Archivio del Tag ‘leghisti’
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Scanzi: governo, il suicidio perfetto del mitologico Mattarella
Tutti in piedi, perché siamo già dritti dritti dentro la leggenda. E’ tutto bellissimo. Domenica, quando Re Sergio ha preso a pretesto il vecchio trombone Savona facendolo passare per un Bakunin scavezzacollo, la cosa più bella era vedere i renziani e gli annessi cortigiani che esultavano, ovviamente ignari di qualsivoglia competenza costituzionale e del tutto sconnessi da qualsiasi analisi politica minima: “Ha salvato il paese”, “Ha salvato la democrazia”. Come no. E magari ha pure salvato la buonanima di stocazzo. Per carità: l’impeachment proposto da M5S e Meloni è una buffonata, che oltretutto porta pure sfiga (chiedere a Occhetto, che poi si sfracellò nel ’94, e al M5S, che di lì a poco fu disintegrato alle Europee 2014). Quello di Mattarella non è un atto eversivo: molto più semplicemente, è una delle più grandi puttanate politiche nella storia della galassia. Leggo che ora sono in molti a voler votare il 29 luglio. Non solo M5S e Lega, ma pure Pd, magari quella quota anti-renziana (si fa per dire) che spera così di mondare le liste dal mosciume andrearomanico-renzista-migliorista. Ohibò: ricordo male o votare a luglio era esattamente ciò che più non voleva Mattarella?Domenica sera ho letto molti commenti, ora renzisti e ora sinistrorsisti, che dicevano: “Alè, abbiamo evitato Salvini agli Interni! #iostoconmattarella”. Bravi: non avrete Salvini al Viminale, ma lo avrete come Presidente del Consiglio. Son soddisfazioni. Intanto lo spread cresce ancora (ma non era colpa del Salvimaio?), Cottarelli ha la grinta di Orfini in ciabatte e Renzi ha ricominciato a parlare da solo su Facebook, dispensando le consuete battute da Panariello irrisolto. C’è poi Gunther Oettinger, Commissario Ue al Bilancio, che dichiara: “Mercati spingeranno gli italiani a non votare per i populisti”. Giusto per ricordarci che votiamo in Italia, ma decidono in Germania. Non male anche la grande pensata dei sinistrorsi, in prima fila Boldrini e D’Alema, antichi sfollatori di consensi, che esortano a unirsi a tutti (anche e soprattutto con Renzi) per difendere Mattarella (che Renzi sfanculava fino a ieri poiché colpevole di non averci fatto votare “in una delle finestre del 2017”) e “per arginare la deriva sovranista”, come fosse Antani e con tapioca prematurata. La poraccitudine imperversa e sciaborda con sicumera crassa.Con il suo gesto costituzionalmente spericolato (lo dicono Onida e Villone, non proprio grillo-leghisti) e politicamente folle, il rutilante Mattarella ha regalato il paese proprio a chi detesta di più. Cioè i populisti. A partire dalla Lega. Che infatti, a giudicare dai sondaggi, è già a un passo dal 30% (a marzo non arrivava al 18). Dopo il voto Salvini potrà scegliere: o governare (con ruolo dominante) con M5S, realizzando un governo ancora più forte – e quindi più detestabile dai mattarellisti – del governicchio Conte. Oppure, ed è l’ipotesi più probabile, sarà il dux indiscusso di un governo di centrodestra con Berlusconi ridotto a vassallo, ma comunque ben presente. Un capolavoro di cui dovremo ringraziare il Capo dello Stato, fenomeno vero e idolo imperituro delle galassie. Daje.(Andrea Scanzi, “Governo, il suicidio perfetto del mitologico Mattarella”, dal “Fatto Quotidiano” del 29 maggio 2018).Tutti in piedi, perché siamo già dritti dritti dentro la leggenda. E’ tutto bellissimo. Domenica, quando Re Sergio ha preso a pretesto il vecchio trombone Savona facendolo passare per un Bakunin scavezzacollo, la cosa più bella era vedere i renziani e gli annessi cortigiani che esultavano, ovviamente ignari di qualsivoglia competenza costituzionale e del tutto sconnessi da qualsiasi analisi politica minima: “Ha salvato il paese”, “Ha salvato la democrazia”. Come no. E magari ha pure salvato la buonanima di stocazzo. Per carità: l’impeachment proposto da M5S e Meloni è una buffonata, che oltretutto porta pure sfiga (chiedere a Occhetto, che poi si sfracellò nel ’94, e al M5S, che di lì a poco fu disintegrato alle Europee 2014). Quello di Mattarella non è un atto eversivo: molto più semplicemente, è una delle più grandi puttanate politiche nella storia della galassia. Leggo che ora sono in molti a voler votare il 29 luglio. Non solo M5S e Lega, ma pure Pd, magari quella quota anti-renziana (si fa per dire) che spera così di mondare le liste dal mosciume andrearomanico-renzista-migliorista. Ohibò: ricordo male o votare a luglio era esattamente ciò che più non voleva Mattarella?
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Magaldi al “fratello” Krugman: a Roma non ci sono i barbari
«E bravo Di Maio: il programma viene prima dei nomi, dei personalismi, delle ambizioni». Gioele Magaldi, finora mai tenero con il neo-leader dei 5 Stelle, apprezza il metodo condiviso con Salvini in funzione del governo: presentare ai cittadini, punto su punto, una lista precisa di cose da fare. «E’ la prima volta che succede, nella storia della Repubblica italiana», ha detto a “Border Nights” il documentarista Massimo Mazzucco: «Ottima novità, dato che la trasparenza è parte fondamentale del meccanismo democratico». Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt – che ha avanzato la candidatura di Nino Galloni per Palazzo Chigi – concorda con Mazzucco: sembra proprio la fine del leaderismo della Seconda Repubblica, fondato su vuoti slogan che servivano solo a coprire la sottomissione sostanziale dei vari governi italiani ai diktat dell’oligarchia (supermassonica) che dirige, in modo privatistico, le istituzioni «sedicenti europee, in realtà fatte apposta per allontanare i cittadini dall’idea stessa di Europa unita». E a proposito di massoni: «Mi spiace che il “fratello” Paul Krugman, Premio Nobel per l’Economia e massone progressista, abbia manifestato allarme per l’eventuale esecutivo “gialloverde”: stavolta sbaglia, a Roma non ci sono “i barbari” ma, finalmente, politici disposti a cominciare a cambiare qualcosa, nell’insopportabile copione eurocratico e finto-europeista che ha causato la crisi italiana».Probabilmente, aggiunge Magaldi a “Colors Radio” «Krugman è giustamente preoccupato per l’annunciata esclusione, dal prossimo governo, di esponenti della massoneria: si tratta evidentemente di un abuso, visto che la Costituzione italiana non consente di discriminare cittadini per via della loro appartenenza culturale, religiosa o filosofica». Magaldi annuncia che il Movimento Roosevelt è al lavoro per convincere i pentastellati a fare retromarcia, onde non incorrere – fra l’altro – in possibili azioni legali. Lo ha ripetuto, negli ultimi mesi, anche accusando lo stesso Di Maio di aver ripetutamente bussato ai “santuari” della finanza anglosassone, notoriamente massonici: inutile strillare contro “i massoni” per poi magari fare anticamera proprio davanti alla loro porta, dimenticando peraltro la formazione massonica di veri e propri padri della patria come Meuccio Ruini, presidente della commissione che diede vita alla Costituzione democratica. Ma, a parte questo, l’ostracismo velleitario contro i “grembulini” conclamati non mette certo i 5 Stelle al riparo dalla presenza di eventuali massoni occulti. Una situazione non priva di risvolti comici: «C’è gente che ancora ride – dice Magaldi – ricordando quanto goffamente Mario Monti riuscì a mentire, sulla propria identità massonica, interpellato da Lilli Gruber dopo che il mio libro appena uscito, “Massoni”, lo presentava come autorevole esponente dell’aristocrazia massonica europea di stampo reazionario».Se Magaldi annuncia, in parallelo, l’iniziativa interamente massonica condivisa con un’obeddienza prestigiosa come la Camea per arrivare a redigere una sorta di registro ufficiale delle affiliazioni italiane, mettendo così fine alle periodiche speculazioni sulle presunte malefatte della massoneria in quanto tale, il presidente del Movimento Roosevelt promuove in ogni caso l’attivismo di Salvini e Di Maio: sarebbe il primo passo, che tutti aspettano, per cominciare a riscrivere in senso democratico, e non oligarchico, il destino del nostro paese. Nino Galloni? «E’ un eminente economista sovranista, di formazione keynesiana, apprezzato sia dai leghisti che dai pentastellati. E’ figlio del compianto ministro Giovanni Galloni, autorevole esponente di quella sinistra Dc a cui apparteneva anche lo stesso presidente Mattarella. A Palazzo Chigi sarebbe l’uomo giusto al posto giusto, anche se forse non è ancora venuto il suo momento: è comprensibile che oggi la scelta ricada su personalità meno preoccupanti, per Bruxelles». Ma attenzione: «Presto o tardi, Nino Galloni sarà tra i protagonisti dell’imminente Terza Repubblica». Entro l’estate, avverte Magaldi, assumeranno concretezza i preparativi per un nuovo soggetto politico, di cultura liberal-socialista, visto lo stato di rottamazione di Forza Italia e del Pd: «L’ex centrodestra berlusconiano e il fu centrosinistra sono palesemente alla frutta, avrebbero bisogno di una rigenerazione radicale. Il Pd – come tutti possono vedere – è ormai in stato imbarazzante, senza più una classe dirigente: a questo punto farebbe bene a sciogliersi».«E bravo Di Maio: il programma viene prima dei nomi, dei personalismi, delle ambizioni». Gioele Magaldi, finora mai tenero con il neo-leader dei 5 Stelle, apprezza il metodo condiviso con Salvini in funzione del governo: presentare ai cittadini, punto su punto, una lista precisa di cose da fare. «E’ la prima volta che succede, nella storia della Repubblica italiana», ha detto a “Border Nights” il documentarista Massimo Mazzucco: «Ottima novità, dato che la trasparenza è parte fondamentale del meccanismo democratico». Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt – che ha avanzato la candidatura di Nino Galloni per Palazzo Chigi – concorda con Mazzucco: sembra proprio la fine del leaderismo della Seconda Repubblica, fondato su vuoti slogan che servivano solo a coprire la sottomissione sostanziale dei vari governi italiani ai diktat dell’oligarchia (supermassonica) che dirige, in modo privatistico, le istituzioni «sedicenti europee, in realtà fatte apposta per allontanare i cittadini dall’idea stessa di Europa unita». E a proposito di massoni: «Mi spiace che il “fratello” Paul Krugman, Premio Nobel per l’Economia e massone progressista, abbia manifestato allarme per l’eventuale esecutivo “gialloverde”: stavolta sbaglia, a Roma non ci sono “i barbari” ma, finalmente, politici disposti a cominciare a cambiare qualcosa, nell’insopportabile copione eurocratico e finto-europeista che ha causato la crisi italiana».
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Magaldi: imbecilli a reti unificate minacciano Lega e 5 Stelle
Imbecilli: lasciano credere che il debito dello Stato sia come quello della tabaccheria sotto casa, esposta con la banca. Imbecilli pericolosi: perché scrivono sui giornali e parlano ogni sera in televisione. Somari in buona fede, disastrosamente ignoranti, o vecchi marpioni in malafede? «Non so cosa sia peggio», dice Gioele Magaldi: una persona intelligente puoi sempre persuaderla, mentre di fronte a un cretino non ci sono speranze. Gli imbecilli di turno? Quelli che cercano di spaventare gli italiani, bocciando le “mirabolanti promesse” dell’ipotetico governo gialloverde di Salvini e Di Maio. Lega e 5 Stelle, in realtà, stanno terrorizzando solo l’establishment: i professori della catastrofe, i notai dell’infame declino del paese. Le loro ricette hanno devastato l’Italia, eppure insistono: bisogna tagliare redditi e consumi, senza capire che – per quella strada, se il Pil non cresce – poi a esplodere è proprio il debito, inevitabilmente. «Arriva a comprenderlo anche un mediocre studente di economia, ma non gli imbecilli che ci parlano ogni giorno sui giornali e in televisione», dice Magaldi, in una diretta web-streaming su YouTube con Marco Moiso, in cui rilancia un nome fortissimo per Palazzo Chigi: quello dell’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt.
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Mentre Lega e 5 Stelle flirtano, la Bce ci mangia le banche
Complottisti si diventa, ma citando Totò io direi che “lo nacqui, modestamente” ed anche se la neolingua ha coniato questa stupida definizione dalle forti tinte negative – il complottismo – chi crede che i complotti non esistano o non ha mai studiato la storia oppure l’ha studiata senza mai capirla. Anche oggi, mentre tutti gli attivisti politici – tutti – riempiono le pagine dei quotidiani e i social pontificando sulla nascita del nuovo governo, solo qualche barbaro debunker seriale si è occupato del colpo gobbo perpetrato dall’Unione Europea contro le banche italiane. Ma come, verrebbe da dire, il Partito Democratico è caduto sotto l’accusa di aver “aiutato le banche”, e ora grillini pentastellati e leghisti manco si accorgono di quello che sta succedendo alla banche di credito cooperativo? La faccenda è tanto lunga, quanto grave e tristemente nuova. Val la pena proporre qui una breve sintesi. Per chi non lo sapesse, le Bcc sono banche di diritto diverso da quelle trdizionali e sono sotto il controllo locale; prestano denaro, cioè finanziano le piccole e medie imprese italiane e, pur essendo esse stesse singolarmente piccole, il loro intervento è stato in questi lustri vitale per l’economia nazionale, visto che le piccole e medie imprese, cioè l’artigiano, il commerciante, ecc, caratterizzano il 90 per cento del tessuto produttivo italiano.Si poteva forse lasciarle stare? Macchè! Se si vuole – come si vuole – piegare l’Italia e ricattarla a 360 gradi (anzi, metterla a novanta gradi, per essere proprio esatti), anche le Bcc devono piegare le ginocchia e genuflettersi alla corte di Bruxelles. A maggio le Bcc cambiano infatti pelle, perchè perdono la loro natura cooperativa, che le obbliga ad aiutare i soci e investire, per statuto, solo sul territorio. La tradizione risale alla cultura cristiana dell’Ottocento che già allora reagiva alla dispersione capitalistica della prima rivoluzione industriale. Le Bcc sono metà del sistema bancario italiano, mica pizza e fichi, con propensione per i micro imprenditori, per ovvi motivi legati alla vocazione comunitaria. Con la Legge 49 del 2016 si impone alle Bcc che si fondano in una specie di holding, tanto per parlare come si mangia, con precisi obblighi di capitalizzazione. Cosa significa? Signifia che anche la Bcc va verso l’aggregazione bancaria con delle capogruppo ipetrofiche, che saranno delle holding controllate. In altri termini, l’inculata che si presero le banche popolari qualche anno fa, che fallirono (de facto…) perchè divennero preda dei fondi speculativi, sta per ripetersi anche per la banche di credito cooperativo.Più semplicemente, queste Bcc una volta fuse e controllate da una capogruppo, avranno libero acceso al grande mercato dei capitali e quindi le quote – con i soliti magheggi aggiratutto – finiranno in mano ai fondi esteri, prima o poi. Sulla carta, questi fondi, cioè questi investitori, potranno ciucciarsi il 49 per cento; dunque, non la maggioranza assoluta. Ma non si tratta proprio di bruscolini, ed è probabile che questi capitali cercheranno l’interesse della globalizzazione e non quello locale. Siamo, dunque, alle solite. Non solo: con questa riforma voluta dall’Europa, le banche anche come sportelli, si ridurranno. Ma, soprattutto, la Bce potrà controllarle perché diventeranno un gruppo bancario grande e come tale sottoposto a vigilanza Ue. I danni saranno enormi, perchè verrà meno lo spirito mutualistico tipico della dottrina sociale dei cattolici e anche perché le uniche banche “sensate” che operano sul territorio diventeranno un oligopolio uguale a quello che già conosciamo e che ha funzionato come tutti abbiamo purtroppo già visto. Ovviamente, questa ipermanovra viene portata avanti mentre tutti parlano eslcusivamente di Giggetto Di Maio e di “Ronfo” Salvini, il bue e l’asinello di un presepe privo di qualsaisi santità.(Massimo Bordin, “E mentre Lega e 5 Stelle flirtano, la Bce gode”, dal blog “Micidial” dell’11 maggio 2018).Complottisti si diventa, ma citando Totò io direi che “lo nacqui, modestamente” ed anche se la neolingua ha coniato questa stupida definizione dalle forti tinte negative – il complottismo – chi crede che i complotti non esistano o non ha mai studiato la storia oppure l’ha studiata senza mai capirla. Anche oggi, mentre tutti gli attivisti politici – tutti – riempiono le pagine dei quotidiani e i social pontificando sulla nascita del nuovo governo, solo qualche barbaro debunker seriale si è occupato del colpo gobbo perpetrato dall’Unione Europea contro le banche italiane. Ma come, verrebbe da dire, il Partito Democratico è caduto sotto l’accusa di aver “aiutato le banche”, e ora grillini pentastellati e leghisti manco si accorgono di quello che sta succedendo alla banche di credito cooperativo? La faccenda è tanto lunga, quanto grave e tristemente nuova. Val la pena proporre qui una breve sintesi. Per chi non lo sapesse, le Bcc sono banche di diritto diverso da quelle trdizionali e sono sotto il controllo locale; prestano denaro, cioè finanziano le piccole e medie imprese italiane e, pur essendo esse stesse singolarmente piccole, il loro intervento è stato in questi lustri vitale per l’economia nazionale, visto che le piccole e medie imprese, cioè l’artigiano, il commerciante, ecc, caratterizzano il 90 per cento del tessuto produttivo italiano.
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Folli: governo “istituzionale” con Pd e M5S o nuove elezioni
«Avremo la solita merda, perché votiamo con odio: contro qualcuno, anziché per qualcosa». A due mesi dalla tornata elettorale del 4 marzo, sembra stia avverandosi la ruvida “profezia” di Gianfranco Carpeoro, massone e saggista, osservatore particolare della scena italiana. «Non scegliamo un progetto, una prospettiva, un’ipotesi di futuro: alle urne, ci basta punire il “cattivo” di turno», si chiami Craxi o Berlusconi, o magari Matteo Renzi. Risultato: nessun vero progetto è sul tappeto, nemmeno stavolta, dopo settimane di inutili consultazioni. Fallito l’aggancio tra Di Maio e Salvini per via del veto sul Cavaliere, non resta che l’increscioso “inciucio” tra ex acerrimi nemici, peraltro annunciato dallo stesso Carpeoro: «La massoneria, italiana e internazionale, sta facendo enormi pressioni sul Pd perché archivi Renzi e si allei coi 5 Stelle». Magari per dare vita a un “governo istituzionale”, come unica alternativa alle elezioni anticipate (quasi inutili, restando invariata la legge elettorale). Lo afferma anche Stefano Folli, editorialista di “Repubblica”, sondato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario” dopo la chiusura del mandato esplorativo di Roberto Fico. Ora tocca al Pd pronunciarsi. Ma quella del governo “istituzionale”, secondo Folli, è l’unica soluzione sulla quale il Pd renziano potrebbe trovare un punto di incontro con i grillini. «Mattarella attende fiducioso nuovi sviluppi, ma le possibilità di formare una maggioranza politica sono pressoché esaurite».Di Maio si è rivolto agli elettori del Pd, ha difeso la necessità di un “contratto di governo al rialzo”. Ha detto che serve una legge sul conflitto di interessi e ha perfino “difeso” Salvini dal possibile attacco mediatico di Berlusconi. «Il conflitto di interessi non è una novità per Di Maio, ma stavolta è stata una minaccia: Berlusconi badi a non mettersi troppo di traverso». Secondo Folli, «le blandizie a Salvini sono poca cosa, se l’obiettivo è cercare di riaprire il fronte leghista, con l’idea che Salvini possa mollare Berlusconi dopo il voto in Friuli», alle regionali. Di Maio continua a parlare da premier in pectore, ma lo sarà mai? «No, né lui né Salvini», risponde Folli. «Di Maio parla al suo elettorato, che comincia ad essere assai deluso di quanto sta accadendo». Attenzione: «Se al malumore crescente per l’ipotesi di un’alleanza con il Pd si aggiunge la rinuncia esplicita a Palazzo Chigi, non è difficile immaginare cosa potrebbe succedere nei 5 Stelle». Sul fronte opposto, i “governisti” del Pd sono ancora in minoranza, ma non è detto che il 3 maggio la direzione nazionale del partito sancisca per forza il “no” all’ipotesi di un governo col Movimento 5 Stelle: «La politica è strana», ammette Folli. «Stiamo vivendo una stagione piena di imprevisti».Difficile pensare a un accordo diretto tra Pd e 5 Stelle, «però un governo di garanzia o istituzionale sarebbe certamente visto in modo diverso nel Pd, anche da parte di coloro che oggi dicono “no” e basta». Sarebbe l’unica soluzione alternativa alle elezioni anticipate, sostiene Folli. Ma che governo dovrebbe essere, per essere votato anche da Salvini e Di Maio? «Un governo senza un’impronta politica, senza rappresentanti dei partiti nella squadra di governo e senza una maggioranza politica intesa come tale a sostenerlo». In altre parole: un esecutivo che non contenga nessuna delle istanze emerse alle elezioni (“la solita merda”, per dirla con Carpeoro). Cambiare almeno la legge elettorale? Solo strada facendo, dato che «ci vuole un accordo trasversale molto ampio, una maggioranza politica», mentre oggi «si comincerebbe da una semplice convergenza parlamentare su un governo di transizione». Un governo, ricorda Ferraù, che dovrebbe innanzitutto farsi carico del Def: cioè la “lista del rigore” che l’Ue pretende, come se gli italiani non avessero votato – in larga maggioranza – per archiviare l’austerity, tagliando le tasse e finanziando il reddito di cittadinanza. Il Def che incombe sul paese, ricorda Stefano Folli, prevede invece il taglio della spesa per scongiurare l’aumento dell’Iva: «Un’eventualità micidiale per l’economia italiana. E’ davvero singolare che non se ne parli».In mancanza di un’alternativa politica, osserva Folli, questo tipo di governo sarebbe la prima opzione del Colle. «L’altro giorno Di Maio ha scartato questa soluzione, a parole; nei fatti, potrebbe andare diversamente». E se anche questa soluzione dovesse fallire? «Resterebbero solo le elezioni anticipate, insieme al problema del governo con cui arrivarci», sottolinea l’editorialista di “Repubblica”. «Sarebbe un fallimento politico tremendo: altri Stati europei hanno rivotato in breve tempo senza terremoti, ma nella situazione italiana bisognerebbe pensarci bene prima di precipitarsi di nuovo alle urne, magari solo per calcoli e ripicche». Eppure, questa è la situazione: l’unica svolta politica – l’alleanza tra Di Maio e Salvini – è bloccata da Berlusconi, con cui Salvini non romperebbe mai, dato che punta a ereditare l’elettorato del Cavaliere: «Non gli conviene fare il partner di minoranza di un governo Di Maio, nemmeno in cambio di qualche ministro di peso». E se Berlusconi teme le urne, a scommettere sulle elezioni anticipate sarebbe proprio Renzi. Un calcolo spericolato, motivato solo dalla voglia di «regolare ancora una volta i conti con i suoi nemici interni, Franceschini per primo, e ottenere il controllo assoluto di un partito che ritiene non possa scendere sotto la percentuale del 4 marzo», un umiliante 18,7%. Un tracollo inflittogli dall’elettorato leghista e grillino, che il Pd pro-Bruxelles non ancora trovato il coraggio di discutere. Sul fronte opposto, chi ha vinto le elezioni (alzando il tono contro il rigore Ue) sembra destinato, ancora una volta, a “perdere” il governo.«Avremo la solita merda, perché votiamo con odio: contro qualcuno, anziché per qualcosa». A due mesi dalla tornata elettorale del 4 marzo, sembra stia avverandosi la ruvida “profezia” di Gianfranco Carpeoro, massone e saggista, osservatore particolare della scena italiana. «Non scegliamo un progetto, una prospettiva, un’ipotesi di futuro: alle urne, ci basta punire il “cattivo” di turno», si chiami Craxi o Berlusconi, o magari Matteo Renzi. Risultato: nessun vero progetto è sul tappeto, nemmeno stavolta, dopo settimane di inutili consultazioni. Fallito l’aggancio tra Di Maio e Salvini per via del veto sul Cavaliere, non resta che l’increscioso “inciucio” tra ex acerrimi nemici, peraltro annunciato dallo stesso Carpeoro: «La massoneria, italiana e internazionale, sta facendo enormi pressioni sul Pd perché archivi Renzi e si allei coi 5 Stelle». Magari per dare vita a un “governo istituzionale”, come unica alternativa alle elezioni anticipate (quasi inutili, restando invariata la legge elettorale). Lo afferma anche Stefano Folli, editorialista di “Repubblica”, sondato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario” dopo la chiusura del mandato esplorativo di Roberto Fico. Ora tocca al Pd pronunciarsi. Ma quella del governo “istituzionale”, secondo Folli, è l’unica soluzione sulla quale il Pd renziano potrebbe trovare un punto di incontro con i grillini. «Mattarella attende fiducioso nuovi sviluppi, ma le possibilità di formare una maggioranza politica sono pressoché esaurite».
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Questa sinistra che spara (sui bambini siriani e sulla verità)
In questi ultimi giorni siamo stati con il fiato sospeso, preoccupati dagli eventi che velocemente hanno portato il mondo a una nuova e insanabile frattura; l’attacco americano (e dei suoi alleati) ai danni della Siria è stato l’apice di una tensione costruita e fomentata per anni, discorso dopo discorso, campagna dopo campagna, insinuazione dopo insinuazione: ci hanno parlato di White Helmets, di “ribelli moderati” e di depositi di armi chimiche mai esistiti e noi ci abbiamo creduto; non ci hanno mai parlato invece delle battaglie vinte, delle città liberate (Palmyra, Aleppo, Raqqa e Deir Ezzor), dei traguardi raggiunti dalle forze congiunte tra eserciti governativi, russi, iracheni e curdi o delle relazioni tra la Nato e le cellule jihadiste che occupavano le città liberate. Tutto, hanno omesso tutto. Nel frattempo, nel nostro Belpaese che continua a non avere un governo ma prende comunque significative decisioni di politica estera (vedi: sanzioni Russia e questione siriana), l’informazione non si è poi di tanto allontanata da quella dettata dalle corporative media (per dirlo all’americana) internazionali. Qui, tra un servizio sui malanni di stagione e uno sulle nuove tendenze della prossima estate, non sono mancate le panzane degli elmetti bianchi, dei ribelli moderati (poi scopertosi cellule di Al-Nusra) o delle oppressioni ai danni del popolo siriano da parte del proprio presidente democraticamente eletto.Ma che la televisione fosse una cattiva maestra ce lo aveva già detto Popper anni fa, che però riponeva fiducia nella classe dirigente e nell’intellighenzia del governo per arginare i danni della Tv. In Italia invece, dove ogni problema pare sempre più grave, l’intellighenzia che per antonomasia si batte per i più deboli, che tenta di annullare le ingiustizie sociali causate dallo sfruttamento del lavoro ed è convintamente contro la guerra (leggasi: la sinistra) è la prima ad essere pronta e sull’attenti quando c’è bisogno di bombardare o, come si dice adesso, “portar democrazia” un paese che gravita fuori dalla nauseabonda ombra dello zio Sam. Intendiamoci: diversi partiti minoritari (relegati per giochi elettorali a non più del 1,5%) della sinistra hanno preso convintamente le distanze dall’atto di aggressione atlantica in Medio Oriente ma ahinoi, qui, per ora, l’intellighenzia che guida la sinistra maggioritaria non è questa, bensì quella di Renzi, della Bonino, della Boldrini, di Riotta e di tutti quelli che prima si fanno foto dove si tappano la bocca per denunciare presunti attacchi chimici (non ancora dimostrati) e preparare l’opinione pubblica a legittimare l’intervento nazionale, ma poi tra qualche mese lanceranno l’ennesima campagna per denunciare i crimini di guerra a Damasco o ad Aleppo provocati dalla guerra che loro stessi, sornioni e convinti di essere sempre dalla parte della ragione, hanno cercato di legittimare e mistificare.In questo paradossale panorama politico l’unica frangia della politica che si è in massa imposta contro l’intervento in Siria è stata la destra, la brutta e cattiva destra, quella che “i buoni” ci dicono essere razzista, populista, fascio-leghista, xenofoba e quant’altro. Questi signori dal selfie facile hanno legittimato tutto, hanno creduto alla farsa di Colin Powell che sventolava finte boccette di veleno per convincere il consiglio dell’Onu ad attaccare Saddam, non hanno fiatato quando abbiamo bombardato la Libia e deposto Gheddafi – ma poi hanno voluto renderci edotti di quanto fosse drammatica la situazione sociale da quando non c’era più un governo –, non hanno detto nulla quando i loro beniamini europei che dovevano arginare i populismi euroscettici hanno varcato i nostri confini, preso i nostri mari e bombardato la Siria. Amano definirsi contro la guerra e contrari ad avere un arsenale militare ma nella loro ipocrisia riescono pure ad essere atlantisti e non fiatano se ci sono delle testate militari made in Usa depositate nel nostro mezzogiorno o se centinaia di unità aero-navali partono per ordine di Washington e vanno a bombardare i paesi mediorientali. Abbiamo concesso alla open society tutto e abbiamo perso tutto, ora siamo senza terra, senza identità e senza spina dorsale, in balia degli eventi che si decidono altrove ma che colpiscono le nostre coste, i nostri habitat naturali per diritto storico, l’Europa è in mano a degli scellerati e noi, italiani e ed europei siamo caduti in un torpore dal quale par impossibile svegliarsi.(Daniele Ruffino, “La sinistra che spara”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 20 aprile 2018).In questi ultimi giorni siamo stati con il fiato sospeso, preoccupati dagli eventi che velocemente hanno portato il mondo a una nuova e insanabile frattura; l’attacco americano (e dei suoi alleati) ai danni della Siria è stato l’apice di una tensione costruita e fomentata per anni, discorso dopo discorso, campagna dopo campagna, insinuazione dopo insinuazione: ci hanno parlato di White Helmets, di “ribelli moderati” e di depositi di armi chimiche mai esistiti e noi ci abbiamo creduto; non ci hanno mai parlato invece delle battaglie vinte, delle città liberate (Palmyra, Aleppo, Raqqa e Deir Ezzor), dei traguardi raggiunti dalle forze congiunte tra eserciti governativi, russi, iracheni e curdi o delle relazioni tra la Nato e le cellule jihadiste che occupavano le città liberate. Tutto, hanno omesso tutto. Nel frattempo, nel nostro Belpaese che continua a non avere un governo ma prende comunque significative decisioni di politica estera (vedi: sanzioni Russia e questione siriana), l’informazione non si è poi di tanto allontanata da quella dettata dalle corporative media (per dirlo all’americana) internazionali. Qui, tra un servizio sui malanni di stagione e uno sulle nuove tendenze della prossima estate, non sono mancate le panzane degli elmetti bianchi, dei ribelli moderati (poi scopertosi cellule di Al-Nusra) o delle oppressioni ai danni del popolo siriano da parte del proprio presidente democraticamente eletto.
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Cacciari e Farinetti: Salvini e 5 Stelle insieme, senza illusioni
Signori, abbiamo scherzato: «Le promesse, con questa legge elettorale, non valgono niente: sono solo promozionali. E quindi non vale niente la campagna elettorale: è tutta demagogia». Parola di Oscar Farinetti, “vedovo” di Renzi come Massimo Cacciari ma rinfrancato dalla conversione dei 5 Stelle verso il negoziato: «Mi auguro che, alla fine, venga fuori un governo con 5 Stelle e Salvini», dice il filosofo, ospite di Lilli Gruber insieme al patron di Eataly. «In questo caso si crea una discontinuità: finalmente comincia un’altra storia». Se i due estimatori del renzismo “brindano” al neo-moderato Di Maio, le giravolte post-elettorali dei grillini angustiano i tifosi della prima ora come Massimo Mazzucco, intervistato a “Border Nights”, trasmissione web-radio in cui Paolo Franceschetti (avvocato e saggista) infierisce: «I 5 Stelle stanno dimostrando di essere quello che erano fin dall’inizio, un abile artificio del potere per drenare il dissenso». Mazzucco, autore di documentari-verità (cancro, 11 Settembre, Uomo sulla Luna), non concorda: «I 5 Stelle mi hanno deluso evitando di contrastare la legge Lorenzin sui vaccini, ma non credo ci sia premeditazione: è l’avvicinamento al potere che, inevitabilmente, ti costringe a fare i conti con realtà che nemmeno conoscevi».In pratica, dice Mazzucco, è come se qualcuno ti battesse una mano sulla spalla dicendoti: stai ben attento a quel che fai, potresti pentirtene. Al che, c’è il bivio: o ci si piega, per quieto vivere, oppure si trova il coraggio di andare fino in fondo, restando fedeli alle proprie idee, peraltro appena “vendute” agli elettori. Di Maio? E’ diventato flessibile: morbidissimo con l’Unione Europea, con gli Usa e con la Nato, e meno “amico” della Russia. Cosa che a Cacciari va benissimo. E poi, dice, è sbagliato parlare di traformismo: «Quando mai un partito ha continuato a dire, sic e simpliciter, quello che diceva in campagna elettorale? E’ chiaro che la campagna ha necessariamente un aspetto demagogico, di promesse». Farinetti spera che Mattarella convinca i partiti a fare una nuova legge elettorale sul modello francese, col ballottaggio tra i primi due partiti. «Con una legge elettorale a doppio turno come quella per eleggere i sindaci – dice – i partiti sarebbero costretti a dire quello che vogliono davvero, quello che veramente sentono di poter fare». E il Di Maio europeista? Ottima notizia, per Cacciari: certifica «il pieno riconoscimento del nostro destino europeo: o la democrazia si ripensa su scala continentale, o cesserà di funzionare». E questo cambiamento, nei 5 Stelle, «segna un discrimine netto rispetto ai fondamenti culturali della Lega».Per il filosofo, grillini e leghisti dovrebbero raggiungere un accordo di governo, segnando almeno «una discontinuità generazionale», sapendo però di essere incompatibili: «E alla lunga, questa incompatibilità strategica – come base sociale, come idee – verrà fuori». L’incremento elettorale dei 5 Stelle, ricorda Cacciari, viene dal Pd. In più, il 50% degli elettori grillini si dichiara “di sinistra” (solo il 20% si considera “di destra”). «Sul piano culturale – aggiunge – l’incompatibilità tra Lega e 5 Stelle è evidentissima, ma bisogna che maturi e che si esprima. Certo la loro sarebbe un’alleanza a termine: non è la prospettiva su cui si risolveranno i problemi del paese, che richiedono scelte drastiche». E il Pd? Il rischio è che decida di suicidarsi: «Se fa un congresso vero, rapidamente (prima dell’estate) ed elegge un nuovo segretario, allora può esserci un nuovo inizio. Ma se aprono adesso – come hanno intenzione di fare – una campagna elettorale tra 15-20 persone per fare le primarie in autunno, muoiono: scompaiono. E allora l’unica forza di centrosinistra, in questo paese, diventeranno i 5 Stelle». Al posto di Renzi e colleghi, Cacciari avrebbe fatto il contrario dell’Aventino: «Io auspicavo che il Pd, riconoscendo la vittoria dei 5 Stelle e ribadendo la sua estraneità al centrodestra nel suo insieme, dicesse: sono disposto a far partire un governo monocolore 5 Stelle, verificando poi di volta in volta i provvedimenti, da valutare singolarmente».Al reggente Maurizio Martina, Farinetti suggerisce di non sbattere la porta in faccia ai 5 Stelle, come invece fecero i grillini nel 2013 con Bersani: «Cercherei di capire se il loro reddito di cittadinanza è visto come misura strategica o solo d’emergenza, verso la creazione dell’unica prospettiva seria, cioè la creazione di posti di lavoro, specie al Sud, tenendo conto delle grandi vocazioni di questo paese». Utopia, riconoscono Farinetti e Cacciari: il Pd non sembra intenzionato ad aprire un vero dialogo, temendo di suicidarsi politicamente in caso di alleanza coi 5 Stelle. A loro volta, i grillini considerano un suicidio l’intesa con Berlusconi. E Salvini, infine, sa benissimo che rompere oggi col Cavaliere gli impedirebbe di continuare a dissaguare Forza Italia. Stallo assoluto? Non è detto. Il nodo è Berlusconi, dice Cacciari: basterebbe convincerlo che un governo Salvini-Di Maio sarebbe il male minore. Restando defilato per non imbarazzare i 5 Stelle, avrebbe ministri «tipo Cancellati» e garanzie precise sui suoi vastissimi interessi. L’alternativa? Non esiste: «In caso di elezioni anticipate, Berlusconi scompare. Gli conviene, un governo con Salvini e Di Maio». I grillini “annacquati”? Inevitabile, chiosa Farinetti: «Serve tempo, per vedere se c’è la possibilità di fare un meraviglioso compromesso. Non vedo l’ora – aggiunge – di vedere all’opera partiti che, giustamente, dall’opposizione portavano avanti teorie assolute: comprenderanno che l’unica cosa perfetta, in natura, è proprio il compromesso».Signori, abbiamo scherzato: «Le promesse, con questa legge elettorale, non valgono niente: sono solo promozionali. E quindi non vale niente la campagna elettorale: è tutta demagogia». Parola di Oscar Farinetti, “vedovo” di Renzi come Massimo Cacciari ma rinfrancato dalla conversione dei 5 Stelle verso il negoziato: «Mi auguro che, alla fine, venga fuori un governo con 5 Stelle e Salvini», dice il filosofo, ospite di Lilli Gruber insieme al patron di Eataly. «In questo caso si crea una discontinuità: finalmente comincia un’altra storia». Se i due estimatori del renzismo “brindano” al neo-moderato Di Maio, le giravolte post-elettorali dei grillini angustiano i tifosi della prima ora come Massimo Mazzucco, intervistato a “Border Nights”, trasmissione web-radio in cui Paolo Franceschetti (avvocato e saggista) infierisce: «I 5 Stelle stanno dimostrando di essere quello che erano fin dall’inizio, un abile artificio del potere per drenare il dissenso». Mazzucco, autore di documentari-verità (cancro, 11 Settembre, Uomo sulla Luna), non concorda: «I 5 Stelle mi hanno deluso evitando di contrastare la legge Lorenzin sui vaccini, ma non credo ci sia premeditazione: è l’avvicinamento al potere che, inevitabilmente, ti costringe a fare i conti con realtà che nemmeno conoscevi».
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Intesa 5 Stelle-Lega? Scordatevi Flat Tax e reddito minimo
Il governo M5S-Lega è nelle cose e si farà, è solo questione di tempo. Ne è convinto Piero Sansonetti, ex direttore di “Liberazione” oggi alla guida de “Il Dubbio”. Ma non tutto potrebbe andare come previsto. Archiviato il vertice di Arcore e la grigliata Di Maio-Grillo-Casaleggio, sono tornate le bordate tra Salvini e il capo politico dei 5 Stelle. Il veto assoluto di Di Maio nei confronti di Berlusconi rende l’ipotesi impraticabile. Elezioni anticipate più vicine? «A me pare che il problema, più che Di Maio, sia Salvini», dice Sansonetti, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”. «Il 4 marzo hanno vinto i populisti, che hanno preso più del 50 per cento. Però sono divisi in due partiti, M5S e Lega. In qualsiasi altro paese al mondo avrebbero già fatto il governo insieme». Perché il problema sarebbe Salvini? Perché, senza Berlusconi, il leader della si sente debole. «Però c’è poco da fare, l’alleanza di centrodestra è innaturale», sostiene Sansonetti. «Berlusconi non è più quello di 15 anni fa, si è spostato su posizioni moderate, centriste. Oggi è vicino alla Merkel. Come può Salvini andare a braccetto con la Merkel?».Il centrodestra è quindi destinato a rompersi: «Penso che alla fine Salvini farà il governo con Di Maio», dice Sansonetti. «Però capisco che per lui è una prova complicata, perché andrebbe al governo in una posizione di debolezza». D’altro canto, «ma non può pretendere di rappresentare il centrodestra: è solo l’ala leghista e nordista del populismo». Se ha preso meno voti di Di Maio non può farci nulla. «Per il resto, tutti parlano di crisi complicata, ma non è vero. E’ tutto chiarissimo. Si sa molto bene chi ha la maggioranza». Sul programma, aggiunge Sansonetti, Di Maio e Salvini sono d’accordo: «Flat Tax e reddito di cittadinanza sono due “ballon d’essai”: nessuno dei due crede né a una cosa né all’altra». Davvero? «Ma certo. E hanno già rinunciato. Di Maio ha spiegato cos’è il reddito di cittadinanza, ma se ce lo diciamo con parole nostre ci accorgiamo che non è altro che una cassa integrazione. Dal canto suo, Salvini sa benissimo che non si possono portare le tasse al 15%». Allora dove sta la questione? «Non si trovano d’accordo su chi fa il premier». Salvini ha già fatto passi indietro, Di Maio non ci pensa.Se Di Maio accettasse si sbloccherebbe tutto, scommette Sansonetti: «Andrà così, anche se non ho facoltà divinatorie. Non c’è nessun altro accordo possibile: Berlusconi e il centrosinistra non hanno la maggioranza, come fanno a fare un governo?». A proposito, Forza Italia e Pd sono destinati a diventare un unico partito? «Destinati non lo so, ma da qui a due-tre anni può darsi che succeda. Dopotutto sono l’ala destra e l’ala sinistra di una formazione moderata». Uno scenario avvalorato dal fatto che Di Maio e il gotha grillino, secondo “Affari Italiani”, starebbe pensando di mettere nel cassetto il diktat dei “due mandati e poi a casa”. Ovvero, più possibilità di rimanere sulla scena a fare politica. Dice Sansonetti: «Se il M5S cede sul premier e va da Salvini a dire “facciamo il governo insieme, lasciamo fuori tutti gli altri, concordiamo insieme il presidente del Consiglio”, come fa la Lega a dire di no?». Dunque è solo questione di tempo? «Sì. A volte però il tempo invece di far digerire le cose le manda di traverso. E’ imprevedibile». Cosa potrebbe succedere? «Che si vada alle elezioni anche se nessuno lo vuole. Quasi nessuno».C’è chi dice che Mattarella punti su un governo nei pieni poteri per fine giugno, quando ci sarà il Consiglio Europeo sulla riforma dell’Eurozona. Secondo altri, aggiunge Ferraù, non vorrebbe sciogliere le Camere: obiettivo, permettere a Forza Italia e Pd di assorbire la botta del 4 marzo e sopravvivere. «Mattarella è molto esperto e molto bravo, ma né lui né nessun altro è in grado di prevedere i flussi elettorali», osserva Sansonetti. Elezioni anticipate? «Io non credo che il risultato si scosterebbe di molto, ma non si può escludere nulla: gli spostamenti potrebbero favorire sia il Pd sia i 5 Stelle. E poi è improbabile che in un voto a ottobre Salvini e Berlusconi si presentino ancora uniti». Salvini al nord ha conquistato i collegi uninominali anche con i voti di Forza Italia, ma da solo potrebbe anche prendere di più. «Ci sarebbe un pezzo di elettorato che vota Salvini proprio perché non è alleato a Berlusconi. Se si dividono – aggiunge Sansonetti – può darsi benissimo che Salvini rubi voti ai 5 Stelle. Anzi, Salvini secondo me è l’unico che ha da guadagnarci, a tornare al voto».Il governo M5S-Lega è nelle cose e si farà, è solo questione di tempo. Ne è convinto Piero Sansonetti, ex direttore di “Liberazione” oggi alla guida de “Il Dubbio”. Ma non tutto potrebbe andare come previsto. Archiviato il vertice di Arcore e la grigliata Di Maio-Grillo-Casaleggio, sono tornate le bordate tra Salvini e il capo politico dei 5 Stelle. Il veto assoluto di Di Maio nei confronti di Berlusconi rende l’ipotesi impraticabile. Elezioni anticipate più vicine? «A me pare che il problema, più che Di Maio, sia Salvini», dice Sansonetti, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”. «Il 4 marzo hanno vinto i populisti, che hanno preso più del 50 per cento. Però sono divisi in due partiti, M5S e Lega. In qualsiasi altro paese al mondo avrebbero già fatto il governo insieme». Perché il problema sarebbe Salvini? Perché, senza Berlusconi, il leader della si sente debole. «Però c’è poco da fare, l’alleanza di centrodestra è innaturale», sostiene Sansonetti. «Berlusconi non è più quello di 15 anni fa, si è spostato su posizioni moderate, centriste. Oggi è vicino alla Merkel. Come può Salvini andare a braccetto con la Merkel?».
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Perché alla fine Berlusconi dovrà cedere a Salvini e Di Maio
Ok, è da pazzi lanciarsi in una profezia sul prossimo governo italiano, ma dopo il vertice di Arcore del centrodestra, dopo quel comunicato che mette nero su bianco unità d’intenti nel proporre Salvini premier e nel cercare i numeri per governare in Parlamento e dopo l’ennesimo (mezzo) strappo dello stesso Salvini, che ribadisce la volontà nel cercare un accordo con Luigi Di Maio, sono evidenti almeno due cose: che una maggioranza di governo c’è, in Parlamento, ed è quella tra Lega e Cinque Stelle. E che il problema, ora, è come far sì che questa maggioranza si concretizzi in un incarico di governo e in un voto di fiducia parlamentare. Lo diciamo senza retroscena in tasca, ma ragionando per deduzioni successive: prima o poi accadrà. Magari non al secondo giro di consultazioni, in cui il centrodestra si presenterà unito, ma accadrà: esattamente come ha fatto per l’elezione di Maria Elisabetta Alberti Casellati a presidente del Senato, il leader del Carroccio strapperà con la sua coalizione e porterà ad Arcore una bozza di patto per il governo coi Cinque Stelle, con un premier di centrodestra – non lui, magari un altro leghista come Giancarlo Giorgetti – o comunque d’area. A quel punto si vedrà chi bluffa, che solitamente corrisponde a chi ha più da perdere. E non abbiamo dubbi che il più debole del mazzo risponda al nome di Silvio Berlusconi.Primo: perché ci sono un sacco di parlamentari di Forza Italia che seguirebbero Salvini in quest’avventura, magari attraverso una scissione, come fece Angelino Alfano col Nuovo centrodestra in direzione Pd. Al contrario, non abbiamo notizia di parlamentari leghisti che farebbero il percorso inverso. Secondo: perché le giunte regionali e gli enti locali, a dispetto delle minacce, non sarebbero in pericolo. Non la Liguria, di sicuro, dove il buon Toti se ne starebbe tranquillamente al suo posto. Non il Veneto, dove la rielezione di Zaia, anche col centrodestra diviso, non sarebbe in discussione. E nemmeno la Lombardia, dove già nella scorsa consiliatura la maggioranza di centrodestra non si era divisa né quando il Pdl aveva sostenuto Enrico Letta, né quando c’era stato lo scisma tra Berlusconi e Alfano. Terzo: perché per il Berlusconi imprenditore, a questo giro, avere un governo amico è fondamentale. Lo è per l’happy ending della sua carriera politica, che non vuole si concluda con un Nino Di Matteo ministro della giustizia, ad esempio. Lo è soprattutto per le sue aziende, in primis Mediaset, spettatrice interessata del balletto tra Telecom, Vivendi, Elliot e Cassa Depositi e Prestiti.Un balletto in cui si registra la convergenza d’interessi e intenti tra Cinque Stelle, Lega e Forza Italia, tutte e tre favorevoli alla mossa della fondazioni bancarie e di Costamagna. Al netto di ogni valutazione di merito, qualcosa vorrà pur dire. Ecco perché alla fine Berlusconi cederà: perché è uno abituato a fare bene i conti e sa che gli conviene star dentro, seppur defilato, anziché fuori. Perché sa che è fondamentale tenere unita Forza Italia, più che il centrodestra – magari trovando un leader in pectore in Antonio Tajani – se vuole cercare perlomeno di rallentare il disegno egemonico di Salvini. Perché mai come oggi il peso degli amici di sempre, quelli che lo chiamano Silvio o Dottore, come Confalonieri, Letta, Galliani, lo spingerà al pragmatismo. Un lieto fine val bene un pranzo con Luigi Di Maio. A volte bisogna sapersi accontentare di non prenderle. Anche se ti chiami Berlusconi e hai giocato all’attacco per tutta la vita.(Francesco Cancellato, “Berlusconi cederà: e (presto o tardi) sarà governo Lega-Cinque Stelle”, da “Linkiesta” del 9 aprile 2018).Ok, è da pazzi lanciarsi in una profezia sul prossimo governo italiano, ma dopo il vertice di Arcore del centrodestra, dopo quel comunicato che mette nero su bianco unità d’intenti nel proporre Salvini premier e nel cercare i numeri per governare in Parlamento e dopo l’ennesimo (mezzo) strappo dello stesso Salvini, che ribadisce la volontà nel cercare un accordo con Luigi Di Maio, sono evidenti almeno due cose: che una maggioranza di governo c’è, in Parlamento, ed è quella tra Lega e Cinque Stelle. E che il problema, ora, è come far sì che questa maggioranza si concretizzi in un incarico di governo e in un voto di fiducia parlamentare. Lo diciamo senza retroscena in tasca, ma ragionando per deduzioni successive: prima o poi accadrà. Magari non al secondo giro di consultazioni, in cui il centrodestra si presenterà unito, ma accadrà: esattamente come ha fatto per l’elezione di Maria Elisabetta Alberti Casellati a presidente del Senato, il leader del Carroccio strapperà con la sua coalizione e porterà ad Arcore una bozza di patto per il governo coi Cinque Stelle, con un premier di centrodestra – non lui, magari un altro leghista come Giancarlo Giorgetti – o comunque d’area. A quel punto si vedrà chi bluffa, che solitamente corrisponde a chi ha più da perdere. E non abbiamo dubbi che il più debole del mazzo risponda al nome di Silvio Berlusconi.
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Magaldi: Salvini e Di Maio scelgano l’Italia, non il rigore Ue
Le regole del rigore europeo «non stanno scritte sul tavole del monte Sinai: si possono e si devono cambiare». La domanda è: ce la faranno, Salvini e Di Maio, a indossare fino in fondo i panni dell’eresia per violare il dogma eurocratico? «Certo sarebbe interessante se i pentastellati e i leghisti trovassero il grande coraggio di unire il meglio dei rispettivi programmi», dice Gioele Magaldi: «Il reddito di cittadinanza e il taglio delle tasse sono di gran lunga le due proposte più gettonate dagli italiani che il 4 marzo si sono recati alle urne». Un verdetto a due facce – il centro-sud ai 5 Stelle, il nord alla Lega – ma dal tono univoco: rottamare i partiti della Seconda Repubblica, incarnata in modo bipartisan dal suo capostipite Berlusconi (ormai al tramonto) e dall’ultimo epigono di quella stagione così infausta per l’Italia, cioè il Pd di Letta, Renzi e Gentiloni. Riusciranno i nostri eroi a coniugare la “missione impossibile” di far stare, nello stesso governo, posizioni ritenute a lungo inconciliabili? Difficile fare previsioni, ammette Magaldi a “Colors Radio”: «Non è neppure certo che Di Maio e Salvini abbiano chiaro, loro per primi, il da farsi». Ma una cosa è certa: reddito di cittadinanza e Flat Tax non si possono applicare appieno senza prima scontrarsi con Bruxelles. Ed è esattamente di quello scontro, sostiene Magaldi, che l’Italia (come anche il resto dell’Europa) ha un disperato bisogno.Non da oggi, il presidente del Movimento Roosevelt (autore del saggio “Massoni”, che svela il ruolo mondiale delle 36 Ur-Lodges che dominano ogni aspetto della politica economica planetaria) presenta l’Italia non come periferia irrilevante dei giochi europei, ma come futuro campo di battaglia tra l’opzione dell’austerity e il Piano-B, cioè il recupero – decisivo – dell’impostazione keynesiana: la leva del deficit, in tempi di crisi, come volano dell’economia. Premessa: è proprio il rigore di bilancio ad aver provocato l’euro-crisi. Tra i gran sacerdoti della “teologia” affermatasi dagli anni ‘70 figurano gli economisti “neoclassici”, fautori nel neo-mercantilismo globalizzato basato sul super-export, ottenuto svalutando i salari e scatenando una guerra senza quartiere tra gli ex partner europei, trasformati in “competitor”. A truccare le regole ha provveduto l’ideologia neoliberista di Milton Friedman, che predica il taglio della funzione pubblica e la privatizzazione universale di cui si è fatta “gendarme” l’Unione Europea, dominata da oligopoli privati. Uno spettacolo dell’orrore, che ha precarizzato il vecchio continente: profitti stellari all’élite finanziaria e crollo dei diritti del lavoro, fino alla drammatica erosione del ceto medio che oggi si difende ricorrendo al “populismo”, tradotto in Italia nelle versioni grillina e leghista.«In questo quadro – aggiunge Magaldi – suscita sconcerto l’atteggiamento dei “giornaloni”, che oggi si affrettano a dare consigli (non richiesti) a Di Maio e Salvini: i grandi media, gli stessi che per vent’anni hanno sorretto Berlusconi e il sedicente centrosinistra, oggi continuano a ripetere che “non ci sono le coperture finanziarie” per procedere con le due riforme uscite vincitrici dalle urne, il reddito di cittadinanza e il dimezzamento del carico fiscale». Ovvio che non ci sono, oggi, le coperture. «La sfida, infatti, sta nel generarle domani, attivando lo strumento strategico del deficit: superando cioè il tetto di spesa del 3% che, dal Trattato di Maastricht, l’Ue impugna come un dogma, nemmeno fosse una vera regola economica. E’ solo una decisione politica: e i media mainstream continuano a fingere di non saperlo, nonostante l’esito delle elezioni». Sono gli stessi media che accusano Putin di essere il nuovo Zar, aggiunge Magaldi, anziché interrogarsi sulla “vita eterna” di Angela Merkel, sinonimo di crisi perenne per i non-tedeschi, sottoposti all’ordoliberismo teutonico. Il fantasma dello spread? «Ad annullarlo basterebbero gli eurobond garantiti dalla Bce, se solo si trovasse il coraggio di pretenderli». Salvini e Di Maio? Due punti interrogativi, ma comunque diversi dai loro predecessori. Non temano di sfidare Bruxelles: è esattamente quanto devono fare, se vogliono davvero rianimare l’economia resuscitando consumi e aziende, con il reddito sociale e il taglio delle tasse.Le regole del rigore europeo «non stanno scritte sul tavole del monte Sinai: si possono e si devono cambiare». La domanda è: ce la faranno, Salvini e Di Maio, a indossare fino in fondo i panni dell’eresia per violare il dogma eurocratico? «Certo sarebbe interessante se i pentastellati e i leghisti trovassero il grande coraggio di unire il meglio dei rispettivi programmi», dice Gioele Magaldi: «Il reddito di cittadinanza e il taglio delle tasse sono di gran lunga le due proposte più gettonate dagli italiani che il 4 marzo si sono recati alle urne». Un verdetto a due facce – il centro-sud ai 5 Stelle, il nord alla Lega – ma dal tono univoco: rottamare i partiti della Seconda Repubblica, incarnata in modo bipartisan dal suo capostipite Berlusconi (ormai al tramonto) e dall’ultimo epigono di quella stagione così infausta per l’Italia, cioè il Pd di Letta, Renzi e Gentiloni. Riusciranno i nostri eroi a coniugare la “missione impossibile” di far stare, nello stesso governo, posizioni ritenute a lungo inconciliabili? Difficile fare previsioni, ammette Magaldi a “Colors Radio”: «Non è neppure certo che Di Maio e Salvini abbiano chiaro, loro per primi, il da farsi». Ma una cosa è certa: reddito di cittadinanza e Flat Tax non si possono applicare appieno senza prima scontrarsi con Bruxelles. Ed è esattamente di quello scontro, sostiene Magaldi, che l’Italia (come anche il resto dell’Europa) ha un disperato bisogno.
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Piccole alchimie parlamentari per un paese in rottamazione
Di Maio ha stravinto nel centro-sud promettendo il reddito di cittadinanza (ma annunciando con Fioramonti di dimezzare il debito pubblico), mentre Salvini ha spopolato al nord garantendo di sbriciolare le tasse e sbarrare le frontiere ai migranti. Nell’offerta politica dei due schieramenti, svetta lo squillante sovranismo della Lega con la candidatura dell’economista Alberto Bagnai, che contesta il dirigismo dell’oligarchia di Bruxelles da posizioni keynesiane (lo Stato che torna protagonista dell’economia), mentre Di Maio si affanna a ricordare che sono i mercati, semmai, ad avere l’ultima parola. Premiante, per grillini e leghisti, la fedina politica immacolata, dopo anni di opposizione al renzismo, il regime propagandistico che all’Italia in crisi ha raccontato che tutto andava bene, anzi benissimo. Né i 5 Stelle né la Lega contestano organicamente il sistema liberista, di cui il Pd è stato il più zelante esecutore: si propongono soltanto di correggerne gli eccessi, con l’avvento di politici “dalle mani pulite” (ma legate, nel caso di Salvini, all’alleanza con un Berlusconi che si è prostrato come il Pd all’obbedienza feudale nei confronti dell’élite finanziaria che ha privatizzato le istituzioni europee). In questo contesto, appaiono piuttosto lunari le chiacchiere sull’ipotetica intesa, a distanza, tra i due vincitori delle elezioni – il Di Maio senza programmi e il Salvini con programmi vincolati agli umori di Arcore.Tiene banco, ancora, il surreale connubio tra i 5 Stelle e i rottami del Pd, cioè il “nemico” dei grillini; accordo invocato da quell’Eugenio Scalfari che, a Di Maio, avrebbe preferito l’odiato Berlusconi. Tra i “pontieri”, dopo Scalfari, figurano personaggi come Gustavo Zagrebelsky e Salvatore Settis, Barbara Spinelli e Massimo Cacciari. Un giornalista come Marco Travaglio accusa Di Maio di non ascoltarli. Arrivare primi con quasi il 33% significa partire favoriti per l’incarico di formare un governo – scrive Travaglio sul “Fatto” – ma questo non conferisce «il diritto divino di fare un governo con i voti altrui, per giunta gratis». E’ vero che l’inciucio lo vogliono solo i due “trombati” del 4 marzo, cioè Berlusconi e Renzi, «terrorizzati dalle rispettive ininfluenze e soprattutto da nuove elezioni», ma una maggioranza parlamentare va costruita, «facendo ai partner una proposta che non possano rifiutare». Ovvero? «La cosa sarebbe meno difficile se Di Maio aprisse la sua squadra di esterni ad altri indipendenti di centrosinistra, per un governo senza ministri parlamentari, e bilanciasse la sua premiership lasciando la presidenza di una Camera alla Lega». E poi «è sul programma che dovrebbe garantire il cambiamento che gli elettori hanno appena chiesto». Già: quale programma?Travaglio ricorda la proposta di Grillo nel 2013: «Eleggiamo Rodotà al Quirinale e poi governiamo insieme». E aggiunge: «Fu il Pd napolitanizzato e lettizzato, cioè berlusconizzato, a rifiutarla» (per Travaglio, dunque, il grande manovratore era Berlusconi, cioè l’omino ricattato e brutalmente disarcionato, due anni prima, dai padroni della Borsa). L’obiettivo di Napolitano, all’epoca: mantenere i 5 Stelle lontano dall’area di governo, dato che nel 2013 i grillini facevano ancora paura (più che al “povero” Silvio, ai veri poteri forti rappresentati da Napolitano: quelli che con Draghi e Trichet firmarono la condanna dell’Italia, affidata al commissario Monti). E oggi? Tutto è cambiato; da Scalfari in giù, è il vecchio mainstream a tifare per un’intesa che pare spaventi solo Renzi. Piccoli tatticismi, dove a contare non sono tanto le mosse dei leader, quanto il futuro dei rispettivi elettorati. Un italiano su quattro si è rifiutato di votare. Tra i votanti, il 55% ha scelto Di Maio, Salvini e la Meloni per gridare un “no”, forte e chiaro. Se il reddito di cittadinanza (arma vincente per mietere voti) è una misura ascrivibile alla voce welfare (sinistra), è piuttosto la Lega a sfidare il sistema europeo, con il taglio delle tasse (destra), sia pure da un’angolazione ancora liberista.Tra veti incrociati e opposte convenienze, resta solo lo spiraglio per il mini-governo a cui starebbe lavorando Mattarella, inevitabilmente imbottito di “tecnici” per incoraggiare tiepide convergenze eterodosse. Niente a che vedere, in ogni caso, con il “no” proclamato dalla maggioranza assoluta degli elettori italiani, cui si aggiunge l’astensionismo del 25% della popolazione, che non ha letto niente di convincente (o realisticamente praticabile) né sul programma grillino né su quello leghista. Se siamo a questo non-risultato, ribadisce Gianfranco Carpeoro, è perché – ancora una volta – abbiamo votato “contro” qualcuno, innanzitutto (votare “per qualcosa”, probabilmente, era impossibile). E senza una gestione nazionale autonoma, la regia delle operazioni passerà alla consueta “sovragestione” internazionale. E’ il potere-ombra che – licenziati Andreotti e Craxi – da 25 anni fa dell’Italia quello che vuole: fabbricando partiti, movimenti e leader senza idee né progetti, costruiti per durare una sola stagione, prima di essere rottamati da altri, futuri rottamandi. Una spirale senza fine, dove a essere rottamata è l’Italia, a cui è stato raccontato che il debito pubblico (cioè lo sviluppo, il benessere diffuso) è roba che non ci possiamo più permettere.Di Maio ha stravinto nel centro-sud promettendo il reddito di cittadinanza (ma annunciando con Fioramonti di dimezzare il debito pubblico), mentre Salvini ha spopolato al nord garantendo di sbriciolare le tasse e sbarrare le frontiere ai migranti. Nell’offerta politica dei due schieramenti, svetta lo squillante sovranismo della Lega con la candidatura dell’economista Alberto Bagnai, che contesta il dirigismo dell’oligarchia di Bruxelles da posizioni keynesiane (lo Stato che deve tornare protagonista dell’economia), mentre Di Maio si affanna a ricordare che sono i mercati, semmai, ad avere l’ultima parola. Premiante, per grillini e leghisti, la fedina politica immacolata, dopo anni di opposizione al renzismo, il regime propagandistico che all’Italia in crisi ha raccontato che tutto andava bene, anzi benissimo. Né i 5 Stelle né la Lega contestano organicamente il sistema liberista, di cui il Pd è stato il più zelante esecutore: si propongono soltanto di correggerne gli eccessi, con l’avvento di politici “dalle mani pulite” (ma legate alla finanza anglosassone o, nel caso di Salvini, all’alleanza con un Berlusconi che si è prostrato come il Pd all’obbedienza feudale nei confronti dell’élite che ha privatizzato le istituzioni europee). In questo contesto, appaiono piuttosto lunari le chiacchiere sull’ipotetica intesa, a distanza, tra i due vincitori delle elezioni – il Di Maio senza programmi e il Salvini con programmi vincolati agli umori di Arcore.