Archivio del Tag ‘Louisiana’
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Il Texas alla Corte Suprema: stop alla falsa vittoria di Biden
Ostacolo non da poco in vista per il presidente eletto Joe Biden: il Texas, infatti, chiede di annullare il voto in quattro Stati chiave. Come riporta l’Agi, il procuratore generale del Texas, Ken Paxton, ha fatto ricorso alla Corte Suprema americana contro Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, accusando questi Stati – decisivi nella vittoria di Biden – di aver sfruttato la pandemia di Covid-19 per «modificare illegalmente all’ultimo minuto» le regole di voto per corrispondenza. Paxton, forte sostenitore del presidente Donald Trump, vorrebbe escludere i quattro Stati dal voto dei grandi elettori in programma il 14 dicembre in cui è attesa la conferma di Biden alla presidenza. Il ricorso, annunciato da Paxton, accusa i dirigenti dei quattro Stati di non aver protetto dalle frodi il voto per posta – esteso a causa della pandemia – riducendo così «il peso dei voti espressi negli Stati che rispettano legalmente la struttura elettorale esposta nella Costituzione». Così il Texas chiede di bloccare l’elezione di Joe Biden: «Usando la pandemia Covid-19 come giustificazione, i funzionari governativi di Georgia, Michigan e Wisconsin e Pennsylvania hanno usurpato l’autorità dei loro legislatori e hanno rivisto in maniera incostituzionale l’elezione del loro stato statuti», riporta la denuncia di Paxton.L’elezione «ha subito irregolarità significative e incostituzionali negli Stati citati», afferma la denuncia del procuratore generale del Texas. Se dovesse avere ragione, la quota dei grandi elettori per il dem Biden passerebbe dagli attuali 306 a 244 (-62), sotto i 270 necessari per la vittoria. È bene inoltre ricordare che la Corte Suprema ha una maggioranza conservatrice (6 a 3) dopo le nomine di tre giudici da parte di Donald Trump. In uno dei retweet del presidente Usa Donald Trump, si legge: «Quest’ultima causa intentata dal Texas direttamente alla Corte Suprema degli Stati Uniti, poco prima della mezzanotte di ieri sera, contro diversi altri Stati per aver violato la Costituzione americana nel modo in cui hanno cambiato le regole elettorali, potrebbe essere quella giusta». L’avvocatessa Sidney Powell, che ha intentato diverse cause per contestare i risultati delle elezioni e non fa parte ufficialmente del team legale di Donald Trump, ha spiegato nelle scorse di aspettarsi che la sua battaglia, soprattutto in Georgia, finisca davanti alla Corte Suprema. «Siamo determinati a vincere, perché il popolo americano è stato derubato dai suoi voti legittimi in queste elezioni, e questo non può esistere», ha aggiunto.Secondo il segretario di Stato Brad Raffensperger non ci sono stati brogli: «Oggi è un giorno importante per l’integrità elettorale in Georgia e in tutto il paese», ha affermato in una dichiarazione. «Le affermazioni inerenti il famoso “Kraken” si dimostrano mitologiche quanto la creatura da cui prendono il nome. I cittadini della Georgia possono ora andare avanti sapendo che i loro voti, e solo quelli legali, sono stati conteggiati in modo accurato, equo e affidabile». Come già riportato da “InsideOver”, Rudy Giuliani ha dichiarato nelle scorse ore che i legislatori in Arizona, Georgia e Michigan potrebbero finire per decidere quali elettori inviare al collegio elettorale. L’ex sindaco di New York ha spiegato che gli Stati controllati dai repubblicani potrebbero votare per l’invio della propria lista di grandi elettori, sottolineando che una tale opzione è sostenuta nella Costituzione degli Stati Uniti. Sia Giuliani che Jenna Ellis hanno fatto pressioni sui legislatori statali negli ultimi giorni per riaffermare il loro potere di scegliere i propri grandi elettori a causa delle presunte prove di brogli. L’ex sindaco ha detto domenica a “Fox Business” che i legislatori della Georgia «hanno avviato una petizione per scegliere i propri elettori», sottolineando che i membri del Gop sono «disgustati» dalle prove mostrate durante un’udienza la settimana scorsa.Trattasi di un’eventualità – quella ipotizzata da Giuliani – che il celebre politologo Graham Allison aveva illustrato poche settimane fa sulla prestigiosa rivista “The National Interest”. Potrebbe accadere ciò che è già successo in occasione delle elezioni presidenziali del 1876, che vedevano contrapposti Tilden e Hayes. Come allora, ogni Stato dovrà riunire la propria assemblea per certificare il risultato delle elezioni e la lista dei grandi elettori al Congresso. Questo dovrebbe accadere indicativamente verso il 6 gennaio. Tuttavia, sottolinea Allison, «i legislatori statali hanno l’autorità costituzionale per concludere che il voto popolare è stato corrotto da possibili brogli, e quindi inviare una lista di elettori in competizione per conto del loro Stato. Ciò significa che in caso di controversie su liste elettorali concorrenti, il presidente del Senato, il vicepresidente Pence, sembrerebbe avere l’autorità ultima per decidere quali accettare e quali rifiutare. E Pence sceglierebbe Trump».(Roberto Vivaldelli, “E ora il Texas chiede di bloccare l’elezione di Joe Biden”, dall’inserto “InsideOver” de “Il Giornale”, del 9 dicembre 2020. Secondo “The Gateway Pundit”, altri 8 Stati sarebbero pronti a unirsi al Texas nell’appello alla Corte Suprema contro la convalida dell’elezione di Biden: si tratta di Louisiana, Arkansas, Alabama, Florida, Kentucky, Mississippi, South Carolina e South Dakota).Ostacolo non da poco in vista per il presidente eletto Joe Biden: il Texas, infatti, chiede di annullare il voto in quattro Stati chiave. Come riporta l’Agi, il procuratore generale del Texas, Ken Paxton, ha fatto ricorso alla Corte Suprema americana contro Georgia, Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, accusando questi Stati – decisivi nella vittoria di Biden – di aver sfruttato la pandemia di Covid-19 per «modificare illegalmente all’ultimo minuto» le regole di voto per corrispondenza. Paxton, forte sostenitore del presidente Donald Trump, vorrebbe escludere i quattro Stati dal voto dei grandi elettori in programma il 14 dicembre in cui è attesa la conferma di Biden alla presidenza. Il ricorso, annunciato da Paxton, accusa i dirigenti dei quattro Stati di non aver protetto dalle frodi il voto per posta – esteso a causa della pandemia – riducendo così «il peso dei voti espressi negli Stati che rispettano legalmente la struttura elettorale esposta nella Costituzione». Così il Texas chiede di bloccare l’elezione di Joe Biden: «Usando la pandemia Covid-19 come giustificazione, i funzionari governativi di Georgia, Michigan e Wisconsin e Pennsylvania hanno usurpato l’autorità dei loro legislatori e hanno rivisto in maniera incostituzionale l’elezione del loro stato statuti», riporta la denuncia di Paxton.
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Grazie alla Lorenzin, vi opererà un robot da 3 milioni di euro
Sono al telefono ogni giorno con i Mostri (quando i media mi pagavano ci sarei andato di persona, sorry). Chiamo prefisso 001+ e parlo con le Start Ups americane che fanno A.I., ma soprattutto i robot chirurgici del presente e del futuro. Quelli del futuro saranno in A.I. quantistica, cioè rispetto a quelli di oggi un salto come dire dalla ruota di pietra allo Space Shuttle. Sto su questo tema perché nella devastazione di Tech-Gleba la salute è il lato più orripilante (poi vi dirò cosa gli chiedo e come mi rispondono. Interesting, man, very very cool shit). Ma voglio ora darvi una prospettiva, a voi persone della vita di tutti i giorni. Lo sapete, vero?, che la Lorenzin sta tagliando in sanità anche l’erba delle aiuole degli ospedali, quando ci sono. Ho già citato le graffettatrici chirurgiche made in Cina a Torino e che ti si disfano in pancia. Mi scrive un chirurgo toracico da Palermo, e mi dice che lavorano sostanzialmente coi mezzi di un ‘Curandero’ del Mozambico, ecc. ecc. sappiamo bene, è così dappertutto nelle Ausl.Oggi un portavoce di Vinci robot Usa, uno dei colossi mondiali della robotica in sanità, mi ha detto col suo languido accento della Louisiana che un loro singolo robot chirurgico di vecchia generazione costerebbe a una Ausl italiana queste cifre: 3 milioni di euro per il robot, 170.000 euro all’anno di manutenzione, 3.200 euro in costi opertivi ogni volta che lo accendono per un intervento. Questo, ripeto, per un singolo robot chirurgico e neppure uno dei più complessi (settore chirurgia ginecologica), di vecchia generazione. Calcolate che un Policlinico come quello di Padova o di Bologna dovrebbe essere stipato di questi robot per ogni specialità dove il bisturi deve intervenire. Dottore, sei online? fammi i calcoli, eh?Ho poi chiesto al portavoce di Vinci robot: «Ma quando butterete sul mercato i robot chirurgici con A.I. e computer quantistici a servizio, per cui all’équipe chirurgica e manutentori si dovranno aggiungere fior for di fisici e di software code-makers strapagati e col vincolo del segreto industriale, cosa verranno a costare i vostri robot chirurgici per salvare, per esempio, la mia vita all’Ausl di Bologna?». L’accento del mieloso, afoso sud Usa si trasforma di colpo in un professionale New York style bite: «Non posso commentare». Fine dialogo. Think. Non fate figli.(Paolo Barnard, “Barnard parla ai mostri, e intanto vi dà una prospettiva”, dal blog di Barnard del 28 settembre 2017).Sono al telefono ogni giorno con i Mostri (quando i media mi pagavano ci sarei andato di persona, sorry). Chiamo prefisso 001+ e parlo con le Start Ups americane che fanno A.I., ma soprattutto i robot chirurgici del presente e del futuro. Quelli del futuro saranno in A.I. quantistica, cioè rispetto a quelli di oggi un salto come dire dalla ruota di pietra allo Space Shuttle. Sto su questo tema perché nella devastazione di Tech-Gleba la salute è il lato più orripilante (poi vi dirò cosa gli chiedo e come mi rispondono. Interesting, man, very very cool shit). Ma voglio ora darvi una prospettiva, a voi persone della vita di tutti i giorni. Lo sapete, vero?, che la Lorenzin sta tagliando in sanità anche l’erba delle aiuole degli ospedali, quando ci sono. Ho già citato le graffettatrici chirurgiche made in Cina a Torino e che ti si disfano in pancia. Mi scrive un chirurgo toracico da Palermo, e mi dice che lavorano sostanzialmente coi mezzi di un ‘Curandero’ del Mozambico, ecc. ecc. sappiamo bene, è così dappertutto nelle Ausl.
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Clima impazzito: c’è il rischio di mezzo miliardo di profughi
Succede in Louisiana, Brasile, New York, Australia, Thailandia, Filippine, Alaska. Succede un po’ dappertutto per le comunità di mare. Gente che vive sulle coste e che deve abbandonare le proprie case per colpa di erosione, innalzamento dei livelli del mare, tempeste violente, perdita di terreno. Secondo un recente articolo pubblicato su “Nature Climate Change”, sono circa 1 milione le persone che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Per la precisione 1 milione e 300mila. E mentre fino a pochi anni fa si cercava di proteggere quello che c’era, adesso l’atteggiamento prevalente è di andare via. Cosa fare infatti con l’arrivo di mareggiate senza precedenti, allagamenti e continuo innalzarsi del mare? Si possono alzare le strade e le case, cercare di proteggere le lagune, migliorare i codici con cui si costruisce. Ma si può anche decidere di lasciare perdere, visto che i costi sono elevati, ed è certo che il clima e l’ambiente non torneranno quelli di prima. È questo il dilemma delle comunità costiere.Storicamente, migrazioni di massa collegate alle condizioni climatiche sono molto ben documentate, e quello che viviamo adesso – appunto il milione e trecentomila anime che hanno dovuto lasciare le proprie case – è la manifestazione dei nostri tempi del problema. Durante il secolo 1900-2000 i livelli del mare si sono innalzati di ben dodici centimetri. Le previsioni sono di varie decine di centimetri in questo secolo. Secondo alcuni studi circa 470 milioni di persone perderanno la casa. Alcuni ricorderanno l’uragano Sandy che colpì le coste del New Jersey nel 2012: molte delle case sono state rasate al suolo e mai piu ricostruite. Dopo il tifone Haiyan del 2013 le Filippine hanno messo il divieto di costruire a cinquanta metri dalla costa e hanno forzato l’evacuazione di 80.000 persone. Dopo lo tsunami del 2004, almeno 22.000 case sono state perse e non più ricostruite in zone costiere. A volte la gente via via in modo preventivo, e cioè prima che ci siano i disastri: le città vengono evacuate perché i cambiamenti climatici stanno piano piano portando via coste e case e non si vuole aspettare “il grande evento”.In Louisiana accade lo stesso: qui l’erosione dovuta alle estrazioni di petrolio e di gas ha fatto perdere case, terreni e coste. Il caso più eclatante è quello di Shishmaref in Alaska, città costruita sul ghiaccio e che è destinata a morire. Siamo a 160 miglia dalla Russia, il ghiaccio scompare. Nevica sempre di meno, e sempre più tardi e il ghiaccio si scioglie prima o neanche si forma. L’erosione monta. L’assenza di ghiaccio fa sì che durante le tempeste pezzi interi di costa vengono triturati e finiscono in mare, senza protezione. Una delle case è già crollata in mare nel 2006. Norman era un ragazzino che nel 2007 cadde risucchiato dal ghiaccio di Shishmaref che si scioglieva e morì. Ogni secondo pompiamo in atmosfera 1.200 metri cubi di CO2. Il pianeta si è surriscaldato, in media di un grado centigrado dalla rivoluzione industriale ad oggi, una enormità. L’Artico ha avuto livelli di aumento di temperatura doppi che il resto del pianeta. In Alaska ci sono almeno trentuno villaggi a rischio di scomparire, come Shishmaref: dodici di questi villaggi stanno cercando di capire dove e come evacuare, perché sanno che non c’è speranza.Siamo noi a causare tutto ciò, bruciando fonti fossili a ritmi allarmanti. Se l’obiettivo è di contenere l’aumento della temperatura a due gradi centigradi, una sola cosa si deve fare: non pompare mai più petrolio. Dall’altra parte del mondo, le isole Kiribati, le isole Marshall, le isole Fiji. Lontanissme dall’Alaska ma tutte che rischiano di scomparire. Isle di Jean Charles in Louisiana che pure sprofonda a causa dei cambiamenti climatici. A Miami Beach, Florida, hanno dovuto installare pompe speciali per evitare allagamenti, collegati all’erosione. Non tutte le comunità hanno i soldi per programmare l’evacuazione e la risistemazione delle persone. È costoso, la gente è vulnerabile, è una strada a senso unico.A Shishmaref sanno che non hanno scelta, e cosi la città ha deciso di evacuare prima che il mare porti via tutto. Ma non hanno i soldi. E dove evacueranno? Non si sa, forse verso l’interno. Ma questo significa perdita di identità: la maggior parte delle persone qui vive di pesca e di caccia e di tradizioni Inupiat collegate al mare. Saranno lo stesso popolo? Perché devono evacuare loro, se il loro stile di vita, di indigeni, è molto meno impattante di quello di centinaia di milioni di persone che sprecano, bruciano, e generano molto più inquinamento e emettono molta più CO2 di loro?(Maria Rita D’Orsogna, “Un milione di profughi del clima”, da “Comune-info” del 10 aprile 2017. Fisica e docente all’Università statale della California, la professoressa D’Orsogna cura diversi blog, consapevole dell’importanza dell’informazione indipendente).Succede in Louisiana, Brasile, New York, Australia, Thailandia, Filippine, Alaska. Succede un po’ dappertutto per le comunità di mare. Gente che vive sulle coste e che deve abbandonare le proprie case per colpa di erosione, innalzamento dei livelli del mare, tempeste violente, perdita di terreno. Secondo un recente articolo pubblicato su “Nature Climate Change”, sono circa 1 milione le persone che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni. Per la precisione 1 milione e 300mila. E mentre fino a pochi anni fa si cercava di proteggere quello che c’era, adesso l’atteggiamento prevalente è di andare via. Cosa fare infatti con l’arrivo di mareggiate senza precedenti, allagamenti e continuo innalzarsi del mare? Si possono alzare le strade e le case, cercare di proteggere le lagune, migliorare i codici con cui si costruisce. Ma si può anche decidere di lasciare perdere, visto che i costi sono elevati, ed è certo che il clima e l’ambiente non torneranno quelli di prima. È questo il dilemma delle comunità costiere.
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Come (non) uscire dall’euro, versione 5 Stelle
L’unica lezione veramente importante che possiamo trarre dall’episodio di Varoufakis nel 2015 è che, se si vuole lasciare l’euro, si deve essere preparati – sia politicamente che dal punto di vista logistico. Lasciare l’euro non è un semplice punto di programma in una piattaforma politica, un qualcosa di cui parlare con nonchalance in una tavola rotonda o su cui tenere un referendum. È una questione più grossa della stessa Brexit. L’uscita da una moneta unica non può mai essere un processo ordinato, ovunque e in qualsiasi circostanza. Nel leggere questo resoconto di Gavin Jones su “Reuters” a proposito della conferenza stampa di Luigi Di Maio, ci ha colpito il fatto che il vicepresidente della Camera dei deputati, l’uomo che ha le maggiori probabilità di diventare primo ministro italiano nel caso le tendenze attuali dovessero persistere, si sta preparando a un fallimento monumentale. Di Maio, 30 anni, è un giovane uomo senza nessuna esperienza di crisi valutarie. Il modo in cui prefigura l’uscita dall’euro è incredibilmente ingenuo – attraverso un ordinato iter legislativo. In una conferenza stampa ha dichiarato che l’uscita dall’euro non è una priorità assoluta per il suo partito.E’ un po’ come dire che si sta progettando di lanciare una guerra nucleare, è vero, solo che non è in cima all’agenda. Ha detto: «Non è vero che il Movimento 5 Stelle vuole portare l’Italia fuori dall’euro… vogliamo che siano gli italiani a decidere». Ha detto che il referendum dovrebbe essere preceduto da un iter legislativo che prepari il terreno. E potrebbero anche non tenerlo, se le istituzioni europee si dimostrano assennate. L’ha messa così, senza entrare nei dettagli di cosa intende. Lo interpretiamo come voler tenere una porta aperta alla decisione di rimanere nella zona euro. Ma, purtroppo, in pratica non è così che funzionerà. Il futuro di lungo periodo dell’Italia nell’euro è davvero incerto, e si può facilmente pensare a tutta una serie di scenari, inclusi gli scenari di uscita. Ma c’è uno scenario che possiamo escludere con assoluta certezza: l’uscita dall’euro attraverso un referendum.Se i 5 Stelle vincono, il che è possibile, ci vorranno dai 2 ai 5 secondi dal primo exit poll perché i tassi di interesse italiani si impennino fino a livelli di crisi, o anche oltre, perché gli investitori dovranno scontare nel prezzo la probabilità non trascurabile di un default, dato che i referendum sono intrinsecamente imprevedibili. Nel momento in cui diventa primo ministro, Di Maio si troverà a gestire una crisi finanziaria. Non possiamo escludere un’uscita dell’Italia dall’euro a seguito di una situazione di panico nei mercati. Né si può escludere lo scenario di un governo italiano che tira fuori un piano, a lungo preparato, per introdurre una moneta parallela, con chiusura delle banche durante un lungo week-end. Ma possiamo escludere un processo ordinato grazie al quale l’Italia cambia la sua Costituzione, e quindi consente di procedere a un referendum sull’euro. Non ci si arriverà mai. Gli eventi precipiteranno ben prima.Una ragione per cui siamo così certi di questo è che la Banca Centrale Europea, che ha la capacità definitiva di mettere a tappeto qualsiasi attacco dei mercati alla zona euro, non sarà disposta o non potrà aiutare un governo che non si considera vincolato all’euro. Non potrebbe dare avvio al programma Omt per sostenere un governo non conforme. Una più probabile sequenza politica di eventi è quella che chiamiamo lo scenario Huey Long, dal nome del governatore della Louisiana che, a quanto si dice, la notte delle elezioni dichiarò ad un suo assistente la sua intenzione di non mantenere la promessa di tagliare le tasse: «Dite loro che ho mentito». Di Maio o dovrà fare come Huey Long, o dovrà preparare una legislazione di emergenza per uscire dall’euro. In ogni caso, ciò che risulta molto chiaro dall’intervista è che questo giovane uomo è del tutto impreparato. Lasciare l’euro sarebbe la più importante decisione per l’Italia dalla firma del Trattato di Roma, sessant’anni fa. Sarebbe meglio essere pronti. Non è certo un punto secondario nella lista della cose da fare.(Wolfgang Munchau, “Eurointelligence: come ‘non’ uscire dall’euro, versione 5 Stelle”, dal “Financial Times” del 24 marzo 2017, articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).L’unica lezione veramente importante che possiamo trarre dall’episodio di Varoufakis nel 2015 è che, se si vuole lasciare l’euro, si deve essere preparati – sia politicamente che dal punto di vista logistico. Lasciare l’euro non è un semplice punto di programma in una piattaforma politica, un qualcosa di cui parlare con nonchalance in una tavola rotonda o su cui tenere un referendum. È una questione più grossa della stessa Brexit. L’uscita da una moneta unica non può mai essere un processo ordinato, ovunque e in qualsiasi circostanza. Nel leggere questo resoconto di Gavin Jones su “Reuters” a proposito della conferenza stampa di Luigi Di Maio, ci ha colpito il fatto che il vicepresidente della Camera dei deputati, l’uomo che ha le maggiori probabilità di diventare primo ministro italiano nel caso le tendenze attuali dovessero persistere, si sta preparando a un fallimento monumentale. Di Maio, 30 anni, è un giovane uomo senza nessuna esperienza di crisi valutarie. Il modo in cui prefigura l’uscita dall’euro è incredibilmente ingenuo – attraverso un ordinato iter legislativo. In una conferenza stampa ha dichiarato che l’uscita dall’euro non è una priorità assoluta per il suo partito.
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Capo dell’Isis addestrato negli Usa, il video sul Telegraph
Il colonnello Gulmurod Khalimov, ex comandante delle forze speciali della polizia in Tagikistan addestrato negli Stati Uniti, è passato con l’Isis (o Daesh, in arabo). Lo testimonia un video di propaganda in cui Khalimov ne rivendica l’appartenenza e chiama a raccolta reclute per la jihad nella Siria di Bashar al-Assad. Per il quale neanche gli Usa nutrono particolari simpatie. La notizia è stata trasmessa ieri dalla Cnn. Nel video, rimosso da Internet, il colonnello Khalimov ammette di aver servito il Tagikistan come capo della polizia e che, in tre occasioni diverse, ha partecipato a programmi di addestramento per far fronte ad eventuali attacchi terroristici in Usa. Uno di questi addestramenti è stato realizzato in Louisiana. Dal 2003 al 2004, il colonnello Khalimov ha partecipato a cinque corsi di addestramento antiterrorismo negli Stati Uniti e in Tagikistan, attraverso il programma di sicurezza antiterrorismo del Dipartimento di Stato statunitense. Lo ha confermato la stessa portavoce del Dipartimento Usa, Pooja Jhunjhunwala.Un ufficiale statunitense ha spiegato alla Cnn che Khalimov fu invitato in Usa per potenziare le sue capacità nella lotta ai terroristi dell’Isis, ai quali invece si è poi unito. In pratica è stato addestrato per rispondere a stati di crisi, gestione tattica di eventi speciali, formazione alla leadership tattica e azioni correlate. «Ascoltate, porci americani, sono stato in Usa tre volte. Ho visto come addestrate i vostri soldati ad uccidere i musulmani», afferma Khalimov in video parlando in russo. E poi aggiunge: «Voi insegnate ai vostri soldati come attaccare e sterminare l’Islam e i musulmani». Nella videoregistrazione l’integrante del Daesh racconta come, quanto visto durante le sessioni di addestramento, si è trasformato nel motivo per cui si è ribellato contro i suoi sponsor. Poi minaccia direttamente gli Stati Uniti: «Arriveremo fin nelle vostre case». Alla fine delle sue dichiarazioni, Khalimov, vestito di nero e con un fucile da cecchino, mostra la sua destrezza, acquisita negli addestramenti negli Stati Uniti, sparando a un pomodoro ad una distanza di 22 metri.Il programma di addestramento a cui partecipò Khalimov era gestito dalla Blackwater Worldwide che, dal dicembre del 2011, è conosciuta come Academi, una compagnia militare privata statunitense fondata da Erik Prince, un ex-Navy Seal, con sede in Virginia e con all’attivo numerose operazioni in Iraq e in Afghanistan. Gli esperti americani sono preoccupati dalle dichiarazioni dell’ex comandante delle forze speciali della polizia in Tagikistan ora membro di Daesh, perché dimostrano che Khalimov ha tutte le informazioni interne sulla tattica disegnata dagli Usa per combattere l’organizzazione terroristica, ed è più che probabile che le stia trasmettendo ad altri membri dell’Isis. Ma non è il primo caso di militari addestrati in Usa e poi finiti nelle fila dell’Isis. E’ noto che diversi suoi membri, addestrati nel 2012 direttamente dalla Cia in Giordania, ora controllano grande parte dell’Iraq e della Siria. Come è noto che queste bande si sono trasformate nel pretesto, per Stati Uniti e suoi alleati, che l’anno scorso ha dato il via agli attacchi aerei contro questi paesi. Se qualcuno aveva ancora dubbi sul fatto che l’Isis non fosse un frutto avvelenato dell’Occidente, ha un altro elemento su cui riflettere.(Maria Zenobio, “Capo militare Isis addestrato in Usa”, da “Popoff” del 31 maggio 2015. Il newsmagazine segnala inoltre alcuni frammenti del video, rintracciabili sul sito del “Telegraph”).Il colonnello Gulmurod Khalimov, ex comandante delle forze speciali della polizia in Tagikistan addestrato negli Stati Uniti, è passato con l’Isis (o Daesh, in arabo). Lo testimonia un video di propaganda in cui Khalimov ne rivendica l’appartenenza e chiama a raccolta reclute per la jihad nella Siria di Bashar al-Assad. Per il quale neanche gli Usa nutrono particolari simpatie. La notizia è stata trasmessa dalla Cnn. Nel video, rimosso da Internet, il colonnello Khalimov ammette di aver servito il Tagikistan come capo della polizia e che, in tre occasioni diverse, ha partecipato a programmi di addestramento per far fronte ad eventuali attacchi terroristici in Usa. Uno di questi addestramenti è stato realizzato in Louisiana. Dal 2003 al 2004, il colonnello Khalimov ha partecipato a cinque corsi di addestramento antiterrorismo negli Stati Uniti e in Tagikistan, attraverso il programma di sicurezza antiterrorismo del Dipartimento di Stato statunitense. Lo ha confermato la stessa portavoce del Dipartimento Usa, Pooja Jhunjhunwala.