Archivio del Tag ‘Iraq’
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La povertà è il più grosso business inventato dai ricchi
La pubblicazione dei dati Eurostat sull’aumento della povertà e del rischio-povertà in Europa ha suscitato sui media il solito dibattito, viziato in partenza dal rappresentare l’impoverimento come un “problema”, come un effetto indesiderato delle politiche di rigore. «In realtà il bombardamento sociale del rigore finanziario non è sostanzialmente diverso dai bombardamenti militari, nei quali l’obbiettivo dichiarato è un pretesto non soltanto per il consumismo delle bombe (tanto paga il contribuente), ma anche per fare il maggior numero possibile di “danni collaterali”, cioè di vittime civili». Lo scriveva “Comidad” nel 2012, ma sembra scritto oggi. «Anche il rigore è un business, e il “danno collaterale” della maggiore povertà apre a sua volta nuove frontiere al business». In questi anni, aggiunge il blog, è risultato sempre più evidente il nesso consequenziale tra l’aumento della povertà e la finanziarizzazione dei rapporti sociali: «La povertà diventa un business finanziario, costringendo i poveri all’indebitamento crescente». Lo confermano annunci come quello del governo tedesco, che si vantà di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo. Ma la Germania «ha potuto finanziare il suo debito pubblico a tasso zero, poiché, contestualmente, sono stati i paesi del Sud dell’Europa non solo a pagare tassi di interesse più alti, ma anche a indebitarsi maggiormente».Dopo il funesto 2011, in cui il mainstream ha ripetuto in modo martellante il “mantra del debito”, visto come problema e colpa sociale, «si è poi scoperto che il governo Monti non soltanto non ha ridotto il debito pubblico, ma lo ha aumentato», annota “Comidad”, in un post ripreso dal blog “La Crepa nel Muro”. «Il cosiddetto spread si è rivelato così una tassa sulla povertà, un’elemosina dei poveri nei confronti dei ricchi». E intanto ha fatto passi da gigante «l’addestramento dei poveri all’uso degli strumenti finanziari». Lo stesso governo Monti rilanciò la Social Card di tremontiana memoria: viste le cifre in ballo per quella carta prepagata, il vantaggio per le famiglie è apparso subito «pressoché inesistente». Semmai a incassare sarebbe stato il gestore finanziario, BancoPosta. Lo scopo della Social Card, in realtà, era quello di «allargare il target dei servizi finanziari», tanto per cambiare sul modello degli Usa, dove «anche lì in via sperimentale, la Social Security Card si è diffusa a macchia d’olio», arrivando nel 2013 a dieci milioni di utenti.«I paesi anglosassoni stanno dimostrando che i poveri costituiscono un target inesauribile per l’offerta di servizi finanziari», sottolinea “Comidad”. «Non soltanto la carta di credito viene oggi concessa anche ai disoccupati, ma questi sono anche fatti oggetto di un vero e proprio allettamento per dotarsi di questo “servizio” finanziario. Il fatto è comprensibile, se si considera che disoccupati e precari possono essere ridotti ad un livello assoluto di dipendenza da questi strumenti finanziari; cosa che non sarebbe possibile nei confronti di chi disponesse di fonti regolari di reddito». Se i prestiti ai poveri fossero ancora in contanti, allora i rischi di insolvenza «sarebbero mortali per un business del genere». Ma oggi c’è il denaro elettronico, e quindi «le banche non devono compromettere la propria liquidità per concedere carte di credito». I poveri tendono ancora a servirsi soprattutto di contanti, «ma le banche intendono sollevare le masse da questa condizione primitiva, attraverso quello che chiamano un programma di “inclusione finanziaria”».Aggiunge “Comidad”: «Il suono nobile e commovente della parola “inclusione” serve a nascondere il fatto che si tratta di un programma a basso rischio d’impresa per lo sfruttamento delle possibilità di indebitamento delle masse più povere». Il blog ricorda che già nel 2007 il governo britannico elaborò un piano di inclusione finanziaria «per salvare le masse di “unbanked” dal loro misero destino e per metterle a disposizione dell’amorevole offerta di servizi bancari». Lo stesso governo britannico «ha ritenuto di porre una deroga ai limiti della sua “spending review” pur di stanziare dei fondi per questo piano umanitario». Anche la Banca d’Italia «ha impostato un piano analogo, in attuazione delle indicazioni del G-20 a riguardo». A quanto pare, continua “Comidad”, «il denaro elettronico ha un club di supporter piuttosto nutrito». La Banca Mondiale, nella sua veste di agenzia specializzata dell’Onu, rappresenta l’avanguardia in questo progetto di “soccorso mondiale agli unbanked”. Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale sino al 2011, ha profuso più di tutti il suo personale impegno nella “financial inclusion”.«Zoellick costituisce il prototipo del perfetto “bombanchiere”: proviene da Goldman Sachs e, nel periodo in cui ha fatto parte dell’amministrazione Bush, è stato uno dei promotori più zelanti dell’aggressione all’Iraq. Zoellick è anche un ospite d’onore, pressoché fisso, del Consiglio Atlantico della Nato». Le banche hanno ormai una pessima reputazione e, spesso, persino una pessima stampa. «Ma le denunce possono rimanere sul vago, mentre, come si dice, il diavolo si annida nei dettagli. C’è qualche prestigioso commentatore che auspica addirittura un passaggio completo al denaro elettronico, con l’abbandono definitivo del contante; ciò in nome della lotta all’evasione fiscale, come se l’elettronica fosse intrinsecamente onesta, e fosse in grado solo di “tracciare” e non potesse anche sviare». Per “Comidad”, l’unico risultato certo dell’adozione integrale del denaro elettronico «sarebbe invece quello di rendere definitiva la “financial inclusion”, cioè di non porre più limiti alle possibilità per le banche di impoverire e sfruttare i popoli».La pubblicazione dei dati Eurostat sull’aumento della povertà e del rischio-povertà in Europa ha suscitato sui media il solito dibattito, viziato in partenza dal rappresentare l’impoverimento come un “problema”, come un effetto indesiderato delle politiche di rigore. «In realtà il bombardamento sociale del rigore finanziario non è sostanzialmente diverso dai bombardamenti militari, nei quali l’obbiettivo dichiarato è un pretesto non soltanto per il consumismo delle bombe (tanto paga il contribuente), ma anche per fare il maggior numero possibile di “danni collaterali”, cioè di vittime civili». Lo scriveva “Comidad” nel 2012, ma sembra scritto oggi. «Anche il rigore è un business, e il “danno collaterale” della maggiore povertà apre a sua volta nuove frontiere al business». In questi anni, aggiunge il blog, è risultato sempre più evidente il nesso consequenziale tra l’aumento della povertà e la finanziarizzazione dei rapporti sociali: «La povertà diventa un business finanziario, costringendo i poveri all’indebitamento crescente». Lo confermano annunci come quello del governo tedesco, che si vantà di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo. Ma la Germania «ha potuto finanziare il suo debito pubblico a tasso zero, poiché, contestualmente, sono stati i paesi del Sud dell’Europa non solo a pagare tassi di interesse più alti, ma anche a indebitarsi maggiormente».
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Laurenti: Ilaria Alpi e Carlo Giuliani, stessi killer (nostri 007)
«Fotografò un uomo, un carabiniere, mentre fracassava il cranio di Carlo Giuliani, già a terra, colpito ma ancora vivo. E poi ammise: ho avuto più paura a Genova che tra i miliziani in Somalia. Poi quella foto è scomparsa per sempre». Parola di Giulio Laurenti, scrittore, autore del romanzo d’inchiesta “La madre dell’uovo” che gli è costato minacce e pericolose intrusioni. Il sospetto: Carlo Giuliani è stato ucciso al G8 di Genova nel 2001 per ordine delle stesse persone che, sette anni prima, avevano fatto assassinare a Mogadiscio Ilaria Alpi, giornalista del Tg3. La traccia parte dalla confessione di quel fotografo, di cui Laurenti non fa il nome. «Ho saputo comunque che, prima di essere a piazza Alimonda al momento dell’omicidio Giuliani, aveva lavorato coi militari italiani in Somalia». Retroscena inquietanti, come quelli contenuti nel diario pubblicato nel 1997 dal maresciallo Francesco Aloi, del Sismi, allora in forza in Somalia: nel documento, poi secretato, Aloi accusa alcuni alti funzionari dei servizi, tra cui l’ufficiale dei carabinieri Claudio Cappello e il colonnello Giovanni Truglio, già a capo della polizia militare Msu in Iraq e ora alla guida, in Italia, di Eurogendfor, la misteriosa super-gendarmeria europea dotata di poteri illimitati, e di cui si sa pochissimo.Intervistato da Stefania Nicoletti ai microfoni di “Border Nights”, Laurenti ripercorre le tappe salienti del suo lavoro. «Non ho mai avuto tesi precostituite, mi sono limitato a verificare collegamenti, cercando di dar loro un significato». Nel suo memoriale, «che sembra far parte di una sorta di “guerra tra servizi”», il maresciallo Aloi accusa con inistenza alcuni ufficiali, come Truglio e Cappello: dice che potevano muoversi in territorio somalo come “fantasmi”, senza neppure essere controllati dalla Cia. La loro missione: tenere i contatti con i “signori della guerra”. Il veterano dell’intelligence attribuisce agli ex colleghi la “copertura” di svariate operazioni: contrabbando di armi e di avorio, traffico di scorie e rifiuti tossici. In più, imputa ad essi il ricorso sistematico alla tortura – e anche all’omicidio per chi, come Ilaria Alpi (e Miran Hrovatin) si avvicinasse troppo alla verità. «La cosa sorprendente è ritrovare quei nomi, quegli ufficiali, sette anni dopo a Genova, in piazza Alimonda, a pochi metri da Carlo Giuliani, durante il suo assassinio».Gli stessi uomini presenti sulla scena di due delitti: ma quale sarebbe il movente dell’omicidio Giuliani? «L’idea che mi sono fatto di piazza Alimonda – dichiara Laurenti a Stefania Nicoletti – è che è stata un’esercitazione, probabilmente per far fuori un carabiniere», in quel caso Mario Placanica, il militare accusato di aver sparato al manifestante No-Global. «A pensarla così è anche un magistrato romano come Alfonso Sabella», aggiunge Laurenti. E perché mai mettere nei guai un carabiniere? «Per eliminare la legge Calcaterra, che dagli anni ‘50 proibisce ai carabinieri di gestire l’ordine pubblico nei centri abitati oltre i 15.000 abitanti». La sua abrogazione, continua Laurenti, è stata inutilmente richiesta, più volte. «Ma ora c’è la gendarmeria europea, che rappresenta il superamento di quella norma. E lo stesso Truglio è a capo di Eurogendfor». Per il suo lavoro, Giulio Laurenti è stato pesantemente ostacolato e intimidito: telefoni isolati dopo le chiamate, pc inaccessibile, account Facebook violato.I “disagi” informatici, scrive Eleonora Bianchini sul “Fatto Quotidiano”, sono iniziati nel 2011, quando lo scrittore ha iniziato a indagare su Carlo Giuliani e Ilaria Alpi. Alcuni stralci dello scottante diario del maresciallo Aloi, 430 pagine, erano usciti nel ‘97 su “Panorama”, “L’Unità” ed “Epoca”. Accuse pesantissime, sottolinea il “Fatto”: si parla di «violenze sui somali, soprattutto donne», con prigionieri «torturati a morte». Eppure, dopo la denuncia, non accadde sostanzialmente nulla. A partire da quelle informazioni, Laurenti ha elaborato un’ipotesi diversa: e cioè che gli agenti a Mogadiscio non avrebbero solo depistato, ma piuttosto «agito per colpire deliberatamente Alpi e Hrovatin». Ma, appena Laurenti s’è messo al lavoro, sono cominciati i “problemi”: «Isolavano i telefoni di chiunque chiamassi. Ricevevo chiamate al cellulare mentre stavo guidando. Dall’altra parte della cornetta parlavano come se mi stessero seguendo. Sentivo solo che alcune voci dicevano: “Ma tu lo vedi?”. “Sì, sì, è un po’ più avanti”». E ancora: «Mi chiamavano a casa. Rispondevo. E sentivo le voci dei miei figli al piano di sopra. Dove, però, non c’è nessun telefono. Quindi non so se abbiano messo alcune microspie».Secondo Laurenti, gli uomini-ombra che lo hanno tallonato «fanno il gioco del gatto e del topo: sperano di fermarmi facendomi paura». Si è ritrovato anche l’auto danneggiata, e qualcuno ha “eliminato” dal suo computer uno stralcio di documento destinato a Heidi Giuliani, la madre di Carlo. «Credo che i responsabili di queste intimidazioni facciano parte del gruppo di potere che racconto nel libro», afferma l’autore, indicando «quella parte di servizi che ha firmato il patto di sangue nel 1994», all’epoca del drammatico passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, quando alti dirigenti del Sismi si ritrovarono privi delle vecchie coperture politiche. Una “guerra” misteriosa, di cui parla anche il maresciallo Aloi, che cita – fra le altre – la strana morte di un ex collega, il maresciallo Vincenzo Li Causi, insieme a quell del suo braccio destro, il parà Flaviano Mandolini, a suo tempo inquadrati nella struttura Gladio, o Stay Behind. Sempre secondo Laurenti, un «gruppo di potere» è riuscito a “sopravvivere” ai rivolgimenti politici degli anni ‘90. Di mezzo ci sarebbero anche le morti eccellenti di Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e Carlo Giuliani. Fino a “chiudere il cerchio” con la creazione di Eurogendfor. Risolvere l’enigma? Servirebbe quella famosa foto scomparsa, che proverebbe la presenza a Genova degli stessi operatori presenti a Modadiscio. «Ma è impossibile», ammette Laurenti: «Me l’hanno fatto capire: quella foto non salterà fuori mai».(Il libro: Giulio Laurenti, “La madre dell’uovo”, Effigie, 258 pagine, 19 euro).«Fotografò un uomo, un carabiniere, mentre fracassava il cranio di Carlo Giuliani, già a terra, colpito ma ancora vivo. E poi ammise: ho avuto più paura a Genova che tra i miliziani in Somalia. Poi quella foto è scomparsa per sempre». Parola di Giulio Laurenti, scrittore, autore del romanzo d’inchiesta “La madre dell’uovo” che gli è costato minacce e pericolose intrusioni. Il sospetto: Carlo Giuliani è stato ucciso al G8 di Genova nel 2001 per ordine delle stesse persone che, sette anni prima, avevano fatto assassinare a Mogadiscio Ilaria Alpi, giornalista del Tg3. La traccia parte dalla confessione di quel fotografo, di cui Laurenti però non fa il nome. «Ho saputo comunque che, prima di essere a piazza Alimonda al momento dell’omicidio Giuliani, aveva lavorato coi militari italiani in Somalia». Retroscena inquietanti, come quelli contenuti nel diario pubblicato nel 1997 dal maresciallo Francesco Aloi, del Sismi, allora in forza in Somalia: nel documento, poi secretato, Aloi accusa alcuni alti funzionari dei servizi, tra cui l’ufficiale dei carabinieri Claudio Cappello e il colonnello Giovanni Truglio, già a capo della polizia militare Msu in Iraq e ora alla guida, in Italia, di Eurogendfor, la misteriosa super-gendarmeria europea dotata di poteri illimitati, e di cui si sa pochissimo.
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“Bin Laden e Isis agli ordini dei Bush, entro 2 anni le prove”
«Entro un paio d’anni il mondo verrà a sapere, ufficialmente, che Osama Bin Laden faceva parte della stessa organizzazione segreta di George W.Bush, la “Hathor Pentalpha”, alla quale appartiene lo stesso Al-Baghdadi, il leader dell’Isis». Non è una profezia, è una previsione. Porta la firma dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. Un libro che ricostruisce il ruolo della supermassoneria internazionale nell’ambito di un particolare sistema di dominio che l’autore chiama “sovragestione”: strategia della tensione progettata da elementi dell’élite politica, economica, finanziaria e militare. Secondo Carpeoro, il “neoterrorismo” è direttamente coordinato da servizi segreti e affidato a manovalanza “islamista”, opportunamente coltivata. Al vertice della piramide si troverebbe una Ur-Lodge (superloggia) come la “Hathor Pentalpha”, fondata da Bush senior nel 1980. La “novità”, annunciata da Carpeoro alla web-radio “Forme d’Onda”, riguarda le rivelazioni che ci attendono: «Sono certo che Julian Assange è perfettamente al corrente di tutto ciò, ed è probabile che sarà Wikileaks a fornire le prove incontrovertibili dei legami più che imbarazzanti tra il vertice Usa, Al-Qaeda e il cosiddetto Stato Islamico».Il primo a rivelare pubblicamente l’esistenza di 36 “superlogge-ombra” al vertice della massoneria internazionale è stato Gioele Magaldi, nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, a fine 2014. Nella trattazione – di cui Magaldi assicura di poter fornire le prove, custodite in 6.000 pagine di documenti – l’autore scrive che proprio alla “Hathor”, creata dal clan Bush reclutando l’intero vertice “neocon” più leader europei come Blair e Sarkozy nonché il turco Erdogan, si deve l’incubazione dell’attentato epocale dell’11 Settembre, casus belli “perfetto” per scatenare le guerre in Afghanistan, in Iraq e, a ruota, nel resto del Medio Oriente, fino alla Libia e alla Siria. Ufficialmente, gli storici riconoscono il ruolo di Bin Laden in Afghanistan negli anni ‘80, finanziato dalla Cia: una celebre foto lo ritrae con un supermassone come Zbigniew Brzezinski, già stratega di Jimmy Carter. Un’altra foto, molto più recente, immortala – questa volta in Siria – l’inviato di Obama, il potente senatore John McCain, accanto all’oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, stranamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione di Camp Bucca, in Iraq.Alla lettura degli eventi, Magaldi fornisce il “collante invisibile” che spiega quegli incontri: Bin Laden e Al-Baghdadi, sostiene, sono stati entrambi affiliati alla “Hathor Pentalpha”, con il compito di fornire all’oligarchia occidentale il pretesto per le ultime guerre. Carpeoro aggiunge che a questa stessa “sovragestione” va ascritto l’opaco terrorismo che di recente ha colpito l’Europa, da Charlie Hebdo al Bataclan fino alla strage di Nizza, passando per gli attentati a Londra, a Bruxelles e in Germania. Massacri efferati, regolarmente “firmati” in modo simbolico (date, luoghi nomi), in modo da rivendicare, in codice, la matrice non islamica (ma sovra-massonica) degli ideatori.«Non bisognerebbe nemmeno chiamarli massoni», precisa Carpeoro, «ma sono loro ad accreditarsi così». La “novità” annunciata nella trasmissione web-radio dell’11 maggio è che il gioco, denunciato da più parti alla voce “terrorismo false flag”, sotto falsa bandiera e “fatto in casa”, sarà svelato definitivamente «entro un paio d’anni, carte alle mano», da più fonti, tra cui probabilmente la stessa Wikileaks, notoriamente in contatto con fonti di intelligence. «Sono convinto – aggiunge – che Assange abbia già più volte minacciato di esibire quei documenti, certamente in suo possesso, ogni volta che gli Usa hanno tentato di farlo estradare». E adesso, dice Carpeoro, prepariamoci: è solo questione di tempo, poi quelle carte usciranno. Così, anche i più scettici «avranno modo di fare qualche riflessione, sulla vera natura di questo neoterrorismo e sull’identità dei suoi reali, insospettabili mandanti».«Entro un paio d’anni il mondo verrà a sapere, ufficialmente, che Osama Bin Laden faceva parte della stessa organizzazione segreta di George W.Bush, la “Hathor Pentalpha”, alla quale appartiene lo stesso Al-Baghdadi, il leader dell’Isis». Non è una profezia, è una previsione. Porta la firma dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. Un libro che ricostruisce il ruolo della supermassoneria internazionale nell’ambito di un particolare sistema di dominio che l’autore chiama “sovragestione”: strategia della tensione progettata da elementi dell’élite politica, economica, finanziaria e militare. Secondo Carpeoro, il “neoterrorismo” è direttamente coordinato da servizi segreti e affidato a manovalanza “islamista”, opportunamente coltivata. Al vertice della piramide si troverebbe una Ur-Lodge (superloggia) come la “Hathor Pentalpha”, fondata da Bush senior nel 1980. La “novità”, annunciata da Carpeoro alla web-radio “Forme d’Onda”, riguarda le rivelazioni che ci attendono: «Sono certo che Julian Assange è perfettamente al corrente di tutto ciò, ed è probabile che sarà Wikileaks a fornire le prove incontrovertibili dei legami più che imbarazzanti tra il vertice Usa, Al-Qaeda e il cosiddetto Stato Islamico».
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Craig Roberts: tradire chi li ha votati è la loro vera missione
La svendita di Trump al termine della svendita di Obama, durata otto anni. Istruttivo: ora abbiamo un presidente democratico che ha svenduto i suoi elettori, e un presidente repubblicano che ha appena fatto la stessa cosa. Questo è un punto molto interessante, il cui significato sfugge alla maggior parte delle persone – ma non al presidente russo Vladimir Putin, che al summit del Club Valdai ha riassunto lo stato della democrazia occidentale in termini che riassumo così, parafrasandoli: “In Occidente, gli elettori non possono cambiare la politica attraverso le elezioni, perché le élite dominanti controllano chiunque sia eletto. Le elezioni danno l’illusione della democrazia, ma il voto non cambia le politiche che favoriscono la guerra e le élite. Pertanto, la volontà popolare è neutralizzata. I cittadini vedono che il loro voto non ha alcuna influenza sugli affari del paese. Ciò li rende impauriti, frustrati e arrabbiati: una combinazione di emozioni pericolose per l’élite dominante che, in risposta, orienta i poteri dello Stato contro il popolo, esortandoli con la propaganda a sostenere altre guerre. Obama aveva promesso di uscire dall’Afghanistan o dall’Iraq, o forse da entrambi i paesi. Aveva promesso di abolire lo “Stato di polizia” creato dal regime di George W. Bush. E aveva promesso di concentrare le risorse americane sui problemi domestici, come l’assistenza sanitaria”.Ma cosa ha fatto, Obama? Ha esteso le guerre in corso e ne ha lanciate di nuove, ha distrutto la Libia e tentato di distruggere la Siria, ma è stato fermato dalla non-partecipazione britannica e dall’opposizione russa. Ha rovesciato i governi democratici in Honduras e in Ucraina. Ha ampliato lo “Stato di polizia”. Ha iniziato la demonizzazione della Russia e di Putin. Ha tradito nuovamente il popolo americano, permettendo all’industria assicurativa privata di scrivere il suo piano sanitario, conosciuto come Obamacare. Gli interessi privati, di fatto, hanno predisposto direttamente il programma, che dirotta i fondi pubblici dall’assistenza sanitaria verso i loro profitti. Tutto questo è stato dimenticato quando le élite governative e i media “presstiuti” al loro servizio hanno rifocalizzato la demonizzazione su Trump. Improvvisamente, il presidente neo-eletto è diventato il principale pericolo per gli Stati Uniti e per il popolo americano. Trump era un agente russo. Aveva cospirato con Putin per rubare l’elezione a Hillary Clinton e rendere la Casa Bianca un partner della presunta riconfigurazione di Putin dell’Impero Sovietico.Una sciocchezza furiosa, ma efficace. Così Trump ha ceduto alla pressione e ha sacrificato il suo consigliere per la sicurezza nazionale, che aveva sostenuto la promessa di normalizzare i rapporti con la Russia. Trump lo ha sostituito con un idiota russofobo che, a quanto pare, non vede l’ora di vedere nubi a forma di fungo atomico sulle città di tutto il mondo occidentale. Perché i due presidenti succedutisi alla Casa Bianca hanno completamente “venduto” la gente che aveva votato per loro? La risposta è che i presidenti non sono tanto potenti quanto i gruppi di interesse che prendono le decisioni. Trump era d’accordo sull’idea di sganciarsi dalla Siria, ma poi ha commesso un ambiguo crimine di guerra, attaccando gratuitamente Siria con i missili Tomahawk. Stava per normalizzare i rapporti con la Russia, ma ora il suo segretario di Stato annuncia che le sanzioni economiche statunitensi resteranno invariate, sulla Russia, finché Mosca non cede all’Ucraina la sua base navale sul Mar Nero, in Crimea. È impossibile normalizzare le relazioni quando il loro costo, per l’altra parte, è il suicidio nazionale.Nonostante la completa resa di Trump a quei poteri, il 2 maggio su “Npr” (National Public Radio) ho sentito della grezza propaganda, travestita da “opinione di esperti”, secondo cui Trump sarebbe allergico ai media, quando invece quello che tutti abbiamo visto è una massiccia preoccupazione dei media contro Trump, compreso il programma che stavo ascoltando. “Npr”, ad esempio, aveva messo insieme “esperti” che dicevano che Trump avesse calunniato Obama, accusandolo di intercettare le sue comunicazioni. “Npr” non ha detto niente sull’attacco del regime Obama contro Trump, accusato di aver cospirato con Putin per “scippare” l’elezione da Hillary Clinton. Se c’era una calunnia era proprio quella, e invece il discorso, in radio, era tutto concentrato su come Obama potrebbe citare in giudizio Trump. Ma perché l’oligarchia dominante utilizza ancora i suoi “presstituti” per combattere contro un presidente che si è arreso? Forse la risposta è che il vero potere sta “pestando” Trump a mo’ di avvertimento, in modo che nessun candidato faccia mai più un appello populista all’elettorato.(Paul Craig Roberts, “Democrazia americana, un morto che cammina”, dal blog di Craig Roberts del 2 maggio 2017).La svendita di Trump al termine della svendita di Obama, durata otto anni. Istruttivo: ora abbiamo un presidente democratico che ha svenduto i suoi elettori, e un presidente repubblicano che ha appena fatto la stessa cosa. Questo è un punto molto interessante, il cui significato sfugge alla maggior parte delle persone – ma non al presidente russo Vladimir Putin, che al summit del Club Valdai ha riassunto lo stato della democrazia occidentale in termini che riassumo così, parafrasandoli: “In Occidente, gli elettori non possono cambiare la politica attraverso le elezioni, perché le élite dominanti controllano chiunque sia eletto. Le elezioni danno l’illusione della democrazia, ma il voto non cambia le politiche che favoriscono la guerra e le élite. Pertanto, la volontà popolare è neutralizzata. I cittadini vedono che il loro voto non ha alcuna influenza sugli affari del paese. Ciò li rende impauriti, frustrati e arrabbiati: una combinazione di emozioni pericolose per l’élite dominante che, in risposta, orienta i poteri dello Stato contro il popolo, esortandoli con la propaganda a sostenere altre guerre. Obama aveva promesso di uscire dall’Afghanistan o dall’Iraq, o forse da entrambi i paesi. Aveva promesso di abolire lo “Stato di polizia” creato dal regime di George W. Bush. E aveva promesso di concentrare le risorse americane sui problemi domestici, come l’assistenza sanitaria”.
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Kill the Children, la grande ipocrisia dei signori della guerra
In mezzo alle polemiche sulle organizzazioni non governative internazionali che traghettano verso l’Italia i disperati raccolti sulle coste libiche, la mia attenzione è stata attratta dal profilo dei componenti del Consiglio Direttivo italiano di una di esse, Save The Children. Nella lista ho notato in particolare un nome, quello di Marco De Benedetti, che – oltre ad essere il figlio dell’oligarca italiano naturalizzato svizzero Carlo De Benedetti – ricopre la carica di Managing Director e Co-Presidente Europa di The Carlyle Group. Ora, The Carlyle Group non è un’azienda qualsiasi, ma un gigante mondiale nella gestione degli attivi di aziende di tanti settori, incluse le industrie del complesso militare-industriale. Carlyle ha sede al centro dell’Impero, a Washington, e vive di una perenne commistione politica-affari, tanto che ha reclutato fra i suoi super-faccendieri anche ex direttori Cia ed ex presidenti Usa come George Bush padre e l’ex primo ministro britannico John Major. Nel 2008-2016 il suo direttore dei servizi finanziari globali è stato un pezzo grosso di Wall Street, Olivier Sarkozy, fratellastro dell’ex presidente francese Nicolas, mentre fra gli amministratori di Carlyle c’è anche il numero uno della General Motors, Dan Akerson.Insomma, parliamo di un architrave del capitalismo globalizzato, che gestisce “asset” per centinaia di miliardi dollari, di quel capitalismo al centro delle rapine finanziarie, delle guerre mediorientali e di un’altra serie di fenomeni che potremmo ribattezzare “Kill The Children”. Vediamo così adesso i bambini fuggiti da una casa perduta per via di una bomba aeronautica o di una bomba finanziaria ricollegata a imprese partecipate da Carlyle, mentre sono raccolti in mare da un’azienda dell’assistenza che incrocia la sua orbita con la Carlyle, e magari fornirà loro farmaci e cibo di aziende partecipate da Carlyle. Il capitalismo è tentacolare, apre e chiude cicli, è completo, e si fa anche bello, con tanto di riviste patinate e siti cinguettanti che vantano i buoni rapporti dei pezzi grossi del non profit con le multinazionali quotate nelle grandi borse del generoso Occidente.Nel 2014, l’ex primo ministro britannico Tony Blair fu insignito di un premio istituito dall’influente ramo statunitense di Save the Children, il Global Legacy Award, durante una cena di gala a New York. Proprio lui, Blair, non esattamente il salvatore dei bambini iracheni e afghani. L’industria della filantropia compie gesti buoni. Ma la muovono salotti esclusivi che incrociano le loro strategie con quelle dei padroni della geopolitica, cioè i signori delle guerre e delle ondate di profughi. Nella statistica delle singole vite salvate, che fanno un bel rumore, scompaiono le masse sommerse e silenziate dai grandi media, a loro volta pilotati dagli stessi salotti.(Pino Cabras, “Kill the Children”, da “Megachip” del 3 maggio 2017).In mezzo alle polemiche sulle organizzazioni non governative internazionali che traghettano verso l’Italia i disperati raccolti sulle coste libiche, la mia attenzione è stata attratta dal profilo dei componenti del Consiglio Direttivo italiano di una di esse, Save The Children. Nella lista ho notato in particolare un nome, quello di Marco De Benedetti, che – oltre ad essere il figlio dell’oligarca italiano naturalizzato svizzero Carlo De Benedetti – ricopre la carica di Managing Director e Co-Presidente Europa di The Carlyle Group. Ora, The Carlyle Group non è un’azienda qualsiasi, ma un gigante mondiale nella gestione degli attivi di aziende di tanti settori, incluse le industrie del complesso militare-industriale. Carlyle ha sede al centro dell’Impero, a Washington, e vive di una perenne commistione politica-affari, tanto che ha reclutato fra i suoi super-faccendieri anche ex direttori Cia ed ex presidenti Usa come George Bush padre e l’ex primo ministro britannico John Major. Nel 2008-2016 il suo direttore dei servizi finanziari globali è stato un pezzo grosso di Wall Street, Olivier Sarkozy, fratellastro dell’ex presidente francese Nicolas, mentre fra gli amministratori di Carlyle c’è anche il numero uno della General Motors, Dan Akerson.
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Schiavi comprati e venduti nella Libia “liberata” dagli Usa
La Libia “liberata” dagli Usa è diventata un colossale mercato degli schiavi. Lo dimostra un report di Carey Wedler su “Zero Hedge”, che accusa l’Occidente: le stesse menti criminali, che hanno ridotto il territorio libico a disgustoso “business di carne umana”, stanno cercando di fare la stessa cosa in Siria. «È ben noto che l’intervento Nato a guida Usa del 2011 in Libia, con lo scopo di rovesciare Muhammar Gheddafi, ha portato ad un vuoto di potere che ha permesso a gruppi terroristici come l’Isis di prendere piede nel paese», premette Wedler. «Nonostante le conseguenze devastanti dell’invasione del 2011, l’Occidente è oggi lanciato sulla stessa traiettoria nei riguardi della Siria». Ieri Obama ha stroncato Gheddafi con la scusa di “proteggere il popolo libico”, e oggi – senza uno straccio di prova sulle responsabilità di Assad nell’attacco coi gas – Trump minaccia di abbattere il regime di Damasco. Ma, al netto della propaganda, «emergono sempre più chiaramente i pericoli connessi all’invasione di un paese straniero e alla rimozione dei suoi leader politici». Lo conferma il “Guardian”, con «nuove rivelazioni sugli effetti collaterali degli “interventi umanitari”: la crescita del mercato degli schiavi».Il quotidiano inglese scrive che sebbene «la violenza, l’estorsione e il lavoro in schiavitù» siano stati già in passato una realtà per le persone che transitavano attraverso la Libia, recentemente il commercio degli schiavi è aumentato». E oggi «la compravendita di esseri umani come schiavi viene fatta apertamente, alla luce del sole», scrive Wedler, in un post ripreso da “Voci dall’Estero”. «Gli ultimi report sul ‘mercato degli schiavi’ a cui sono sottoposti i migranti si possono aggiungere alla lunga lista di atrocità che avvengono in Libia», afferma Mohammed Abdiker, capo delle operazioni di emergenza dell’Iom, International Office of Migration, un’organizzazione intergovernativa che promuove “migrazioni ordinate e più umane a beneficio di tutti“, secondo il suo stesso sito web. «La situazione è tragica. Più l’Iom si impegna in Libia, più ci rendiamo conto come questo paese sia una valle di lacrime per troppi migranti». Il paese nordafricano viene usato spesso come punto di uscita per i rifugiati che arrivano da altre parti del continente. Ma da quando Gheddafi è stato rovesciato nel 2011, spiega Abdiker al “Guardian”, «il paese, che è ampio e poco densamente popolato, è piombato nel caos della violenza: e i migranti, che hanno poco denaro e di solito sono privi di documenti, sono particolarmente vulnerabili».Un sopravvissuto del Senegal, proveniente dal Niger, racconta che stava attraversando la Libia insieme a un gruppo di altri migranti, tutti in fuga dai paesi di origine. Avevano pagato un trafficante perché li trasportasse in autobus fino alla costa, dove avrebbero corso il rischio di imbarcarsi per l’Europa. Ma, anziché portarli sulla costa, il trafficante li ha condotti in un’area polverosa presso la cittadina libica di Sabha. Secondo quanto riportato da Livia Manente, la funzionaria dell’Iom che intervista i sopravvissuti, «il loro autista gli ha detto all’improvviso che gli intermediari non gli avevano passato i pagamenti dovuti e ha messo i passeggeri in vendita». Molti altri migranti hanno confermato questa storia, aggiunge la Manente: i profughi descrivono «i vari mercati degli schiavi, indipendenti l’uno dall’altro, e le diverse prigioni private che si trovano in tutta la Libia». Le stesse storie, aggiunge la funzionaria, sono confermate dai migranti che hanno trovato asilo nell’Italia del sud.Il sopravvissuto senegalese ha detto di essere stato portato in una prigione improvvisata che, come nota il “Guardian”, in Libia è cosa comune: «I detenuti all’interno sono costretti a lavorare senza paga, o in cambio di magre razioni di cibo, e i loro carcerieri telefonano regolarmente alle famiglie a casa chiedendo un riscatto. Il suo carceriere chiese 300.000 franchi Cfa (circa 450 euro), poi lo vendette a un’altra prigione più grossa dove la richiesta di riscatto raddoppiò senza spiegazioni». Quando i migranti sono detenuti troppo a lungo senza che il riscatto venga pagato, continua il “Guardian”, vengono portati via e uccisi. «Alcuni deperiscono per la scarsità delle razioni e le condizioni igieniche miserabili, muoiono di fame o di malattie, ma il loro numero complessivo non diminuisce mai», sottolinea il quotidiano britannico. «Se il numero di migranti scende perché qualcuno muore o viene riscattato, i rapitori vanno al mercato e ne comprano degli altri», dice ancora Livia Manente. Le fa eco Giuseppe Loprete, capo della missione Iom in Niger: «È assolutamente chiaro che loro si vedono trattati come schiavi», ha detto.Loprete ha gestito il rimpatrio di 1.500 migranti nei soli primi tre mesi dell’anno, e teme che molte altre storie e incidenti del genere emergeranno man mano che altri migranti torneranno dalle coste libiche: «Le condizioni stanno peggiorando, in Libia: penso che ci possiamo aspettare molti altri casi nei mesi a venire». Ora, conclude Wedler, mentre il governo degli Stati Uniti «sta insistendo nell’idea che un cambio di regime in Siria sia la soluzione giusta per risolvere le molte crisi di quel paese», è ormai sempre più evidente che la cacciata dei dittatori – per quanto detestabili possano essere – non è una soluzione efficace. «Rovesciare Saddam Hussein non ha portato solo alla morte di molti civili e alla radicalizzazione della società, ma anche all’ascesa dell’Isis», sottolinea l’analista. «Mentre la Libia, che un tempo era un modello di stabilità nella regione, continua a precipitare nel baratro in cui l’ha gettata “l’intervento umanitario” dell’Occidente». Un pozzo nero e senza fondo, nel quale «gli esseri umani vengono trascinati nel nuovo mercato della schiavitù, e gli stupri e i rapimenti affliggono la popolazione». Chi preme sulla guerra, conclude Wedler, deve sapere che non farà altro che produrre «ulteriori inimmaginabili sofferenze».La Libia “liberata” dagli Usa è diventata un colossale mercato degli schiavi. Lo dimostra un report di Carey Wedler su “Zero Hedge”, che accusa l’Occidente: le stesse menti criminali, che hanno ridotto il territorio libico a disgustoso “business di carne umana”, stanno cercando di fare la stessa cosa in Siria. «È ben noto che l’intervento Nato a guida Usa del 2011 in Libia, con lo scopo di rovesciare Muhammar Gheddafi, ha portato ad un vuoto di potere che ha permesso a gruppi terroristici come l’Isis di prendere piede nel paese», premette Wedler. «Nonostante le conseguenze devastanti dell’invasione del 2011, l’Occidente è oggi lanciato sulla stessa traiettoria nei riguardi della Siria». Ieri Obama ha stroncato Gheddafi con la scusa di “proteggere il popolo libico”, e oggi – senza uno straccio di prova sulle responsabilità di Assad nell’attacco coi gas – Trump minaccia di abbattere il regime di Damasco. Ma, al netto della propaganda, «emergono sempre più chiaramente i pericoli connessi all’invasione di un paese straniero e alla rimozione dei suoi leader politici». Lo conferma il “Guardian”, con «nuove rivelazioni sugli effetti collaterali degli “interventi umanitari”: la crescita del mercato degli schiavi».
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Guerra nel Pacifico: l’export dell’Asia non vuole più i dollari
I maggiori paesi asiatici si sono stancati di accettare “carta straccia” in cambio di merci, e stanno abbandonando il dollaro: per questo, stavolta, il rischio di guerra – nel Pacifico – è vicinissimo. Lo sostiene un analista economico come Alberto Micalizzi, allarmato dalla «necessità impellente» dell’America di sostenere la propria economia basata sul debito estero. «Qui non stiamo parlando di interessi strategici di natura politica, di giochi sul prezzo delle materie prime, di pipeline di gas o petrolio o di tatticismi di altro tipo. Stiamo parlando del fatto che gli Usa iniziano a incontrare difficoltà nel finanziare i circa 500 miliardi di dollari di deficit annuo generati dalla bilancia commerciale, cronicamente in passivo perché consumano più di quanto producono e qualcuno deve accettare di rifornirli in cambio di dollari». Tutto questo, sottolinea Micalizzi, sorregge da decenni il tenore di vita degli statunitensi. E la metà del debito estero Usa – precisamente 2.632 miliardi di dollari – è contratto verso quattro paesi dell’estremo oriente». Cina, Giappone, Taiwan e Hong Kong: sono i principali esportatori di merci verso gli Usa, «cioè quelli che finora hanno retto il gioco del disavanzo commerciale» che tiene in piedi l’asimmetrica economia statunitense. Il problema? I fornitori asiatici ci stanno “ripensando”.
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Carpeoro: tutto resti com’è. Così l’Isis obbedisce al potere
Poteri forti? Grazie anche a cittadini deboli, sempre disposti a credere all’Uomo Nero, il nemico da odiare comodamente, cui attribuire ogni male. Nel suo saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’avvocato Gianfranco Carpeoro inserisce un passaggio di Francesco Saba Sardi, “L’istituzione dell’ostilità”, che chiarisce il concetto: il gioco al massacro continuerà all’infinito, fino a quando le vittime non capiranno che il nemico di turno è solo un trucco del potere. «Il politico, il massone, il mafioso, il gesuita: in Italia non ci siamo fatti mancare niente. Gelli e Sindona, Craxi, Andreotti. Caduti i quali, è cambiato qualcosa?». Ecco il punto: «Non cambiare mai niente, nella sostanza. A questo serve l’odio del nemico. E attenzione: «Il lasciare tutto com’è è esattamente l’obiettivo di questo potere, che oggi ricorre in modo sistematico al terrorismo targato Isis». Tema che Carpeoro ha affrontato in un recente convegno, in Veneto, sul dominio occulto dell’élite paramassonica. Una situazione che si annuncia molto critica ormai anche per l’Italia: «L’ultimo report dei nostri servizi segreti parla di qualcosa come 5.000 “foreign fighters” provenienti dalla Siria, via Albania: sono perfettamente addestrati e si teme invadano la penisola per attuare attentati».Per capire il neo-terrorismo, ragiona Carpeoro, basta analizzarne il movente: «Ha un progetto politico, l’Isis?». Non se ne vede traccia: il cosiddetto Califfato Islamico è una barzelletta. «Ha una base etnica, lo Stato Islamico? Neppure: all’Islam aderiscono arabi sunniti, persiani sciiti, bosniaci ariani». E inoltre: «Provengono da un retroterra di profonde sofferenze, i miliziani jihadisti “foreign fighters”». Macché: «Il più delle volte sono figli di famiglie borghesi». Sono anche loro – più che mai – terroristi, certamente. «Ma non hanno niente in comune con un certo Pietro Micca, che nel 1706 fa saltare in aria mezza Torino per opporsi all’assedio francese». Carpeoro traccia una linea rossa che, attraverso svariate geografie, collega i “terrorismi” del passato, lontano e prossimo: da Pietro Micca ai palestinesi dell’Olp, passando per l’Ira irlandese, la Raf tedesca, le Brigate Rosse. «Ovviamente non posso approvare la violenza come metodo di lotta, ma almeno in quei casi si può leggere una coerenza, una proiezione di futuro: la liberazione di territori, la lotta politica per trasformare il governo del paese. I tedeschi della Baader-Meinhof combattevano a modo loro contro il governo di Bonn, inquinato dalla presenza di ex nazisti. Gli irlandesi volevano cacciare gli inglesi dalla loro terra. Le stesse Br aspiravano a una svolta rivoluzionaria in Italia». E l’Isis? Dov’è il suo progetto?Le cose si sono completamente ribaltate, sottolinea Carpeoro, «da quando il potere è finito nelle mani di un’élite oligarchica», che oggi «ha capito che non ha più nessuna chance democratica: non potrebbe in nessun modo godere del consenso popolare, della stima dei cittadini». E allora, per ottenere la loro obbedienza, «impugna l’arma della paura, attraverso il terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, cioè attribuito agli islamici in modo fraudolento, ma in realtà concepito e diretto da menti massoniche occidentali, gestito da settori dei servizi segreti e affidato a sciagurata manovalanza che si dichiara islamista, pilotata e manipolata in modo da danneggiare innanzitutto l’Islam, che con il terrorismo non c’entra niente». E’ un massone (o meglio, un super-massone) lo stesso presunto capo dell’Isis, il sedicente “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi, fotografato in Siria in compagnia del senatore John McCain dopo esser stato improvvisamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca. Dopo Osama Bin Laden, Al-Baghdadi è l’ultima reincarnazione dell’Uomo Nero, il nemico brutto e cattivo. «Che effetto fa, allora, scoprire che quel tizio è stato iniziato alla stessa superloggia in cui sedevano sia George W. Bush che il capo di Al-Qaeda, Bin Laden?».Il primo a fare il nome di quell’organizzazione-ombra (Hathor Pentalpha, si chiama) è stato Gioele Magaldi nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato a fine 2014). Sta per uscire il “sequel”, con nuovi dettagli destinati ad aggravare ulteriormente la posizione della “loggia del sangue e della vendetta” fondata da Bush senior all’inizio degli anni ‘80, dopo la bruciante sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane. Al club aderiranno l’intero gruppo neocon statunitense ma anche politici europei, come l’inglese Tony Blair (quello delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam), il francese Nicolas Sarkozy (il killer politico di Gheddafi) e il turco Recep Tayyip Erdogan, invischiato fino al collo nell’invasione della Siria da parte dell’Isis. Ma nell’album di famiglia della “Hathor” non ci sono soltanto le peggiori menti dell’Occidente: accanto ai Bush e a Blair, a Sarkozy e a Erdogan «bisogna aggiungere prima Bin Laden, poi Al-Baghdadi». E’ indispensabile, per capire con chi abbiamo davvero a che fare: l’Uomo Nero è in azione, ma non è una scheggia impazzita come i suoi kamikaze. Sta obbedendo a ordini, a istruzioni precise, che partono dai piani più alti del potere mondiale, occidentale.Un potere che, oggi, non si fa scrupolo di sparare nel mucchio: «E’ il caso dei camion lanciati sulla folla a fare strage: un metodo semplice, economico e con pochi rischi, tranne che per l’attentatore». I terrorismi di ieri sparavano su obiettivi strategici: industriali, banchieri, politici. Oggi, invece, le vittime siamo noi. «Erano terroristi la cui azione – non approvabile, per carità – nasceva comunque da infinite sofferenze, come nel caso dei palestinesi». All’epoca dell’arresto di Renato Curcio, le stesse Br non avevano ancora ucciso nessuno: «Fu Curcio a fare fuoco, sul carabiniere che aveva ucciso sua moglie, Mara Cagol, colpendola alla schiena mentre stava scappando: può un carabiniere sparare alla schiena di qualcuno?», si domanda Carpeoro. Poi, certo, la storia del “vecchio” terrorismo è a doppio fondo, piena di infiltrazioni, in tutti sensi: terroristi “in buona fede” e terroristi “gestiti” dall’intelligence, 007 complici della strategia della tensione e agenti invece onesti, fedeli alle istituzioni. Un caos sanguinoso, infernale, con code processuali infinite, misteri irrisolti e vittime eccellenti – una su tutte, da noi: Aldo Moro.«Alla base, però, c’erano posizioni nette: da una parte una visione eversiva e rivoluzionaria, o irredentista, dall’altra lo Stato». Adesso, invece, a pilotare l’eversione è direttamente il lato oscuro del potere: non ha neppure “cavalcato” il furore dell’Isis, l’ha proprio progettato a tavolino, sfruttando la disperazione di paesi arabi a cui l’Occidente infligge sterminate sofferenze, attraverso la complitcità di dittature filo-occidentali. Questo “funziona” per ottenere la necessaria manovalanza, ma non certo per provocare una sollevazione politica delle popolazioni musulmane, che dell’Isis hanno orrore. «Ieri, i terroristi volevano cambiare tutto. I terroristi di oggi, invece, rispondono agli ordini di chi è deciso a non cambiare niente, dell’attuale sistema: pochissimi hanno in mano tutto, e così deve restare». Rimarremo al buio per sempre? «Oso sperare – azzarda Carpeoro – che magari, nel giro di due o tre generazioni, questa situazione cambierà». Smascherare i mandanti, liberare le nostre società dal ricatto della paura – perfettamente consonante con il ricatto economico dell’austerity, il rigore imposto per via finanziaria dall’élite privatizzatrice che, in Europa, a partire dall’omicidio di Olof Palme, ha stroncato il seme del socialismo democratico. Smontare il teatro del terrore? «A una condizione: che si smetta di dare la caccia all’Uomo Nero. E’ lì apposta per distrarci, per farci odiare qualcuno. E’ lo schema della magia, dell’illusionismo: il potere non fa altro che darci in pasto il cattivo di turno, da detestare. Se invece smettessimo di odiare, una buona volta, avremmo fatto un passo avanti enorme».Poteri forti? Grazie anche a cittadini deboli, sempre disposti a credere all’Uomo Nero, il nemico da odiare comodamente, cui attribuire ogni male. Nel suo saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’avvocato Gianfranco Carpeoro inserisce un passaggio di Francesco Saba Sardi, “L’istituzione dell’ostilità”, che chiarisce il concetto: il gioco al massacro continuerà all’infinito, fino a quando le vittime non capiranno che il nemico di turno è solo un trucco del potere. «Il politico, il massone, il mafioso, il gesuita: in Italia non ci siamo fatti mancare niente. Gelli e Sindona, Craxi, Andreotti. Caduti i quali, è cambiato qualcosa?». Ecco il punto: «Non cambiare mai niente, nella sostanza. A questo serve l’odio del nemico. E attenzione: «Il lasciare tutto com’è è esattamente l’obiettivo di questo potere, che oggi ricorre in modo sistematico al terrorismo targato Isis». Tema che Carpeoro ha affrontato in un recente convegno, in Veneto (video su YouTube), sul dominio occulto dell’élite paramassonica. Una situazione che si annuncia molto critica ormai anche per l’Italia: «L’ultimo report dei nostri servizi segreti parla di qualcosa come 5.000 “foreign fighters” provenienti dalla Siria, via Albania: sono perfettamente addestrati e si teme invadano la penisola per attuare attentati».
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Barnard: divento vegano, basta mangiare sangue (umano)
Basta, mangiare sangue umano: io diventerò vegano, e lo farò in modo intelligente. Il mio “basta, mangiare sangue umano” è la cosa chiave per capire perché io, Paolo Barnard, ho preso questa decisione. Mai ci avrei pensato (mi sono occupato di trentamila battaglie) se Nicolas Micheletti, del partito Democrazia Verde – a cui non appartengo – non mi ci avesse fatto pensare. Non divento vegano per la salute – un cancro non me lo evito così, viviamo sepolti da masse di veleni. Divento vegano perché non posso più mangiare sangue umano. Io sono Paolo Barnard, 32 anni a testimoniare nel mondo guerre, atrocità, il mostro neoliberista, cento inchieste, migliaia di articoli, sei libri. E poi, in trattoria, ordino sangue umano. Stragi, assassinii, sofferenze di milioni di poveri senza voce, e distruzione dell’ambiente. Tutto in un filetto alla griglia. Eh, no: non esistono più dubbi sul fatto che gli allevamenti animali intensivi, del mostro mondiale chiamato agribusiness, sono la causa di milioni di morti di fame nel mondo, e degli omicidi degli attivisti che li difendono – sono nelle cronache: leggetevi i giornali stranieri, in Italia non ne parla nessuno. Sono la causa di inquinamenti inimmaginabili da CO2 e da letame in quanità mostruose, che sterilizzano pezzi d’Oceano e intere regioni grandi come il Belgio, ogni anno.Un potere di devastazione umana e ambientale pari a dieci volte quello di tutte le auto, aerei, moto, fabbriche e riscaldamenti, messi assieme. Non ci sono più dubbi che in una bistecca o in un petto di pollo ci sia tutto questo. Divento vegano in modo intelligente: non è affatto necessario il fanatismo del non voler vedere più neppure la foto di una molecola di carne. Non è questo il modo di diventare vegani in maniera intelligente. Ciò che l’Occidente deve fare è far crollare del 99% il mostro dell’agribusiness. Tradotto, vuol dire che Paolo mangerà un uovo biologico ogni due mesi, un pesce ogni due mesi, un pezzo di parmigiano ogni due mesi, pollo e carne biologici una volta ogni due mesi. Il resto, vegano. Non vi sciorino i dati del 68%, del 32%, o il grafico della Onlus sulla timeline dell’azoto e altre cose del genere che trovate in Rete, perché io i dati li ho visti con i miei occhi, nei miei vent’anni a girare Africa, America Latina, Asia. E l’unica cosa che cito qui è il mio articolo “Mai più chicchi di mais”. Ero in Africa, quando mi portarono a vedere i mega-silos del mostro mondale agribusiness chiamato CarGeo, quello che ha fatto anche le stragi in Iraq. Lungo la strada sterrata, dove passavano file di Tir immensi carichi di mais, una figura di vecchia – donna – morente, forse 35 chili se li aveva, piegata in due; impastata di polvere d’argilla raccoglieva i chicchi di mais che cadevano dai Tir, uno e uno, e li metteva nel pugno di una mano scheletrica, per mangiare. Io ero lì, a due metri da lei.Il 98% di quel mais, coltivato da contadini messi probabilmente poco meglio di quella donna, andava alla CarGeo, per fare mangini per le nostre vacche, il nostro latte, i nostri filetti, le fiorentine, i nostri formaggi, i nostri polli, i nostri maiali. Andava ai polli degli apocalittici allevamenti di Arena, dove c’è più antibiotico che aria, andava ai milioni di maiali del prosciuttino del panino del bambino, qui da noi. E lei crepava, raccattando chicchi di mai. E a milioni, oggi, crepano nello stesso modo (per il prosciuttino del bambino, per la fiorentina a cena con gli amiconi, per la carbonara). Il suo sangue, e quello di milioni come lei, quello degli attivisti ammazzati dal mega-agribusiness, è nell’ossobuco che io – io – ho mangiato ieri sera, e nel créme caramel con cui ho finito la cena. Basta, mangiare sangue mano. Basta, non abbiamo scuse, lo sappiamo da cent’anni cosa significa privare i poveri del mondo di quello che coltivano, del loro cibo, per i nostri bisogni.L’ho detto, l’ho scritto: Winston Churchill fu responsabile, assieme all’Impero Britannico, di almeno 29 milioni di morti di fame, in India, perché quasi il 100% di cià che gli indiani coltivavano veniva esportato per i bisogni dell’Europa. E 29 milioni di morti sono 20 milioni in più di quelli causati da Hitler. Non è una novità, lo sappiamo da tempo. Oggi non è più l’impero di Sua Maestà, oggi è il mostro dell’agribusiness: che fa, precisamente, la stessa cosa. E noi gli compriamo sangue umano. Lo so che anche la maglietta di cotone che indosso è intrisa di ingiustizia e di sangue umano, anche il mio iPhone è colpevole di inquinamento, ma niente – niente – inquina e ammazza, oggi, nel mondo, come il nostro cibo. Soprattutto la carne: la carne, e i derivati dei mega-allevamenti animali. Fidatevi, l’ho visto con i miei occhi. Ora basta, non mangerò più il sangue di quella donna, la donna dei chicchi di mais. Diventerò vegano. E lo diventerò in modo intelligente.(Paolo Barnard, “Basta, mangiare sangue umano. Basta, distruggere masticando”, testo del video-appello inserito da Barnard su YouTube il 28 marzo 2017).Basta, mangiare sangue umano: io diventerò vegano, e lo farò in modo intelligente. Il mio “basta, mangiare sangue umano” è la cosa chiave per capire perché io, Paolo Barnard, ho preso questa decisione. Mai ci avrei pensato (mi sono occupato di trentamila battaglie) se Nicolas Micheletti, del partito Democrazia Verde – a cui non appartengo – non mi ci avesse fatto pensare. Non divento vegano per la salute – un cancro non me lo evito così, viviamo sepolti da masse di veleni. Divento vegano perché non posso più mangiare sangue umano. Io sono Paolo Barnard, 32 anni a testimoniare nel mondo guerre, atrocità, il mostro neoliberista, cento inchieste, migliaia di articoli, sei libri. E poi, in trattoria, ordino sangue umano. Stragi, assassinii, sofferenze di milioni di poveri senza voce, e distruzione dell’ambiente. Tutto in un filetto alla griglia. Eh, no: non esistono più dubbi sul fatto che gli allevamenti animali intensivi, del mostro mondiale chiamato agribusiness, sono la causa di milioni di morti di fame nel mondo, e degli omicidi degli attivisti che li difendono – sono nelle cronache: leggetevi i giornali stranieri, in Italia non ne parla nessuno. Sono la causa di inquinamenti inimmaginabili da CO2 e da letame in quantità mostruose, che sterilizzano pezzi d’Oceano e intere regioni grandi come il Belgio, ogni anno.
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Conflitto mondiale in arrivo? Meyssan: no, è solo teatro
E’ ufficiale: non si capisce più niente, della pericolosa tensione che sta scuotendo il mondo, con epicentro – tanto per cambiare – il Medio Oriente. Sul “Giornale”, Marcello Foa si allarma seriamente: Donald Trump avrebbe appena mobilitato 150.000 riservisti: «Per fare cosa? Un attacco in grande stile alla Siria? Colpire prima Damasco e poi Teheran? In Corea del Nord? Purtroppo la sciagurata svolta di Donald Trump – che si è arreso ai neoconservatori facendo propria l’agenda strategica che in campagna elettorale aveva promesso di combattere – autorizza qualunque ipotesi. Anche quella più drammatica e sconvolgente di una guerra alla Russia di Putin». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, offre (da mesi) una lettura diversa: quella di Trump, «membro della cordata anti-Bush», sarebbe sempre stata soltanto una tragica farsa, che rivela la guerra interna, ai piani alti, tra gli oligarchi del pianeta: «Sanno che le risorse energetiche stanno finendo, quindi sgomitano per conquistarsi un posto in prima fila da cui sperano di attuare un Piano-B, ciascuno il suo». E, a proposito di “teatro”, dalla Siria un reporter come Thierry Meyssan avverte: l’offensiva anti-siriana, e quindi anti-russa, è solo apparente, affidata a missili “di cartone”, appositamente fuori bersaglio.Se sul suolo siriano sono potuti cadere 59 Tomahawk, scrive Meyssan su “Megachip”, è solo perché Mosca ha “spento” le batterie degli S-400, i suoi missili anti-missile, consentendo cioè a Trump di compiere la sua “performance teatrale”, che rappresenta un disperato tentativo di recuperare consenso interno, dopo i recenti rovesci. Non la pensa così Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, che – in campagna elettorale – difese la dignità delle istanze di Trump (la distensione con la Russia) denunciando il bellicismo “politically correct” della Clinton, strumento dei “falchi” neocon. Per Craig Roberts, quella di Trump non è cosmesi tattica: si tratta di una svolta vera e propria, che dimostrerebbe la resa del neopresidente all’establishment di Washington, quello che lavora per il “regime change” anche a Mosca, dove spera di rovesciare Putin, che è sotto assedio da anni: la guerra in Siria, quella in Ucraina, le sanzioni alla Russia. Meyssan, al contrario, sostiene che la partita non è ancora chiusa: le «troppe, strane incongruenze» dell’affaire siriano dimostrerebbero che il gruppo di Trump, sottobanco, sta giocando una sfida doppia: cercare di tener buoni i neocon, con concessioni di facciata per salvare la sua poltrona (e forse la sua stessa vita), e sparigliare le carte mettendo in crisi, alla fine, il “partito dell’Isis”, che ha il cervello a Washington e i tentacoli in Medio Oriente.Secondo Meyssan, Trump non ha «improvvisamente cambiato bandiera». Al contrario, asarebbe in corso una complessa pretattica. Lo dimostrerebbero svariati indizi. Tanto per cominciare, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’argomento di un attacco chimico perpetrato da Damasco non era sostenuto dal rappresentante del segretario generale, che infatti ha sottolineto «l’impossibilità, in questa fase, di sapere come questo attacco avrebbe potuto aver luogo». L’unica fonte sono gli “Elmetti Bianchi”, «vale a dire un gruppo di Al Qaeda a cui l’M16 britannico sovrintende ai fini della sua propaganda». Inoltre, aggiunge Meyssan, «tutti gli esperti militari sottolineano che i gas da combattimento devono essere dispersi tramite tiri d’obice e mai, assolutamente mai, tramite bombardamenti aerei». L’attacco americano alla base siriana? «Si è caratterizzato per la sua brutalità apparente: i 59 missili Bgm-109 Tomahawk avevano una capacità combinata equivalente a quasi il doppio della bomba atomica di Hiroshima. Tuttavia, l’attacco è stato anche caratterizzato dalla sua inefficienza: sebbene vi siano stati dei martiri caduti nel tentativo di spegnere un incendio, i danni sono risultati essere così poco importanti che la base funzionava nuovamente già all’indomani».Per Meyssan, è inevitabile constatare sia il fatto questa operazione «è solo una messa in scena: in questo caso, possiamo capire meglio il fatto che la difesa aerea russa non abbia reagito». Ciò implica che «i missili anti-missile S-400, il cui funzionamento è automatico, sono stati disattivati volontariamente in anticipo». Motivazione? «Tutto è accaduto come se la Casa Bianca avesse immaginato uno stratagemma inteso a condurre i suoi alleati in una guerra contro gli utilizzatori di armi chimiche, vale a dire contro i jihadisti. Infatti, fino ad oggi, secondo le Nazioni Unite, i soli casi documentati di uso di tali armi in Siria e in Iraq sono stati attribuiti a loro». Nel corso degli ultimi tre mesi, continua Meyssan, gli Stati Uniti hanno rotto con la politica del repubblicano George Bush Jr. (che firmò la dichiarazione di guerra del “Syrian Accountablity Act”) e di Barack Obama (che sostenne le “primavere arabe”, ossia la riedizione della “Grande rivolta araba del 1916”, organizzata dai britannici). «Tuttavia – aggiunge Meyssan – Donald Trump non era riuscito a convincere i suoi alleati, in particolare tedeschi, britannici e francesi». E ora, «saltando su quel che sembra essere un cambiamento radicale nella politica Usa, Londra ha fatto molte dichiarazioni contro la Siria, la Russia e l’Iran. E il suo ministro degli esteri, Boris Johnson, ha cancellato la sua visita a Mosca».Ma attenzione, ragiona Meyssan: «Se Washington ha cambiato la sua politica, per quale motivo il segretario di Stato Rex Tillerson ha tuttavia confermato la sua visita a Mosca? E perché dunque il presidente Xi Jinping, che si trovava a essere ospite del suo omologo statunitense durante il bombardamento di Chayrat, ha reagito in modo così molle, laddove il suo paese ha fatto uso per ben 6 volte del suo diritto di veto al fine di proteggere la Siria al Consiglio di sicurezza?». Non solo. «In mezzo a questo unanimismo oratorio e a queste incongruenze di fatto – osserva Meyssan – il vice consigliere del presidente Trump, Sebastian Gorka, moltiplica i messaggi che vanno in direzione contraria. Assicura che la Casa Bianca considera sempre il presidente Assad come legittimo e i jihadisti come il nemico». Gorka, spiega Meyssan, «è uno stretto amico del generale Michael T. Flynn che aveva concepito il piano di Trump contro i jihadisti in generale e Daesh in particolare». Come dire: non fatevi incantare dal “teatro” in corso: la verità è molto lontana dalla versione che campeggia nelle prime pagine. All’Onu, la Bolivia ha persino formulato il sospetto che l’attacco coi gas, in Siria, non sia neppure avvenuto. Tempo fa, la Russia esibì la sua potenza missilistica con il lancio di missili Kalibr, supersonici e “invisibili”: partiti da navi nel remoto Mar Caspio, centrarono al millimero tutti gli obiettivi. Il 7 aprile, dal vicinissimo Mediterraneo, gli Usa hanno sparato 59 Tomahawk su una base aerea, senza nemmeno danneggiarne la pista. Strano, no?E’ ufficiale: non si capisce più niente, della pericolosa tensione che sta scuotendo il mondo, con epicentro – tanto per cambiare – il Medio Oriente. Sul “Giornale”, Marcello Foa si allarma seriamente: Donald Trump avrebbe appena mobilitato 150.000 riservisti: «Per fare cosa? Un attacco in grande stile alla Siria? Colpire prima Damasco e poi Teheran? In Corea del Nord? Purtroppo la sciagurata svolta di Donald Trump – che si è arreso ai neoconservatori facendo propria l’agenda strategica che in campagna elettorale aveva promesso di combattere – autorizza qualunque ipotesi. Anche quella più drammatica e sconvolgente di una guerra alla Russia di Putin». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, offre (da mesi) una lettura diversa: quella di Trump, «membro della cordata anti-Bush», sarebbe sempre stata soltanto una tragica farsa, che rivela la guerra interna, ai piani alti, tra gli oligarchi del pianeta: «Sanno che le risorse energetiche stanno finendo, quindi sgomitano per conquistarsi un posto in prima fila da cui sperano di attuare un Piano-B, ciascuno il suo». E, a proposito di “teatro”, dalla Siria un reporter come Thierry Meyssan avverte: l’offensiva anti-siriana, e quindi anti-russa, è solo apparente, affidata a missili “di cartone”, appositamente fuori bersaglio.
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Buoni e Cattivi, la fiaba della guerra per il Fatto Quotidiano
«Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.Cina ed Europa, i “convitati di pietra”, secondo Coen «si accontentano di formali condanne appellandosi ai diritti umani». Mosca e Washington? «Per ora si confrontano, ma ancora non si affrontano. Non possono. E’ un braccio di ferro troppo rischioso. E forse, sia per gli Stati Uniti, sia per la Russia, è venuto il tempo di liquidare il dittatore di Damasco e il suo regime criminale». Voilà: il presidente (eletto) diventa “dittatore”, naturalmente a capo di un “regime criminale”: nulla a che vedere con gli altri regimi, amici dell’Occidente, notoriamente campioni in tema di diritti umani: Giordania, Arabia Saudita, Qatar, Turchia e via inorridendo. Ma forse non è il caso di ricordarlo ai lettori del “Fatto”. Meglio il perfido Bashar Assad, che «per la Russia, è un alleato che la scredita e la impiomba». E per l’America, è «l’occasione buona per ricollocarsi in Medio Oriente, e dimostrare che non si è abbassata la guardia». Ricollocarsi in Medio Oriente? Viene da chiedersi dove fosse, Leonardo Coen, quando si scatenavano le “rivoluzioni colorate” in tutti i paesi arabi dopo lo storico discorso di Obama al Cairo. Dov’era, Coen, quando gli americani spianavano la Libia e facevano scannare Gheddafi? Non l’hanno vista, alla redazione del “Fatto”, la foto-ricordo di John McCain in Siria, in intimità con il “califfo” Al-Baghdadi?La narrazione che il “Fatto” offre in questo caso sembra di tipo lunare, genere fantasy. «Così, Trump minaccia. E agisce. Putin minaccia, ma non può agire. Entrambi, giocano una mano di poker: per capire chi bluffa di più. Il magnate americano rischia il salto nel buio. Putin sventola il pericolo del suo “ombrello” militare in Siria. La flotta del Mar Nero è in preallarme. Quella del Baltico, pure. I missili di Kaliningrad, l’enclave russa tra Polonia e Lituania – cioè in piena Unione Europea – sono puntati sulle capitali del Vecchio Continente. L’Alleanza Atlantica è già in allerta». E’ tutto vero, naturalmente. Ma è come spiegare la pioggia senza citare le nuvole. Primo round: nel 2013 gli Usa cercano di far cadere Assad per poter poi minacciare direttamente l’Iran, ma Putin glielo impedisce schierando la flotta russa a difesa della Siria. Secondo round: Washington “risponde” organizzando il golpe in Ucraina con l’intento di sfrattare Mosca dal Mar Nero, ma – di nuovo – Putin riesce a tenersi la Crimea. Terzo round: furioso per le sconfitte a catena, Obama dispone un mostruoso dispiegamento militare in Est Europa a ridosso della frontiera russa, senza precedenti nella storia recente. Al che, ai russi non resta – come contromossa difensiva – che la base missilistica di Kalilingrad. Missili russi puntati sull’Europa? Mai quanto quelli che l’America ha puntato contro la Russia, trasformando la Romania in una rampa di lancio. Possibile che ai lettori del “Fatto” non interessi?«In verità», continua Coen, «Trump ha riscoperto – o meglio, il Pentagono – il ruolo di gendarme globale degli Stati Uniti». Trump, il Pentagono: i Buoni. E Putin, il Cattivo? «E’ rimasto platealmente vittima delle sue ambizioni imperiali», scrive Coen, come se, evidentemente, le uniche “ambizioni imperiali” ammissibili – e davvero imperiali, lontane mille miglia dalle proprie frontiere – fossero quelle americane. Il presidente russo è rimasto addirittura «invischiato nelle complesse trame che ha tessuto per riassegnare al suo paese il ruolo di superpotenza perduto dopo la caduta del Muro di Berlino e lo sbriciolamento dell’Unione Sovietica». Non si premura di rammentare ai suoi lettori, il giornalista del “Fatto”, che – prima di mettere il naso fuori dalla Russia – Putin ha dovuto innanzitutto spegnere l’incendio della Cecenia, acceso dalla Cia, e poi quello dell’Ossezia del Sud, devastata dalla Georgia su mandato di George W. Bush. Due focolai micidiali: uno nella Federazione Russa, l’altro sulla porta di casa. Succedeva nel 2008: non così tanto tempo fa, specie se si hanno a cuore le fatali vicende del lontano 1938.“Il Fatto”, però, non è prodigo di spiegazioni. Sembra preferire il racconto lineare, unilaterale e semplificato, rassicurante. «In apparenza, dunque, l’imprevedibile Donald ha cambiato di colpo tattica nei confronti dell’amico Vladimir. E ha ritirato la mano tesa, che tanto aveva turbato i sonni dei patrioti Usa». I missili di Trump, continua Coen, «hanno sparigliato le carte della grande partita internazionale: il mondo si è diviso in due, come ai tempi della Guerra Fredda. “Sostegno totale” degli alleati degli Stati Uniti. Condanna dei suoi avversari. Le cancellerie hanno rispolverato il lessico dei blocchi contrapposti». Leonardo Coen sembra pefettamente al corrente dell’accaduto: «Assad, insistono i russi, è innocente (per forza: sono loro che l’armano e lo proteggono). I gas, una balla. I russi negano l’evidenza e le testimonianze: tutto il mondo ha visto gli effetti del gas. E questo li ha moralmente isolati». Ecco, infatti: tutto il mondo ha visto gli effetti dei gas, ma nessuno al mondo, per ora, può provare che li abbia sganciati Assad. Solo che, a quanto pare, l’identità del vero killer non è importante. Nemmeno se, come già accadde nel 2013, poi si scoprisse che l’assassino non è “il dittatore”, ma i suoi avversari?«Certo – concede Coen – la politica e la guerra se ne fregano dell’etica e della morale. Ma al tempo dell’informazione istantanea e globale, la menzogna tanto può essere utile – vedi in caso di elezioni – quanto può diventare micidiale, con le immagini cruente ed atroci dei bimbi sarinizzati». Vero, anche questo: tutto dipende però da chi la impugna, “la menzogna”. Quanto al «nuovo repentino cambio d’atteggiamento di Trump», anche su questo Leonardo Coen ha le idee chiarissime: il presidente americano «ha dovuto arrendersi allo stato delle cose: gli interessi geopolitici Usa non collimano con quelli russi». Perlomeno, «non fin quando al Cremlino ci sarà il clan putiniano, nemico della libertà d’opinione, e il potere resterà saldo in mano agli ex uomini del Kgb». E così l’album dei Cattivi è al completo. E se i russi – quasi 150 milioni di persone – sostengono all’85% un capoclan del Kgb, significa semplicemente che sono cretini? Centocinquanta milioni di cretini?Ma non è tutto: Coen informa i suoi lettori che «Trump ha cozzato contro il mondo reale: quello dei fatti, non delle verità truccate dal suo guru Stephen Bannon, ed ex direttore del sito dell’ultradestra suprematista Breitbart News, messo (finalmente) in un angolo». Bannon, altro membro d’onore del club dei Cattivi, era – per inciso – lo stratega della distensione con Mosca: via lui, infatti, ecco i missili (buoni, ovviamente). Ma, “sistemato” Bannon, l’offensiva (giornalistica) nei confronti di Putin non è ancora esaurita: «Pensava di essere il più astuto del reame, di poter contare per quel che riguardava la Siria di una certa libertà di manovra, forte anche del fatto che in Occidente c’erano movimenti estremisti anti-Ue a lui favorevoli. Invece – scrive Coen – è rimasto intrappolato dalla sua sicumera». Ben gli sta: «I gas che hanno ammazzato decine di bimbi a Khan Sheikhoun hanno dissipato in pochi minuti il paziente lavorìo militare e diplomatico del presidente russo». Non solo: «Persino il nuovo alleato turco Erdogan lo ha clamorosamente contraddetto, invocando addirittura la collera di Allah per l’ignobile azione attribuita ad Assad, o a qualche suo generale, il che non cambia la sostanza». Erdogan, cioè la Turchia (Nato) che ha protetto l’Isis nell’invasione della Siria: nemmeno questo ai lettori interessa?In più, Coen esibisce altre granitiche certezze sul bombardamento con i gas: «Gli americani avevano acquisito le prove – stavolta non inventate da Bush e Blair come al tempo della guerra in Iraq ma documentate dai satelliti – che l’attacco chimico proveniva da un aereo siriano». Le prove, ecco: ma dove sono? Ok, le hanno “acquisite gli americani”. Come le altre volte, in Siria e in Iraq? No, stavolta sono prove vere, “documentate dai satelliti”. Garantisce il “Fatto Quotidiano”. Che si diverte, ancora, a spese di Putin: mentre i Buoni “acquisivano le prove”, dunque, «lo zar si affannava a dire che si trattava di “fake news”, di balle». Chiosa Coen: «Beffardo contrappasso, l’ex tenente colonnello del Kgb che denuncia la disinformatija americana…». E ancora: «Assad è il responsabile di tutto ciò». Chi lo sostiene? Lo dicono «all’unisono» Hollande e la Merkel. Una garanzia: Hollande ha silenziato le indagini su Charlie Hebdo imponendo il segreto militare, dopo che erano emersi collegamenti tra il commando dell’Isis e i servizi francesi, mentre la Merkel, risultata coinvolta nel golpe neonazista di Kiev, ha approvato il piano Obama per militarizzare le frontiere europee con la Russia.«I missili Usa – scrive ancora Coen – sono “un avvertimento”, e pure una forma di “condanna” del “regime criminale” di Assad». La situazione: «Con Washington stanno Arabia Saudita e Giappone, Israele offre il suo “totale” sostegno, sperando che “questo messaggio forte” possa essere inteso da Teheran e da Pyongyang, ha dichiarato il premier Benyamin Netanyahu», campione del mondo in carica riguardo all’uso di armi di distruzione di massa sulla popolazione civile, il fosforo bianco sganciato su Gaza (oltre 1.300 morti, secondo l’Onu, inclusi donne e bambini). E la Turchia, cioè la base logistica settentrionale dell’operazione-Isis contro Damasco? «Ankara vorrebbe una zona “d’esclusione aerea” in Siria, considera che i missili siano stati una buona medicina». Meglio tornare al lessico calcistico: «Il Pentagono ha battuto il Cremlino? La “punizione” americana per la strage provocata dall’attacco chimico che ha un valore soprattutto dimostrativo, trova consenso nella pubblica opinione statunitense e anche in quella mondiale, scossa dall’atrocità del tiranno di Damasco. Assad si è scavato la fossa». Vinceranno i Buoni, è ovvio. E buonanotte, a tutti i lettori. Sogni d’oro.«Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.
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Carpeoro: oligarchi in guerra, e idioti che tifavano Trump
«Stupiti che Trump abbia sparato missili sulla Siria? Friggeva dalla voglia di farlo, e finalmente l’ha fatto. Con buona pace dei tanti idioti che avevano creduto in lui, come fosse qualcosa di diverso dai suoi predecessori». In collegamento con Fabio Frabetti di “Border Nights”, l’autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” spiega così l’ultimo sussulto di guerra in Medio Oriente: «E’ la guerra degli oligarchi, sgomitano per non restare indietro: sanno che le risorse del pianeta stanno per finire, e ciascuno tenta di conquistare la prima fila per mettere in atto il suo Piano-B». Soldi, interessi. Nient’altro. Da conquistare con ogni mezzo, dai missili al terrorismo “false flag”, targato Isis, che nel frattempo colpisce anche la Svezia, a Stoccolma, con il “solito” veicolo lanciato sulla folla, come già a Nizza, a Berlino, a Londra. Carpeoro legge gli indizi dell’escalation: «Tanti attentati, in serie, temo preparino un attentato più devastante». Il metodo del camion-kamikaze? Micidiale: «Costi minimi, rischio zero, potenzialità di fare enormi danni: gli stessi di un grosso investimento in termini di intelligence, che però comporterebbe alti costi e grandi rischi». Strada ormai obbligata, per l’Isis: «Senza più una base territoriale, è più semplice mandare in giro dei “cani sciolti”, destinati a colpevolizzare l’Islam, che ovviamente non c’entra niente».