e il benessere vennero proprio dalle dottrine e dalle pratiche keynesiane».Quello che è avvenuto negli ultimi anni era impensabile solo trent’anni fa, aggiunge Da Rold sul “Sussidiario”. «Mentre la sinistra socialdemocratica europea si ingolfava in sperimentazioni di sempre maggiore apertura neoliberista, la sinistra italiana abbandonava addirittura di colpo il marxismo post-classico per abbracciare il neoliberismo in versione monetarista. Un delirio». E non capiva, il centrosinistra, che «anche se Keynes avrebbe potuto essere superato e aggiornato, era lui il vero bersaglio della nuova destra rampante, non Lenin o Marx». Parole al vento: il risultato sono state «privatizzazioni forzate e, in molti casi, demenziali». Tutto questo, senza contare «le tappe forzate della globalizzazione, la crisi del 2007, l’assetto istituzionale italiano che non è mai stato aggiornato, con le procure interventiste nel campo politico che si muovono come feudi indipendenti e spesso in aperta opposizione all’esecutivo». Che cosa ha fatto, di fronte a tutto questo, la sedicente sinistra? «E’ stata a guardare, passivamente, godendo di una rendita di egemonia spesso usurpata».Poi, nel momento in cui questa egemonia si è frantumata, «la sinistra non si è neppure scomposta a ricercare le cause di una crisi storica, a rivedere e correggere alcune concezioni, a cercare di comprendere le nuove ragioni di un potenziale e molto ampio popolo di sinistra, che si è moltiplicato per l’aumento delle povertà, delle diseguaglianze sociali e della disoccupazione». La sedicente sinistra italiana «si è fermata a crogiolarsi nella subordinazione al potere dettata dalla grande finanza internazionale e da alcuni poteri istituzionali del paese», accusa Da Rold. Lo spettacolo dell’ultima assemblea Pd? Penoso. «E’ proprio impossibile che si possa avviare, anche con ritardo, una autocritica collettiva, non distruttiva, affrontando i nuovi problemi sociali, nazionali e internazionali? Si è ancora in grado di fare un congresso a tesi, come si è sempre fatto?». Se non si ripensa al passato, non si guarda al presente e non si pensa il futuro – conclude Da Rold – si è destinati a restare al palo. «E’ questa l’impressione che oggi comunica il Partito Democratico. E sembra che resti poco tempo per rimediare».L’ultima assemblea nazionale del Pd consegna alla storia della sinistra italiana una fotografia drammatica e al tempo stesso quasi patetica, dopo il ko del 4 marzo e poi quello delle amministrative. Quello che addirittura lascia esterrefatti, scrive Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, è che il partito è privo di qualsiasi strategia: ci si trova di fronte all’ennesimo ed effimero rinvio del nulla, del vuoto pneumatico. C’è il fantasma di Renzi, il Re degli Sconfitti, che arriva a contestare tutti, da Gentiloni a Martina, preoccupato solo di galleggiare ancora tra le macerie di un partito dal quale non si salva nessuno. Da Rold segnala la retromarcia di Bersani, che definisce «uomo di sinistra, magari anche di modeste ma oneste visioni politiche», che ha invitato i dirigenti Pd a fare un passo indietro per tornare ad ascoltare la società italiana. E poi c’è il lamento del leghista Giancarlo Giorgetti, navigato sottosegretario alla presidenza del Consiglio: è preoccupato, Giorgetti, che il governo gialloverde non abbia una vera opposizione, cosa che rende ancora più desolante la già fragile democrazia italiana. Velo pietoso sugli scenari da “fronte antipopulista” evocando Macron, cioè il politico francese che odia l’Italia. La realtà della sinistra italiana sarebbe lampante, dice Da Rold, se solo il Pd si decidesse a vederla: il centrosinistra è tale solo di nome, perché di fatto ha svolto una politica neoliberista, tipica della destra antisociale.
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Stiglitz: ma all’Italia conviene lasciare l’euro, ecco come
Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.Le divisioni risultanti hanno inoltre reso più difficile la risoluzione di altri problemi, in particolare la crisi migratoria, per la quale le norme europee impongono un onere ingiusto ai paesi in prima linea, come Grecia e Italia. Questi sono anche i paesi debitori, già afflitti da difficoltà economiche. Non c’è da stupirsi si ribellino. Cosa bisogna fare è ben noto. Il problema è che la Germania non vuole farlo. L’Eurozona ha da tempo riconosciuto la necessità di un’unione bancaria. Berlino insiste però nel rinviare la riforma chiave – una comune assicurazione sui depositi – che ridurrebbe la fuga di capitali dai paesi deboli: quest’ultima è uno dei fattori chiave che spiega la profondità del declino dei paesi in crisi. Le politiche economiche interne della Germania aggravano i problemi della zona euro. La principale sfida economica affrontata dai paesi in un’unione monetaria è l’incapacità di adeguare i tassi di cambio disallineati. Nell’Eurozona, l’onere dell’adeguamento è attualmente imposto ai paesi debitori, che già soffrono di bassi crescita e redditi. Se la Germania avesse una politica fiscale e salariale più espansiva, parte della pressione verrebbe tolta da questi paesi.Se la Germania non è disposta ad intraprendere i passi necessari per migliorare l’unione monetaria, dovrebbe fare la cosa migliore: lasciare l’Eurozona. Come detto da Soros, dovrebbe o guidare l’area o andarsene. Con la Germania (e forse altri paesi dell’Europa settentrionale) fuori dall’unione monetaria, il valore dell’euro si ridurrebbe e le esportazioni dell’Italia e di altri paesi dell’Europa meridionale aumenterebbero. La principale fonte di disallineamento sparirebbe. Allo stesso tempo, l’aumento del tasso di cambio tedesco farebbe molto per curare uno degli aspetti più destabilizzanti dell’economia globale: lo squilibrio commerciale a favore di Berlino. Il guaio, naturalmente, è che la Germania non vuole intraprendere nessuna delle due strade. Ciò lascia i cittadini di paesi come Grecia ed Italia con una scelta che non dovrebbero esser costretti a fare: tra l’appartenenza all’Eurozona e la prosperità economica. Un timido e inesperto governo greco ha scelto di rimanere nell’unione monetaria. Il risultato è stato stagnazione. Nel 2015 il Pil del paese era crollato del 25% rispetto al livello pre-crisi. Da allora, si è appena mosso.L’Italia ha l’opportunità di fare una scelta diversa. In assenza di riforme significative, i benefici di lasciare l’euro sono chiari e considerevoli. Un cambio più basso le consentirebbe maggiori esportazioni. I turisti troverebbero il paese una destinazione ancor più attraente. Tutto ciò stimolerebbe la domanda e aumenterebbe le entrate del governo. La crescita aumenterebbe e l’alto tasso di disoccupazione (11,2%, con il 33,1% di disoccupazione giovanile) diminuirebbe. Ci sono, naturalmente, molte altre ragioni per il malessere italico, e queste saranno tutt’al più parzialmente risolte lasciando l’euro. Governi come quelli di Trump o di Berlusconi – dominato da corrotti cercatori di rendite, senza comprensione delle vere basi della crescita sostenibile a lungo termine – non forniscono la leadership politica necessaria per una crescita forte e sostenibile. Allo stesso tempo, tuttavia, la crescita lenta ed iniqua che l’Italia ha vissuto come risultato dell’euro fornisce terreno fertile a partiti populisti. Ci sarebbero anche ulteriori vantaggi politici. Un’Italia più prospera avrebbe maggiori probabilità di cooperare in altri settori chiave in cui l’Europa ha bisogno di lavorare insieme: migrazione, una forza di difesa europea, sanzioni contro la Russia, politica commerciale.Le politiche commerciali o migratorie producono benefici per l’intero paese, ma ci sarebbero anche dei perdenti – e i vincoli fiscali imposti dalla zona euro hanno reso quasi impossibile fornire una tutela adeguata a chi perde. Un’Italia al di fuori dell’Eurozona sarebbe in una posizione migliore per condividere i benefici delle proprie politiche internazionali, mitigando al contempo il dolore ad esse associato. La sfida, ovviamente, sarà trovare un modo per lasciare la zona euro in modo da minimizzare i costi economici e politici. Una massiccia ristrutturazione del debito, fatta con particolare attenzione alle conseguenze per le istituzioni finanziarie nazionali, è essenziale. Senza di essa, l’onere del debito denominato in euro salirebbe, controbilanciando forse gran parte dei potenziali guadagni. Tali ristrutturazioni sono una parte fisiologica di grandi svalutazioni. A volte viene fatto di nascosto – come quando gli Usa abbandonarono il gold standard. A volte apertamente, come in Islanda ed Argentina. Tali ristrutturazioni del debito dovrebbero però essere viste come un rischio intrinseco dell’investimento transnazionale, una delle ragioni per le quali le obbligazioni “straniere” spesso danno un premio per il rischio.Da un punto di vista economico, la cosa più semplice da fare sarebbe che le entità italiane (governi, aziende e privati) semplicemente ridenominino i debiti dall’euro alla nuova lira. A causa però di complessità giuridiche all’interno dell’Ue, e degli obblighi internazionali del paese, potrebbe essere preferibile adottare una super-legge sul fallimento, sul modello del Chapter 11 americano. Questa permette un rapido ricorso alla ristrutturazione del debito a qualsiasi entità per la quale la nuova valuta presenta gravi problemi economici. Le leggi sulla bancarotta restano un’area di competenza di ciascuno degli Stati nazionali dell’Ue. L’Italia potrebbe persino scegliere di non annunciare che sta per lasciare l’euro. Potrebbe semplicemente emettere, ad esempio, titoli di Stato, che dovrebbero essere accettati come pagamento per qualsiasi obbligo di debito in euro. Una diminuzione del valore di queste obbligazioni equivarrebbe a una svalutazione. Ciò allo stesso tempo ripristinerebbe l’efficacia della politica monetaria italiana: cambiamenti nella politica della banca centrale inciderebbero sul valore delle obbligazioni.Si leverebbe naturalmente un polverone da parte degli altri membri. Introdurre una moneta parallela, ancorché in modo informale, violerebbe quasi certamente le regole della zona euro e sarebbe certamente contro il suo spirito. In questo modo però l’Italia lascerebbe decidere gli altri membri se espellerla. Roma potrebbe scommettere sul fatto che i membri più irritabili dell’Unione non compieranno mai un’azione così forte, che confermerebbe la sfilacciamento della zona euro. L’Italia avrebbe allora ottenuto due risultati con una sola mossa: rimarrebbe parte dell’Eurozona ma avrebbe compiuto una svalutazione. E se dovesse perdere la scommessa, l’onere politico dell’aver lasciato la zona euro cadrebbe ancor più chiaramente sui suoi “partner”. Sarebbero loro ad aver fatto la scelta finale. La Grecia si è arresa ad esser strangolata dalla Bce. Ma non doveva. Atene era infatti già ben avviata nella creazione di un sistema (un meccanismo di pagamento elettronico sotto la nuova dracma) che avrebbe facilitato una transizione dall’Eurozona. I progressi tecnologici degli ultimi tre anni rendono la creazione di sistemi di moneta elettronica sempre più semplice ed efficace. Se l’Italia decidesse di usarne uno, non dovrebbe nemmeno affrontare le difficoltà di stampare nuova valuta. Potrebbe anche alleviare il dolore della propria dipartita coordinando l’uscita con altri paesi in posizione simile.Il variegato gruppo di paesi che ora forma l’Eurozona è ben lungi da quella che gli economisti chiamano un’area valutaria ottimale. Ci sono troppe diversità, per farlo funzionare occorrono migliori assetti istituzionali, di quelli del tipo su cui la Germania ha posto il veto. Una zona meridionale sarebbe molto più vicina ad un’area valutaria ottimale. Ed anche se è difficile organizzare un’uscita coordinata in un breve periodo di tempo, se l’Italia dovesse avere successo, altri paesi quasi sicuramente seguiranno. Non bisogna ovviamente sottovalutare i costi di una grande svalutazione. Qualsiasi grande cambiamento in un prezzo-chiave in un’economia è una perturbazione significativa. Il prezzo del cambio estero è, ovviamente, fondamentale in qualsiasi economia aperta. Ha un effetto-domino sui prezzi di tutti i beni e servizi. Alcune – forse molte – aziende falliranno. Alcuni – forse molti – privati vedranno i propri redditi reali abbassarsi. È però altrettanto importante non sottovalutare i costi dell’attuale malessere italiano. Se la sua economia, nei 20 anni dalla creazione dell’euro, fosse cresciuta al tasso della zona euro nel suo insieme, il suo Pil sarebbe stato più alto del 18%.Il costo della disoccupazione persistente, specialmente tra i giovani, è enorme. I giovani tra i 20 e i 30 anni dovrebbero affinare le proprie abilità nella formazione sul posto di lavoro. Invece sono a casa oziosi, molti di loro a sviluppare un risentimento verso le élite e le istituzioni che incolpano per la propria situazione. La conseguente mancanza di formazione del capitale umano ridurrà la produttività anche per gli anni a venire. In un mondo ideale, l’Italia non dovrebbe essere costretta a lasciare l’Eurozona. L’Europa potrebbe riformare l’unione valutaria e fornire una migliore protezione a chi è danneggiato dal commercio e dalla migrazione. In assenza però di un cambio di direzione da parte dell’Ue nel suo insieme, l’Italia deve ricordare che ha un’alternativa alla stagnazione economica e che ci sono modi per lasciare la zona euro in cui i benefici probabilmente supererebbero i costi. Se il nuovo governo dovesse pilotare con successo tale uscita, l’Italia starebbe meglio. E così il resto d’Europa.(Joseph Stiglitz, “L’Italia ha ragione a voler lasciare l’euro”, da “Politico.Eu” del 25 giugno 2018, post tradotto fa Hmg per “Come Don Chisciotte”).Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.
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Di Maio: la vecchia Tv è finita, in Italia la prossima Netflix
Noi del Movimento è da anni che diciamo che con l’avvento della Rete sarebbe cambiato tutto e i media tradizionali ne avrebbero fatto le spese. Non era una profezia fine a sé stessa, ma un indicatore di dove investire per garantire un futuro al nostro paese. Venerdì Morgan Stanley ha pubblicato un report sul futuro della televisione con dati inequivocabili: in Italia al momento Netflix ha una penetrazione stimata attorno al 6%, ma cresce a un ritmo del 3% l’anno e quindi raggiungerà il 20% in 5 anni. Quello sarà il punto di non ritorno che in America ha coinciso con il declino del consumo della Tv tradizionale. Prevedono quindi che nei prossimi 5 anni gli operatori tradizionali italiani ed europei avranno un calo degli utili del 40%. Come conseguenza di questa analisi, Morgan Stanley ha declassato il suo giudizio su alcune aziende, come Mediaset che è passata da 3,8 a 2 con un tonfo in Borsa di quasi il 5% con un’azione che ora vale 2,7 euro. È andata ancora peggio ai tedeschi: ProsiebenSat perde il 7,53% e Rtl il 7,26%. Il motivo del ribasso è spiegato da altri dati presenti nel testo. Pensate che una volta che Netflix entra in una casa, il consumo di Tv tradizionale cade del 16-30%. Per di più è finita la crescita della pubblicità, che rappresenta tra il 50 e il 90% dei ricavi delle Tv tradizionali. Se proiettate questi dati nel tempo è chiaro cosa succederà.Davanti a questo scenario, come ministro dello sviluppo economico con delega alle telecomunicazioni, dico che è tempo che in Italia si inizi ad anticipare il futuro e a fare investimenti che vanno nell’ottica delle nuove tecnologie e non di quelle vecchie. È fondamentale il 5G ad esempio, la banda larga, ma è anche fondamentale incentivare la fornitura di quei servizi che possono essere di supporto alle piattaforme di oggi e nel medio e lungo periodo investire in nuovi modelli di business e nuove tecnologie per sviluppare a casa nostra le piattaforme del futuro. Se la prossima Netflix sarà italiana dipende dagli investimenti che facciamo oggi. Penso a dare un’opportunità alle giovani imprese che si occupano della creazione di nuovi format e di contenuti multimediali, a quelle che realizzano applicazioni in questo settore, a quelle che inventano da zero nuove tecnologie. In definitiva a stimolare creatività e competenze tecnologiche in questi ambiti. Un prodotto italiano di successo diffuso su Netflix o piattaforme simili, sarebbe un volano importante per far conoscere il nostro stile di vita e per far ripartire la nostra industria culturale.Se riusciremo anche a sviluppare delle piattaforme italiane che hanno successo mondiale sarà un ritorno incredibile su tantissimi fronti. Su questo devono interrogarsi anche le grandi aziende culturali del paese, in primis Rai e Mediaset. Per loro sarà fondamentale riuscire a rinnovarsi con nuove persone e nuove idee, pensando a nuovi prodotti e inserendosi in una logica completamente diversa da quella seguita fino ad oggi. In particolare in Rai deve iniziare a trionfare il merito e a entrare aria nuova. Il primo passo è la fine della lottizzazione da un lato e la pretesa di avere editori puri dall’altro. Una cosa è sicura: è un momento di grandi cambiamenti e quindi di enormi opportunità. Con investimenti oculati e un serio indirizzo politico le coglieremo e saremo protagonisti. Forse qualcuno dirà che sto sognando. Me lo dicevano anche nel 2009 e oggi siamo al governo del paese. Inseguiamo i nostri sogni e facciamoli diventare realtà.(Luigi Di Maio, “Le Tv tradizionali hanno i giorni contati, ma la prossima Netflix può essere italiana”, dal “Blog delle Stelle” del 2 luglio 2018).Noi del Movimento è da anni che diciamo che con l’avvento della Rete sarebbe cambiato tutto e i media tradizionali ne avrebbero fatto le spese. Non era una profezia fine a sé stessa, ma un indicatore di dove investire per garantire un futuro al nostro paese. Venerdì Morgan Stanley ha pubblicato un report sul futuro della televisione con dati inequivocabili: in Italia al momento Netflix ha una penetrazione stimata attorno al 6%, ma cresce a un ritmo del 3% l’anno e quindi raggiungerà il 20% in 5 anni. Quello sarà il punto di non ritorno che in America ha coinciso con il declino del consumo della Tv tradizionale. Prevedono quindi che nei prossimi 5 anni gli operatori tradizionali italiani ed europei avranno un calo degli utili del 40%. Come conseguenza di questa analisi, Morgan Stanley ha declassato il suo giudizio su alcune aziende, come Mediaset che è passata da 3,8 a 2 con un tonfo in Borsa di quasi il 5% con un’azione che ora vale 2,7 euro. È andata ancora peggio ai tedeschi: ProsiebenSat perde il 7,53% e Rtl il 7,26%. Il motivo del ribasso è spiegato da altri dati presenti nel testo. Pensate che una volta che Netflix entra in una casa, il consumo di Tv tradizionale cade del 16-30%. Per di più è finita la crescita della pubblicità, che rappresenta tra il 50 e il 90% dei ricavi delle Tv tradizionali. Se proiettate questi dati nel tempo è chiaro cosa succederà.
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Magaldi: l’ottimo Salvini e gli ipocriti che uccisero Sankara
Prima rapinano l’Africa, poi uccidono chi vuole salvarla. Quindi costringono gli africani a emigrare in massa, esponendo i lavoratori europei (già in crisi) a una concorrenza sleale, al ribasso. Ma naturalmente è tutta colpa di Salvini, il Signor No della nave Aquarius. Hanno avuto il coraggio di attaccarlo gli spagnoli, che hanno sparato sui migranti provenienti dal Marocco, e naturalmente i francesi, che hanno respinto in modo infame i profughi alla frontiera di Ventimiglia, senza alcuna pietà per donne e bambini. Quello che sta crollando – proprio grazie a Salvini – è un muro vergognoso di ipocrisia: per Gioele Magaldi, l’affare migranti non è che un capitolo della grande guerra in corso, a partire proprio dall’Italia, tra democrazia e oligarchia. Se l’Italia vincerà la sua battaglia contro i sepolcri imbiancati di Parigi, Berlino e Bruxelles, allora sarà un’ottima notizia per tutta l’Europa, dice il presidente del Movimento Roosevelt, che si prepara a celebrare – in autunno, a Milano – un convegno su Olof Palme, leader socialista svedese assassinato alla vigilia della svolta autoritaria da cui è nata l’attuale Unione Europea. Ma, accanto a Palme (e a Carlo Rosselli, martire antifascista e teorico del socialismo liberale) il convegno milanese accenderà i riflettori anche sull’ultimo grande eroe africano, Thomas Sankara, trucidato dal potere globalista per impedirgli di attuare la sua politica di riscatto per l’Africa, basata sulla sovranità economica del continente nero.Sembrano storie lontane, ma sono vicinissime: probabilmente non sarebbe mai neppure esistita, una nave Aquarius carica di profughi, se il leader rivoluzionario del Burkina Faso non fosse stato assassinato nel 1987, dopo aver chiesto ad alta voce la cancellazione del debito per l’Africa e, al tempo stesso, la fine degli “aiuti” della Banca Mondiale e del Fmi. «I vostri prestiti diventano la nostra schiavitù», ripeteva. «L’Africa ha tutto, per farcela benissimo da sola; basta che ci lasciate in pace, liberi di svilupparci senza più il peso del debito, e delle multinazionali che portano via le nostre risorse». Il prestigio di Sankara stava infiammando paesi decisivi come il Senegal e la Costa d’Avorio, il Kenya, il Camerun. Che Africa avremmo, oggi, se in quei paesi fosse cresciuta una generazione di politici come Sankara? Certo non se lo domandano i buonisti della domenica stile Roberto Saviano, prontissimi ad aprire il fuoco contro i partiti del governo gialloverde, a cui la ex sinistra italiana (insieme ai media mainstream) non perdona di aver vinto le elezioni, il 4 marzo. Ragione in più per smascherare l’impostura dei finti amici dei migranti, che utilizzano la disperazione dei profughi solo per gettare fango sul neonato esecutivo.Finalmente abbiamo un governo all’altezza della situazione, dichiara Magaldi a “Colors Radio”, «dopo tanti anni di premier imbelli e ministri imbelli, figure veramente mediocri che si sono succedute sulle poltrone ministeriali». Per il presidente del Movimento Roosevelt, «Salvini ha mostrato il minimo sindacale di carattere e di fermezza – e con lui Conte, che è un signore dai modi aristocratici ma che ha avuto posizioni ferme. E anche nel Movimento 5 Stelle c’è stata perfetta solidarietà rispetto alle posizioni di Salvini». Tra parentesi: gli italiani apprezzano. Sondaggi alla mano, in 7 su 10 approvano senza riserve l’operato del leader leghista. Certo, si registra anche l’inevitabile strascico polemico di apparati politici ormai alla deriva, completamente spiazzati dalla svolta italiana: «Rimangono ovviamente i latrati di alcune testate giornalistiche e di alcuni ambienti politici che giocano a mistificare la questione gridando al razzismo, al fascismo, alla xenofobia», dice Magaldi. «Peccato che poi scopriamo (con piacere) che anche in casa Pd e in alcuni ambienti della cosiddetta sinistra qualcuno ha detto: intanto Salvini ha fatto quello che Minniti avrebbe voluto fare e non ha potuto fare per via di quel baciapile un po’ ipocrita di Del Rio, che all’epoca – come ministro delle infrastrutture – impedì cose analoghe».Perfettamente allineato a Salvini, invece, il neo-ministro Danilo Toninelli, che ha competenza sui porti e sulla Guardia Costiera. In sintesi: «Il governo Conte e il ministro Salvini hanno agito benissimo», scandisce Magaldi. «Hanno messo un freno a quella che è una modalità inaccettabile di gestione del problema immigrazione nel Mediterraneo». Attenzione: è un problema italiano, ma anche europeo e globale: «Dovrebbe farsene carico la Nato e magari anche l’Onu, se esistesse ancora e avesse una capacità di intervento». Già, appunto: dove sono, le Nazioni Unite? Non fanno altro che «promuovere le proprie agenzie – accusa Magaldi – ingrassando funzionari che spesso di tutto si occupano, tranne che di diffondere i principi di quella dichiarazione universale dei diritti umani che proprio all’Onu era stata approvata settant’anni fa». Brutto spettacolo: «Una struttura super-burocratica, l’Onu, che al pari dell’Europa è molto al di sotto delle sue potenzialità e anche delle sue retoriche». L’Aquarius? Siamo seri: «Non era una zattera alla deriva, ma una nave perfettamente funzionante. Ed è stata accompagnata, scortata, assistita con opportuni soccorsi sanitari». Parliamoci chiaro: «Ci sono Ong che lucrano sulla tratta di migranti, spesso poi utilizzati anche da associazioni criminali».Molti, una volta sbarcati, vivono “fuorilegge”, non avendo titolo per essere accolti come rifiugiati. Beninteso: «Hanno titolo, giustamente, per sognare una vita migliore in un nuovo paese: ma allora dovrebbero essere inquadrati in un progetto», sostiene Magaldi, che si dichiara «a favore dell’accoglienza a prescindere, e anche della libertà di emigrare». Ma qui non si tratta di scelte libere: è un esodo di disperati in fuga, di fronte al quale trionfa l’ipocrisia. «Nessuno si fa carico di andare a risanare i paesi di provienienza dei migranti, in mano a dittature sanguinose, con popolazioni tenute in condizioni di vita non dignitose. Si preferisce invece farsi carico di trasportare questi poveretti nelle nostre società, dove già sono compressi i diritti, non c’è un clima di socio-economico espansione. E così si fomenta una guerra al ribasso: perché i poveri migranti lavorano spesso in nero, peggiorando ulteriormente le condizioni dei lavoratori italiani: diventano una concorrenza semi-schiavile al ribasso rispetto ai ceti meno abbienti occidentali». E poi, sinceramente: «Quanti di loro sono utilizzati dalla criminalità organizzata?». E ancora: «Che senso ha che vi siano addirittura navi che, per mestiere e per lucro, vanno a prendere i migranti e li scaricano in Italia, anziché in Spagna o in Francia?».Quindi, ribadisce Magaldi, quella di Salvini è stata «un’ottima mossa», che infatti «ha indotto subito a più miti consigli quelli che in Europa avevano sempre ignorato le nostre richieste, reiterate ma velleitarie, da parte di altri governi, di guardare in modo collegiale al problema migrazioni». Nessuno – a Parigi o Madrid – può dare lezioni all’Italia. Al contrario, è ora che Bruxelles prenda nota: la pacchia è finita, per gli eurocrati che giocano allo scaricabarile, travestiti da crocerossine. E anche qui, buone notizie: «In molti hanno riveduto e corretto il giudizio sull’azione di Salvini, dopo aver visto le reazioni scomposte, ipocrite e pretestuose di alcuni governi europei, decisi a non accogliere i migranti a casa loro ma desiderosi di vedere l’Italia nel caos, lasciata sola di fronte a questo problema». La storia è feroce, quando diventa farsa: gli sponsor delle Ong sono gli stessi oligarchi che hanno distrutto il lavoro in Europa e fatto esplodere la fame in Africa. Ecco perché diventa emblematico, oggi, il nome del compianto presidente del Burkina Faso, marxista e massone, protagonista di una rivoluzione esemplare e nonviolenta in nome del popolo sovrano: l’ex Alto Volta come modello per un’Africa dignitosa e prospera, libera e decolonizzata. L’Africa per la quale Thomas Sankara perse la vita: un’Africa che, se oggi esistesse, di certo non esporterebbe disperazione.Oggi, sottolinea Malaldi, proprio Sankara «potrebbe diventare il vessillo di un ripensamento delle politiche sull’Africa», aprendo la strada all’idea – formulata da Craxi nel 1990 – di andare finalmente ad “aiutare a casa loro” quei poveretti derubati dall’Occidente, in fuga da un continente abbandonato alla dittatura delle multinazionali e privo di investimenti in strutture politiche, economiche e sociali. «Proprio l’aver ucciso personaggi come Sankara – insiste Magaldi – è stato un modo, da parte di coloro che negli anni ‘80 stavano costruendo questa cattiva globalizzazione, per arrestare uno sviluppo autonomo e dignitoso dell’Africa. Un modo per continuare a depredarla, per poi determinare questi esodi biblici di disperati». Mano tesa all’Africa dei Sankara di domani? Se l’Italia è il primo paese europeo a fermare la tratta degli schiavi, potrebbe essere – nel prossimo futuro – anche il primo a rilanciare una nuova politica euro-mediterranea, come quella già perseguita dai vari Mattei e Moro? «Come annunciato, oggi l’Italia è finalmente al centro di una guerra tra democrazia e oligarchia: e se si vince la battaglia in Italia – dice Magaldi – forse si può cambiare molto, a livello globale».Prima rapinano l’Africa, poi uccidono chi vuole salvarla. Quindi costringono gli africani a emigrare in massa, esponendo i lavoratori europei (già in crisi) a una concorrenza sleale, al ribasso. Ma naturalmente è tutta colpa di Salvini, il Signor No della nave Aquarius. Hanno avuto il coraggio di attaccarlo gli spagnoli, che hanno sparato sui migranti provenienti dal Marocco, e naturalmente i francesi, che hanno respinto in modo infame i profughi alla frontiera di Ventimiglia, senza alcuna pietà per donne e bambini. Quello che sta crollando – proprio grazie a Salvini – è un muro vergognoso di ipocrisia: per Gioele Magaldi, l’affare migranti non è che un capitolo della grande guerra in corso, a partire proprio dall’Italia, tra democrazia e oligarchia. Se l’Italia vincerà la sua battaglia contro i sepolcri imbiancati di Parigi, Berlino e Bruxelles, allora sarà un’ottima notizia per tutta l’Europa, dice il presidente del Movimento Roosevelt, che si prepara a celebrare – in autunno, a Milano – un convegno su Olof Palme, leader socialista svedese assassinato alla vigilia della svolta autoritaria da cui è nata l’attuale Unione Europea. Ma, accanto a Palme (e a Carlo Rosselli, martire antifascista e teorico del socialismo liberale) il convegno milanese accenderà i riflettori anche sull’ultimo grande eroe africano, Thomas Sankara, trucidato dal potere globalista per impedirgli di attuare la sua politica di riscatto per l’Africa, basata sulla sovranità economica del continente nero.
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Carpeoro: ma il “no” agli sbarchi è come gli 80 euro di Renzi
Portare a casa un risultato subito, quale che sia: che differenza c’è tra il blocco delle navi delle Ong imposto da Salvini e la mancia degli 80 euro concessi da Renzi? Se lo domanda Gianfranco Carpeoro, convinto che alla fermezza di Salvini – pur legittima, e contestata in modo strumentale dal mainstream – non corrisponda una visione strategica, un impegno almeno decennale: «Succede sempre, quando sparisce l’ideologia: se togli la parte progettuale, la politica si riduce a pura gestione elettoralistica, preoccupata solo dell’oggi». E’ una conseguenza sistemica, dice Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: da mezzo utile e neutro, il denaro è diventato un fine. «Dal liberalismo (massonico e anche progressista) siamo passati al neoliberismo più reazionario, e i risultati sono questi»: la gente si aspetta “tutto e subito”, e la politica la accontenta con misure-spot destinate a non cambiare niente, dagli 80 euro al divieto per gli sbarchi. «So benissimo che l’immigrazione mediterranea è pilotata, ma so anche che il blocco delle navi non risolve il problema, che va affrontato alla partenza», sostiene Carpeoro, che – insieme a Paolo Mosca, altro esponente del Movimento Roosevelt – propone la creazione di un’agenzia europea per filtrare i migranti in modo intelligente sulla sponda sud del Mediterraneo.Carpeoro ricorda che fu Bettino Craxi, nel lontano 1990, a fotografare col necessario tempismo un problema che, nei decenni seguenti, sarebbe diventato assillante. In sede Onu, il leader del Psi fece una proposta forte e chiara: cancellare il debito dei paesi poveri e promuovere ingenti investimenti europei per creare lavoro direttamente nel Terzo Mondo, attraverso una cooperazione progettata per produrre sviluppo e benessere diffuso. Un discorso che oggi apparirebbe lunare: Craxi propose all’Occidente di investire qualcosa come il 10% del suo Pil, con l’obiettivo strategico di annullare l’abnorme diseguaglianza tra nord e sud del mondo entro il 2020. Oggi in Europa ci si azzanna per decimali di Pil, e un paese come la Francia – che più di altri ha “rapinato” l’Africa, scatenando il grande esodo cui stiamo assistendo – prova a contrastare l’Italia fingendo di apprezzare la moderazione del premier Giuseppe Conte solo per tentare di dividere il governo gialloverde, allontanando il 5 Stelle dalla Lega di Salvini, vero protagonista dell’esordio del nuovo esecutivo “populista”. Facile profeta, Carpeoro? Con largo anticipo, ha formulato un doppio pronostico preoccupante: il rischio che il governo cada, e il pericolo di attentati terroristici in Italia, paese finora risparmiato dalla “sovragestione” e protetto da servizi segreti particolarmente efficienti.Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzione, 2016), Carpeoro svela l’identità atlantica del terrorismo in apparenza islamico, targato Isis, che ha martoriato l’Europa. Già a capo della più antica comunione massonica italiana di rito scozzese – da lui stesso poi disciolta, in polemica con il degrado della massoneria italiana – Carpeoro punta il dito contro una sorta di strategia della tensione a livello internazionale, orchestrata da un’élite supermassonica neo-conservatrice, in grado di pilotare (in modo criminale) interi settori dell’intelligence, fino a rendere sistematico lo stragismo. Allarme rosso in Italia, se il nuovo governo vorrà “smontare” gli attuali vertici della struttura deputata alla sicurezza, a maggior ragione dopo l’inquietante insulto (“vomitevole”) riservato alla politica italiana dal partito di Macron, uomo Rothschild, vicinissimo alla pericolosa oligarchia “nera” che, per imporre il rigore finanziario contestato dal “populismo”, non ha esistato a imboccare la strada dell’auto-terrorismo, che in Francia ha portato a leggi speciali, dopo l’insabbiamento dell’inchiesta sulla mattanza di Chalie Hebdo, “seppellita” dal segreto di Stato per oscurare imbarazzanti collegamenti tra i servizi segreti e il commando terrorista.L’Italia è in pericolo perché è politicamente fragile, insiste Carpeoro: è vero, Salvini ha costretto l’Ue ad ammettere che il nostro paese è solo, di fronte alla marea africana. Ma il “nemico” è potente, e la politica di Salvini non basta: le navi delle Ong continueranno a imbarcare profughi smistati dalla mafia dei negrieri, se un’altra Europa – certo non questa – non comincerà a investire, davvero, sul futuro di masse a cui l’élite industriale e finanziaria ha portato via tutto, in nome del neoliberismo più cieco che oggi ci condanna all’inferno alla crisi. E’ l’autolesionismo del gangster: anziché creare condizioni accettabili per tutti, le aziende hanno rincorso il lavoro schiavistico a costo zero, da noi tagliando i salari e nel Terzo Mondo provocando un esodo che non ha eguali nella storia. Non se ne esce bloccando qualche nave, finanziata da Soros e protetta dall’ipocrisia assistenziale di un sistema marcio, che si rifiuta di denunciare le cause del dramma e impone alla sola Italia di sostenere i costi dell’accoglienza marittima, negando al nostro paese la necessaria flessibilità nei conti pubblici. E’ l’ennesimo capolavoro di quest’Europa-fantasma, dominata dalle stesse élite neo-feudali che hanno esiliato un politico come Craxi, dopo aver assassinato in Svezia il leader socialista Olof Palme e in Burkina Faso il presidente Thomas Sankara, leader del riscatto sovranista dell’Africa. Nomi che a pochissimi, oggi, dicono qualcosa.Portare a casa un risultato subito, quale che sia: che differenza c’è tra il blocco delle navi delle Ong imposto da Salvini e la mancia degli 80 euro concessi da Renzi? Se lo domanda Gianfranco Carpeoro, convinto che alla fermezza di Salvini – pur legittima, e contestata in modo strumentale dal mainstream – non corrisponda una visione strategica, un impegno almeno decennale: «Succede sempre, quando sparisce l’ideologia: se togli la parte progettuale, la politica si riduce a pura gestione elettoralistica, preoccupata solo dell’oggi». E’ una conseguenza sistemica, dice Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: da mezzo utile e neutro, il denaro è diventato un fine. «Dal liberalismo (massonico e anche progressista) siamo passati al neoliberismo più reazionario, e i risultati sono questi»: la gente si aspetta “tutto e subito”, e la politica la accontenta con misure-spot destinate a non cambiare niente, dagli 80 euro al divieto per gli sbarchi. «So benissimo che l’immigrazione mediterranea è pilotata, ma so anche che il blocco delle navi non risolve il problema, che va affrontato alla partenza», sostiene Carpeoro, che – insieme a Paolo Mosca, altro esponente del Movimento Roosevelt – propone la creazione di un’agenzia europea per filtrare i migranti in modo intelligente sulla sponda sud del Mediterraneo.
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Arrangiatevi: così la scuola neoliberista tradisce i ragazzi
Come trasformare un bambino in un “asset”: un individuo solo al mondo, in lotta contro tutti. E’ l’orrore del neoliberismo, sintetizzato da Margaret Thatcher nel 1980: «L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima». Si comincia presto, dai banchi di scuola: e il risultato è ormai sotto i nostri occhi, avverte Patrizia Scanu, dirigente del Movimento Roosevelt ed esperta del mondo scolastico. Nata in circoli accademici ristretti, «lautamente foraggiati per contrastare il mainstream economico keynesiano», la teoria economica neoliberista finisce con il diventare in pochi anni, fra gli anni ‘70 e ‘80, la visione dominante dell’economia, grazie agli economisti della Scuola di Chicago come Milton Friedman e Friederich von Heyek. Applicazioni immediate: il Cile di Augusto Pinochet, la Gran Bretagna della “Strega del Nord”, gli Usa di Reagan. Il neoliberismo? «Fondato su una visione assiomatica (ovvero indimostrabile) del mondo». Un mondo economico “ideale”, come «una realtà perfettamente ordinata e regolata da leggi “naturali”, al di fuori di ogni intervento regolatore dello Stato». Homo homini lupus: estremizzando la teoria della “mano invisibile” di Adam Smith, il neoliberismo «postula la spontanea diffusione della ricchezza e del benessere come conseguenza “naturale” dell’assenza di ogni vincolo economico, giuridico, ambientale, politico e sociale all’egoistico perseguimento del profitto».Si tratta di un dogma che non ammette smentite, scrive Patrizia Scanu sul blog del Movimento Roosevelt: l’idea della capacità dei mercati di autoregolarsi viene assunta come principale e indiscutibile legge dell’economia. Pura teologia: «Qualunque fatto che la contraddica – la disoccupazione, l’aumento dell’inflazione, l’arresto della crescita – viene attribuito esclusivamente all’insufficiente libertà del mercato». Per autoconvalida, quindi, «la ricetta è sempre “meno Stato, più mercato” (salvo quando, in modo contraddittorio, si chiede che lo Stato intervenga ad attuare politiche pro-cicliche di austerity o a proteggere il mercato interno dalla concorrenza estera, per esempio)». In questo senso, la teoria accademica – una volta nelle mani dei politici e dei potentati economici internazionali – diventa una ideologia totale, cioè «una produzione intellettuale sostanzialmente falsa e inautentica». Mira a dare ordine alla società e ad orientarne l’evoluzione storica, «che è incorreggibile e pretende di essere universale e globale». In altre parole, il neoliberismo vorrebbe «dire tutto l’essenziale sull’uomo, sotto qualunque cielo e in qualunque circostanza».In economia, continua Patrizia Scanu, le ricette neoliberiste sono principalmente tre: deregulation (ovvero assenza di regole che limitino l’acquisizione di profitti e la circolazione dei capitali), privatizzazioni (sulla base dell’assioma che il privato è più efficiente del pubblico) e riduzione della spesa sociale, per evitare “l’inquinamento” dello Stato nel mondo “perfetto” dei mercati. Una visione «discutibile e astratta dell’economia, strumentale allo spostamento di ricchezza dai poveri ai ricchi». Una concezione che è anche «responsabile dell’aggravarsi della diseguaglianza, della miseria e della disperazione, laddove essa è stata applicata in modo inflessibile (come spiega molto bene il premio Nobel Joseph Stiglitz nel saggio “La globalizzazione e i suoi oppositori”)». Nella realtà storica del processo di globalizzazione, a questa deformazione si accompagna anche e soprattutto «una visione distorta dell’uomo e della vita». Si tratta di «una vera e propria perversione antropologica, che si insinua nelle coscienze, nelle famiglie, nelle comunità e che distrugge in profondità la spontanea propensione umana alla cooperazione, all’altruismo e all’empatia». Infatti, «in questa visione esiste solo il singolo, che persegue avidamente e in modo aggressivo il suo utile egoistico; la vita è una lotta per la sopravvivenza nella quale emerge chi vince nell’incessante competizione per l’accaparramento di beni finiti».L’altro essere umano non è che «una minaccia costante al proprio benessere». Conseguenza: «Il valore di ogni relazione ed esperienza umana si misura con il denaro ed è quantificabile in termini economici». Peggio: «Non esistono limiti etici al diritto di trarre profitto dalle proprie attività, visto che per sgocciolamento (“trickle down”) la ricchezza accumulata dai vincenti porterà comunque benessere a tutti». Lo Stato che spende per i servizi sociali? «E’ vizioso, e il debito pubblico è una sorta di peccato originale che richiede un’espiazione collettiva». I mercati? «Sono l’unico Dio a cui essere sottomessi, senza remissione». Una degradazione infernale della dimensione umana: «La propria felicità si persegue a danno della felicità altrui: mors tua, vita mea, in un eterno gioco a somma zero, in cui la miseria e la sofferenza prodotte sono un male necessario per consentire la crescita indefinita, unico fine dell’attività economica». Una deriva ideologica, ben riassunta dalla famigerata Thatcher: «Non esiste una cosa chiamata società, ci sono solo individui e famiglie». Tradotto: le idee di vita associata, di solidarietà sociale e di beni comuni e inalienabili sono estranee a questa visione del mondo. «Tutto è quantificabile, alienabile e privatizzabile; tutto è subordinato al perseguimento dell’interesse privato e lo Stato non ha alcun ruolo nel mediare fra interessi contrapposti, anche quando i costi umani sono altissimi».Più che nella sommaria tecnicalità economistica, il neoliberismo si esprime – in termini di devastazione sociale – attraverso il modello umano che sottende, e che guida l’azione politica. «Stiamo parlando cioè di un fenomeno di egemonia culturale, nel senso descritto da Antonio Gramsci, ovvero di un pensiero che diventa dominante in un momento storico e consente ai gruppi al potere di esercitare una forma di controllo sulle persone, grazie al fatto che esso viene assunto nelle pratiche sociali, diffuso costantemente e interiorizzato». Questo pensiero egemonico, aggiunge Patrizia Scanu, di fatto «sostituisce una visione del mondo ad un’altra e colonizza le menti, rendendo difficile uscire dal “frame”, dallo schema interpretativo imposto». Per averne un saggio, basti leggere una riflessione di Gary Becker, l’allievo di Friedman che coniò l’espressione “capitale umano”. Testualmente: «Per la maggior parte dei genitori, i figli sono una fonte di reddito psicologico, o di soddisfazione. Pertanto, nella terminologia economica, essi si possono considerare un bene di consumo», scrive Becker. «I figli possono anche fornire reddito, ed in qualche caso sono anche un bene produttivo». Ancora: «Questa caratteristica fa dei figli un bene durevole, sia produttivo che di consumo».«Può sembrare eccessivo, artificiale, forse anche immorale classificare i figli alla stregua di automobili, case o macchinari», ammette Becker, ma aggiunge: le soddisfazioni garantite dai figli sono paragonabili a quelle di altri “beni durevoli”. I figli visti come beni di consumo o, peggio ancora, come bene produttivo? «Rappresentano adeguatamente il livello di stravolgimento assiologico di questo discorso», sottolinea Patrizia Scanu: «Invece di essere funzionale alla vita, l’economia la fagocita e ne inscatola con cinica indifferenza l’infinita ricchezza in una serie di anonimi contenitori tutti uguali e misurabili, che si chiamano “beni di consumo” o “beni produttivi”». Attenzione: «In questo delirio di onnipotenza, i legami familiari, i sentimenti, le aspirazioni, i destini di individui e popoli diventano la variabile dipendente delle leggi “naturali” del mercato, concepite come fisse e immodificabili, come un Fato di fronte al quale si può solo chinare la testa, con pia rassegnazione». E il guaio è che «non ci rendiamo sempre conto di quanto abbiamo finito per considerare normale questa maligna distorsione della realtà “sub specie oeconomica”, che rende pensabile l’impensabile, attraverso l’apparente neutralità del linguaggio scientifico».E’ vero: «Finiamo con l’abituarci al fatto che in molte aree del mondo esistano bambini-schiavi, bambini-soldato, bambini-oggetto sessuale (che sono senz’altro “beni produttivi”) o al fatto che le famiglie possano essere disgregate senza riserve, perché prima vengono le esigenze produttive, quando i genitori devono accettare un posto di lavoro sempre più precario in luoghi diversi e lontani fra loro, quando devono lavorare oltre l’orario per non perdere il posto, quando l’azienda delocalizza l’attività». Oppure, ci diventa familiare «il fatto che i bambini, sempre più soli, vengano tenuti buoni lasciandoli incollati molte ore al giorno ai loro costosi schermi digitali, che li rendono dipendenti e rubano loro esperienze ben più vitali». O ancora, «riusciamo a trovare accettabili le ricette neoliberiste per la scuola, espresse in una “neolingua” economica dalla quale vengono espulsi la vita, la bellezza, la conoscenza, la relazione profonda e la crescita umana». E’ diventato tragicamente normale parlare di “dirigenti” scolastici (come in azienda) anziché di presidi, di “debiti e crediti” formativi, di “offerta” formativa, di “successo” formativo, di “piani e pianificazione”, di “innovazione e imprenditorialità”, di “competenze” intese non nel senso etimologico di un sapere a cui si aspira condividendo esperienza, ma come strumenti per competere alla pari sul mercato, da “certificare” (altra parola della “neolingua”) e da misurare con “test” oggettivi e standardizzati.Patrizia Scanu ricorda il “Portfolio delle competenze” della ministra Moratti, «fulgido esempio di lessico aziendalista». La Buona Scuola di Renzi? «E’ un concentrato di ideologia neoliberista, in cui tutto è finalizzato a trasformare la scuola in un’azienda, i docenti in passivi impiegati privi di autonomia professionale e costantemente sotto ricatto economico e psicologico, gli studenti in docili schiavi da addestrare per le esigenze del mondo del lavoro, ma privi di creatività e di senso critico». E’ una dimensione in cui il tempo-scuola – sempre più ridotto dal 2008 in poi, fino alla trovata dei licei quadriennali – è un tempo «infarcito di attività accattivanti, ma prive di sostanza culturale, come il Clil (ovvero l’insegnamento di una materia in lingua straniera con didattica smart) o la didattica multimediale». Ormai il mondo del lavoro «entra di prepotenza nella didattica, diventandone lo scopo». E arriva, con il nuovo esame di Stato, «a valutare l’alunno, al posto del docente, per una parte cospicua del voto finale». E gli enti certificatori esterni, come l’Invalsi (che entrerà anch’esso nella valutazione finale dello studente) sottraggono una bella fetta di autonomia didattica al docente, «costringendolo all’aberrazione del “teaching to test”, cioè a sacrificare ulteriormente la filosofia, la matematica, la storia o la letteratura alla preparazione al test standardizzato».La verità, sintetizza Patrizia Scanu, è che «nell’orizzonte ideologico neoliberista non esistono né l’uomo né il cittadino, ma solo il lavoratore e il consumatore». E la standardizzazione «livella ogni differenza di personalità e di profili attitudinali individuali». Da quest’anno, poi, nella valutazione finale in uscita dalla scuola primaria (a 10 anni!) entra una qualità comportamentale che si chiama “Spirito di iniziativa ed imprenditorialità”, «tanto per chiarire subito qual è il fine». Obiettivamente, un bambino che cresce “intossicato” da questa visione del mondo «è pronto ad accettare qualunque lesione ai propri diritti, a considerare normale l’egoismo e naturale competere con gli altri, a dare per scontata la “durezza del vivere” che è il prezzo della crescita». Ed è pronto a considerare il lavoro una specie di condanna, «anziché la propria emancipazione personale e civile come scopo dello studio». Il bambino si abitua a non fare mai domande, «poiché tutto è già pianificato, predisposto e certificato: ogni conoscenza è misurabile e quantificabile, e ciò che esula dalla misura standardizzata (il pensiero critico, il gusto estetico, la creatività) non ha più posto nella sua formazione e nel suo portfolio delle competenze».In questo modello di scuola, aggiunge Patrizia Scanu, scompare anche l’autonomia didattica del docente, «compressa dalla pressione ministeriale a conformarsi ai metodi via via imposti dall’alto come innovativi», fino all’alternanza scuola-lavoro (che sottrae tempo alla didattica) e all’influenza dei datori di lavoro che valutano gli studenti. Ci sono i vincoli dell’Invalsi, la valutazione meritocratica (economicistica), i risultati quantificabili con il “successo formativo” degli allievi. E ancora: l’ingerenza dei privati nel finanziamento e nella gestione degli istituti. Secondo il piano renziano, «le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola». Per questo intervengono le risorse private, che «possono contribuire a trasformare la scuola in un vero investimento collettivo». La scuola è una frontiera mobile, si legge nel documento: «Se pensiamo alle sfide della competizione globale, al dinamismo di una società sempre più multiculturale, alla rapidità del cambiamento tecnologico, capiamo subito le esigenze di una continua sperimentazione educativa. Vale per la scuola quanto è ormai ovvio per moltissimi altri ambiti, a partire dalla ricerca: sommare risorse pubbliche a interventi dei privati è l’unico modo per tornare a competere».Via libera ai fondi privati, visto che lo Stato chiude i rubinetti: ben vengano fondazioni e altri enti per la gestione di risorse provenienti dall’esterno, privi di “appesantimenti burocratici”. Tanto per essere chiari, osserva Patrizia Scanu: la scuola deve attrezzarsi alla competizione globale «data come indiscutibile», dev’essere in continua sperimentazione «come se fosse sempre in funzione di esigenze esterne a sé e priva di riferimenti culturali», deve accogliere senza controllo finanziamenti privati «con le relative pressioni esterne», e deve diventare “un investimento collettivo”, trasformandosi in una fondazione. «Ma i soggetti di questo “noi” non sono precisati e sono facilmente individuabili nei capitali privati. Eccolo lì, il punto-chiave, quello su cui pochissimo si è detto ai cittadini: la scuola-fondazione non è la scuola pubblica della Costituzione: non forma uomini e cittadini, ma lavoratori già pronti a entrare velocemente e senza diritti nel mondo del lavoro». Quella scuola, scrive Patrizia Scanu, «non colma le disuguaglianze sociali, ma le accentua, rendendole territoriali». Peggio: «Non rilascia titoli con valore legale, ma certificazioni di competenze, abbandonando i singoli alla leggi spietate del mercato. E non educa, ma si limita ad istruire secondo la volontà di chi la finanzia».Siamo all’applicazione scolastica dell’ingegneria sociale promossa dagli “stregoni” della Scuola di Chicago: «Ritroviamo qui per intero il Verbo neoliberista: deregolamentare, privatizzare e tagliare servizi pubblici con la scusa del debito pubblico e della carenza di fondi, unica realtà immodificabile». La stessa autonomia scolastica, nata per superare il centralismo burocratico della scuola statale, attraverso questa pericolosa “mutazione genetica” diventa «la solitudine darwiniana della scuola, che deve mantenersi a galla nella lotta per la sopravvivenza escogitando sempre nuovi modi per attrarre finanziamenti, perdendo ogni reale autonomia e diventando, nella sostanza, privata». Questo, conclude Patrizia Scanu, è un crimine politico: «E’ un tradimento del compito educativo della scuola ed è un violento assalto ai valori sui quali si fonda la scuola della Costituzione». Una deriva in apparenza inarrestabile, alla quale – oggi più che mai – è necessario opporre contromisure strategiche.Come trasformare un bambino in un “asset”: un individuo solo al mondo, in lotta contro tutti. E’ l’orrore del neoliberismo, sintetizzato da Margaret Thatcher nel 1980: «L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima». Si comincia presto, dai banchi di scuola: e il risultato è ormai sotto i nostri occhi, avverte Patrizia Scanu, dirigente del Movimento Roosevelt ed esperta del mondo scolastico. Nata in circoli accademici ristretti, «lautamente foraggiati per contrastare il mainstream economico keynesiano», la teoria economica neoliberista finisce con il diventare in pochi anni, fra gli anni ‘70 e ‘80, la visione dominante dell’economia, grazie agli economisti della Scuola di Chicago come Milton Friedman e Friederich von Heyek. Applicazioni immediate: il Cile di Augusto Pinochet, la Gran Bretagna della “Strega del Nord”, gli Usa di Reagan. Il neoliberismo? «Fondato su una visione assiomatica (ovvero indimostrabile) del mondo». Un mondo economico “ideale”, come «una realtà perfettamente ordinata e regolata da leggi “naturali”, al di fuori di ogni intervento regolatore dello Stato». Homo homini lupus: estremizzando la teoria della “mano invisibile” di Adam Smith, il neoliberismo «postula la spontanea diffusione della ricchezza e del benessere come conseguenza “naturale” dell’assenza di ogni vincolo economico, giuridico, ambientale, politico e sociale all’egoistico perseguimento del profitto».
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Il Papa con le Sette Sorelle. E manda Parolin al Bilderberg
Papa Francesco spedisce a Torino alla riunione del Bilderberg il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato del Vaticano, mentre – negli stessi giorni, il 6-7giugno – promuove a Roma un inedito summit con le Sette Sorelle e alcuni super-boss della finanza globale, come Larry Fink del fondo BlackRock. Maurizio Blondet lo definisce «improvviso interesse della centrali globaliste per l’Italia». La notizia: rispondono all’appello del pontefice i capi supremi delle multinazionali del greggio, insieme alle loro finanziarie ausiliarie transnazionali. L’incontro è ovviamente a porte chiuse, come quello quello del Bilderberg, al quale sono invitati Lilli Gruber, Lucio Caracciolo di “Limes” e l’economista Alberto Alesina di Harvard, insieme ad Elena Cattaneo dell’ateneo milanese, Vittorio Colao di Vodafone, Mariana Mazzuccato dell’University College di Londra e il solito John Elkann. Ma l’incontro tra Francesco e i petrolieri? Come mai il Papa delle periferie e dell’accoglienza verso i migranti «si riunisce in privato coi più potenti capitalisti e miliardari globalisti, ossia attivi promotori delle feroci iniquità del capitalismo terminale? “Chiedetelo a loro”, vien voglia di dire, parafrasando lo slogan dell’8 per Mille», scrive Blondet sul suo blog, interpreando come un pretesto il tema dichiarato del vertice: l’emergenza climatica, dopo il ritiro di Trump dagli accordi sulle emissioni climalteranti.All’incontro promosso da Bergoglio ci sarà Fink, cioè il capo del più grande fondo d’investimento del pianeta: un patrimonio gestito di 6,3 trilioni di dollari, conferma il “Corriere della Sera”, pari al Pil di Francia e Spagna messe insieme, quasi tre volte il nostro debito pubblico. La “roccia nera” deve la sua fortuna alla gestione patrimoniale: fondi pensione, banche, Stati. E’ anche il primo investitore straniero in Europa (e in Italia), azionista di peso in Deutsche Bank, Intesa SanPaolo, Bnp e Ing, senza contare altri settori chiave come energia, chimica, trasporti, agroalimentare, aeronautica e immobiliare. Il mega-fondo, scrive il “Fatto Quotidiano”, ha messo gli occhi sul business dei sistemi pensionistici europei non ancora privatizzati: «Spinge la Commissione Ue a varare un piano di previdenza privata, poi gestisce il primo progetto pilota». Notare: BlackRock ha immediatamente dato un giudizio “negativo” sul nuovo governo italiano, provocando l’impennata dello spread favorita dalla Bce e poi subito frenata da Jp Morgan e Citigroup, colossi finanziari ritenuti più vicini a Trump, che ha schierato in Italia il fido Steve Bannon per aiutare Conte (e Savona) a superare lo “scoglio” Mattarella.Gli altri invitati da Bergoglio nel “privato conciliabolo”, aggiunge Blondet, sono Bob Dudley, numero uno della British Petroleum (fatturato, 240 miliardi di dollari) nonché Darren Woods di Exxon Mobil. «Incidentalmente, sono le due compagnie più inquinatrici della storia», scrive Blondet, avendo la Bp accettato di pagare 1,8miliardi di dollari per uno sversamento-monstre nel Golfo del Messico nel 2010, che ha distrutto l’attività della pesca in quel vasto tratto. «E della Exxon si ricorda il disastro della superpetroliera Exxon Valdez, 1989, che ha inquinato il mare dell’Alaska». Ma non è tutto: “El Papa” voleva riunirsi anche con Ben Van Beurden della Royal Dutch Shell” (che ha declinato), mentre ci sarà Eldar Sætre di Equinor, la petrolifera privatizzata parzialmente posseduta dal governo norvegese, e con lui lord John Browne, oggi presidente esecutivo della petrolifera L1 Energy. «E non mancherà – come poteva? – Ernest Moniz, già segretario all’energia sotto l’allora presidente Obama». Secondo Blondet, notoriamente critico verso Papa Francesco, la presenza di Moniz è la conferma del fatto che Bergoglio «è uno strumento volontario e attivista (un “asset”, dicono alla Cia) della multiforme strategia dell’asse Clinton-Obama».Secondo Blondet, Papa Francesco – in accordo con clintoniani e obamiani – vorrebbe «depurare la Chiesa degli aspetti sacramentali e soprannaturalistici che ne impediscono la “fusione-acquisizione” col protestantesimo». Una fusione che produrrebbe «un “cristianesimo generico” funzionale all’ideologia globalista: umanitaria (nel senso degli “interventi umanitari”), moralistica (no alla “corruzione dei politici” – Mani Pulite nel Mondo, come propone il cardinal Maradiaga, braccio destro di Francesco), climatica e ambientalista». In altre parole, sempre secondo Blondet, la Chiesa verrebbe trasformata in una sorta di «super-Ong “umanitaria” dedita alla salvezza del pianeta e protettrice delle immigrazioni di massa pianificate, contro la sovranità di ogni Stato». Dalle scarne notizie filtrate, aggiunge Blondet, si apprende che a Roma i petrolieri non parleranno con Francesco solo di clima, ma anche di investimenti: «Il Papa, BlackRock e le grandi compagnie petrolifere si stanno sempre più concentrando sul cambiamento climatico», recita un comunicato ufficiale, «in quanto fonti di energia più pulite sono diventate più competitive, e la pressione del pubblico su questa tema sta crescendo».Capito? Il primo fondo d’investimento del mondo – scrive Blondet – è pronto a saltare sulle energie alternative insieme alle Sette Sorelle, perché stanno diventando “competitive” sul piano economico, attraenti per i capitali liquidi americani. Questo richiede investimenti enormi di riconversione delle mega-infrastrutture, e un cambio di paradigma fra le popolazioni, «ossia una grande operazione di psico-propaganda che bolli l’uso del petrolio come immorale verso il pianeta». Dunque, dice ancora Blondet, gli investitori «devono assicurarsi che l’autorità morale per eccellenza faccia parte del piano, collabori con le Finestre di Overton che lorsignori apriranno, e cominci a predicare per le energie “pulite” (o sedicenti tali) e anatemizzare le “inquinanti” (o cosiddette: si veda l’improvvisa campagna occidentale conto il motore diesel)». A Francesco – chiosa Blondet, sacrastico – sarà richiesto di aggiungere alla lista dei Dieci Comandamenti anche il “peccato capitale” dell’uso di energie su cui gli investitori “amici” avranno smesso di investire?A organizzare gli incontri è stata l’università di Notre Dame dell’Indiana, la cui “business school” sta promuovendo una “climate investing iniziative”, che Blondet definisce «una iniziativa di investimento sul terrorismo climatico». Il direttore della business school, Leo Burke, non ha voluto commentare la riunione papale di cui pare essere stato il manovratore: con un’email, ha ricordato a Blondet che ogni incontro sull’energia che implica il Vaticano sarà un dialogo privato con gli invitati. «Esattamente la risposta che dà, da sempre, l’ufficio stampa del Bilderberg». Un portavoce Exxon ha invece risposto: la compagnia «spera che questo tipo di dialogo svilupperà soluzioni per la doppia sfida: gestire il rischio del cambiamento climatico e contemporaneamente soddisfare la domanda crescente di energia, che è essenziale per alleviare la povertà e migliorare gli standard di vita nel mondo in via di sviluppo». Ancora Blondet, ironico: «A tutti è nota l’ansia di Exxon per alleviare la povertà nel Terzo Mondo».Papa Francesco spedisce a Torino alla riunione del Bilderberg il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato del Vaticano, mentre – negli stessi giorni, il 6-7 giugno – promuove a Roma un inedito summit con le Sette Sorelle e alcuni super-boss della finanza globale, come Larry Fink del fondo BlackRock. Maurizio Blondet lo definisce «improvviso interesse della centrali globaliste per l’Italia». La notizia: rispondono all’appello del pontefice i capi supremi delle multinazionali del greggio, insieme alle loro finanziarie ausiliarie transnazionali. L’incontro è ovviamente a porte chiuse, come quello quello del Bilderberg, al quale sono invitati Lilli Gruber, Lucio Caracciolo di “Limes” e l’economista Alberto Alesina di Harvard, insieme ad Elena Cattaneo dell’ateneo milanese, Vittorio Colao di Vodafone, Mariana Mazzuccato dell’University College di Londra e il solito John Elkann. Ma l’incontro tra Francesco e i petrolieri? Come mai il Papa delle periferie e dell’accoglienza verso i migranti «si riunisce in privato coi più potenti capitalisti e miliardari globalisti, ossia attivi promotori delle feroci iniquità del capitalismo terminale? “Chiedetelo a loro”, vien voglia di dire, parafrasando lo slogan dell’8 per Mille», scrive Blondet sul suo blog, interpretando come un pretesto il tema dichiarato del vertice: l’emergenza climatica, dopo il ritiro di Trump dagli accordi sulle emissioni climalteranti.
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Sapelli: patriottismo laburista anti-Merkel, con l’aiuto Usa
«E’ bene dire sin da subito che l’unica speranza di sopravvivenza che questo governo possiede è quella di impugnare sin dall’inizio la bandiera di ciò che potremmo chiamare un “patriottismo laburista”». Parola di Giulio Sapelli, autorevole economista di formazione keynesiana. L’idea? Adottare la “mossa del cavallo” per agire sui due fronti, interno e internazionale, «provocando quella dissonanza cognitiva che ti fa vincere ogni partita di scacchi e quindi anche ogni battaglia politica». Per Sapelli, che affida la sua analisi al “Sussidiario”, il nuovo governo «sin da subito deve iniziare la negoziazione dei trattati europei». La Francia, del resto, si è già fatta avanti con la telefonata di Macron a Conte. «Una mossa anti-tedesca», anche se non bisogna farsi illusioni, dato che Parigi «ha mire annessionistiche sull’Italia in campo economico, come dimostra la storia recente e recentissima». Ma il governo Conte, sostiene Sapelli, ha un alleato prezioso contro l’austerity teutonica dell’ordoliberalismo: «Gli Usa prima di tutto, non lo si dimentichi mai. L’Alleanza atlantica è l’architrave della politica italiana e deve rimanerlo, agendo con intelligenza, come sempre storicamente si è fatto».Sapelli spera che – facendo leva sull’alleato americano, l’Italia possa comunque conservare «una sorta di limitata autonomia nei rapporti con la Russia al di là delle attuali, transitorie posizioni americane». Questo permetterebbe a Roma di reinterpretare la politica estera italiana già espressa durante la guerra fredda, «anche nei momenti più bui come la Guerra del Vietnam e il conflitto tra Israele e le organizzazioni palestinesi, e come si sta oggi verificando con la posizione degli Usa su Gerusalemme». Tradotto: l’Italia come attore mediterraneo, in grado di attutire i colpi e mediare tra le diverse posizioni. Nonostante le apparenze, osserva Sapelli, il momento potrebbe essere propizio: infatti, «non vi è mai stato un punto di flessione così acuto nelle relazioni tra Usa e Germania» come quello che si sta verificando in questi mesi, «a partire dal “diesel gate” per finire con il confronto sui dazi e e sul commercio estero in corso a livello mondiale». Per l’economista, «l’Italia può e deve dire la sua con due esponenti di spicco come Savona e Moavero Milanesi proprio sui temi che interessano in primo luogo i tedeschi e i francesi». In altre parole, «Roma deve parlare a voce chiara e distinta con la cancelliera Merkel e la figura oggi più importante della politica tedesca: il ministro degli interni Horst Seehofer, capo storico della Csu».La posta in palio è altissima: «Rinegoziare il Fiscal Compact, che non è nei trattati ma nei regolamenti». Per Sapelli «è possibile e si deve farlo subito, iniziando con contatti continui con Germania e Francia». Le ragioni, spiega, sono evidenti: «Nessun punto del programma “socialdemocratico” del governo Conte può reggersi con i vincoli di bilancio eurocratici esistenti, che debbono essere superati per creare crescita». L’elenco è pesante: eliminazione della legge Fornero, reddito di cittadinanza imperniato sull’agenzia del lavoro per far incontrare domanda e offerta e sulla qualificazione dei precari e dei disoccupati con offerte di lavoro non rifiutabili, riformulazione del carico fiscale con Flat Tax per le imprese e mantenimento della progressività dell’imposta sui redditi da lavoro. Sarà una lotta contro il tempo, sfoderando l’arte della mediazione: «La crescita può essere garantita, come ha affermato da sempre Pierluigi Ciocca, solo da una ripresa degli investimenti pubblici e privati, dall’edilizia alle nuove tecnologie. Non bisogna aver paura del progresso tecnico: è solo da esso che verrà l’occupazione sana, fondata sull’aumento dello stock di capitale e sulla ripresa della domanda interna, non dall’helicopter money e da vergognosi sgravi fiscali a pioggia». Inutile, aggiunge Sapelli, confidare solo nell’export, che alla lunga «ci uccide, noi e l’Europa».E’ questo, ribadisce l’economista, l’asse di intervento che ci consentirebbe di sopportare un aumento del debito «come hanno fatto sempre Francia, Germania e Spagna nei momenti di flessione del ciclo, senza preoccupare l’oligopolio finanziario internazionale», il quale peraltro «ha già ha dimostrato di apprezzare positivamente più la stabilità politica dell’austerity, che è ormai vista come un peste anche dalle cuspidi finanziarie che sanno che la deflazione è la morte dei profitti». Così, conclude Sapelli, «si potrà costruire una rete di alleanze per superare il Trattato di Dublino e instaurare una politica dell’accoglienza dei migranti fondata sempre sulla misericordia ma nel contempo sull’assunzione, anzi, la riassunzione da parte dello Stato (e nello Stato) delle politiche di sostenibilità migratoria». E’ questo l’atteggiamento che Sapelli chiama “patriottismo laburista”. Buono e giusto: «Può unire e non dividere le due anime del governo, ferme restando le differenze strutturali nella meccanica dei partiti e dei movimenti».«E’ bene dire sin da subito che l’unica speranza di sopravvivenza che questo governo possiede è quella di impugnare sin dall’inizio la bandiera di ciò che potremmo chiamare un “patriottismo laburista”». Parola di Giulio Sapelli, autorevole economista di formazione keynesiana. L’idea? Adottare la “mossa del cavallo” per agire sui due fronti, interno e internazionale, «provocando quella dissonanza cognitiva che ti fa vincere ogni partita di scacchi e quindi anche ogni battaglia politica». Per Sapelli, che affida la sua analisi al “Sussidiario”, il nuovo governo «sin da subito deve iniziare la negoziazione dei trattati europei». La Francia, del resto, si è già fatta avanti con la telefonata di Macron a Conte. «Una mossa anti-tedesca», anche se non bisogna farsi illusioni, dato che Parigi «ha mire annessionistiche sull’Italia in campo economico, come dimostra la storia recente e recentissima». Ma il governo Conte, sostiene Sapelli, ha un alleato prezioso contro l’austerity teutonica dell’ordoliberalismo: «Gli Usa prima di tutto, non lo si dimentichi mai. L’Alleanza atlantica è l’architrave della politica italiana e deve rimanerlo, agendo con intelligenza, come sempre storicamente si è fatto».
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Massoni, manovre, bugie e omissioni sull’Italia gialloverde
Un presidente della Repubblica che ammette a reti unificate che il paese è ostaggio dei mercati finanziari privati. L’oligarchia euro-tedesca che minaccia apertamente la fine dell’Italia. E l’uomo di Trump che si precipita a Roma per ostacolare i terminali di Berlino e, infine, premere in senso opposto sull’establishment conservatore. Obiettivo: far nascere un governo ibrido e sotto ipoteca, con promesse impossibili da mantenere senza prima scardinare il paradigma teologico europeista del rigore suicida, imposto a mano armata dalla massoneria reazionaria che ha in mano la governance della Germania, della Bce e dell’Unione Europea. L’analista geopolitico Federico Dezzani sottolinea il ruolo di primo piano svolto dall’asse angloamericano nella crisi italiana, evidenziando le mosse di Steve Bannon e dell’ambasciatore statunitense Lewis Eisenberg, che ha incontrato Salvini e Di Maio a fine marzo. Quindi i britannici: «Lo stesso Movimento 5 Stelle è un prodotto più inglese che americano, come dimostrano la lunga carriera di Gianroberto Casaleggio presso il colosso dell’informatica inglese Logica Plc e il doppio passaporto, italiano e britannico, del figlio Davide». Sempre secondo Dezzani, Londra ha giocato un ruolo decisivo nella nascita del governo giallo-verde «attraverso il “protestante” Jorge Mario Bergoglio che, a sua volta, ha schierato l’ancora influente Conferenze Episcopale Italiana».
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Via 250 miliardi di debito: è questo a spaventare l’oligarchia
Ma davvero credete che il problema fosse il professor Paolo Savona? A terrorizzare l’oligarchia Ue, afferma Fabio Conditi, è il “contratto” firmato da Di Maio e Salvini per il “governo del cambiamento”. Trenta punti, «dove per la prima volta si mette completamente in discussione il sistema monetario e bancario attuale e le politiche di austerity che ci propinano da anni». Lo spunto rivoluzionario: la volontà di cancellare 250 miliardi di euro di debito pubblico, cioè i titoli di Stato detenuti dalla Banca d’Italia, al cui governatore – per la prima volta nella storia – il presidente della Repubblica ha “affidato” il presidente del Consiglio incaricato, Giuseppe Conte, “invitato” da Mattarella a conferire con Ignazio Visco, uomo vicinissimo a Mario Draghi e all’euro-sistema dominato dalla Germania. Paolo Savona? Usato come pretesto, per sabotare la pulsione sovranista. «Ma voi pensate davvero che il presidente della Repubblica e i poteri che rappresenta – scrive Conditi su “Come Don Chisciotte” – si siano realmente preoccupati della grande esperienza di questo arzillo professore che nella sua vita, pur avendo vissuto all’interno delle istituzioni, ha manifestato qualche opinione critica verso l’euro senza aver mai denunciato il sistema del debito?».Qualcuno – si domanda Conditi, presidente dell’associazione Moneta Positiva – ha provato a capire che cosa, all’interno di quel programma “gialloverde”, spaventa l’attuale sistema al punto da costringere il presidente della Repubblica a rischiare l’impeachment, facendo cadere sul nascere – con mossa platealmente irrituale, politicamente sconcertante – il primo governo voluto dalla maggioranza degli italiani? Conditi mette in fila una serie di indizi e segnali, sul clima che in Italia starebbe vorticosamente cambiando verso una progressiva presa di coscienza. Parla da solo il successo della trasmissione televisiva del 4 maggio su “Canale Italia”, in cui Conditi – insieme a Nino Galloni, Marco Mori, Giovanni Zibordi, Giovanni Lazzaretti e Paolo Tintori – ha spiegato, in prima serata, “come si creano i soldi”, ovvero «come lo Stato può e deve creare soldi e come il debito pubblico può essere cancellato». Il 23 maggio è Carlo Freccero, nel super-prudente salotto di Lilli Gruber su La7, a gelare la conduttrice e il suo sodale, Massimo Giannini, dichiarando con semplicità «due verità scomode e rivoluzionarie: che il debito può essere cancellato e che uno Stato sovrano non può fallire perchè può sempre stampare soldi». Reazioni: la Gruber preoccupata, Giannini imbarazzato.Poi la mossa inaudita di Mattarella il 27 maggio, il siluramento di Savona. L’indomani, Conditi è tornato negli studi di Canale Italia – con Vito Monaco, Marco Mori, Gianfranco Amato e il cantautore Povia. La sintesi: «Da oggi l’articolo 1 della Costituzione deve essere riscritto. L’Italia è una Repubblica non democratica fondata sulla schiavitù. La sovranità appartiene alla finanza che la esercita nelle forme e nei limiti dei mercati finanziari». La decisione di Mattarella? Inaccettabile. E carica di conseguenze: di fatto, ha esposto il Quirinale a una crisi inaudita. La scusa? Per le sue critiche all’euro, Savona spaventa i mercati finanziari: per questo, secondo Mattarella, sarebbero a rischio i risparmi degli italiani. Per Conditi, il vero motivo del devastante sabotaggio del governo Conte è un altro: «Il programma di governo del M5S e della Lega contiene secondo noi alcuni obiettivi che non sono ritenuti accettabili dal potere economico e finanziario che in Italia ha sempre condizionato le nostre scelte politiche degli ultimi 40 anni». Mattarella? «Non doveva e non poteva esercitare questa sua prerogativa, rifiutando un governo formato da partiti e movimenti regolarmente eletti, che hanno la maggioranza in Parlamento e hanno stipulato un accordo di governo addirittura votato e approvato dai cittadini». Lo stop a Conte imposto il 27 maggio resta «un atto grave e pericoloso per la democrazia».Attenzione, però: «Se sono stati costretti ad una mossa così ingenua come quella di non far nascere un governo che, per la prima volta da anni, è stato regolarmente votato e voluto dalla maggioranza dei cittadini italiani – aggiunge Conditi – significa che il vento del cambiamento sta finalmente spirando nella direzione giusta». Quel famoso “contratto”, «volente o nolente, ha davvero la capacità di incidere e realizzare un cambiamento reale in questo paese a vantaggio di tutti, e non solo dei soliti privilegiati: per questo motivo non lo vogliono». Cosa prevede, infatti? Un provvedimento di inaudita importanza: la cancellazione di 250 miliardi di euro di debito pubblico, titoli di Stato detenuti da Bankitalia. Non solo: c’è anche «la possibilità per lo Stato di stampare Minibot, cioè una moneta di Stato». Ancora: «La creazione di un sistema di banche pubbliche, una per gli investimenti ed un’altra per il credito». Tutto questo, per finziare «politiche economiche espansive al posto delle politiche di austerity». Per esempio: reddito di cittadinanza, pensioni dignitose e abattimento delle tasse. Anche una sola di queste ipotesi – sottolinea Conditi – farebbe «vedere i sorci verdi al potere economico e finanziario che ci ha ridotto in schiavitù». Sicché, «vederle tutte insieme deve aver fatto prendere un coccolone nei piani alti: sono soddisfazioni che non hanno prezzo».Pur tra mostruose difficoltà politiche, ben rappresentate dalla minaccia telecomandata dello spread e dall’inaudito boicottaggio del presidente della Repubblica (il primo nella storia a rifiutare un candidato ministro per motivi ideologico-politici), i 5 Stelle la Lega – secondo Fabio Conditi – hanno comunque «imboccato finalmente la strada giusta». In estrema sintesi: «Il 99% della popolazione più povera deve essere unito per combattere contro quell’1% che ci vuole schiavi del debito e rassegnati alla miseria». E’ un fatto: nonostante le posizioni inizialmente distanti, il “contratto” di governo è stato costruito con fatica e in modo trasparente. Conditi incoraggia grillini e leghisti: «Avete una squadra di governo, avete la maggioranza della popolazione che vi approva, avete contro il potere economico e finanziario mondiale: l’unico errore che potete fare è tornare indietro sui vostri passi». Lo spread? Neutralizzabile con una sola mossa, secondo Conditi: «Basterebbe emettere titoli di Stato a valenza fiscale, cioè utilizzabili alla scadenza anche per pagare le tasse: in questo modo non ci sarebbe più il rischio che lo Stato possa non rimborsarli e quindi sarebbero impossibili le manovre speculative al ribasso di questi giorni. Inoltre queste nuove emissioni sarebbero più “appetibili” per gli investitori perché meno rischiose».Questo per dire che i mercati – quelli veri – non coincidono esattamente con i ristretti gruppi del potere oligarchico europeo che manovrano lo spread come una clava. Al menù del riscatto, Conditi aggiunge anche il Sire, sistema di riduzione erariale. «Serve assolutamente un sistema di pagamenti alternativo a quello del sistema bancario italiano, dove circoli uno strumento monetario a valenza fiscale che non possa essere “bloccato” dalla Bce e dalla Commissione Europea». Esiste un modo, quindi, per respingere il rigore (che è interamente politico) senza neppure violare i trattati-capestro su cui si fonda il sistema Ue. Con il Sire, dice Conditi, «si possono tranquillamente finanziare – senza fare debito – sia il reddito di cittadinanza che soprattutto la Flat Tax. In pratica come succede alla Coop, paghi le tasse normali, ma te ne restituisco una parte in buoni-sconto per le tasse future». E vogliamo parlare della banca centrale italiana, presso cui Mattarella ha “spedito” il povero Conte? «E’ necessario che lo Stato riprenda il controllo totale di Bankitalia – chiosa Conditi – riacquistando le quote di partecipazione attualmente in mano alle istituzioni e banche private». Per il resto, avanti tutta: euro o non euro, si tratta di riconquistare la sovranità della moneta: «Sarà comunque di proprietà dei cittadini e libera dal debito».Ma davvero credete che il problema fosse il professor Paolo Savona? A terrorizzare l’oligarchia parassitaria Ue, afferma Fabio Conditi, è il “contratto” firmato da Di Maio e Salvini per il “governo del cambiamento”. Trenta punti, «dove per la prima volta si mette completamente in discussione il sistema monetario e bancario attuale e le politiche di austerity che ci propinano da anni». Lo spunto rivoluzionario: la volontà di cancellare 250 miliardi di euro di debito pubblico, facendoli acquistare dalla Banca d’Italia, al cui governatore – per la prima volta nella storia – il presidente della Repubblica ha “affidato” il presidente del Consiglio incaricato, Giuseppe Conte, “invitato” da Mattarella a conferire con Ignazio Visco, uomo vicinissimo a Mario Draghi e all’euro-sistema dominato dalla Germania. Paolo Savona? Usato come pretesto, per sabotare la pulsione sovranista. «Ma voi pensate davvero che il presidente della Repubblica e i poteri che rappresenta – scrive Conditi su “Come Don Chisciotte” – si siano realmente preoccupati della grande esperienza di questo arzillo professore che nella sua vita, pur avendo vissuto all’interno delle istituzioni, ha manifestato qualche opinione critica verso l’euro senza aver mai denunciato il sistema del debito?».