LIBRE

associazione di idee
  • idee
  • LIBRE friends
  • LIBRE news
  • Recensioni
  • segnalazioni

Archivio del Tag ‘Liguria’

  • Hanno perso tutti: gli italiani non si fidano di questi partiti

    Scritto il 26/9/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Macché vittoria referendaria dei 5 Stelle: la verità è che hanno perso, tutti. Lo scrive Stelio Mangiameli, in un’analisi sul voto del 20-21 settembre: il referendum, dove il 97% del sistema politico aveva sposato la causa del taglio dei parlamentari, e le regionali, finite con un 3-3 (e una regione come le Marche conquistata dal centrodestra). Un rafforzamento dell’attuale compagine di governo e della posizione di Conte? «Se ci si ferma qui – avverte Mangiameli sul “Sussidiario” – sfuggono i significati più profondi di questa particolare tornata elettorale». L’esito del referendum, semmai, «esprime un disappunto nei confronti di tutta la politica nazionale», ecco perché «non è un successo del M5S, e nemmeno di tutti coloro che si sono appoggiati alla loro proposta di taglio dei parlamentari». Nel caso dei grillini, poi, i risultati delle regionali – al lumicino – indicano «un declino difficilmente reversibile». La verità, scrive l’analista, è che nell’elettorato italiano «serpeggia da tempo un’insoddisfazione politica che ha investito tutti i partiti», percepiti come incapaci di affrontare i problemi reali, dalla crisi del 2011 in poi.
    Anziché attuare le riforme necessarie, «si è proceduto verso cambiamenti che di fatto non risolvevano i problemi del lavoro, delle infrastrutture, della sanità e della scuola, quando addirittura non li aggravavano». Di qui il successo (momentaneo) dei 5 Stelle, «nato sull’onda del Vaffa, e di cui spesso lo stesso Grillo si è vantato dicendo che il merito maggiore del Movimento era quello di avere controllato la protesta popolare». È bastato, però, che il M5S andasse al governo – annota Mangiameli – perché il suo appeal venisse meno e, via via, scemasse nelle elezioni europee e in quelle regionali. Alla prossima tornata «ci si accorgerà che la loro funzione di serbatoio della protesta si è esaurita», e sarà acclarato quanto oggi ormai si dice apertamente, «e cioè che il personale politico che hanno schierato nella compagine di governo non è stato sicuramente migliore di quello degli altri partiti, come del resto ha mostrato anche l’esperienza romana della sindaca Raggi». Per manifestare il loro malcontento, già alle europee 2019 gli elettori avevano premiato la Lega di Salvini. Ma anche l’onda leghista, aggiunge Mangiameli, ora sembra essersi attenuata.
    Può cantare vittoria almeno il Pd? Niente affatto: la perdita delle Marche «dovrebbe preoccupare non poco Zingaretti». Idem le affermazioni di De Luca ed Emiliano: il Pd ha vinto in Campania e in Puglia «con due candidati eterodossi». Cioè: «Fosse stato per il Pd e per il suo gruppo dirigente, né De Luca né Emiliano sarebbe mai stati ricandidati: troppo populisti e invisi allo stesso partito», sono stati «candidati subiti dal Pd nazionale». Lo stesso neo-presidente della Toscana, Eugenio Giani, “antico” socialista, «è stato più supportato da Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna, che non dal gruppo dirigente nazionale del Pd». In sostanza, scrive Mangiameli, gli italiani «continuano a cercare un’alternativa a questa classe politica nazionale, che a più riprese hanno alternativamente premiato e punito». Quelli percepiti come i più affidabili sono i presidenti regionali uscenti, inclusi Zaia e Toti. Giudizio indiretto su Conte, anche alla luce della gestione della pandemia? «Gli italiani oggi si fidano più delle Regioni che non dello Stato».
    https://www.ilsussidiario.net/news/scenario-lultimo-appello-del-colle-ai-partiti-sconfitti-pd-compreso/2072942/

    Macché vittoria referendaria dei 5 Stelle: la verità è che hanno perso, tutti. Lo scrive il costituzionalista Stelio Mangiameli, in un’analisi sul voto del 20-21 settembre: il referendum, dove il 97% del sistema politico aveva sposato la causa del taglio dei parlamentari, e le regionali, finite con un 3-3 (e una regione come le Marche conquistata dal centrodestra). Un rafforzamento dell’attuale compagine di governo e della posizione di Conte? «Se ci si ferma qui – avverte Mangiameli sul “Sussidiario” – sfuggono i significati più profondi di questa particolare tornata elettorale». L’esito del referendum, semmai, «esprime un disappunto nei confronti di tutta la politica nazionale», ecco perché «non è un successo del M5S, e nemmeno di tutti coloro che si sono appoggiati alla loro proposta di taglio dei parlamentari». Nel caso dei grillini, poi, i risultati delle regionali – al lumicino – indicano «un declino difficilmente reversibile». La verità, scrive l’analista, è che nell’elettorato italiano «serpeggia da tempo un’insoddisfazione politica che ha investito tutti i partiti», percepiti come incapaci di affrontare i problemi reali, dalla crisi del 2011 in poi.

  • Spariti i 5 Stelle, ora il Pd vorrebbe “commissariare” Conte

    Scritto il 25/9/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Il Pd vorrebbe commissariare Conte, ma molto dipenderà anche da quello che deciderà di fare Mattarella. Lo stesso capo dello Stato potrebbe infatti anche chiedere un “tagliando” o un rimpasto visto che il M5S è stato ridimensionato dal voto. Forse avrà più poteri Gualtieri o ci sarà addirittura un vicepremier democratico. A ogni modo ho l’impressione che qualcuno del Pd verrà messo a “marcare a uomo” Conte. Il 22 settembre, Antonio Misiani  ha mandato un messaggio chiaro agli alleati del Movimento 5 Stelle dai microfoni di “Radio 24″. Il viceministro dell’economia ha infatti ricordato che il Pd ha vinto in Toscana, Puglia e Campania senza il sostegno pentastellato. Se «la leadership di Zingaretti esce rafforzata», questo significa che ci dovranno essere anche dei cambiamenti negli equilibri della maggioranza. «Speriamo che veti ideologici e pregiudiziali vengano via via superati», ha detto in particolare Misiani, con riferimento alla richiesta di accesso al Mes sanitario che l’Italia, secondo i dem, dovrebbe avanzare. Penso che ci sarà un cambio negli equilibri, ma i veri problemi nell’azione di questo governo rimangono.
    Comunque, a me non sembra una vera vittoria del Pd. Toscana a parte, il centrosinistra si è affermato con candidati per certi versi “populisti” come Emiliano e De Luca, che cercano di difendere apertamente gli interessi della loro regione oppure si fanno notare per dichiarazioni e atteggiamenti che spopolano sul web o non passano mediaticamente inosservati. Allo stesso modo non mi sembra che si possa parlare di una sconfitta della Lega in quanto tale. Laddove la Lega è concreta sui bisogni del territorio, fa proposte specifiche e opera, riesce a farsi apprezzare dagli elettori, come si è visto con Zaia e Toti. Non guadagna consensi laddove invece si presenta solo come movimento di protesta, trattando argomenti di politica nazionale o criticando l’Europa. Salvini, se voleva essere il vero leader del centrodestra, avrebbe dovuto giocare meglio la partita delle regionali puntando su specifici problemi economici locali. Per esempio, in Toscana sulla vicenda Mps che si sta nuovamente complicando, in Campania sui contratti di produttività per spingere l’occupazione giovanile, in Puglia sull’ex Ilva di Taranto.
    Cosa accadrà ora al governo? Non ha vinto il Pd il senso stretto, ma sicuramente ha perso il M5S, che non può intestarsi l’affermazione del Sì al referendum, visto che non era l’unico partito a sostenerlo. Inoltre, alle regionali sono arrivati pochi voti rispetto alle politiche di due anni fa. Mi sembra anche che i pentastellati si stiano sfaldando, dato che non si capisce chi comanda tra Crimi, Di Maio, Grillo e Casaleggio jr, senza dimenticare che Di Battista ha fatto campagna contro Emiliano. Zingaretti avrà vinto grazie ai populismi, ma a questo punto vorrà il suo trofeo. Conte è nei guai, perché non si può certo dire che abbia vinto lui. Tra l’altro, l’esito del referendum costringerà i partiti a occuparsi di legge elettorale, il che appare un po’ assurdo visti i problemi economici che il paese è chiamato ad affrontare. Ci saranno non poche liti, e non è nemmeno da escludere che non si riesca ad arrivare all’approvazione della legge in questa legislatura. Detto questo, personalmente ritengo che il referendum sia illegittimo perché si sarebbe dovuto tenere a marzo, ma è stato rinviato a settembre causa Covid. Tuttavia non bisogna dimenticare che lo stato d’emergenza relativo alla pandemia è stato prorogato fino a metà ottobre, quindi non si sarebbe dovuto votare.
    Se Zingaretti ha vinto, cosa chiederà a Conte? Oltre al ricorso al Mes sanitario, vorrà una situazione in cui il Pd potrà avere più peso nell’utilizzo dei fondi europei, nelle decisioni economiche e nei rapporti con le regioni. In buona sostanza, chiederà un po’ dei posti che adesso hanno i 5 Stelle. Per fare cosa? Il problema è che i dem non sono in grado di sbloccare gli investimenti, sono vaghi e generici, e la linea economia del governo non verrà di fatto modificata. Come sempre è accaduto dopo le pestilenze, anche oggi ci vorrebbe un condono fiscale, ma non lo faranno. Casomai continueranno con una navigazione a vista senza una politica che aiuti davvero crescita e occupazione. Essendoci un’alleanza anomala tra due partiti “tortuosi” avremo ancora un governo che faticosamente prende poche decisioni, non particolarmente azzeccate. Alla fine, credo che sarà solamente una questione di poltrone: a parte il Mes sanitario, non compare all’orizzonte alcuna possibile linea di discontinuità. Basta pensare ai vari dossier economici. Il Pd non sembra avere una proposta sull’ex Ilva, su Alitalia, su Mps, su Autostrade. Senza dimenticare che non pare nemmeno avere in mente una normativa per sbloccare gli investimenti come accaduto per il ponte di Genova.
    (Francesco Forte, dichiarazioni rilasciate a Lorenzo Torrisi nell’intervista “Il Pd vuole commissariare Conte, ma aspetta Mattarella”, pubblicata dal “Sussidiario” il 23 settembre 2020. Forte è stato ministro delle finanze e ministro per il coordinamento delle politiche comunitarie).

    Il Pd vorrebbe commissariare Conte, ma molto dipenderà anche da quello che deciderà di fare Mattarella. Lo stesso capo dello Stato potrebbe infatti anche chiedere un “tagliando” o un rimpasto visto che il M5S è stato ridimensionato dal voto. Forse avrà più poteri Gualtieri o ci sarà addirittura un vicepremier democratico. A ogni modo ho l’impressione che qualcuno del Pd verrà messo a “marcare a uomo” Conte. Il 22 settembre, Antonio Misiani  ha mandato un messaggio chiaro agli alleati del Movimento 5 Stelle dai microfoni di “Radio 24″. Il viceministro dell’economia ha infatti ricordato che il Pd ha vinto in Toscana, Puglia e Campania senza il sostegno pentastellato. Se «la leadership di Zingaretti esce rafforzata», questo significa che ci dovranno essere anche dei cambiamenti negli equilibri della maggioranza. «Speriamo che veti ideologici e pregiudiziali vengano via via superati», ha detto in particolare Misiani, con riferimento alla richiesta di accesso al Mes sanitario che l’Italia, secondo i dem, dovrebbe avanzare. Penso che ci sarà un cambio negli equilibri, ma i veri problemi nell’azione di questo governo rimangono.

  • Bugiardi, spiegateci perché il Covid ha colpito la Lombardia

    Scritto il 22/6/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Inquinamento, antenne 5G e sovra-vaccinazioni (influenza e meningite). Tutto ciò ha a che fare con la strage Covid che ha devastato la Lombardia? «Soprattutto a causa degli inceneritori, quella tra Bergamo e Brescia è la zona più inquinata d’Europa: e tra fine 2019 e inizio 2020, in quell’area, ci sono stati 180.000 inoculi vaccinali, somministrati agli anziani», dice Marcello Pamio, nutrizionista, presente – fra gli altri – alla grande manifestazione (12.000 persone) organizzata a Firenze il 21 giugno dal Movimento 3V (Vaccini Vogliamo Verità), con oratori come Mauro Scardovelli e la coraggiosa parlamentare ex grillina Sara Cunial, promotrice del progetto di mobilitazione popolare R2020. Il tema: l’emergenza coronavirus nasconde un disegno totalitario. E nessuno, intanto, ci ha ancora spiegato perché la Lombardia è finita nell’occhio del ciclone: 238.000 contagi e oltre 16.500 morti, a fronte dei 4.000 di Piemonte e Veneto. Colpite in misura minore altre Regioni non lontane (1500 vittime in Liguria e 1000 nelle Marche), mentre nel resto d’Italia i numeri oscillano: da qualche centinaio a poche decine di decessi, ben al di sotto del bilancio di una normale influenza stagionale. Cosa c’è, dunque, dietro all’esplosione lombarda del fenomeno Covid? «Non lo sappiamo ancora, perché non ci vengono forniti i dati essenziali», dice un medico rianimatore, Stefano Manera.

  • Finiamo sott’acqua: fonde l’Antartide, come 125.000 anni fa

    Scritto il 19/4/20 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Abbiamo sentito ampiamente parlare nei giorni scorsi dell’incredibile temperatura registrata in Antartide il 9 febbraio scorso, con un valore superiore addirittura ai 20°C, preceduto da un altro picco di 18°C, il 7 sempre del mese in corso. Possiamo dirlo con certezza: l’Antartide ha la febbre. E non è una frase fatta, ma la semplice realtà esplicitata dai dati meteorologici raccolti dalle stazioni meteo. Un picco così alto di temperature potrebbe comportare lo scioglimento dei ghiacciai e il conseguente innalzamento delle acque. Cosa significa? Entro la fine di questo secolo, se dovesse continuare ad essere questo il trend, il livello globale del mare potrebbe aumentare fino a tre volte rispetto al secolo scorso, passando cioè da 19 a 58 centimetri. E’ quanto emerge da un confronto, senza precedenti, di numerosi modelli elaborato con computer all’avanguardia provenienti da tutto il mondo, afferma il sito del servizio “ilmeteo.it”. «Il serio rischio relativo allo scioglimento dei ghiacci in Antartide potrebbe seriamente diventare la più grande catastrofe globale». Lo afferma Anders Levermann del Potsdam Institute of Climate Impact Research, principale autore della ricerca.
    Quali potrebbero essere gli effetti sul pianeta a seguito di un probabile innalzamento delle acque? A dir poco fatali: «Se dovesse attuarsi la spaventosa previsione di Anders Levermann, ci troveremmo di fronte ad un cambiamento epocale», scrive sempre il servizio meteorologico. «La conseguenza più ovvia è che gli abitanti in aree collegate al mare ad un’altitudine inferiore al livello previsto dell’alta marea si troveranno sott’acqua: si tratterebbedi circa 150 milioni di persone nel 2050, in salita a 190-340 milioni entro il 2100». La situazione potrebbe quindi risultare «particolarmente drammatica» in Cina, Giappone, India, Indonesia e Filippine, mentre Bangladesh, Vietnam e Thailandia vedrebbero scomparire sotto il livello del mare territori attualmente abitati da circa il 20% della loro popolazione. Quanto all’Italia, il nostro paese non è immune agli effetti relativi all’innalzamento delle acque: «Buona parte delle pianure costiere italiane potrebbero essere soggette ad inondazioni o addirittura scomparire entro il 2100, per un’area totale pari a quella dell’intera Liguria». Le zone più a rischio «sono quelle del versante tirrenico, l’arco ionico, il Tavoliere delle Puglie e la Laguna Veneta».
    Analoghe conferme da altri recenti studi, citati da “meteoweb.eu”. «Le riserve di ghiaccio dell’Antartide, che si stanno sciogliendo a ritmi mai visti a causa del riscaldamento globale, rappresentano un rischio non solo per le specie animali presenti nell’area più fredda del globo, ma anche per noi». La rivista americana “Proceedings of the National Academy of Science” (Pnas) pubblica una ricerca guidata da Eric Rignot, dell’Università della California, secondo cui dal 1979 a oggi il livello degli oceani si è innalzato di 1,4 centimetri a causa dello scioglimento dei ghiacciai. Ma la preoccupazione maggiore «è data dalla velocità che questo fenomeno potrebbe assumere nei prossimi anni». L’innalzamento del livello dei mari, infatti, «potrebbe avere effetti disastrosi: in uno degli scenari peggiori immaginati dagli scienziati, già entro i prossimi 80 anni potremmo assistere a un innalzamento di 1,8 metri, con la conseguente inondazione della maggior parte delle città costiere». Si tratta di una previsione quattro volte peggiore rispetto a quella di Levermann, che parla di un innalzamento massimo di mezzo metro del livello dei mari (già di per sé catastrofico).
    Lo studio del Pnas si basa su una vasta indagine condotta sui ghiacciai antartici, che ha coperto 18 diverse regioni e si è avvalsa delle immagini aeree della Nasa più le immagini satellitari di diverse altre agenzie spaziali. «Il dato più allarmante registrato – sintetizza “meteoweb.eu” – è quello relativo ai ghiacciai orientali dell’Antartide, finora ritenuti stabili e immuni ai cambiamenti climatici, che sembrano aver iniziato a sciogliersi». Uno scioglimento di quest’area si era già verificato circa 125.000 anni fa, ma oggi basterebbe un innalzamento della temperatura globale di due gradi centigradi per registrare effetti disastrosi. Per comprendere la portata dell’evento, basti pensare che «se tutto il ghiaccio dell’Antartide si sciogliesse, gli oceani si innalzerebbero di 57 metri». Ma la grande maggioranza del ghiaccio è concentrata proprio nella parte orientale del continente: ce n’è abbastanza per far salire gli oceani di 52 metri, contro i 5 metri che si raggiungerebbero in caso di fusione completa del ghiaccio occidentale. «Lo scenario catastrofico, pur non essendo all’ordine del giorno, rende bene l’idea di un’eventualità tutt’altro che remota». Infatti, se tra il 1979 e il 1990 in Antartide si sono persi “solo” 40 miliardi di tonnellate di ghiacci in media all’anno, tra il 2009 e il 2017 questo dato è salito fino a 252 miliardi di tonnellate.
    Il fatto è che nella calotta polare antartica si trova il 70% dell’acqua dolce della Terra, ricorda Tosca Ballerini sul “Fatto Quotidiano”. E’ una coltre di ghiaccio formatasi 34 milioni di anni fa, che si estende per 14 milioni di chilometri quadrati e ricopre circa il 98% dell’Antartide. Nella calotta antartica sono contenuti tra i 25 e i 30 milioni di chilometri quadrati di ghiaccio: se si sciogliesse tutta, il livello medio del mare salirebbe di 57 metri. Normalmente, l’accumulo di nevicate all’interno del continente antartico dovrebbe bilanciare le perdite di ghiaccio dovute ad erosione, fusione e distacco di iceberg. «Il problema è che la calotta antartica non è più in uno stato di equilibrio e le perdite di ghiaccio sono superiori alla formazione di nuovo ghiaccio». Anche il “Fatto” cita la ricerca del Pnas, condotta dai glaciologi californiani. Studi precedenti avevano già dimostrato come, a causa del surriscaldamento terrestre, ci sia stato «un cambiamento nella direzione dei venti attorno all’Antartide, i quali soffiano adesso verso il continente spingendo l’acqua profonda circumpolare verso la piattaforma continentale». Qui, questa massa d’acqua calda «entra in contatto con i ghiacciai della calotta che arrivano in mare e ne determina lo scioglimento alla base».
    Secondo Eric Rignot, autore principale dello studio, la perdita di massa della calotta e il contributo all’aumento del livello medio del mare misurati durante lo studio non sono altro che la punta dell’iceberg del problema. «Infatti, a causa del riscaldamento terrestre, sempre maggiori quantità di calore saranno inviate verso l’Antartide, contribuendo allo scioglimento della calotta antartica». E quindi, conclude il ricercatore, «dobbiamo aspettarci un aumento di molti metri del livello del mare nei prossimi secoli». Queste previsioni – aggiunge il “Fatto” – sono confermate da un rapporto redatto da un team di ricerca internazionale e pubblicato il 16 gennaio sulla rivista “Advances in Atmospheric Research”, che mostra come il 2018 sia stato l’anno più caldo mai registrato per l’oceano globale. «L’aumento di calore nel 2018 rispetto al 2017 è stato di circa 388 volte superiore alla produzione totale di elettricità della Cina nel 2017 e circa 100 milioni di volte in più rispetto alla bomba di Hiroshima». I ricercatori pronosticano che la quantità di calore oceanico continuerà a salire, «determinando un aumento del livello del mare dovuto allo scioglimento dei ghiacciai e l’espansione termica dell’acqua».
    Questo, a sua volta, causerà una serie di conseguenze a cascata, «come ad esempio la contaminazione di pozzi d’acqua dolce con acqua salata e impatti negativi sulle infrastrutture costiere, tempeste e più intense e la morte dei coralli». Il riscaldamento terrestre ha già causato conseguenze irreversibili, come la perdita di massa della calotta glaciale antartica, destinata ad accentuarsi nel futuro. Per Lijing Cheng, autore principale del rapporto e ricercatore presso l’International Center for Climate and Environment Sciences dell’Accademia cinese delle scienze a Pechino, i nuovi dati pubblicati nel rapporto, insieme al ricco corpus di pubblicazioni scientifiche già esistenti, servono come ulteriore avvertimento, sia ai governi che al pubblico in generale: stiamo vivendo un inevitabile riscaldamento globale. È necessario, dice il ricercatore, mettere in atto subito delle azioni di mitigazione per ridurre al minimo le future tendenze al riscaldamento. Per contro, è stato osservato al tempo stesso anche il fenomeno inverso: la strana espansione dei ghiacci antartici, provocata (paradossalmente) proprio dalla loro fusione.
    Se ne accorsero già nel 2014 i ricercatori della Oregon State University e quelli dell’Università di Brema, in Germania. Lo studio, che spiega anche perché il ghiaccio marino che circonda quel continente è in aumento nonostante il riscaldamento del resto del pianeta, è descritto in un articolo pubblicato su “Nature”. I ricercatori hanno analizzato i sedimenti marini circostanti l’Antartide relativi agli ultimi 8.000 anni, identificando i grani di sabbia depositati dallo scioglimento degli iceberg, per poi risalire con l’uso di sofisticati modelli al computer, ai ritmi di rilascio degli iceberg dalla calotta glaciale. Hanno così scoperto che «nella parte più profonda del mare adiacente alla calotta antartica si manifesta una variabilità naturale simile a quella di El Niño/La Niña, ma su una scala temporale più lunga, di secoli, che provoca piccoli ma significativi cambiamenti nelle temperature», spiega Andreas Schmittner, coautore dello studio. Quando le temperature oceaniche sono più calde – sintetizza “Le Scienze” – provocano uno scioglimento più intenso della calotta di ghiaccio sotto la superficie, e aumentano il numero di iceberg che se ne distaccano, aumentando l’apporto di acqua dolce fredda nell’Oceano meridionale.
    Tutto questo riduce la salinità e le temperature superficiali, che provocano una stratificazione delle acque. «L’acqua più dolce e fredda di superficie gela però più facilmente, creando ulteriore ghiaccio marino, anche se alcune centinaia di metri più in profondità le temperature sono più alte». Lo stesso fenomeno non si verifica, invece, nell’emisfero settentrionale, con il ghiaccio che circonda la Groenlandia, «perché l’oceano artico è più chiuso e non risente di correnti oceaniche analoghe a quelle che interessano l’Antartide». Almeno sul breve periodo, aggiungeva “Le Scienze” qualche anno fa, questo meccanismo «sembra avere un effetto di relativa stabilizzazione del rilascio di acqua dal continente». I risultati di quello studio si stimava che avrebbero permesso di perfezionare i modelli climatici globali, nei quali la calotta antartica era sempre stata considerata un’entità statica e costante, non sottoposta ai numerosi impulsi di variabilità ora scoperti. Il suo sciogliento accelerato e improvviso – ora verificato – lascerebbe dunque temere il peggio, con scenari apocalittici: oceani che si innalzano e litorali che scompaiono, come altre volte avvenuto nella lunghissima storia della Terra.

    Abbiamo sentito ampiamente parlare nei giorni scorsi dell’incredibile temperatura registrata in Antartide il 9 febbraio scorso, con un valore superiore addirittura ai 20°C, preceduto da un altro picco di 18°C, il 7 sempre del mese in corso. Possiamo dirlo con certezza: l’Antartide ha la febbre. E non è una frase fatta, ma la semplice realtà esplicitata dai dati meteorologici raccolti dalle stazioni meteo. Un picco così alto di temperature potrebbe comportare lo scioglimento dei ghiacciai e il conseguente innalzamento delle acque. Cosa significa? Entro la fine di questo secolo, se dovesse continuare ad essere questo il trend, il livello globale del mare potrebbe aumentare fino a tre volte rispetto al secolo scorso, passando cioè da 19 a 58 centimetri. E’ quanto emerge da un confronto, senza precedenti, di numerosi modelli elaborato con computer all’avanguardia provenienti da tutto il mondo, afferma il sito del servizio “ilmeteo.it“. «Il serio rischio relativo allo scioglimento dei ghiacci in Antartide potrebbe seriamente diventare la più grande catastrofe globale». Lo afferma Anders Levermann del Potsdam Institute of Climate Impact Research, principale autore della ricerca.

  • Il Covid rovina un’azienda su 10: perderemmo 640 miliardi

    Scritto il 16/3/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Gli scenari sono due, e il primo è “ottimistico”: se l’emergenza coronavirus finisce a maggio, le imprese italiane (contando anche le ricadute nel 2021) perderanno un giro d’affari di 275 miliardi di euro. Se invece la quarantena durerà fino a dicembre, sarà la catastrofe, con la completa chiusura delle frontiere dei mercati europei: nel biennio perderemmo ricavi per 641 miliardi, di cui quasi 470 quest’anno. «Quale dei due scenari si concretizzerà? Non siamo epidemiologi, non è facile rispondere», ammette Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved, la società che da quarant’anni analizza i bilanci di tutte le imprese italiane. Timore evidente: man mano che passano le settimane, senza miglioramenti in vista, si profila davvero l’apocalisse. Secondo Cerved, riassume “Repubblica”, se si verificherà lo scenario pessimistico «rischia di fallire il 10,4% delle imprese italiane». L’inserto “Affari&Finanza”, sempre di “Repubblica”, avanza stime ancora più precise, analizzando 750.000 imprese italiane, con dati elaborati e integrati coi modelli statistici ed econometrici utilizzati da Cerved per monitorare 233 diversi settori produttivi.
    La prima cosa che balza all’occhio, scrive “Repubblica”, è il fatto che, se l’emergenza finisse a maggio, le imprese italiane riuscirebbero già dal prossimo anno a recuperare un livello di fatturato superiore dell’1,5% rispetto a quello ottenuto nel 2019 (secondo Cerved, 2.410 miliardi di euro). «Questo dato è interessante perché, dopo le crisi del 2008 e del 2011 – spiega Mignanelli – l’economia italiana non ce l’aveva fatta a tornare ai livelli precedenti, in parte perché il fallimento di molte aziende aveva ridotto la base produttiva». La aziende che dovessero sopravvivere si calcola che diverrebbero più forti di prima. «Anche in questo caso, però, il costo reale del Covid-19 sarebbe altissimo», scrive il giornale diretto da Carlo Verdelli. «Per stimare il giro d’affari bruciato dal virus bisogna infatti tenere conto dei progressi che molte aziende avrebbero compiuto quest’anno e il prossimo, se non fosse scoppiata l’epidemia: il fatturato, erano le aspettative fino a poche settimane fa, era atteso crescere dell’1,7% quest’anno e del 2% il prossimo, più di quanto avessero fatto nel 2019».
    È così che Cerved arriva a mettere nero su bianco la cifra di 275 miliardi, che fotografa i ricavi che saranno persi dalle aziende nel biennio 2020-2021, anche se si verificasse lo scenario più “benevolo”. «Una voragine che diventerebbe ancora più profonda – arrivando fino a 641 miliardi – se le cose si mettessero male davvero, e l’emergenza si protraesse fino a dicembre». Scorrendo i numeri dei settori più colpiti, aggiunge “Repubblica”, ci si rende conto di come la crisi cambierà il volto dell’Italia e del suo sistema di imprese. «Nello scenario pessimistico, infatti, il fatturato degli alberghi scenderebbe dai 12,5 miliardi del 2019 ai 3,3 miliardi di quest’anno, un crollo del 73% che sarebbe seguito a ruota da agenzie di viaggio e tour operator (meno 68%), strutture ricettive extra-alberghiere come agriturismi e b&b (meno 64%) e aeroporti (meno 50%). «Ma l’ictus produttivo e il crollo dei consumi assesterebbero una mazzata anche alla manifattura, con un crollo del 45,8% per la produzione di auto (da 39,5 a 21,4 miliardi), di veicoli industriali (da 12,7 a 6,7 miliardi) e del cruciale e diffusissimo settore dei componenti per l’automotive (da 23,3 a 12,6 miliardi), che i produttori italiani esportano o fabbricano direttamente in tutto il mondo».
    Un altro aspetto interessante è l’impatto sulle diverse regioni: «In cima c’è la Lombardia, “l’epicentro del terremoto”, com’è stata definita sul piano sanitario e come rischia di essere anche dal punto di vista economico, data la sua stazza produttiva». Sempre nello scenario pessimistico, rispetto a quanto avrebbero fatto con le stime ante-coronavirus, le imprese lombarde brucerebbero un fatturato di 182 miliardi, seguite dal Lazio (118 miliardi), dal Piemonte (60), dal Veneto e dall’Emilia Romagna (circa 57 per entrambe). Tanti i fattori: il diverso peso dei vari settori di attività, la propensione all’export e il fatto che i maggiori gruppi, industriali e commerciali, hanno sede a Milano e Roma. «In valori assoluti, ovviamente, l’impatto della crisi sarà più contenuto nelle regioni del Sud o in quelle più piccole». Tra le più colpite, comunque, quelle turistiche: Trentino Alto Adige, Liguria e Valle d’Aosta. «Le peggiori in assoluto, però, nello scenario “horribilis” sarebbero quelle dove l’auto pesa di più sul totale, ovvero Piemonte (meno 4,9%) e Basilicata (-5,1)».
    Poi c’è addirittira chi guadagna, dalla crisi: per esempio, le aziende che operano nel commercio online, nella grande distribuzione alimentare e nella farmaceutica. Se l’emergenza si protraesse, «il 2020 per molte di esse diventerebbe indimenticabile: nella grande distribuzione alimentare crescerebbero dai 108 miliardi del 2019 a 132 miliardi, nel commercio all’ingrosso dei prodotti farmaceutici e medicali da 33 a 38 miliardi, nel commercio online da 4,3 a 6,7 miliardi». Handicap tutto italiano, la debolezza della digitalizzazione. Ora, i ricavi delle aziende connesse all’informatica o all’automazione non smetteranno di crescere: «La speranza – dice Mignanelli – è che l’epidemia, che costringe le persone a casa, possa contribuire a convincere gli imprenditori – soprattutto i più piccoli – che gli investimenti in tecnologia sono necessari per aumentare la produttività».

    Gli scenari sono due, e il primo è “ottimistico”: se l’emergenza coronavirus finisce a maggio, le imprese italiane (contando anche le ricadute nel 2021) perderanno un giro d’affari di 275 miliardi di euro. Se invece la quarantena durerà fino a dicembre, sarà la catastrofe, con la completa chiusura delle frontiere dei mercati europei: nel biennio perderemmo ricavi per 641 miliardi, di cui quasi 470 quest’anno. «Quale dei due scenari si concretizzerà? Non siamo epidemiologi, non è facile rispondere», ammette Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved, la società che da quarant’anni analizza i bilanci di tutte le imprese italiane. Timore evidente: man mano che passano le settimane, senza miglioramenti in vista, si profila davvero l’apocalisse. Secondo Cerved, riassume “Repubblica“, se si verificherà lo scenario pessimistico «rischia di fallire il 10,4% delle imprese italiane». L’inserto “Affari&Finanza”, sempre di “Repubblica”, avanza stime ancora più precise, analizzando 750.000 imprese italiane, con dati elaborati e integrati coi modelli statistici ed econometrici utilizzati da Cerved per monitorare 233 diversi settori produttivi.

  • Fiat, Repubblica e Vaticano SpA. Moncalvo: siamo alla follia

    Scritto il 08/12/19 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Stiamo sprofondando nella follia: l’Italia crolla, e nessuno ne parla. «C’è da meravigliarsi che non accada qualcosa, perché lo sconquasso sociale è gigantesco, tra il Vaticano che entra in società con Lapo Elkann (con l’Obolo di San Pietro, destinato ai poveri) e una catena di giornali che, invece di fare le inchieste sul resto del mondo, dovrebbero interrogarsi su chi sono e cosa fanno, realmente, i loro padroni». Gigi Moncalvo, giornalista di lunga esperienza, è letteralmente esterrefatto dalla sequenza degli eventi: Fiat-Fca che cede il comando ai francesi, poi annuncia l’apertura di uno stabilimento (non in Italia: in Marocco) e si prepara a ricevere in omaggio 136 milioni di euro dal governo Conte. Nel frattempo, i giornali tacciono: quelli del gruppo “Espresso” (”Repubblica”, in primis) vengono comprati da John Elkann «al prezzo delle sigarette». Spiccioli: costano la decima parte di quello che Exor ha speso per ricapitalizzare la Juventus, dopo le spese pazze per Cristiano Ronaldo. E attenzione: l’acquisto del gruppo “Espresso-Repubblica” è meno dell’1% del totale degli investimenti finanziari della Exor. «Negli ultimi sei mesi, la holding della famiglia Agnelli ha investito 23,3 miliardi». In Italia, posti di lavoro a rischio: ma i media sorvolano.

  • Feltri: rimpiango Sandro Pertini, il coraggio della coerenza

    Scritto il 19/10/19 • nella Categoria: idee • (3)

    Tra qualche mese si celebra il 30° anniversario della morte di Sandro Pertini, mitico presidente della Repubblica. In anticipo sull’evento ci piace ricordare la vicenda umana di quest’uomo che ha segnato la storia del nostro Paese. Pertini è morto, viva Pertini. La gente non lo dimenticherà mai. Stavolta, queste parole abusate e lise, non sono retoriche ma riflettono perfettamente lo stato d’animo degli italiani che, a prescindere dalle preferenze politiche e dalle passioni ideologiche, hanno avuto stima profonda, se non simpatia, per il presidente “senza peli sulla lingua”. Ovvio: in un Paese in cui, dai segretari di partito all’ultimo assessore di campagna, chi amministra la cosa pubblica si esprime per eufemismi, in un gergo oscuro, badando agli interessi di corrente o di casta piuttosto che a quelli dell’elettorato, un uomo che, viceversa, parlava chiaro fino alla brutalità, non poteva che essere acclamato come l’unica persona seria della compagnia romana. Un’esagerazione? Forse. Sta di fatto che il brusco Sandro, la popolarità se l’era meritata non soltanto usando magistralmente i mass media per consolidare il feeling con la base, ma anche soprattutto con una condotta di vita esemplare, non offuscata dai soliti immancabili detrattori.
    Quando egli entrò al Quirinale sulle ali del trionfo (832 voti su 995 votanti: un primato) circolò una battuta: finalmente ci tocca un evaso e non un evasore. Il riferimento era duplice. Al passato del nuovo inquilino, che tra carcere e confino, durante il fascismo, fu prigioniero del regime per 15 anni; e alla sua proverbiale onestà. Quest’ultima qualità non è considerata sufficiente per reggere uno Stato, però non guasta. Pertini aveva una forma maniacale di rispetto per il denaro non suo. «Andai a trovarlo – racconta Enzo Biagi – alla Camera, di cui era presidente. Bevemmo un caffè, e lui accennò a pagare. Ma gli uscieri glielo impedirono. Un finimondo. Lui si offese a morte, protestò. E alla fine riuscì a saldare il conto. Non si può dire che a quel tempo gli premeva che si sapesse in giro dei suoi scrupoli: non era ancora capo dello Stato, e nessuno avrebbe scritto l’episodio sui giornali. No, sulla sua correttezza non vi sono dubbi in assoluto». Aneddoti simili si sprecano. Forse vale la pena di rammentare solo l’ultimo, o almeno il più clamoroso. Il Parlamento propose di aumentare l’appannaggio del Quirinale, che era veramente ridicolo: poco più di cento milioni. La legge sarebbe stata approvata in cinque minuti e all’unanimità. Ma Pertini, come ne venne a conoscenza, si inalberò: «Finché qui rimango io, non verrà dentro una lira in aggiunta. Quel che piglio, mi basta e avanza». Mentiva. Era in bolletta nera.
    Se non ci fosse stato Maccanico, che si faceva anticipare di un biennio gli stipendi del personale, e depositandoli in banca usufruiva degli interessi, i quattrini per pagare tutti ogni mese non ci sarebbero stati. Onestà non soltanto in senso generale, ma anche intellettuale. Pertini non è mai venuto meno agli ideali, neanche a quelli che considerava doveri. Fin da giovanissimo. Era contrario all’intervento dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, essendo già simpatizzante socialista, ma al primo tonare di cannone era già in prima linea: allievo ufficiale nei mitraglieri. Aveva poco più di 19 anni e appena terminato il liceo. Non riteneva nemici coloro che erano al di là della linea, ma compagni di sventura; tuttavia, benché pacifista e convinto che sotto il sole nascente non vi fossero divisioni nazionali, combatté senza mai risparmiarsi. Aveva il senso dello Stato, e sapeva che “imboscarsi” avrebbe danneggiato i suoi compagni di trincea. Fu proposto addirittura per una medaglia d’argento, che non ebbe mai per “disguidi burocratici”. Questo il motivo agli atti. In realtà, non gliela diedero perché era “rosso”.
    Dopo il conflitto, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza a Genova. E alla sezione socialista del suo paese, Stella (Savona), dov’era nato nel ‘96. Il padre, piccolo proprietario terriero, morto giovane; la madre, Maria Muzio, ebbe altri tre figli, due maschi e una femmina. Una famiglia borghese, tradizionalista, né ricca né povera. Sandro si laureò in fretta, e bene. Ma aveva altri orizzonti oltre quelli del diritto. E si trasferì a Ca’ Foscari, a Venezia, dove – sempre a gran velocità – ottenne il secondo dottorato: scienze sociali. Non era soltanto un uomo d’azione come è apparso a noi negli ultimi anni e si evince dal suo curriculum nella Resistenza: aveva una inclinazione piuttosto schietta per gli studi. Nei quali, però, non esauriva tutta la carica che aveva dentro. Ecco perché, nel partito, si buttò con ardore. Conobbe Treves e Turati e stabilì con loro una collaborazione intensa. Non si limitava ad arringare le folle; in piazza, ci andava anche a fare i volantinaggi, da umile attivista. E fu in una di queste circostanze, nel 1925, che esordì in galera.
    Era di maggio. Lo sorpresero nei pressi di casa sua, a Stella, mentre distribuiva una rudimentale pubblicazione intitolata: “Sotto il barbaro dominio fascista”, stampata in proprio. Scattarono le manette. Processo al tribunale di Savona: otto mesi di reclusione. Comincia per lui il “dentro e fuori”. Un dettaglio rivelatore dal carattere dell’uomo: durante l’udienza, egli non si difende affatto. Anzi, con un tono quasi di sfida, ammette di essere socialista e sottoscrive ogni responsabilità che gli viene addebitata. Accanto, c’è un colonnello dei carabinieri che strabilia. È ammirato da quel giovane col «pelo sullo stomaco», e si mette sugli attenti in segno di deferenza. Se non nei riguardi dell’imputato, almeno del suo coraggio. Nel ‘26 Pertini è a Milano, ospite di Carlo Rosselli. E insieme con Adriano Olivetti e Ferruccio Parri organizza la fuga di Filippo Turati. Un’impresa da matti. Partono in motoscafo da Savona e arrivano in Corsica per miracolo: il mare è grosso, l’imbarcazione sta insieme con lo spago. Turati scende. I “complici” si sparpagliano. Parri, Olivetti e Rosselli rientrano, e come mettono piede dalle nostre parti sono prelevati e condotti in cella. Sandro, che è rimasto in Francia per tenere i collegamenti con gli esuli, è condannato in contumacia.
    Sono anni tremendi. Gli tocca fare di tutto: lavamacchine, muratore. Cose di cui si è già scritto molto. Ma un particolare forse, se non inedito, è poco noto. Pertini, a un certo punto, decide che è ora di svegliare gli italiani. Come? La stampa clandestina è un fiasco perché non riesce a penetrare nelle maglie della censura; di fare riunioni carbonare, non se ne parla neanche. La circolazione delle idee, anche se affidata alle chiacchiere, è pericolosa: ogni persona può essere una spia. La soluzione ci sarebbe, la radio. Ma i costi sono pazzeschi. Lui, il “ribelle”, fa presto: vende la sua quota di eredità – podere e fattoria – e investe il ricavato in un impianto adatto all’alfabeto morse. Il “bip” del dissenso valica il confine e giunge in Liguria. L’autore dei messaggi si firma con lo pseudonimo Jaques Gauvin, ma suscita subito sospetti nelle autorità del fascismo che fanno una soffiata alla polizia d’oltralpe. L’emittente è costretta a tacere, sequestrata. E il proprietario rischia cinque anni di galera e l’espulsione.
    Ma gli va bene che i francesi colgano l’occasione del processo per svergognare la dittatura del Duce; la magistratura lo condanna a un mese con la condizionale e gli consente di rimanere sulla Costa Azzurra. Chiunque altro si sarebbe calmato, almeno per un periodo. Pertini non molla un secondo: con passaporto falso intestato a Luigi Roncaglia, va in Svizzera ampliando i reticoli dell’opposizione al regime. Poi si stufa di stare all’estero ed eccolo a Milano. Non si contenta, gira al Centro e al Meridione, su e giù in treno: nella borsa, solito materiale sovversivo. Fatale che lo becchino. Ancora prigioni, in una delle quali incontra Gramsci e diventano amici, per quanto, ogni tanto non manchino di litigare. Il leader sardo un giorno esprime un giudizio pesantuccio su Turati e Treves. Apriti cielo. L’altro gli risponde malamente e si imbroncia: non c’è verso di rasserenarlo. E soltanto quando Gramsci si scuserà, affermando che si trattava esclusivamente di una valutazione politica, Sandro sorriderà e gli stringerà la mano.
    La madre, che da anni non lo vede, preoccupata per la sua salute, di sua iniziativa chiede la grazia e lui non ne vuol sapere, scrive questa lettera al presidente del tribunale speciale: «Non mi associo a simile domanda perché sento che mancherei alla mia fede politica, che più d’ogni altra cosa, della mia stessa vita, mi preme». E rimprovera la povera donna che aveva agito per amore: «Mamma, con quale animo hai potuto fare questo». Anche a lei terrà a lungo il broncio. Intanto, fra un’amnistizia e nuovi arresti, condoni e libertà provvisorie, Pertini compie 40 anni: in pratica è sempre stato detenuto. Ovvio che il suo livore per le camicie nere sia incontenibile, e si traduca col tempo, specialmente durante il secondo conflitto mondiale, in un piano per toglierle di mezzo. Nella guerra partigiana, dal 1943, alla Liberazione, il suo ruolo sarà determinante insieme con quelli di Saragat e Nenni e di molti altri. Due capitone fondamentali: le insurrezioni di Firenze nel ‘44 e di Milano nel ‘45 furono capeggiate da lui. Fece di tutto: lo stratega e il manovale, l’ideologo e la sentinella, a seconda del bisogno.
    E a Liberazione avvenuta, nonostante la medaglia d’oro (stavolta arrivò), i meriti acquisiti sul piano politico e militare, e per la solidificazione del socialismo, nel partito gli riservano sistematicamente posti senza potere, benché di prestigio: direttore dell’“Avanti!” e del “Lavoro”, per esempio. È naturale, non aveva correnti, aborriva gli intrighi di corridoio, le cordate, le scalate; nessuna vocazione ai patteggiamenti, alle mediazioni, alle spartizioni, alle lottizzazioni. Mai entrato nella stanza dei bottoni dal 1946 al 1968, quando fu eletto presidente della Camera, seggiola che abbandonò nel 1976, l’indomani dell’avanzata comunista, e qualcuno pensò che alla falce e martello spettasse la guida di un ramo del Parlamento, a scopo di legittimazione democratica. Pertini, che negli otto anni aveva avuto esclusivamente consensi per aver retto la carica alla grande, mai guardando in faccia a nessuno se occorreva far osservare le regole, abbozzò: salutò il nuovo presidente, Pietro Ingrao, e non accese polemiche, per quanto non gli mancassero le ragioni.
    Il salto al Quirinale, due anni più tardi, fu casuale. Leone era stato costretto a dimettersi su pressioni del Pci, che era nella maggioranza e contava. Ma non esisteva un’alternativa accettabile a tutti i partiti della famosa ammucchiata, eufemisticamente definita “solidarietà nazionale”. Ogni candidato si bruciava in tre minuti. Inutile, trascorsero 10 giorni; quindici scrutini vani. Il paese non ne poteva più. Ci fu del panico nelle segreterie della Dc, del Psi e dello stesso Pci: che figura facciamo? Craxi tirò fuori dal cilindro la vecchia bandiera: Pertini. Sul quale – al punto in cui si era – piovvero i voti del cosiddetto arco costituzionale al completo. Alla gente il vecchio fu subito simpatico: immaginiamo che le ispirasse tenerezza, almeno all’inizio; poi venne la venerazione. Fu una conquista lenta e graduale, la sua; il pubblico cominciò ad apprezzare. E ora lo rimpiangiamo.
    (Vittorio Feltri, ritratto di Sandro Petrini pubblicato su “Libero” il 9 ottobre 2019).

    Tra qualche mese si celebra il 30° anniversario della morte di Sandro Pertini, mitico presidente della Repubblica. In anticipo sull’evento ci piace ricordare la vicenda umana di quest’uomo che ha segnato la storia del nostro paese. Pertini è morto, viva Pertini. La gente non lo dimenticherà mai. Stavolta, queste parole abusate e lise, non sono retoriche ma riflettono perfettamente lo stato d’animo degli italiani che, a prescindere dalle preferenze politiche e dalle passioni ideologiche, hanno avuto stima profonda, se non simpatia, per il presidente “senza peli sulla lingua”. Ovvio: in un Paese in cui, dai segretari di partito all’ultimo assessore di campagna, chi amministra la cosa pubblica si esprime per eufemismi, in un gergo oscuro, badando agli interessi di corrente o di casta piuttosto che a quelli dell’elettorato, un uomo che, viceversa, parlava chiaro fino alla brutalità, non poteva che essere acclamato come l’unica persona seria della compagnia romana. Un’esagerazione? Forse. Sta di fatto che il brusco Sandro, la popolarità se l’era meritata non soltanto usando magistralmente i mass media per consolidare il feeling con la base, ma anche soprattutto con una condotta di vita esemplare, non offuscata dai soliti immancabili detrattori.

  • Gli scienziati: 5G e cancro. Il voto alla Camera: fermiamolo

    Scritto il 05/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Cancro, danni al Dna, riduzione della fertilità. «Fermate il 5G, potenzialmente pericoloso per la salute, in attesa che la scienza ne chiarisca il reale impatto sul nostro corpo». In vista del voto alla Camera il 7 ottobre, lo chiedono Sara Cunial del gruppo misto e quattro colleghi, le grilline Gloria Vizzini e Veronica Giannone più Silvia Benedetti (gruppo misto) e Manfred Schullian (minoranze linguistiche). Per la prima volta, annuncia Sara Cunial, ai parlamentari sarà sottoposto «un testo importantissimo», con cui si chiede di impegnare il governo a «sospendere qualsiasi forma di sperimentazione tecnologica del 5G nelle città italiane, in attesa della produzione di sufficienti evidenze scientifiche per giudicarne l’innocuità». Il governo viene anche invitato a «mantenere gli attuali valori-limite previsti dalla legge», riguardo alla soglia d’irradiazione elettromagnetica (che il 5G farebbe salire alle stelle). All’esecutivo “ecologista” di Giuseppe Conte, che annuncia un “green new deal”, si chiedono «iniziative per minimizzare il rischio» e anche l’introduzione di clausole di risarcimento, nei contratti delle aziende incaricate di predisporre la potentissima rete wireless di quinta generazione. Si chiede inoltre uno studio sugli effetti biologici delle radiofrequenze presso un ente indipendente che non sia l’Icnirp, accusato di conflitto d’interessi.
    Forti di una petizione sottoscritta da 11.000 cittadini, grazie all’alleanza italiana “Stop 5G” che ha coinvolto parlamentari e consiglieri regionali, sindaci, avvocati, scienziati e medici, nonché tecnici, giornalisti, movimenti e partiti, associazioni di malati e comitati civici, Sara Cunial e colleghi pretendono anche «una commissione di vigilanza permanente, per un monitoraggio finalmente serio e attendibile degli effetti che i campi elettromagnetici possono avere sulla salute umana». E’ allarme: con il 5G la nostra esposizione aumenterebbe in modo abnorme, grazie ad antenne collocate ovunque, a poche centinaia di metri l’una dall’altra. Più di 200 scienziati di tutto il mondo hanno rivolto un appello all’Ue per chiedere il blocco della tecnologia 5G a causa delle crescenti preoccupazioni per l’aumento delle radiazioni da radiofrequenza e dei relativi rischi per la salute. Un altro appello, sottoscritto da 54.000 cittadini, ha raccolto le adesioni di ricercatori e organizzazioni di 168 paesi al mondo e mette a disposizione una bibliografia ricchissima che attesta numerosi rischi biologici da elettrosmog. In Italia è stata avviata una prima sperimentazione nelle città di Prato, L’Aquila, Matera, Bari e Milano, a cui si sono aggiunte Roma, Torino e in ultimo Genova e Cagliari. Sono poi stati individuati 120 piccoli Comuni italiani in cui è prevista l’estensione della fase sperimentale del 5G.
    A insospettire decine di cittadini è stato il taglio improvviso dei grandi alberi nei parchi cittadini, in tutta la penisola: strano fenomeno, segnalato nei mesi scorsi al video-reporter Massimo Mazzucco. Due documenti ufficiali del governo inglese, conferma Mazzucco, certificano che «alberi e arbusti con un denso fogliame provocano un disturbo nella propagazione del segnale». Il 5 G è una rete veloce, capillare ed efficiente: può consentire di gestire ogni sorta di dispositivo. Il suo uso non sarà limitato alla navigazione ultra-veloce su Internet via smartphone e tablet, ma consentirà di creare una rete istantanea a cui ogni singolo dispositivo elettronico, anche domestico, sarà collegato. Le “smart city” del futuro saranno tutte collegate con il 5G: la nuova rete permetterà di gestire tutti i servizi e i dispositivi urbani. Viabilità e gestione del traffico, servizi per il cittadino, sensori di sicurezza e videosorveglianza: tutto sarà connesso e gestibile da remoto attraverso questa rete veloce e “a bassa latenza”, cioè onnipresente. Come si può immaginare, ci troviamo davanti ad un enorme giro d’affari: introiti che nel 2026 si aggireranno sui 1.307 miliardi di dollari.
    Saranno letteralmente rivoluzionati settori-chiave come l’agricoltura e la sanità, ma anche i trasporti e i media, l’intrattenimento, l’automotive e il commercio, i servizi finanziari e l’industria manifatturiera. Le infrastrutture del 5G vedono protagonisti colossi come Nokia, Ericsson, Cisco e Zte, ma anche Huawei. «Ben si comprende perché proprio quest’ultimo colosso cinese possa trovarsi al centro di un braccio di ferro con gli Usa, fortemente contrari alla presenza di Huawei all’interno del mercato delle infrastrutture “mobile” a causa di un possibile spionaggio internazionale da parte della Cina», scive il blog giuridico dello studio Cataldi. Secondo alcuni analisti politici, tra i motivi alla base della rottura del governo gialloverde ci sarebbe proprio il ruolo di Huawei in Italia: alla Lega di Salvini, anche convocando Giorgetti a Washington, gli Usa avrebbero inutilmente chiesto di far annullare gli impegni presi con il gigante cinese per la gestione della rete 5G. «In Italia – aggiunge lo studio Cataldi – la sfida per la copertura 5G è stata vinta da Tim e Vodafone, seguite da Wind-Tre e Iliad: le prime sperimentazioni sono attese per metà 2019, ma il debutto ufficiale è previsto nel il 2020. I primi telefonini dovrebbero essere sul mercato già dall’estate».
    Sara Cunial e colleghi ora chiedono al Conte-bis di «promuovere la ricerca di tecnologie più sicure, meno pericolose e alternative al wireless, come il cablaggio». Il governo italiano è invitato a farsi promotore, in sede Ue, di una revisione complessiva di tutta la normativa europea in materia. Quella ispirata dalle raccomandazioni dell’Icnirp, la “Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti”, contiene disposizioni inattendibili perché «in evidente conflitto di interessi, causa riconosciuti legami con le lobby delle telecomunicazioni». Quella sottoposta alla Camera è una mozione supportata da evidenze scientifiche di peso internazionale. Da quest’anno, le radiofrequenze del wireless di quinta generazione sono considerate pericolose dallo Scheer, il Comitato scientifico sui rischi sanitari e ambientali dell’Ue, fino a ieri “negazionista” sugli effetti biologici dei campi elettromagnetici. Lo Scheer afferma che il «5G lascia aperta la possibilità di conseguenze biologiche». I campi elettromagnetici a radiofrequenza (Cem-Rf) promuovono lo stress ossidativo, una condizione implicata nello sviluppo del cancro, in diverse malattie acute e croniche e nell’omeostasi vascolare. Recenti studi – si legge nel testo integrale della mozione parlamentare – hanno anche suggerito effetti sulla riproduzione, metabolici e neurologici in grado di alterare la resistenza batterica agli antibiotici.
    Quest’anno, l’Alleanza contro il cancro (fondata nel 2002 dal ministero della salute e di cui fa parte l’Istituto superiore di sanità) ha ufficializzato un progetto di studio sul glioblastoma, tumore maligno del cervello, per il quale sono ipotizzate correlazioni con le onde elettromagnetiche. La legge 36 del 2001, in teoria, protegge gli italiani “dalle esposizioni a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici” anche mediante la promozione dalla ricerca scientifica. Obiettivo: valutare gli effetti e sviluppare l’innovazione tecnologica finalizzata a minimizzare l’intensità dell’esposizione. Lo stesso articolo 168 del Trattato di Lisbona impegna gli Stati a «proteggere la popolazione dai potenziali effetti nocivi dei campi elettromagnetici». Sebbene alcune evidenze scientifiche siano tuttora controverse, scrive la relazione sottoposta alla Camera, già nel 2011 l’Oms ha classificato i Cem-Rf come «possibile cancerogeno per l’uomo». Proprio in questi giorni, lo Iarc ha ufficializzato una rivalutazione della classificazione generale sulla cancerogenesi, che potrebbe comportare l’innalzamento delle radiofrequenze come «probabile agente cancerogeno». Problema: l’esito finale della riclassificazione è previsto entro i prossimi cinque anni. Inoltre, un ampio studio del 2018 a cura del programma nazionale di tossicologia degli Usa (National toxicology program), ha dimostrato un aumento significativo dell’incidenza del cancro cerebrale e del tumore al cuore negli animali esposti a campi elettromagnetici anche a livelli inferiori a quelli fissati nelle attuali linee-guida dell’Icnirp.
    «Peraltro, le linee-guida del monitoraggio si limitano per ora ad analizzare i soli “effetti termici a breve termine” simulati su manichini riempiti di gel», affermano Sara Cunial e gli altri parlamentari in allarme per il 5G. Impossibile fidarsi dell’Icnirp, «organismo privato con sede in Germania, già al centro di numerose polemiche e attacchi da parte di scienziati, medici e ricercatori di mezzo mondo». L’icnirp è stato spesso accusato di «conflitti d’interesse, contiguità con la lobby delle telecomunicazioni e scarsa trasparenza nell’operato». Inoltre, sempre secondo i firmatari della mozione italiana, l’Icnirp è «fermo su parametri obsoleti e superati dalla letteratura biomedica più recente», nonché «sostenitore di una tesi negazionista sui cosiddetti effetti non termici a medio-lungo termine dei Cem-Rf». Nel 2017, il medico svedese Lennart Hardell (il ricercatore più eminente al mondo sui rischi di tumore del cervello connessi all’uso a lungo termine dei telefoni cellulari) ha pubblicato sulla rivista scientifica “International Journal of Oncology” una dura critica all’Icnirp, avallata da alcuni esponenti politici del Consiglio d’Europa: non ci sono prove, sostiene Hardell, che l’Icnirp sia un’associazione di scienziati indipendenti e che sia l’interlocutore giusto per valutare gli effetti delle radiofrequenze.
    Martin Pali, professore emerito di biochimica e scienze mediche di base della Washington State University, nel 2018 ha denunciato «il pericolo per la salute umana derivabile dalle radiofrequenze e dal 5G», puntando il dito su «storture, falle metodologiche e grossolani limiti di contenuto evidenziati nel controverso documento diffuso dell’Icnirp». Secondo Pali, le raziazioni del 5G ci espongono ad almeno otto pericoli dimostrati: danni cellulari al Dna con rottura dei filamenti e ossidazione delle basi, diminuzione della fertilità maschile e femminile, aumento di aborti spontanei, abbassamento di ormoni come estrogeni, progesterone e testosterone, abbassamento della libido. E ancora: danni neurologici e neuropsichiatrici, apoptosi e morte cellulare; stress ossidativo e aumento dei radicali liberi (responsabili della maggior parte delle patologie croniche), nonché effetti ormonali, aumento del calcio intracellulare e infine “effetto cancerogeno” sul cervello, sulle ghiandole salivari e sul nervo acustico. Olle Johansson, neuroscienziato del Karolinska Institute (che assegna il Premio Nobel per la fisiologia e la medicina) ha affermato che la prova del danno causato dai campi elettromagnetici a radiofrequenza «è schiacciante».
    Un altro scienziato, Ronald Powell, fisico laureato ad Harvard e che ha lavorato presso la National Science Foundation e l’Istituto nazionale degli standard e della tecnologia, condivide preoccupazioni simili riguardo al potenziale danno diffuso dalle radiazioni a radiofrequenza. Recenti studi pubblicati nel 2018, realizzati dal Centro per ricerca sul cancro dell’Istituto Ramazzini, evidenziano poi «un aumentato rischio, sia per i tumori alla testa sia per gli schwannomi, il più pericoloso dei quali è il tumore cardiaco». Sono risultati «basati sulla sperimentazione animale su cavie uomo-equivalenti», che si sommano agli ultimi studi epidemiologici sugli utilizzatori di cellulari condotti dall’oncologo Lennart Hardell. Tutte ricerche che «fanno concludere agli studiosi che è tempo di aggiornare la classificazione Iarc». La stessa Ue ammette che i campi elettromagnetici «sono altamente focalizzati dai raggi, variano rapidamente con il tempo e il movimento», e proprio per questo «sono imprevedibili». Il problema, aggiunge Bruxelles, è che al momento «non è possibile simulare o misurare accuratamente le emissioni di 5G al di fuori del laboratorio, nel mondo reale».
    Altro rischio per la salute, l’elettrosensibilità accentuata dal 5G: già nel 2004 l’Oms denunciato a Praga questa «sindrome altamente invalidante e fortemente in crescita nei paesi occidentali e industrializzati». Una malattia definita come «un fenomeno in cui gli individui avvertono gli effetti avversi sulla salute quando sono in prossimità di dispositivi che emanano campi elettrici, magnetici o elettromagnetici». I ricercatori stimano che circa il 3% della popolazione mondiale ha gravi sintomi associati alla elettrosensibilità, mentre un altro 35% della popolazione ha sintomi moderati come «deficit del sistema immunitario o malattie croniche». In Italia, dal 2013, la sindrome è stata riconosciuta dalla Regione Basilicata e inclusa nell’elenco delle malattie rare. «In questo scenario in evoluzione, sebbene gli effetti biologici dei sistemi di comunicazione 5G siano scarsamente studiati (mancando uno studio preliminare degli effetti sulla salute), è iniziato un piano d’azione internazionale per lo sviluppo di reti 5G con un prossimo incremento nel numero di dispositivi e nella densità di piccole celle e con l’uso di onde millimetriche», avvertono Cunial, Vizzini, Giannone, Benedetti e Schullian.
    Non c’è da stare tranquilli: «Osservazioni preliminari hanno mostrato che le onde millimetriche aumentano la temperatura della pelle, alterano l’espressione genica, promuovono la proliferazione cellulare e la sintesi di proteine legate allo stress ossidativo». Le microonde del 5G, inoltre, causano «processi infiammatori e metabolici, possono generare danni oculari e influenzare le dinamiche neuromuscolari». Per questo «sono necessari ulteriori studi per esplorare meglio e in modo indipendente gli effetti sulla salute dei Cem-Rf in generale e delle onde millimetriche in particolare», insistono i cinque parlamentari. Secondo diversi scienziati, sono necessari ulteriori studi per esplorare in modo migliore e indipendente gli effetti sulla salute (dei campi elettromagnetici a radiofrequenza in generale, e delle microonde millimetriche del 5G in particolare). «Tuttavia, i risultati disponibili appaiono sufficienti per dimostrare l’esistenza di effetti biomedici, per invocare il principio di precauzione, per definire i soggetti esposti come potenzialmente vulnerabili e per rivedere i limiti esistenti». I promotori si augurano che la mozione alla Camera metta fine «alla svendita dei nostri diritti sanitari e ambientali, ceduti per soddisfare interessi economici». Chiosa Sara Cunial: «Confidiamo che il voto in aula sia unanime e che riacquistino priorità il principio di precauzione, i diritti dei cittadini e la nostra stessa Costituzione, che prescrive la tutela della salute pubblica».

    Cancro, danni al Dna, riduzione della fertilità. «Fermate il 5G, potenzialmente pericoloso per la salute, in attesa che la scienza ne chiarisca il reale impatto sul nostro corpo». In vista del voto alla Camera il 7 ottobre, lo chiedono Sara Cunial del gruppo misto e quattro colleghi, le grilline Gloria Vizzini e Veronica Giannone più Silvia Benedetti (gruppo misto) e Manfred Schullian (minoranze linguistiche). Per la prima volta, annuncia Sara Cunial, ai parlamentari sarà sottoposto «un testo importantissimo», con cui si chiede di impegnare il governo a «sospendere qualsiasi forma di sperimentazione tecnologica del 5G nelle città italiane, in attesa della produzione di sufficienti evidenze scientifiche per giudicarne l’innocuità». Il governo viene anche invitato a «mantenere gli attuali valori-limite previsti dalla legge», riguardo alla soglia d’irradiazione elettromagnetica (che il 5G farebbe salire alle stelle). All’esecutivo “ecologista” di Giuseppe Conte, che annuncia un “green new deal”, si chiedono «iniziative per minimizzare il rischio» e anche l’introduzione di clausole di risarcimento, nei contratti delle aziende incaricate di predisporre la potentissima rete wireless di quinta generazione. Si chiede inoltre uno studio sugli effetti biologici delle radiofrequenze presso un ente indipendente che non sia l’Icnirp, accusato di conflitto d’interessi.

  • Subdolo 5G: infame strage di alberi in tutte le città italiane

    Scritto il 09/7/19 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Da quando ho iniziato a interessarmi del 5G, ho scoperto che vi sono non uno, ma due aspetti preoccupanti, di questa nuova tecnologia. Il primo è quello che riguarda la salute: mentre si sta procedendo con grande fretta alla commercializzazione della nuova “Rete dei miracoli”, infatti, nessun serio studio scientifico è stato fatto sulle conseguenze che potrebbe comportare quest’irradiazione, ormai onnipresente, sugli esseri umani. Fra poco ci troveremo letteralmente sommersi da un mare di microonde, con antenne piazzate ogni 500 metri nelle grandi città, e magari solo fra dieci o vent’anni potremo sapere quali saranno state le reali conseguenze sulla nostra salute. Ma di questo argomento ci occuperemo in un altro video, che sto preparando. Nel frattempo, vorrei portare alla vostra attenzione un secondo problema, che non è da meno: riguarda la distruzione selvaggia e sistematica dei nostri alberi. A quanto pare, infatti, gli alberi – soprattutto quelli più alti – impediscono una buona irradiazione del segnale 5G. E quindi li stanno togliendo di mezzo, in tutta Italia, con delle giustificazioni decisamente ridicole. Un paio di mesi fa mi ero accorto che, dalle mie parti, avevano tagliato in modo abominevole dei bellissimi viali alberati, e ho cominciato a chiedere in giro quale fosse il motivo. Ma nessuno mi sapeva dare una risposta, al punto che ho iniziato a sospettare che ci fosse di mezzo il 5G.
    Allora ho chiesto agli ascoltatori di “Border Nights” di segnalarmi se anche dalle loro parti si fossero registrati degli abbattimenti ingiustificati di alberi: e mi è arrivata, letteralmente, una caterva di segnalazioni. Nel frattempo, però, i “debunker” hanno già messo le mani avanti, cercando di smentire quest’idea che gli alberi vengano tagliati per fare strada al 5G. “Butac”, uno dei siti classici di “debunking”, ha pubblicato un articolo nel quale cerca di smentire questa ipotesi. A questo giro – scrive “Butac” – si parla di alberi abbattuti perché, secondo la tesi di “TerraRealTime” (il sito che per primo ha denunciato il taglio indiscriminato degli alberi) sarebbero un problema per la diffusione del segnale. «Ma si tratta dell’ennesima sciocchezza antiscientifica sostenuta solo e unicamente per spaventarvi, e magari convincervi a comperare un cappellino contro l’elettrosmog». Ora, “Butac”: a parte che qui nessuno vende cappellini (stiamo solo cercando di proteggere la nostra ricchezza naturale, casomai), ma il fatto che gli alberi rappresentino un ostacolo praticamente insormontabile, per il 5G, ormai è un dato accertato. Lo confermano, ad esempio, due documenti ufficiali del governo inglese: li ha pubblicati l’Ordnance Survey, l’ufficio che si occupa della mappatura del territorio. Uno si intitola “Pianificazione 5G, considerazioni geo-spaziali – una guida per i pianificatori e le autorità locali”. L’altro si intitola: “L’effetto delle costruzioni e dell’ambiente naturale sulle onde radio millimetriche”, ovvero il 5G.
    Da questi documenti leggiamo: «Vegetazione e edifici: i risultati presentati in questo rapporto dimostrano che gli oggetti della vegetazione, ovvero alberi e arbusti con un denso fogliame, provocano un disturbo nella propagazione del segnale oltre i 6 Ghz». Ci sono delle considerazioni generali: gli alberi di oltre 3 metri sono messi nel gruppo che “andrebbe” preso in considerazione (“should do”), mentre gli alberi oltre i 5 metri sono nel gruppo del “must do”, ovvero quelli che “bisogna” prendere in considerazione. Più sotto, c’è la spiegazione: “should do” sono «oggetti che vale la pena considerare durante le rilevazioni»; “must do” significa invece che questi oggetti «avranno un impatto significativo nella propagazione del segnale delle microonde millimetriche», e che quindi «vanno assolutamente presi in considerazione durante i rilevamenti». Il documento, poi, presenta diversi esempi pratici, illustrati con fotografie. Indicando uno stadio, dice: «Questa zona ha due aspetti interessanti, che dovrebbero essere presi in considerazione come ostacoli potenziali per le trasmissioni». Il primo: «Le torri di supporto all’esterno dello stadio, che sono fatte con una complessa struttura di acciaio». Il secondo: «La passeggiata sulla sinistra, che è adornata di alberi che possono bloccare i segnali in partenza dalla struttura dello stadio».
    Un altro esempio, sempre in foto, dice: «Qui viene mostrata una zona a intenso traffico pedonale, vicina ad un lampione candidato all’utilizzo del 5G». Due aspetti sono la prendere in considerazione: «Gli alberi caduchi, che possono causare un degrado limitato del segnale nei mesi invernali, mentre in estate – con le foglie – potrebbero avere un effetto significativo» (il secondo ostacolo è il viadotto che sovrasta l’area pedonale). Poi il rapporto mostra invece una situazione positiva, per loro: «La vista aerea del grande centro commerciale mostra grandi spazi aperti, con pochissimi elementi in grado di bloccare il segnale 5G: c’è soltanto un piccolo numero di alberi accanto al parcheggio». Quindi, evviva le zone con pochi alberi: per noi vanno molto meglio, dice il documento. Altro esempio, viale alberato: «In questa strada residenziale c’è una grande quantità di alberi, che bloccano chiaramente il percorso per le antenne che potrebbero venir collocate sui lampioni». Quindi, cosa si fa? Si buttano giù gli alberi, semplice.
    Guardate ora gli articoli che mi sono stati mandati dagli ascoltatori di “Border Nights”:poi decidete voi se c’entrano qualcosa, oppure no. Vi dico solo una cosa: sono quasi tutti articoli del 2018-2019, quindi molto recenti. E quasi sempre viene data una spiegazione risibile, per il taglio degli alberi. Ovvero: risultano di colpo tutti malati; oppure ti dicono che ne pianteranno degli altri, più bassi; oppure ti dicono che sono diventati, improvvisamente, tutti pericolosi. Cioè: alberi secolari, che sono lì da più di cento anni, di colpo diventano una minaccia per la popolazione. Di fatto, mi ha scritto una persona che si occupa di installazioni 5G. E mi ha detto che, in effetti, moltissimi sindaci e amministratori locali vengono spaventati, con l’idea di poter essere ritenuti responsabili per eventuali danni causati dalla caduta degli alberi, e quindi – non appena gli si suggerisce di tagliarli – accettano subito (spesso senza il nulla-osta delle autorità che dovrebbero salvaguardare il verde pubblico).
    Guardate quello che sta succedendo, in Italia. Palermo: “Il Comune si prepara ad abbattere 200 alberi di pino, decisione folle”. Montesilvano, provincia di Pescara: “Taglio indiscriminato degli alberi sani”. Pescara: “La guerra degli alberi tagliati in nome della sicurezza”. Poggibonsi, provincia di Siena: “Scempi chiamati riqualificazioni”. Prato, viale Montegrappa: “Polemiche sugli alberi tagliati”, Ravenna: “Pini abbattuti in via Maggiore”. Roma: “Dal 2016 abbattuti 9.111 alberi – mille spariti in centro, è polemica”. Rovereto: “Abbattuti gli alberi fra le proteste”. Ancora Roma: “Abbattuti 450 alberi malati, ma i nuovi saranno alti solo 3 metri”. Guarda che coincidenza: ricordate il “should do” e il “must do”? Salerno, Nocera Inferiore: “Cosa si cela dietro l’abbattimento dei pini?”. Ancora Salerno: “Abbattimento degli alberi in via Rebecca Guarna”. San Terenzo, provincia di La Spezia: “Piazza Brusacà saluta i suoi pini”. Provincia di Teramo: “Nuove proteste contro l’abbattimento degli alberi della strada provinciale 259”. Terni: “Repulisti di pini, scattata l’operazione per l’abbattimento di 44 alberi”. Trapani: “Taglio alberi a Paceco, il comitato Pro-Eritrine protesta col sindaco”. Trevignano, sul Lago di Bracciano: “Abbattuti pini sani di 70 anni per rifare le strade”. Treviso: “Tagliati altri 87 alberi perché sono malati”. Certo, perché gli alberi si ammalano tutti insieme, 87 per volta.
    Ancora Treviso: “Non tagliate gli alberi, i residenti insorgono”. Udine: “Via Pieri, iniziato l’abbattimento degli alberi”. Verona: “Centinaia di alberi da abbattere per realizzare il nuovo filobus”. Giustamente, dice il commento: «Il trasporto pubblico e la mobilità sono essenziali, ma non a qualsiasi prezzo, e non con questi metodi». Sempre a Verona: “Nuovo taglio di alberi a Verona Sud: a chi giova?”. Ancora Verona: “Lungoadige San Giorgio, tagliati 21 alberi”. Viareggio: “Abbattimento alberi, presidio al cavalcavia”. Regione Abruzzo, Parco Sirente: “Il pasticcio degli alberi tagliati”. Agrigento: “Taglio degli alberi alla Villa Bonfiglio, la Soprintendenza vuole chiarezza”. Sempre ad Agrigento: “Alberi capitozzati, l’assessore sospetta che sia stato iniettato veleno in alcuni pini”. Anagni: “Potatura fuori stagione, inervento drastico di capitozzatura in piena germogliazione, che lascia perplessi”. Ancona: “Abbattuti gli alberi sul viale, giù i frassini fra le proteste”. Avezzano, in Abruzzo: “Taglio degli alberi a piazza Torlonia, più della metà erano pericolosi”. Ovviamente, gli alberi sono diventati – di colpo – il pericolo pubblico numero uno, in Italia.
    Provincia di Bari: “Scempio sugli alberi a Pane e Pomodoro”, che è la famosa spiaggia barese. Benevento: “Taglio dei pini, piante a rischio caduta estremo”. Biella: “Alberi abbattuti, Legambiente contro le amministrazioni comunali”. Sempre in provincia di Biella: “Deturpata la strada dei pellegrini, è caos dopo il taglio di 200 alberi”. Marina di Carrara, Vittorio Sgarbi difende i pini: “Barbarie, denuncio tutto”. Catania: “Proteggere l’ambiente, scatta la protesta per gli alberi capitozzati”. A me, più che capitozzati, questi sembrano segati alla base. Marina di Cerveteri: “Gli alberi ostacolano il 5G”. Chiaravalle, nelle Marche: “Abbattono i pini storici, proteste e manifestazioni in largo Oberdan”. Crema: “Il caso degli alberi tagliati in via Bacchetta”. Si veda il prima e il dopo: che squallore. Provincia di Faenza: “Brisighella, 513 alberi abbattuti”. Sempre a Faenza: “Via all’abbattimento di 520 alberi in città”. Lido Scacchi, in provincia di Ferrara: “Forza Italia chiede spiegazioni sugli alberi tagliati”. Firenze: “Proseguono gli abbattimenti, alberi tagliati in piazza Indipendenza”. Sempre a Firenze: “Strage di alberi a Porta al Prato, ma erano tutti sani. Il Comune dice: una ditta ha danneggiato le radici”. Certo, ha danneggiato le radici non di uno, ma di tutti gli alberi in un colpo solo, come no…
    Ancora a Firenze: “Tagliati tutti i pini in viale Guidoni, idem in viale Morgagni: de profundis per gli alberi abbattuti”. Piana Fiorentina: “Il taglio dei tigli, una decisione del Comune”. Foggia: “In via Napoli uno scempio, presentato esposto contro il taglio di 101 pini”. Provincia di Grosseto: “Tagliati 30 ettari di bosco nella Riserva del Farma, l’esperto: è un disastro”. Sempre a Grosseto: “Taglio degli alberi in città, 1.640 cittadini protestano”. Ancora a Grosseto: “Stop al taglio degli alberi, è uno scempio”. Provincia dell’Aquila: “Tagliati gli storici alberi dell’Altopiano delle 5 Miglia”. Molfetta: “Quartiere San Domenico sotto shock: tagliato l’Albero della Vita, ancora ignote le motivazioni”. Napoli, quartiere del Virgiliano: “Strage di pini, oltre 100 saranno abbattuti”. Novara: “Via libera all’abbattimento di 32 aceri”. Como: “Faggi abbattuti al liceo Giovio, sale la protesta; la Provincia dice: ragioni di sicurezza”. Certo, come no: alberi che sono lì da cento anni e, adesso che arriva il 5G, diventano di colpo pericolosi.
    E’ sempre la stessa scusa, fra l’altro. Guardate: “Garbagnate, Natale senza pini: verranno abbattuti; potrebbero diventare pericolosi, col passare del tempo, per la cittadinanza”. Quindi siamo addirittura al taglio preventivo, precauzionale. Campoformido, provincia di Udine: “Proteste per il taglio dei pini marittimi in piazza a Basaldella; procede la riqualificazione del centro”. Certo, perché adesso “distruggere” si dice “riqualificare” (la neolingua imperversa). Lecco: “Alberi abbattuti sul lungolago, le piante possono rigenerarsi”. Certo, magari fra vent’anni ricrescono anche; nel frattempo tu hai piazzato le tue belle antennine 5G da tutte le parti. Este, in provincia di Padova: “Alberi tagliati senza motivo, delitto contro la natura”. Piacenza: “Alberi tagliati senza motivo, uno scempio”. Ancora a Roma, al Salario: “Alberi tagliati senza motivo”. Ferrara: “Continua il massacro degli alberi lungo la statale 16”.
    Ragazzi, è pazzesco quello che stanno facendo. Due o tre di questi casi potrebbero anche essere situazioni in cui davvero gli alberi vanno tagliati, ma qui stanno facendo una carneficina: qui siamo di fronte a un abbattimento sistematico degli alberi in tutto il paese. E il fatto è che sono molto furbi, perché lo fanno a livello locale, senza fare rumore. Lo fanno cittadina per cittadina, contando sul fatto che una comunità non sa quello che succede in quella accanto. Se non ci fosse stato questo contributo, da parte degli ascoltatori di “Border Nights”, ciascuno avrebbe continuato a pensare che magari era solo un problema loro. E nel frattempo, questa gente sta devastando le risorse naturali dell’intero paese. Io non so cosa dirvi, ragazzi. Mi auguro però che vogliate organizzarvi, sia a livello locale che regionale, perché qui vanno presi i sindaci, uno per uno, con nomi e cognomi, e vanno messi di fronte alle loro responsabilità. Non è possibile che il nostro paese venga devastato in questo modo, senza che nessuno faccia niente. E se aspettiamo che intervengano i nostri politici da Roma stiamo freschi: quelli son troppo impegnati a conservare il proprio stipendio, la loro poltroncina, per preoccuparsi dei problemi reali. E anche tu, “Butac”, e tutti gli altri “debunker”: invece di scrivere scemenze, datevi da fare. Qui non c’entrano le questioni ideologiche: la natura è di tutti, anche vostra.
    (Massimo Mazzucco, “G5, la strage degli alberi”, video pubblicato su “Luogo Comune” l’8 luglio 2019. L’autore, al termine del filmato, annuncia che a questa prima indagine sul taglio degli alberi seguirà uno studio per vedere più da vicino quelli che possono essere i rischi effettivi dell’impatto della rete 5G sulla nostra salute).

    Da quando ho iniziato a interessarmi del 5G, ho scoperto che vi sono non uno, ma due aspetti preoccupanti, di questa nuova tecnologia. Il primo è quello che riguarda la salute: mentre si sta procedendo con grande fretta alla commercializzazione della nuova “Rete dei miracoli”, infatti, nessun serio studio scientifico è stato fatto sulle conseguenze che potrebbe comportare quest’irradiazione, ormai onnipresente, sugli esseri umani. Fra poco ci troveremo letteralmente sommersi da un mare di microonde, con antenne piazzate ogni 500 metri nelle grandi città, e magari solo fra dieci o vent’anni potremo sapere quali saranno state le reali conseguenze sulla nostra salute. Ma di questo argomento ci occuperemo in un altro video, che sto preparando. Nel frattempo, vorrei portare alla vostra attenzione un secondo problema, che non è da meno: riguarda la distruzione selvaggia e sistematica dei nostri alberi. A quanto pare, infatti, gli alberi – soprattutto quelli più alti – impediscono una buona irradiazione del segnale 5G. E quindi li stanno togliendo di mezzo, in tutta Italia, con delle giustificazioni decisamente ridicole. Un paio di mesi fa mi ero accorto che, dalle mie parti, avevano tagliato in modo abominevole dei bellissimi viali alberati, e ho cominciato a chiedere in giro quale fosse il motivo. Ma nessuno mi sapeva dare una risposta, al punto che ho iniziato a sospettare che ci fosse di mezzo il 5G.

  • Sì Tav: Salvini sta con i partiti che hanno sfasciato l’Italia

    Scritto il 12/1/19 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    Non mi interessa quello che racconti, non voglio nemmeno sentirlo. Così è Torino, con chi ripete – per la milionesima volta – che la linea ferroviaria Tav Torino-Lione sarebbe un doppione inutile della linea esistente, deserta. Una nuova manifestazione promossa dai partiti che hanno sfasciato l’Italia (più la Lega di Salvini) è tornata a riempire di slogan demenziali la centralissima piazza Castello, il 12 gennaio, stavolta con anche i sindaci di mezzo Piemonte, per lo più arruolati tra le macerie del Pd su cui campeggia il redivivo Sergio Chiamparino, presidente della Regione e già sindaco del capoluogo, transitato – tra un incarico e l’altro – alla guida della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria. In piazza i peones piemontesi della Lega, impegnata in un braccio di ferro coi 5 Stelle, ma anche il presidente ligure Giovanni Toti, il fantasma ufficiale del Pd (Maurizio Martina) e vari yesmen di Forza Italia. In pratica: la Seconda Repubblica al gran completo, i commissari fallimentari che hanno gestito la bancarotta politica ed economica del paese negli ultimi 25 anni. Sono loro, ancora e sempre, a voler azzannare – a tutti i costi – la maxi-torta degli appalti per l’opera faraonica più inutile del pianeta.
    I difensori del buon senso – in questo caso i 5 Stelle con il ministro Toninelli – appaiono deboli e accerchiati. L’alleato Salvini non esita a schierarsi con l’opposizione, pur di riuscire (anche lui) a veder passare l’inutile super-treno per la valle di Susa, destinato – secondo tutte le previsioni – a restare fatalmente vuoto, senza merci da trasportare. Lo stesso Toninelli, ben sapendo che il Tav Torino-Lione è una specie di tragica barzelletta, ha dovuto inscenare la manfrina della commissione speciale, incaricata di valutare il rapporto costi-benefici dell’opera, come se il risultato non lo si conoscesse già, dopo decenni di analisi. Il presidente della commissione è il più autorevole trasportista italiano, il professor Marco Ponti del politecnico di Milano, autore di saggi estremamente dettagliati nei quali si dimostra che la Torino-Lione sarebbe perfettamente superfua, oltre che devastante per il suo impatto (un traforo di 57 chilometri) e per il suo costo miliardario. Ma non c’è speranza che i grandi media – giornali e televisioni – facciano il minimo sindacale, se non altro per decenza professionale, per riassumere anche le ragioni del “no”, nel raccontare l’ennesima mobilitazione a favore del “sì”, promossa dai poteri che hanno spolpato e piegato l’Italia.
    Non una delle argomentazioni NoTav è citata, nella narrazione ufficiale di quella che è descritta come “onda Sì Tav”, programmata dalle opposizioni per approfittare della debolezza politica del governo, sulla quale si avventa lo stesso Salvini, proponendosi in questo caso come nuovo garante del peggior affarismo politico, quello della cantieristica per le grandi opere. Zero trasparenza, come sempre, dalle forze ibride – politico-finanziarie – che hanno svenduto il paese negli ultimi decenni. Parla da sola la maschera di Chiamparino, che oggi intima al governo di sbrigarsi a capitolare, minacciando di indire un referendum (sul quale lo stesso Chiamparino costruirebbe le basi per il rilancio delle sue ambizioni politiche). Il peggio è che, oggi, Matteo Salvini è schierato al fianco dell’oppositore Chiamparino, che attacca Toninelli e Di Maio. Non una parola – né da Salvini, né da Chiamparino – per motivare, seriamente, l’infrastruttura. Si deve fare, punto e basta. Sviluppo, progresso. Slogan vuoti e fuori luogo, come quelli che la cattiva politica ha usato per rovinare gli italiani. Europa, flessibiltà, sacrifici, privatizzazioni: i mantra della post-democrazia. Sì-Tav, dunque. Ma perché? Perché sì. Lo dice, senza vergogna, anche Salvini.

    Non mi interessa quello che racconti, non voglio nemmeno sentirlo. Così è Torino, con chi ripete – per la milionesima volta – che la linea ferroviaria Tav Torino-Lione sarebbe un doppione inutile della linea esistente, deserta. Una nuova manifestazione promossa dai partiti che hanno sfasciato l’Italia (più la Lega di Salvini) è tornata a riempire di slogan demenziali la centralissima piazza Castello, il 12 gennaio, stavolta con anche i sindaci di mezzo Piemonte, per lo più arruolati tra le macerie del Pd su cui campeggia il redivivo Sergio Chiamparino, presidente della Regione e già sindaco del capoluogo, transitato – tra un incarico e l’altro – alla guida della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria. In piazza i peones piemontesi della Lega, impegnata in un braccio di ferro coi 5 Stelle, ma anche il presidente ligure Giovanni Toti, il fantasma ufficiale del Pd (Maurizio Martina) e vari yesmen di Forza Italia. In pratica: la Seconda Repubblica al gran completo, i curatori fallimentari che hanno gestito la bancarotta politica ed economica del paese negli ultimi 25 anni. Sono loro, ancora e sempre, a voler azzannare – a tutti i costi – la maxi-torta degli appalti per l’opera faraonica più inutile del pianeta.

  • Carne macinata per l’universo: la vera rivoluzione italiana

    Scritto il 09/12/18 • nella Categoria: idee • (12)

    Sono tornato in via Filippo Buonarroti, sono tornato in via Ferrari, in piazza Garibaldi e dove ho fatto le scuole, in via Ugo Bassi. Qualcuno di voi si ricorda di chi era Filippo Buonarroti? Un anarchico rivoluzionario? No, non era proprio un anarchico, perché allora, quando lui era in vita, l’anarchia non si era ancora compiuta in un qualche pensiero. Ma in tutte le città d’Italia c’è una via intitolata a Filippo Buonarroti. Qualcuno ha avuto la forza, il desiderio di intolargliela. Intorno agli anni ‘20 del 1800, Filippo Buonarroti è stato considerato, dai giornali conservatori di tutta Europa, il più grande rivoluzionario europeo vivente. Filippo Buonarroti ha fatto una cosa che nessun altro uomo ha osato compiere, nella storia dell’umanità. Ha fondato e costituito un paese a totale regime comunista: Oneglia. Lui, come prefetto robesperriano della Rivoluzione Francese, è stato mandato a governare Oneglia – sapete, Oneglia, in fondo alla Liguria, che allora era francese. E lì costituì un paese totalmente comunista, con l’estinzione della proprietà privata e il ricalcolo dei beni, a tutti. Guardate che i paesi che noi chiamiamo comunisti non si sono mai chiamati comunisti, si chiamavano “paesi socialisti verso il comunismo” (verso il baratro, poi). A Oneglia, invece: redistribuzione delle terre e istruzione obbligatoria fino al più alto grado, per tutti. E’ stato un paese comunista che è durato 9 mesi.
    Poi è arrivato il Direttorio, Robespierre ha fatto la fine che ha fatto, Buonarroti è stato richiamato a Parigi e messo in galera, e chi s’è visto s’è visto. Gli onegliesi, da allora, non si sono mai più ripresi. Perché è stata un’esperienza che ha sconvolto la loro vita, ha rivoluzionato ovviamente le loro vite, e da allora – fino a oggi – votano sempre e solo a destra. E’ dal collegio di Oneglia che è uscito fuori questo fiore della repubblica, il ministro Scajola. Se Buonarroti è ancora vivo, in qualche universo parallelo, forse si rende conto che avrebbe dovuto rivedere un po’ le sue posizioni. Ma il punto è un altro. Il titolo di questa conferenza dovrebbe essere questo: carne macinata per l’universo. E “carne macinata per l’universo” è il giudizio che dà Carlyle – il grande poeta, drammaturgo, uomo di cultura e anche politico, inglese – quando gli chiedono chi fosse Giuseppe Mazzini. Carlyle risponde: «Nessun uomo come Giuseppe Mazzini è, per me, carne macinata per l’universo». Quello che io so, di quello che è stato chiamato Risorgimento, è che ci sono state due generazioni di giovani europei, e in particolare due generazioni di giovani italiani, che hanno speso la loro vita e null’altra ambizione hanno avuto, per la loro vita, se non quella di farsi carne macinata per l’universo.
    Due generazioni di uomini e di donne che allora non si sono nemmeno poste il problema del sesso, maschile o femminile. E’ una cosa che noi forse non riusciamo a capire. Tutta l’Europa e gran parte del mondo (intendo le Americhe, soprattutto), per cinquant’anni hanno pensato all’Italia, a ciò che noi oggi chiamiamo Italia e che allora si chiamavano “gli Stati del territorio italiano”. E hanno guardato a ciò che accadeva, in quello che adesso è questo paese. Vi hanno guardato con la speranza, il timore, l’angoscia, la promettenza universale di chi pensava e dichiarava, sui giornali consevatori e progressisti, nelle riunioni dei gabinetti dei ministri inglesi o danesi o tedeschi o francesi: ciò che accade in Italia, come disse un giornalista del consevatore “Times”, è «il più grande teatro della storia a cui noi possiamo assistere: ciò che accade in Italia condizionerà la storia d’Europa e del mondo». Questo pensavano l’opinione pubblica, i politici, gli ambasciatori di tutta Europa e delle Americhe, osservando ciò che accadeva in Italia. Era straordinariamente più vasto, più grande e più radicale di ciò che comunque accadeva nel resto d’Europa – in alcune nazioni, almeno: nella Germania baltica, in Ungheria, in Polonia, in Grecia, in Francia. Due generazioni che hanno dedicato la loro vita alla rivoluzione.
    Ciò che essi chiamavano Risorgimento è stato un continuo susseguirsi di rivoluzioni territoriali. Guardate, ci sono stati moti rivoluzionari e insurrezioni dal 1821 al 1878 (e io sostengo fino al 1884, e poi spiego perché). E’ accaduto in Italia, ma anche nel resto d’Europa: certamente in Grecia, e in Francia fino al 1870. Rivoluzioni in nome di cosa? Quando studiamo il Risorgimento, leggiamo “Risorgimento, uguale: Unità d’Italia”. Ma c’erano quelle due generazioni di rivoluzionari, a vario titolo e in vario modo: Giuseppe Mazzini era un repubblicano, Giuseppe Garibaldi era repubblicano e socialista, Orsini era un anarchico repubblicano, Filippo Buonarroti era comunista, i fratelli Bandiera erano repubblicani e socialisti, Pisacane era forse comunista, chi lo sa. Ma non si davano etichette: avevano un pensiero, ciascuno il suo. Condividevano quel pensiero con altri, lo discutevano. E’ straordinaria la libertà di pensiero e di movimento del pensiero generata nell’incontro di queste due generazioni, in un paese come quello: il paese degli Stati componenti il territorio italiano, in nessuno dei quali era consentita la libertà di espressione.
    E’ straordinario come in questa servitù, in questa schiavitù, in questi Stati oppressivi (in un modo che la stessa regina Vittoria, conservatrice e reazionaria, considerava vergognoso) si ebbe una diffusione di opinioni e di libero pensiero – una diffusione libera, ricca, forte e, a volte, anche di grande contrasto. Non solo opinioni: opinioni che formano pensiero. Si sono formati dei pensieri che sono rimasti, e che sono stati pensieri costituenti la modernità e la contemporaneità del Novecento. Ciò che le due generazioni di giovani italiani e di giovani europei hanno costruito, dal punto di vista del pensiero, è la base a fondamento del pensiero ottocentesco, novecentesco e, per quanto ne so io, è ancora oggi strumento di valutazione e di comprensione della contemporaneità. La critica che faceva Giuseppe Mazzini al comunismo nel 1852 è una critica che oggi condivido totalmente – io, che vado a dire in giro di essere un anarchico, e che mi sento profondamente legato a un modo del pensiero libertario anarchico. Mazzini dibatte senza diffamare nessuno, senza sporcare il suo pensiero con nessuna menzogna – e questo è importante, perché il pensiero oggi tendiamo sempre a sporcarlo, e non riesco a capire perché. C’è una parola, che io metto assieme a quelle due generazioni di giovani rivoluzionari: uomini e donne casti, di casto pensiero (e vita). Un agire e un pensare privo di malizia, candidamente casto.
    La prima cosa che Mazzini dice, sul comunismo, è: attenzione, perché l’abolizione delle classi, così come concepita nel pensiero comunista, genererà una nuova classe, e quella nuova classe sarà oppressiva quanto la vecchia classe dei capitalisti, e forse di più. E se non sarà oppressiva dal punto di vista economico, lo sarà dal punto di vista politico e culturale. Questo scriveva, Mazzini. Abbiamo da discutere, su questo. Ma pensate che sia infondata, come critica? Direi che è estremamente moderna, forse. Ma non è questo il punto. Mi piacerebbe raccontare di Mazzini, di Garibaldi. E mi piacerebbe anche raccontare di Carmine Crocco. Era un uomo del Risorgimento, che si è fatto bandito – fuorilegge – perché giustamente trovava intollerabile, insieme a una massa di contadini, di pastori e di artigiani, il fatto di aver sperato con tutta l’anima e con tutto il cuore, dal 1831 (i primi grandi moti siciliani e calabresi), in una rivoluzione sociale che avrebbe finalmente rotto le catene medievali della proprietà privata concepita nel latifondo, e avrebbe dato finalmente un minimo di equità sociale.
    Due generazioni di siciliani, calabresi e napoletani hanno pensato a questo: hanno pensato di aver finalmente coronato il loro sogno impossibile, quando Garibaldi arriva coi suoi volontari e, per prima cosa, dopo aver preso possesso dei palazzi comunali e di governo, emana ordinanze che riducono le tasse, ridistribuiscono le terre ai senza terra (per quanto possibile, attraverso la riforma catastale) e garantiscono un minimo di istruzione per tutti. Ecco, per prima cosa Garibaldi fa questo. Se ne va a Teano, e lì il Piemonte (Vittorio Emanuele) prende possesso dei territori conquistati dai volontari repubblicani e socialisti di Garibaldi, diventati da mille a sessantamila con i volontari siciliani, calabresi e campani. E nel giro di 6 mesi vengono abolite tutte le ordinanze, intese alla giustizia sociale, alla libertà di espressione e a un minimo di redistribuzione delle terre – tutte abolite. Nel giro di due anni, i territori meridionali dell’Unità d’Italia hanno una tassazione, per le fasce basse della popolazione, che è il doppio della tassazione imposta dai borbonici. Non solo: le popolazioni dell’Italia meridionale si devono pagare le spese dello stato d’assedio, perché in due anni le terre liberate vengono assoggettate alla legge marziale.
    Questo perché le rivoluzioni, le insurrezioni e le rivolte cominciate nel 1831 per la giustizia sociale continuano, perché la giustizia sociale non c’è. Quando oggi ci poniamo la questione cosiddetta meridionale, vogliamo ricordarci di quelle due generazioni? Generazioni di giovani uomini e giovani donne, che altro non hanno vissuto se non per un po’ di giustizia e di libertà. E sono state distrutte, letteralmente distrutte, dal regno unitario. Carmine Crocco era un bandito – come altri cento, duecento banditi. Ma lo voleva con una forza che è calabrese, contro la quale non c’è niente da fare. Finché tutto non è finito: nell’eccidio, nella violenza, nella strage. Se sfogliate i tomi fotografici della storia d’Italia editi da Einaudi, scoprite che la più grande quantità di documenti fotografici relativi al paese immediatamente post-unitario riguarda le fotografie degli uomini uccisi in Campania, in Basilicata, in Calabria e in Sicilia. Mettevano in posa 10-20 morti ammazzati, e i carabinieri se li fotografavano – fotografavano le teste mozzate. Non solo: prima di fucilarli, li mettevano in posa coi loro schioppi e li fotografavano. C’era molta modernità, nello stato d’assedio. C’era molta intuizione, nella nuova società – nella legge marziale. Carne macinata per l’universo.
    L’Unità d’Italia? Certo, questi uomini e queste donne pensavano all’Unità d’Italia. Ma cosa significava, per loro, l’Unità d’Italia? Lo dicono, lo hanno scritto. Sapete quante lettere ha scritto, Giuseppe Mazzini, nella sua vita? Nessuno ne ha idea. Pare che fossero almeno 8-900.000, per quello che si sa. Non ne sono rimaste che 70-80.000. Le altre sono state tutte bruciate da chi le riceveva o confiscate dalla polizia, ma soprattutto bruciate, perché chi aveva una lettera di Mazzini veniva arrestato e finiva in galera. Come forse sapete, Giuseppe Mazzini ha vissuto tre quarti della sua vita nascosto, perché perseguito da due, tre, quattro polizie. E’ stato condannato a morte in contumacia. Andate a vedere a Londra dove ha vissuto, in quali case d’appartamento, in quali stanze, quasi sempre con le finestre chiuse o le tende tirate. Alla fine, vecchio, non lo hanno arrestato anche se si sapeva che “forse” era a Pisa, dove ha vissuto gli ultimi mesi prima di morire, nascosto in una casa, potendo uscire solo per dieci minuti, di notte. L’unica cosa che ha chiesto, una settimana prima di morire – e per poterla realizzare sono state spese le energie di 30-40 uomini, suoi amici – è che fosse portato a Firenze, di notte, e che si riuscisse ad aprirgli Santa Croce: prima di morire, Mazzini voleva vedere la tomba di Ugo Foscolo. E Ugo Foscolo è uno di quei ragazzi di quelle due generazioni. Se n’era andato a di casa a 18 anni, per non tornarci più: esule. Ugo Foscolo è uno di loro.
    L’Unità d’Italia, certo: perché comunque, per tutti, gli ideali rimanevano quelli – libertà, giustizia e solidarietà. Gli Stati territoriali di ciò che oggi chiamiamo Italia erano tutti, direttamente o indirettamente, proprietà e comproprietà di paesi stranieri: la Francia, la Germania, la Spagna. Da secoli, erano così. Ed erano tutti a regime strettamente, rigidamente oppressivo. Nessuno di quei giovani pensava, ragionevolmente, di poter ottenere una vera Costituzione, un vero suffragio universale, un vero piano di giustizia e un vero piano di equità, se non attraverso la cacciata dei regimi stranieri, coloniali, e l’instaurazione di un regno che non poteva appartenere a nessuna delle casate che mantenevano un regime di spietato egoismo dinastico. Questa era l’Italia unita. L’unico modo per raggiungere questo ideale era quello: un anno via l’altro c’erano insurrezioni, sommosse e rivoluzioni. E quando si dice che è stata una minoranza, a volere l’Unità d’Italia, si dice la più grande menzogna – ma si dice anche una verità: perché la gran parte di quei rivoluzionari erano ragazzi, che poi sono diventati uomini. A 18 anni si partiva, sulla strada che avrebbe portato all’esilio, o alla morte.
    Due generazioni: 1821, i primi segni di rivolta; 1828, le grandi rivolte; 1831, le rivoluzioni al meridione d’Italia, in particolare in Sicilia. Se avete letto un po’ di storia, alle scuole medie, non vi viene in mente una cosa? Tre anni prima, a Vienna, tutti i potenti d’Europa si mettono d’accordo per stabilizzare il continente, in modo tale da assicurare a se stessi la garanzia che quello sarà un sistema di equilibri che durerà in eterno. Al Congresso di Vienna si chiude – per sempre, dicono: definitivamente – un’epoca di rivoluzioni, l’epoca della Rivoluzione Francese, e si instaura il Nuovo Ordine d’Europa, basato su equilibri così stabili che potrà durare in eterno. Questo dicono gli uomini riuniti a Vienna. Tre anni dopo, cominciano i casini. Dieci anni dopo siamo in pieno casino. Trent’anni dopo, in Europa succede una cosa che ricordiamo ancora adesso, volenti o nolenti: succede il ‘48, è successo un Quarantotto. Cioè: nel 1848, nessuno dei principi, nessuna delle illusioni, nessuna delle certezze di Vienna stava ancora in piedi – finito, tutto. Niente, nel ‘48, aveva più senso, di quello che sembrava avere senso in eterno.
    Io incontro tanta gente, ogni giorno, e vedo sguardi e occhi avviliti, scorati, depressi. E’ lo scoramento di chi dice: non c’è niente da fare, non c’è nessuna possibilità. E io penso a quanto erano tronfi, tranquilli e sicuri i re, gli imperatori, le regine, le troie di regime, i chierici e i cardinali di corte, nel 1818. E come potessero essere frustrati, i reduci della Rivoluzione Francese e quelli di Napoleone (che anche lui i suoi vizi li aveva, in fatto di assolutismo). Ma son bastati pochi anni: cosa vuol dire, “non c’è niente da fare”? Pensate a come poteva essere più oppressivo di oggi, il clima europeo del 1819, ‘20, ‘21 e ‘22. Eppure, già dieci anni dopo, tutta l’Italia e gran parte dell’Europa erano in movimento. Una generazione nata lì – sedicenni, diciassettenni, diciottenni – era già in movimento. E perché questo non può più accadere? Chi lo dice? Loro non avevano contro la televisione, è vero, però avevano altro: avete idea di che lavoro facessero, dal punto di vista “televisivo”, i 300.000 sacerdoti sparsi per l’Italia, nel 1818, 1819 e 1820? Non tutti, certo. Ma pensate a Garibaldi, che in punto di morte disse: fatemi di tutto, ma non mettetemi davanti un prete. Lo scrisse: non fatemi vedere un prete un punto di morte. Eppure, lui doveva la sua vita a un prete.
    Garibaldi doveva la vita a Don Verità. E conoscete Ugo Bassi? Io ci avevo la scuola, in via Ugo Bassi. Sapete chi era? Era un prete che in Romagna, insieme a Don Verità, aiutò Garibaldi a sfuggire all’accerchiamento delle truppe papali e austriache. Don Verità è riuscito a cavarsela, dopo essersi portato Garibaldi in spalla, per mezza nottata. Bassi non se l’è cavata: è stato fucilato dagli austriaci, per aver aiutato Garibaldi. Certo, se l’Unità d’Italia è quello Stato che, per prima cosa, ha come effetto il raddoppio e la triplicazione degli affitti dei fondi agricoli, che significa mettere alla fame i contadini; se è quello Stato dove i parlamentari che fanno le leggi vengono eletti soltanto dai grandi proprietari terrieri e dell’esigua grande borghesia cittadina, cioè appena l’1,8% dei potenziali aventi diritto al voto; se è l’Italia che stabilisce la legge marziale al meridione contro le sommosse per la terra e aumenta la tassa sul macinato, quella è l’Italia voluta da quei proprietari terrieri. Gli aventi diritto al voto erano quelli: una piccola minoranza, che è diventata la classe dirigente unitaria. Ma l’Unità d’Italia come baluardo, come certezza contro qualunque regime oppressivo e totalitario, come autodeterminazione di un popolo che non c’era ma che andava facendosi, “dagli atrii muscosi, dai fori cadenti”, come unica chance in nome della giustizia, della libertà e dell’equità, ebbene, quell’Italia la voleva la stragrande maggioranza della gente.
    E la Repubblica Romana? Lo so, al Nord abbiamo dei romani l’impressione di gente, come dire, poco attiva – sbagliato, sbagliatissimo. Andatevi a leggere le corrispondenze dei giornali francesi, americani, inglesi. Andatevi a leggere i rapporti degli ambasciatori, dei viaggiatori, dei turisti che erano a Roma nel ‘49. E’ straordinario, dicono: non avremmo mai creduto che la Repubblica avesse così tanta popolarità tra i ceti inferiori della società. Non avremmo mai immaginato che potesse essere governata in modo così equo e così tollerante. Scrive il “Times”: «Ci dice il nostro primo ministro che Giuseppe Mazzini è un sanguinario rivoluzionario, ma nei suoi atti e nei suoi decreti si trova più tolleranza che nel nostro paese, che pure è democratico dal 1.000 dopo Cristo». La Repubblica Romana era vista da tutta Europa come un esperimento straordinario di autodeterminazione del popolo. C’erano i danesi, che venivano a vedere la Repubblica Romana: volevano capire come poter fare. C’erano gli ungheresi, c’erano i polacchi. Perché c’erano i greci, gli ungheresi e i polacchi a cercare di dare una mano alla Repubblica Romana? Perché avrebbero voluto anche loro poter sviluppare una cosa così incredibile e grandiosa come l’autodeterminazione democratica. Sapete qual è la prima legge emanata dalla Repubblica Romana? La libertà di espressione religiosa. E la sera dell’emanazione della legge, vengono aperte le porte del ghetto ebraico.
    Quanti traditori ha avuto il Risorgimento? Quanti delatori? Quante spie? Mazzini aveva costantemente due spie alla porta. Metternich affermava di aver speso più soldi per le spie dietro a Mazzini che per i suoi servizi segreti personali. Metternich e Pio IX hanno letto, finché le ha scritte, tutte le lettere d’amore di Mazzini. Oggi ci lamentiamo della privacy, diciamo basta al gossip – ma era Pio IX, che si leggeva le lettere d’amore di Mazzini! E Mazzini ha avuto una sola storia d’amore, nella sua vita. E quella donna, Giuditta, l’avrà incontrata in tutta la sua vita forse dieci volte. Si sono solo scritti lunghe lettere d’amore: lunghe, bellissime, caste lettere d’amore. Giuditta aveva marito, ma allora c’era la rivoluzione. A 18 anni, Pisacane era già in galera per adulterio. E’ straordinario come, nel liberarsi dell’energia, della forza intellettuale, politica, ideale, si liberino anche un sacco di altre energie. Il Sessantotto ha portato questo? Ma c’era già nel Quarantotto, ragazzi. Quante donne hanno abbandonato i loro mariti, per arruolarsi volontarie nella Repubblica Romana o nella spedizione dei Mille? La Della Torre s’era vestita da ammiraglio per andare a Calatafimi (e ha finito la sua vita in manicomio, perché poi tutto è stato “messo via”).
    Tutto è stato “messo via” perché era intollerabile che potesse essere permesso il sopravvivere di una memoria collettiva – che ci fu. Fino al 1880, i siciliani  e i calabresi venivano “sparati” quando cercavano di andarsi a prendere un pezzo di terra da un latifondo. Sapete cosa pensavano? Che Garibaldi sarebbe tornato. E quando Garibaldi morì, nessuno ci credette: perché Garibaldi era il Redentore, e il Redentore non muore. Il Redentore non può abbandonare. Il Redentore torna: questo pensavano. E’ ingenuo. E’ stupido, forse. E’ una follia stupida. Ma guardate, nella leggenda nazionale della Fiandra, che adesso è metà olandese e metà belga – la leggenda di Thyl Ulenspiegel, il contadino che da solo combatte contro il Duca d’Alba, contro la grande oppressione papista, spagnola, delle Fiandre – quest’uomo viene bruciato, alla fine, insieme alla sua donna. Però la leggenda finisce dicendo: ma lui non è morto, tornerà. Ecco, questo è stato spento. Questa memoria è stata spenta. E chi ha fatto l’operazione più geniale è stato certamente Benito Mussolini – che se l’è ripreso, il Risorgimento, per spegnerlo definitivamente. Ma la memoria è stata spenta ancora prima, quando il Regno d’Italia appena unito è stato diviso in due dalla legge marziale.
    Sapete cos’è la legge marziale? Si può sparare a chiunque. I carabinieri sparavano e tagliavano le teste, poi le mettevano nelle gabbie e le appendevano all’ingresso dei paesi. Certo, teste di banditi e di assassini – tanti lo erano. Quando si fa una rivolta di contadini, bisogna sapere (parafrasando Mao) che i contadini non sanno nemmeno cos’è, un invito a cena. Quanto è stato rubato, di tutto questo? Sapete qual è stata l’attività principale di Giuseppe Mazzini, oltre a scrivere lettere? Quello che ha fatto più a lungo, per tutta la vita, è stato il maestro. Giuseppe Mazzini, carne macinata per l’universo, ha fondato alla fine degli ‘40, in Inghilterra, una scuola popolare per i bambini-schiavi italiani. Negli anni ‘40 dell’800, a Londra, era calcolato che ci fossero migliaia di bambini venduti in Italia – venduti come schiavi – e portati dagli scafisti italiani a Londra, dov’erano trattati da schiavi (tutti morivano prima della maggiore età) e giravano per Londra. Si chiamavano “i bambini dell’organetto”: chiedevano l’elemosina suonando l’organetto. Quando Mazzini apre la sua scuola, tutti gli dicono: non è possibile, non verrà nessuno, quei bambini hanno troppa paura dei loro padroni. Quella scuola verrà incendiata decine di volte, e risorgerà sempre. Uno dei suoi costanti finanziatori è stato Charles Dickens – e chi, se non lui, poteva avere in simpatia una scuola popolare per bambini schiavi?
    Un mese dopo l’apertura, in quella scuola c’erano 200 bambini. Si reggeva sul volontariato: chiunque avesse titoli, andava a insegnare. Tutte le domeniche, Giuseppe Mazzini – per trent’anni – è andato a insegnare in quella scuola: carne macinata per l’universo. Giuseppe Garibaldi sapete di cosa viveva? Viveva del soldo militare, che prendeva una volta sì e l’altra no. Il suo soldo militare, Garibaldi l’ha speso per la sua follia. Tutti erano uomini folli. La sua follia era poter vivere in un posto dove sentirsi, sempre e comunque, libero. La sua follia era vivere in un posto di granito, battuto dai venti, dove poter far crescere la vigna e il grano e le greggi. Non c’è mai riuscito. Ci ha messo tutto quello che aveva, e non ci è mai riuscito. Andate a Caprera, a vedere com’è possibile. Eppure, mangiava solo di quello che coltivava e di quello che pescava. E sua figlia lo sgridava sempre: perché veniva gente, e a pranzo si mangiava due gamberi crudi sopra un foglio di giornale. Bene, Garibaldi è diventato ricco in fin di vita. E’ diventato ricco perché gli è stato imposto – da Depretis, che era un suo amico: Depretis, il fondatore della vergogna politica nazionale, un uomo tra i più spregevoli della storia nazionale, quello che ha inventato (da primo ministro) il trasformismo – prima, da ragazzo, era un garibaldino. Depretis è andato da Garibaldi a dirgli: per favore, prendi la pensione. Perché Garibaldi non aveva mai voluto la pensione del re. Alla fine l’ha presa, perché il re d’Italia aveva paura di essere svergognato in tutta Europa, perché a Garibaldi stavano pignorando l’isola, per debiti.
    Il 2 agosto, a Cesenatico, c’è un’esplosione di fuochi d’artificio, ci sono stormi di piade e piadine che a migliaia sorvolano tutto il paese, ripiene di salsiccia, di formaggio e di prosciutto, tra lo scoppiare delle orchestre, della bande musicali e dei fuochi d’artificio. Non è la festa del turista, è la festa della Trafila. La “trafila” è passarsi oggetti di mano in mano, come quando una casa brucia e ci si mette in fila passandosi i secchi d’acqua. Il 2 agosto, in quella piccola comunità di Cesenatico, ci si ricorda di una delle storie più belle, più affascinanti, più ricche e più straordinarie, una delle diecimila meravigliose storie delle rivoluzioni che chiamiamo Risorgimento italiano. Ed è la storia di tutto un popolo, il popolo romagnolo – contrabbandieri fluviali, contadini braccianti, notai, preti (Don Verità e Don Bassi), custodi delle chiuse polesane, cavallari. Tutti: tutto il popolo di Romagna che, per 13 giorni e 13 notti, si è passato di mano in mano Giuseppe Garibaldi, sua moglie Anita e il colonnello Leggero – un sardo che a 12 anni si era arruolato come mozzo in marina e a 16 anni aveva già disertato per andare con Garibaldi, per questo condannato a morte. Era il suo luogotenente: “leggero”, perché era alto un metro e venti. Morirà credo a 90 anni, con una moglie di 60 anni più giovane di lui – perché i garibaldini, sapete…
    Dicevo, la Trafila: per 13 giorni e 13 notti, Garibaldi, Anita e il “minuto” vengono passati di mano in mano per sfuggire all’accerchiamento dell’esercito papista e austriaco. Garibaldi, 1849: la Repubblica Romana è persa. Lui scappa, ma non torna a casa. Non torna a Montevideo, dove già allora è considerato eroe nazionale. Se ne va a Venezia, perché la Repubblica Veneziana resiste (“sul ponte sventola bandiera bianca”). Ma lì non c’era ancora, la bandiera bianca. E Garibaldi, con la moglie incinta di sei mesi, vuole andare a combattere per la repubblica veneta. A San Marino viene circondato. E’ spacciato? No. Tutto il popolo di Romagna si organizza clandestinamente, e Garibaldi e sua moglie – con una fatica immensa: siamo in pieno agosto – riescono in 13 tappe ad essere portati, di mano in mano, come figli. Tra le tante cose orrende della cultura popolare c’è un catechismo garibaldino. Nel catechismo a un certo punto c’è la domanda: chi è la santissima trinità? La risposta garibaldina è: nella persona di Giuseppe Garibaldi si “sustanziano” il padre della patria, il figlio del popolo, lo spirito della libertà. Portato di mano in mano, come un figlio. Muore Anita – per la sete, la fatica, lo sfinimento. Muore in una capanna, in mezzo al Polesine. Ma negli stessi giorni, in un vallone lucano, tutto il popolo (diretto ancora oggi da Michele Placido) si mette in costume e rappresenta l’ultima grande battaglia – e l’ultima sconfitta – di Carmine Crocco e degli altri briganti (figli del popolo, spirito di libertà) distrutti dall’esercito unitario sabaudo.
    (Maurizio Maggiani, dichiarazioni rilasciate nell’ambito della conferenza “Risorgimento senza memoria” al Salone del Libro di Torino, 16 maggio 2010. Autore di bestseller come “Il coraggio del pettirosso”, “La regina disadorna” e “Il viaggiatore notturno”, Premio Strega 2005, Maggiani ha scritto “Quello che ancora vive”, dedicato alla memoria garibaldina della Trafila romagnola, mentre opere più recenti come “I figli della Repubblica” e “Il romanzo della nazione” sviluppano personalissime riflessioni sul carattere del popolo italiano).

    Sono tornato in via Filippo Buonarroti, sono tornato in via Ferrari, in piazza Garibaldi e dove ho fatto le scuole, in via Ugo Bassi. Qualcuno di voi si ricorda di chi era Filippo Buonarroti? Un anarchico rivoluzionario? No, non era proprio un anarchico, perché allora, quando lui era in vita, l’anarchia non si era ancora compiuta in un qualche pensiero. Ma in tutte le città d’Italia c’è una via intitolata a Filippo Buonarroti. Qualcuno ha avuto la forza, il desiderio di intitolargliela. Intorno agli anni ‘20 del 1800, Filippo Buonarroti è stato considerato, dai giornali conservatori di tutta Europa, il più grande rivoluzionario europeo vivente. Filippo Buonarroti ha fatto una cosa che nessun altro uomo ha osato compiere, nella storia dell’umanità. Ha fondato e costituito un paese a totale regime comunista: Oneglia. Lui, come prefetto robesperriano della Rivoluzione Francese, è stato mandato a governare Oneglia – sapete, Oneglia, in fondo alla Liguria, che allora era francese. E lì costituì un paese totalmente comunista, con l’estinzione della proprietà privata e il ricalcolo dei beni, a tutti. Guardate che i paesi che noi chiamiamo comunisti non si sono mai chiamati comunisti, si chiamavano “paesi socialisti verso il comunismo” (verso il baratro, poi). A Oneglia, invece: redistribuzione delle terre e istruzione obbligatoria fino al più alto grado, per tutti. E’ stato un paese comunista che è durato 9 mesi.

  • Disastro privatizzato: così il neoliberismo ci crolla addosso

    Scritto il 16/8/18 • nella Categoria: idee • (9)

    A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.
    In Italia i principali gruppi privati concessionari delle autostrade sono il Gruppo Gavio (che è il quarto operatore al mondo nella gestione di autostrade a pedaggio con un network di circa 4.156 km di rete e che in Italia, attraverso la società Sias, gestisce circa 1.423 km di rete, fra i quali l’autostrada Genova-Ventimiglia), e il gruppo Atlantia, di proprietà dei Benetton. Un articolo de “Il Fatto Quotidiano” di qualche mese fa, a firma di Fabio Pavesi, metteva in evidenza gli enormi profitti del gruppo Atlantia (le autostrade italiane fino al 1999 furono di proprietà pubblica, del gruppo Iri, con il nome di Società Autostrade, diventata poi nel 2003 Autostrade per l’Italia S.p.A, 100% di proprietà del gruppo Atlantia, che gestisce autostrade a pedaggio anche in altri paesi). Per essere precisi, 1,9 miliardi di utile operativo solo nel 2017 e solo per Autostrade per l’Italia S.p.A e un utile netto di 972 milioni in crescita del 19% sul 2016. Quale vantaggio ne viene ai cittadini italiani? Ovviamente nessuno. La autostrade a pedaggio sono una gallina dalle uova d’oro ad esclusivo appannaggio di potenti gruppi industriali, in assenza di qualsivoglia criterio di efficienza (come periodicamente si legge nelle riflessioni degli economisti più attenti, per esempio in questo articolo de “Il Sole 24 Ore”).
    Molti ormai cominciano a rimpiangere i tempi dell’Iri, quando era lo Stato a gestire l’immenso patrimonio delle grandi infrastrutture del paese. E molti si chiedono per quale ragione si dovrebbe continuare così. Riflettendo in questi giorni sulle profetiche analisi del sociologo ungherese Karl Polanyi, scritte nel 1944 e pubblicate nel volume “La grande trasformazione”, mi chiedo se il neoliberismo, con i suoi miti di libertà d’impresa, competizione, privatizzazione, deregolamentazione, sia compatibile con la democrazia in generale e con la Costituzione italiana in particolare. La domanda non è originale e la risposta in certa misura è scontata, per chi frequenta la ricca letteratura al riguardo, ma non credo sia inutile ripercorrere le ragioni per le quali la risposta non può che essere negativa. Da queste ragioni deve derivare infatti un giudizio storico e politico nettissimo sulla classe dirigente che ci ha governato dagli anni ‘80 in poi e la motivazione chiara a ribellarci ad uno stato di cose non più tollerabile. Il neoliberismo ha fatto fortuna, anche nelle masse, equivocando sulla parola “libertà”. Chi non è sensibile alle infinite promesse di una parola tanto pregnante? Chi non vorrebbe essere libero? Il problema è però è duplice: quale libertà? E la libertà di chi?
    La visione liberale dello Stato si fonda sulla difesa delle libertà civili e politiche: libertà di coscienza, di riunione, di associazione, di espressione, eccetera. Esistono però, osserva Polanyi, anche le libertà negative: la libertà di sfruttare i propri simili, di sottrarre all’utilizzo comune scoperte tecnico-scientifiche per proteggere interessi privati, di trarre profitti da calamità collettive, di inquinare l’ambiente. Nell’economia capitalista, queste due forme di libertà sono i due lati della stessa medaglia. Si potrebbe ipotizzare, continua Polanyi, una società futura nella quale le libertà “positive”, accompagnate da una regolamentazione adeguata, possano essere estese a tutti i cittadini. “Regolamentare” vuol dire porre limiti ai privilegi di una minoranza, proteggere i più deboli dal potere soverchiante di chi detiene la proprietà, correggere gli squilibri economici e sociali, controllare e sanzionare i comportamenti dannosi alla collettività, permettere a tutti i cittadini, anche a quelli svantaggiati, di esercitare le libertà “positive”. Questa società futura sarebbe libera e giusta insieme.
    Ma ad impedire questo esito (la diffusione della libertà) è proprio l’“ostacolo morale” dell’utopismo liberale (quello che chiamiamo “neoliberismo”), di cui lui riconosceva il massimo esponente nell’economista Von Hayek. La visione neoliberista è utopica perché predica l’assenza del controllo e dell’intervento dello Stato in ambito economico e sociale, proprio mentre invoca l’esercizio della forza e anche della violenza dello Stato a difesa della proprietà. Detto in parole povere, per il neoliberismo lo Stato è al servizio della proprietà individuale e della libera impresa, cioè di quei pochi che non hanno bisogno di incrementare il proprio reddito, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e agisce a svantaggio delle libertà di tutti gli altri. La libertà neoliberista è solo prerogativa dei ricchi (anche se a parole è disponibile a tutti) e non può essere estesa a tutti, perché questo minaccerebbe la proprietà. Chi è povero lo è per colpa sua ed è solo un perdente nella competizione per la ricchezza. La libertà è in sostanza la libertà di arricchirsi senza vincoli né regole. Il neoliberismo (l’utopismo liberale), concludeva Polanyi, è intrinsecamente e incorreggibilmente antidemocratico e autoritario, perché piega lo Stato a difendere gli interessi di una minoranza a danno della maggioranza.
    Non per nulla il primo esperimento di Stato neoliberista fu il Cile di Augusto Pinochet, dove “libertà” significava azzeramento dei sindacati e dei diritti delle comunità, privatizzazioni selvagge, liberalizzazioni finanziarie e repressione delle libertà civili. Qui il neoliberismo si sposa con il fascismo. Ma c’è anche un modo meno cruento per effettuare un colpo di Stato: corrodere un giorno dopo l’altro, per decenni, i diritti e i redditi dei cittadini, asservirli al potere finanziario, vincolarli a norme-capestro che li rendano schiavi di interessi estranei, modificare la Costituzione a danno della sovranità popolare, indebolire i lavoratori e i sindacati, assecondare gli interessi dei più forti, non intervenire a ridurre le disuguaglianze, privatizzare i beni pubblici, ridurre la spesa sociale, distrarre continuamente l’attenzione pubblica con falsi problemi e individuare sempre nuovi bersagli per la rabbia popolare, colpevolizzare i cittadini per la loro condizione e controllare i mass-media, in modo che veicolino continuamente la visione che più fa comodo ai manovratori (quella che Marcello Foa ha chiamato “il frame”, la cornice), martellare per anni e decenni i cittadini con un linguaggio economicista pieno di concetti come imprenditorialità, libertà d’impresa, debiti e crediti, competizione, eccetera – insomma costruendo un’ideologia che giustifichi e renda accettabile la progressiva riduzione in schiavitù di interi popoli, tenendone a bada l’inevitabile scontento con il senso di colpa, la paura e la menzogna.
    Questo è ciò che è successo da noi in questi ultimi decenni. Questo è l’imperdonabile tradimento della Costituzione e dei suoi valori realizzato da una classe politica avida e asservita a gruppi di potere nazionali e sovranazionali che l’hanno telecomandata a danno nostro. Il neoliberismo non è solo di una teoria economica, ma di un modello complessivo di società, sorretto da un poderoso e contraddittorio apparato ideologico, incompatibile con la democrazia, come sono incompatibili con la democrazia i monopoli privati di beni collettivi. Il viadotto di Genova è un simbolo di ciò che deve finire in Italia e nel mondo se vogliamo avere un futuro democratico. La globalizzazione neoliberista, che esalta il libero mercato, mentre mira a costituire monopoli e posizioni di forza, sta mettendo in ginocchio interi popoli. Povertà e disuguaglianza aumentano di giorno in giorno a livello globale. Non è più accettabile mantenere in piedi privilegi feudali, massacrando sogni e speranze di miliardi di persone.
    Il filosofo John Rawls sosteneva che una disuguaglianza è accettabile solo se migliora anche le condizioni di chi ha di meno. La ricchezza non è un male, ma lo è l’ingiusta distribuzione di essa. La libertà senza giustizia sociale è solo un guscio vuoto e uno specchio per le allodole. Questo dice in sostanza la nostra Costituzione. Se la vogliamo difendere, dobbiamo consegnare al passato il neoliberismo, memori della sofferenza e dei disastri che ha provocato. Non vedo altra via d’uscita dal tunnel nel quale ci troviamo. Deve essere lo Stato a regolare l’economia e il fine dell’economia deve essere il benessere dei cittadini. Il mercato non è in grado di autoregolarsi affatto e laddove i governi sono collusi con i potentati economici stanno tradendo la sovranità popolare. Non dimentichiamoci la frase pronunciata dal miliardario Warren Buffett (il terzo uomo più ricco al mondo) a proposito della diminuzione delle tasse per i ricchi: «La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi». Tanto per ricordarci di che cosa c’è in gioco: non la lotta contro la ricchezza, ma la lotta contro una visione predatoria della ricchezza e contro la menzogna che ci rende schiavi da troppo tempo di un’élite che ha consapevolmente e pazientemente costruito il mondo squilibrato nel quale ci troviamo – di cui troviamo il ritratto nel libro di Gioele Magaldi, “Massoni: società a responsabilità illimitata”, editore Chiarelettere.
    (Patrizia Scanu, “Il neoliberismo è compatibile con la democrazia?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 15 agosto 2018).

    A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.

  • Page 1 of 5
  • 1
  • 2
  • 3
  • 4
  • 5
  • >

Libri

UNA VALLE IN FONDO AL VENTO

Pagine

  • Pubblicità su Libreidee.org
  • Siberian Criminal Style
  • UNA VALLE IN FONDO AL VENTO

Archivi

Link

  • Cadavre Exquis
  • Il Cambiamento
  • Movimento per la Decrescita Felice
  • Nicolai Lilin
  • Penelope va alla guerra
  • Rete del Caffè Sospeso
  • Rialto Sant’Ambrogio
  • Shake edizioni

Tag Cloud

politica Europa finanza crisi potere democrazia storia Unione Europea media disinformazione Ue Germania Francia élite elezioni diritti sovranità mainstream banche rigore lavoro tagli welfare euro libertà Italia Pd debito pubblico sistema oligarchia Gran Bretagna tasse Bce neoliberismo terrorismo industria giustizia Russia globalizzazione disoccupazione sinistra pericolo futuro movimento 5 stelle paura Occidente diktat Cina popolo umanità sicurezza Stato verità cultura mondo Bruxelles Costituzione Grecia Matteo Renzi austerity