Archivio del Tag ‘macroeconomia’
-
Germania, cresce ancora il divario tra poveri e super-ricchi
Diseguaglianze dei redditi: il divario tra ricchi e poveri ha toccato un nuovo massimo storico in Germania. «Dieci anni di crescita, un boom economico e l’aumento dei salari non sono riusciti ad arrestare la tendenza di una crescente disparità di reddito», scrive Isabella Bufacchi sul “Sole 24 Ore”. Secondo la Fondazione Hans-Böckler, vicina al mondo dei sindacati, la disparità di reddito disponibile ha continuato ad allargarsi tra il 2005 e il 2016: alla fine del 2016, il coefficiente di Gini, il noto metro per misurare la disuguaglianza, era superiore del 2% rispetto al 2005. «Le famiglie povere sono sempre più al di sotto della soglia di povertà», avverte il rapporto dell’istituto di ricerca Wsi. Due i fattori chiave: chi ha redditi elevati ha tratto maggiore beneficio dai profitti aziendali e dai rialzi delle azioni in Borsa, mentre la stragrande maggioranza delle famiglie è rimasta indietro. Pur in una situazione di apparente benessere diffuso – disoccupazione ai minimi storici e crescita economica dal 2010 – il reddito disponibile è salito per il ceto medio ma non per i più poveri, con grandi disparità di trattamento tra chi percepisce regolarmente lo stipendio e chi no.Secondo Dorothee Spannagel, tra gli autori del rapporto Wsi, il settore delle retribuzioni molto basse continua ad essere molto ampio, mentre i super-ricchi (multimilionari e miliardari) hanno tratto più beneficio dal boom della Borsa, dall’impennata dei prezzi nel mercato immobiliare, dagli alti profitti aziendali. Riflessi negativi: «La disuguaglianza riduce la partecipazione sociale e politica e compromette il funzionamento dell’economia sociale di mercato». La crescita economica degli ultimi anni non è dunque servita a ridurre la disparità tra ricchi e poveri: uno sviluppo macroeconomico positivo non è sufficiente per ridurre le disuguaglianze e la povertà. La stampa tedesca – ricorda sempre il “Sole 24 Ore” – cita anche un recente studio dell’istituto di ricerca Diw, secondo il quale la ricchezza in Germania è distribuita in modo molto disomogeneo: l’1% dei tedeschi più ricchi ha quasi un quinto del patrimonio netto nazionale, il 10% ha il 56 per cento. Il 50% della popolazione è il ceto più povero, circa 40 milioni di persone. Soluzioni? Dorothee Spannagel indica «una tassazione più alta per la popolazione con i redditi più elevati e un aumento dei salari minimi».La ricerca, aggiunge Bufacchi sul “Sole”, tiene conto del coefficiente di Gini, l’indicatore più comune della distribuzione del reddito con valori compresi tra zero (tutte le famiglie hanno lo stesso reddito) e uno (una singola famiglia ha l’intero reddito nel paese). Alla fine del 2016, il coefficiente Gini del reddito familiare disponibile in Germania era di 0,295 con un aumento del 19% della disuguaglianza rispetto alla fine degli anni ‘90, quando il Gini era poco meno di 0,25 e comunque in aumento rispetto allo 0,289 del 2005. «La disuguaglianza in Germania è aumentata molto rapidamente alla fine degli anni ‘90 e nella prima metà degli anni 2000». Svariati analisi ricordano che Berlino ha a lungo evitato di investire per ammodernare le infrastrutture. E la Germania, con la riforma Hartz, è stato il primo paese industriale europeo a esasperare la “flessibilità” sul lavoro, convincendo gli operai ad accettare salari modesti. Già dirigente della Volkswagen (accusato di avver corrotto i sindacati per danneggiare i lavoaratori), Peter Hartz è stato poi preso a modello dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder. Se in Germania sono legali i mini-job da 400 euro al mese, il tallone d’Achille di Berlino è l’export: un’economia interamente vocata alle esportazioni, anche demolendo in modo sleale la concorrenza dell’Italia (sabotata da Bruxelles) alla fine rende più fragile il sistema industriale tedesco.Diseguaglianze dei redditi: il divario tra ricchi e poveri ha toccato un nuovo massimo storico in Germania. «Dieci anni di crescita, un boom economico e l’aumento dei salari non sono riusciti ad arrestare la tendenza di una crescente disparità di reddito», scrive Isabella Bufacchi sul “Sole 24 Ore”. Secondo la Fondazione Hans-Böckler, vicina al mondo dei sindacati, la disparità di reddito disponibile ha continuato ad allargarsi tra il 2005 e il 2016: alla fine del 2016, il coefficiente di Gini, il noto metro per misurare la disuguaglianza, era superiore del 2% rispetto al 2005. «Le famiglie povere sono sempre più al di sotto della soglia di povertà», avverte il rapporto dell’istituto di ricerca Wsi. Due i fattori chiave: chi ha redditi elevati ha tratto maggiore beneficio dai profitti aziendali e dai rialzi delle azioni in Borsa, mentre la stragrande maggioranza delle famiglie è rimasta indietro. Pur in una situazione di apparente benessere diffuso – disoccupazione ai minimi storici e crescita economica dal 2010 – il reddito disponibile è salito per il ceto medio ma non per i più poveri, con grandi disparità di trattamento tra chi percepisce regolarmente lo stipendio e chi no.
-
L’Italia perde miliardi nei paradisi fiscali dell’ipocrita Ue
Mentre Di Maio si appresta a vantare grandiosi “risparmi” tagliando i parlamentari (in concreto, lo 0,007% della spesa pubblica) uno studio condotto da ricercatori americani e danesi – segnalato sulla rivista “StartMag” – consente di quantificare il peso del mancato gettito tributario da parte delle multinazionali che spostano i loro profitti verso i paradisi fiscali. In particolare, segnala “Voci dall’Estero”, la scheda sull’Italia mostra come in questa gara all’occultamento dei profitti «il nostro paese perda 7,5 miliardi di gettito tributario, di cui la grande maggioranza a favore dei paradisi fiscali che indisturbati si annidano all’interno dell’Unione Europea». In pole position, l’Olanda sempre ligia al rigore “tedesco” contro l’Italia e naturalmente il Lussemburgo di Juncker. «In questo contesto, la crociata contro l’uso del contante per combattere l’evasione fiscale sembra quanto meno mancare completamente il bersaglio», scrive “Voci dall’Estero”, riferendosi alla campagna di propaganda del Conte-bis. I ricercatori dell’Università della California, di Berkeley e dell’Università di Copenaghen, nel complesso, stimano che ogni anno quasi il 40% dei profitti delle multinazionali (nel 2016 oltre 650 miliardi di dollari) vengano trasferiti in paradisi fiscali. «Questo spostamento riduce il gettito delle imposte sul reddito delle società di quasi 200 miliardi, ovvero il 10% della tassazione globale sulle società».I ricercatori hanno prodotto un database che mostra dove le aziende registrano i loro profitti a livello globale. «Sfruttando questi dati, gli autori hanno sviluppato una metodologia per stimare l’ammontare di profitti trasferiti in paradisi fiscali da società multinazionali», verificando anche «quanto ogni paese perda in profitti e entrate fiscali da tale spostamento».Le grandi multinazionali spostano i profitti nei paradisi fiscali per ridurre il peso globale delle imposte. Si prenda l’esempio di Google: nel 2017, Google Alphabet ha registrato ricavi per 23 miliardi di dollari nelle Bermuda, una piccola isola nell’Atlantico dove l’aliquota dell’imposta sul reddito delle società è pari a zero. Dallo studio è possibile vedere quali paesi attraggono e perdono profitti, in questo “gioco delle tre carte”. Si può verificare «la quantità di profitti spostati in paradisi fiscali e verso quali paradisi i profitti sono stati spostati». È inoltre possibile constatare «la perdita implicita del gettito d’imposta sul reddito delle società».Per i paradisi fiscali, gli esperti segnalano quanti profitti attirano dai paesi ad alta tassazione e qual è l’aliquota d’imposta effettiva sul reddito delle società. La perdita di profitto massima – spiegano gli strudiosi – si ha per i paesi dell’Unione Europea (almeno, quelli che non sono “paesi rifugio”). «Le multinazionali statunitensi spostano relativamente più profitti (circa il 60% dei loro profitti esteri) rispetto alle multinazionali di altri paesi (40% in media)». Gli azionisti delle multinazionali statunitensi sembrano quindi essere «i principali vincitori del trasferimento globale dei profitti». Inoltre, i governi dei paradisi fiscali «traggono notevoli benefici da questo fenomeno: tassando con aliquote basse (meno del 5%) la grande quantità di profitti potenziali che attraggono, sono in grado di generare più entrate fiscali, in proporzione al loro reddito nazionale, rispetto agli Stati Uniti e ai paesi europei (non paradisi fiscali) che hanno aliquote fiscali molto più elevate». Fino a poco tempo fa, aggiungono gli analisti, questa ricerca non sarebbe stata possibile, poiché le imprese di solito non rivelano pubblicamente i paesi in cui sono registrati i loro profitti.Inoltre, i dati dei conti economici nazionali non permettevano di studiare le società multinazionali separatamente dalle altre imprese. Ma negli ultimi anni gli istituti statistici della maggior parte dei paesi sviluppati del mondo (compresi i principali paradisi fiscali) hanno iniziato a pubblicare nuovi dati macroeconomici, noti come statistiche delle consociate estere. «Questi dati consentono di ottenere una visione completa di dove le società multinazionali registrano i loro profitti e in particolare di stimare l’ammontare degli utili registrati nei paradisi fiscali a livello globale». Per approfondire la nostra comprensione di questo problema, ammettono i ricercatori, «avremmo bisogno di altri dati, ancora più precisi». In particolare, «sarebbe auspicabile che tutti i paesi pubblicassero statistiche sulle consociate estere, e che tali statistiche fossero più ampie e includessero sempre informazioni sulle imposte versate».Mentre Di Maio si appresta a vantare grandiosi “risparmi” tagliando i parlamentari (in concreto, lo 0,007% della spesa pubblica) uno studio condotto da ricercatori americani e danesi – segnalato sulla rivista “StartMag” – consente di quantificare il peso del mancato gettito tributario da parte delle multinazionali che spostano i loro profitti verso i paradisi fiscali. In particolare, annota “Voci dall’Estero”, la scheda sull’Italia mostra come in questa gara all’occultamento dei profitti «il nostro paese perda 7,5 miliardi di gettito tributario, di cui la grande maggioranza a favore dei paradisi fiscali che indisturbati si annidano all’interno dell’Unione Europea». In pole position, l’Olanda sempre ligia al rigore “tedesco” contro l’Italia e naturalmente il Lussemburgo di Juncker. «In questo contesto, la crociata contro l’uso del contante per combattere l’evasione fiscale sembra quanto meno mancare completamente il bersaglio», scrive “Voci dall’Estero”, riferendosi alla campagna di propaganda del Conte-bis. I ricercatori dell’Università della California, di Berkeley e dell’Università di Copenaghen, nel complesso, stimano che ogni anno quasi il 40% dei profitti delle multinazionali (nel 2016 oltre 650 miliardi di dollari) vengano trasferiti in paradisi fiscali. «Questo spostamento riduce il gettito delle imposte sul reddito delle società di quasi 200 miliardi, ovvero il 10% della tassazione globale sulle società».
-
Moneta illimitata solo per loro: così ci stanno impoverendo
Sappiamo che la sostenibilità del debito esiste a due condizioni. Il debitore deve essere messo in condizione di pagare il debito: il che accade quando il suo reddito cresce (e non diminuisce) e quando il tasso d’interesse è più basso del tasso di crescita dell’economia. Nessuna di queste due condizioni è rispettata, da decenni. Per questo motivo la gente si è impoverita e la classe media è scomparsa. Siamo tutti indebitati: anche gente come me, alto funzionario dello Stato. Non dico che dovrei navigare nell’oro, perché – se uno fa il suo lavoro onestamente – nella pubblica amministrazione non può e non deve navigare nell’oro. Però mi pesa da morire un mutuo, perché a quei tempi i valori immobiliari erano diversi, così come la prospettiva di reddito – tutte cose che non si sono confermate, anche per la semplicissima ragione che il tasso di crescita dell’economia è insufficiente (il Pil non cresce, perché in queste condizioni non può crescere). Gli italiani cosa stanno facendo, per sopravvivere? Stiamo intaccando i nostri risparmi, mentre il nostro reddito è in diminuzione. Pensiamo anche ai nostri figli e nipoti, disoccupati o sottopagati. Io a vent’anni campavo benissimo con 147.000 lire al mese: ne pagavo solo 45.000 di affitto. Le mie figlie hanno stipendi da 500 euro al mese, che ovviamente non bastano.Per fare una politica di bassi salari bisognava avere bassi affitti, niente assicurazioni, welfare funzionante a livello di sanità, formazione e trasporti pubblici. Allora potevi anche dire: paghiamo poco i lavoratori. Ma come si fa se gli affitti sono cari, i mutui sono cari, e nel conto bisogna aggiungere le assicurazioni, le spese condominiali e le bollette? Per non parlare delle tasse: quelle fisse le pagano tutti. Insieme alla fatturazione elettronica, la mazzata finale sarebbe l’aumento dell’Iva al 23%. Una follia: il sogno di ogni tributarista è quello di veder aumentare il gettito diminuendo la pressione fiscale; qui invece si rischia non solo di aumentare la pressione fiscale, cioè di finire di ammazzare quelli che le tasse le pagano, ma veder diminuire il gettito, avendo quindi sul collo il fiato dei vari criminali dell’Unione Europea. Il punto è: cosa vogliamo proporre? Sicuramente c’è una ricetta macroeconomica: il Pil deve crescere più dei tassi d’interesse. Invece il tasso d’interesse sui titoli del debito pubblico (che sono più del Pil) è più elevato della crescita del Pil. Dovremmo cioè avere un Pil che cresce del 4-6% all’anno, in media, per sostenere questa situazione debitoria. Ma vale pure per le famiglie: la gente non riesce ad arrivare alla fine del mese. Molti alla fine del mese ci arrivano, ma non ce la fanno a pagare il mutuo. Molti vedono che, per pagare il mutuo, i debiti e le bollette, hanno sempre meno risorse a disposizione.Tranne una piccola parte di “ricchi”, il resto della popolazione è estremamente povera, o si sta impoverendo in modo drammatico. Senza contare la situazione dei protestati. Dieci anni fa io scrissi un libro, “Il grande mutuo”. In quel libro spiegavo che, proprio in base ai parametri che ho appena citato, ci sarebbe stata una grande crisi finanziaria. Pochi mesi dopo, la crisi è effettivamente esplosa: e così è cresciuta la mia notorietà, però le banche me l’hanno giurata. Hanno detto: ma questo stronzo come faceva a sapere che ci sarebbe stata la crisi finanziaria, mentre noi – che gestiamo il mondo – non ce n’eravamo accorti? E invece di dirmi “professor Galloni, collabori con noi per raddrizzare il sistema”, m’hanno messo nel librone nero, con tutte le conseguenze del caso. E ci può stare. Ma il punto è che, in quel libro, io dimostravo – oltre ogni ragionevole dubbio – che un abbattimento del 40% dei debiti (motivato anche dal recupero della mancata crescita di reddito e di Pil, di cui dicevo prima) non avrebbe danneggiato le banche. Anzi, paradossalmente le avrebbe aiutate. Infatti, le avrebbe aiutate a non accumulare i “non performing loans”, cioè le sofferenze.Ovviamente sappiamo che la banca, quando fa un prestito, crea moneta. Ed è finta: sei tu che la rendi vera quando paghi le rate con la vita, col lavoro e con i tuoi beni, e quindi arricchisci le banche. Tutto questo, senza dimenticare la storia delle banche, che nel 1300 ha comportato grandi progressi per l’umanità: senza la partita doppia, senza la creazione monetaria da parte delle banche, se fossimo stati legati all’emissione di moneta in base all’oro e non in base al credito moderno, forse non avremmo fatto neanche la rivoluzione industriale e saremmo ancora a mangiare una patata a famiglia. Invece oggi ci siamo liberati della scarsità. Dopo gli anni ‘60 ci siamo liberati della scarsità anche grazie al capitalismo – che ne ha fatte di tutti i colori (cose terribili e violente, anche a livello militare) – però in effetti ci siamo trovati, per la prima volta nella nostra storia, liberi dalla scarsità. Ma se siamo liberi dalla scarsità materiale, dato che produciamo più di quello che serve, visto che la produzione di moneta è a costo zero, perché si arricchiscono solo le banche, e invece la gente non ha di che sfamarsi?Secoli fa, la crisi economica dipendeva dal raccolto del grano: se mancavano il pane e la farina, la gente assaltata i forni. Oggi invece buttiamo via il 43% di quello che produciamo, e poi la gente non ha i soldi per fare la spesa. Quindi è una crisi di soldi. Ma è una crisi artificiosa: perché fosse rispettato per tutti – popolo, lavoratori, pensionati – lo stesso principio che viene rispettato per la grande finanza (e cioè: rifornirla di liquidità e mezzi monetari illimitatamente, come fanno le banche centrali con la moneta elettronica pigiando col ditino i tasti del computer) è chiaro che tutti staremmo meglio, perché probabilmente avremmo la possibilità di domandare quei beni e quei servizi che oggi non vengono prodotti, creando così la piena occupazione. Ma cosa succederebbe? Non saremmo più dipendenti dalla creazione monetaria delle banche, non saremmo più dipendenti dalle banche centrali. Dipenderemmo solo dalla nostra voglia di fare e dalla nostra creatività. Cioè: saremmo esseri umani finalmente liberi. E’ questo che non si vuole. Ed è questo che invece noi vogliamo realizzare. L’obiettivo è essere liberi, facendo in modo che il superamento della scarsità sia vero per tutti, non solo per la grande finanza.(Nino Galloni, dichiarazioni rilasciare alla conferenza “Spiritualità e finanzam, un’eresia?”, promossa da “Sdebitalia” e pubblicata su YouTube da “ByoBlu” il 19 giugno 2019. Galloni, economista post-keynesiano e vicepresidente del Movimento Roosevelt, in conclusione ricorda che – oltre alla sua proposta dell’abbattimento del 40% del debito bancario – storicamente esiste la soluzione macroeconomica della super-emissione, che però svaluta la moneta provocando iper-inflazione. Terza via: l’emissione di moneta sovrana parallela, solo nazionale: «Con quella moneta, gli Stati potrebbero pagare tutto il debito che è in mano ai concittadini, i quali non si impoverirebbero, perché riceverebbero il capitale e gli interessi senza gravare sulle generazioni future»).Sappiamo che la sostenibilità del debito esiste a due condizioni. Il debitore deve essere messo in condizione di pagare il debito: il che accade quando il suo reddito cresce (e non diminuisce) e quando il tasso d’interesse è più basso del tasso di crescita dell’economia. Nessuna di queste due condizioni è rispettata, da decenni. Per questo motivo la gente si è impoverita e la classe media è scomparsa. Siamo tutti indebitati: anche gente come me, alto funzionario dello Stato. Non dico che dovrei navigare nell’oro, perché – se uno fa il suo lavoro onestamente – nella pubblica amministrazione non può e non deve navigare nell’oro. Però mi pesa da morire un mutuo, perché a quei tempi i valori immobiliari erano diversi, così come la prospettiva di reddito – tutte cose che non si sono confermate, anche per la semplicissima ragione che il tasso di crescita dell’economia è insufficiente (il Pil non cresce, perché in queste condizioni non può crescere). Gli italiani cosa stanno facendo, per sopravvivere? Stiamo intaccando i nostri risparmi, mentre il nostro reddito è in diminuzione. Pensiamo anche ai nostri figli e nipoti, disoccupati o sottopagati. Io a vent’anni campavo benissimo con 147.000 lire al mese: ne pagavo solo 45.000 di affitto. Le mie figlie hanno stipendi da 500 euro al mese, che ovviamente non bastano.
-
Sta meglio chi è fuori dall’Ue: Norvegia, Svizzera e Islanda
Cos’hanno in comune Svizzera, Norvegia e Islanda oltre ad essere gli unici paesi del Vecchio Continente ad essere fuori dall’Unione? In tutti e tre questi paesi le politiche economiche sono rivolte ai cittadini. Il rapporto tra gli istituti finanziari e di credito e le banche centrali è condizionato dal potere politico espresso dai rispettivi ministeri dell’economia. Mentre i 28 paesi membri della Ue – Inghilterra compresa – ricevono diktat di tipo tecnico da chi opera professionalmente nel settore bancario, in Svizzera, Norvegia e Islanda gli istituti finanziari operano sul territorio, a stretto contatto con i residenti. E’ dunque la totale assenza di democraticità a penalizzare l’area dei 28 paesi Ue, di fatto governati dai loro dirigenti di area lobbystico-finanziaria. Juncker, presidente della Commissione Europea, è un banchiere lussemburghese, e non è affatto un caso. La Bce, guidata dal banchiere Mario Draghi, persegue obiettivi tecnici (il contenimento dell’inflazione) che sono considerati prioritari. Altre voci, dirimenti per la popolazione, come l’indice di disoccupazione o l’incremento del Pil, sono secondari rispetto agli intendimenti statutari della banca centrale di Francoforte.Ma se è l’assenza di democrazia ad aver convinto svizzeri, norvegesi e islandesi a starsene lontani da Bruxelles, quali sono i risultati dei tecnici Ue messi a confronto con gli “extracomunitari” del Vecchio Continente? Eh già, perchè alla fine dei conti, la ricchezza dei cittadini e il loro benessere dovrebbero essere maggiori laddove ci sono dei tecnici a tenere in piedi la baracca. Invece, accade esattamente l’opposto. Svizzera, Norvegia e Islanda non sono solo paesi indipendenti da Bruxelles, e dunque più liberi, ma sono anche i più ricchi. Lo dimostrano tutti i dati di tutte le agenzie che si occupano di questo tipo di statistiche. Il Pil pro capite degli islandesi è di 40.070 euro annui contro, ad esempio, i 36.313 degli italiani. Seppur inferiore al dato tedesco, la Norvegia e la Svizzera si distinguono da tutti gli altri, vantando un Pil pro capite rispettivamente di 69.296 e di 59.376 euro. Il Pil, però, non è il reddito, neppure quando è calcolato pro capite. Ma è proprio sugli altri punti macroeconomici e di qualità della vita che il trio extra-Ue primeggia senza rivali.Il paese in cui si vive meglio al mondo per qualità della vita (al mondo, dunque… non solo in Europa), è la Norvegia, secondo uno studio che è stato realizzato dal centro studi del Boston Consulting Group che ha paragonato tutti i 196 Stati nel mondo. Secondo questo studio, la Norvegia ha un punteggio di 100, ad esempio, mentre l’europeissima Germania non arriva a 94. Gli indicatori presi in considerazione sono ben 44 divisi in 10 macro-aree: ricchezza (redditi), stabilità economica (inflazione e Pil), occupazione (tasso di occupazione e disoccupazione), salute (accesso alla sanità ed efficienza di essa), educazione (accesso all’istruzione), infrastrutture (trasporti, Ict), eguaglianza nella distribuzione dei redditi, società civile (attivismo, uguaglianza di genere, coesione interclasse, sicurezza e affidabilità interpresonale), governance (accountability, libertà di stampa, stabilità, libertà), qualità dell’ambiente. La ricchezza è misurata attraverso l’indicatore del reddito pro capite, mentre la distribuzione del reddito attraverso il coefficiente di Gini.(Giacomo Salvini, “Europa, la mappa dei paesi in cui si vive meglio”, da “Termometro Politico” del 30 luglio 2016. Nonostante i dati non siano aggiornati al 2019, il loro valore resta evidentissimo).Cos’hanno in comune Svizzera, Norvegia e Islanda oltre ad essere gli unici paesi del Vecchio Continente ad essere fuori dall’Unione? In tutti e tre questi paesi le politiche economiche sono rivolte ai cittadini. Il rapporto tra gli istituti finanziari e di credito e le banche centrali è condizionato dal potere politico espresso dai rispettivi ministeri dell’economia. Mentre i 28 paesi membri della Ue – Inghilterra compresa – ricevono diktat di tipo tecnico da chi opera professionalmente nel settore bancario, in Svizzera, Norvegia e Islanda gli istituti finanziari operano sul territorio, a stretto contatto con i residenti. E’ dunque la totale assenza di democraticità a penalizzare l’area dei 28 paesi Ue, di fatto governati dai loro dirigenti di area lobbystico-finanziaria. Juncker, presidente della Commissione Europea, è un banchiere lussemburghese, e non è affatto un caso. La Bce, guidata dal banchiere Mario Draghi, persegue obiettivi tecnici (il contenimento dell’inflazione) che sono considerati prioritari. Altre voci, dirimenti per la popolazione, come l’indice di disoccupazione o l’incremento del Pil, sono secondari rispetto agli intendimenti statutari della banca centrale di Francoforte.
-
Galloni: i dazi di Trump aiutano il lavoro. Piange la finanza
La questione dei dazi commerciali Usa contro la Cina e le corrispondenti ritorsioni sono attese dagli esperti in attenuazione a medio termine; ma potrebbero nel frattempo generare nuovi equilibri interni alle due più importanti potenze economiche del pianeta. Oltre un certo limite, infatti, che potrebbe essere quello del 25%, i dazi spingeranno gli americani a produrre di più, con la conseguenza che aumenterebbero occupazione e salari interni: quanto Trump ha promesso ai propri connazionali e non può ottenere senza dazi se la Fed non accetta politiche monetarie di indebolimento del dollaro. D’altra parte gli Usa sono avvantaggiati dal fatto che le loro esportazioni strategiche riguardano servizi ad alto valore aggiunto. Anche per la Cina la situazione che si sta venendo a creare spinge nella stessa direzione, vale a dire esportare meno, rallentare la crescita ma investire di più all’interno facendo crescere salari e occupazione: vedere risoluzioni in tal senso del comitato centrale del partito comunista.Ma la crescita degli investimenti interni, la sostituzione di importazioni, l’aumento di occupazione e salari vengono visti come una iattura dalle Borse perché si accompagnano a una diminuzione del saggio dei profitti (il rapporto di questi ultimi con gli investimenti che dev’essere particolarmente elevato in Borsa, ma può risultare meno cruciale nell’economia reale e delle piccole imprese). Sia la svalutazione del dollaro (meno probabile, e che sarebbe seguita da altre svalutazioni cosiddette competitive), sia la guerra dei dazi sono destinate a far cambiare le politiche macroeconomiche interne: ci auguriamo, finalmente, travolgendo le fallimentarissime politiche dell’Unione Europea. Anche l’Italia ha il vantaggio competitivo, dato dal fatto che può esportare un prodotto esclusivo; quindi potrà sostituire importazioni senza deprimere l’export.Meno chiaro è come sarà forzata la crescita della domanda interna (pur in presenza di risorse umane e tecnologiche sottoutilizzate) da parte di chi non esercita – a differenza di Usa o Cina – la sovranità monetaria. Comunque il mondo sta andando nella direzione giusta: rivincita dell’economia reale e delle piccole imprese; crisi della finanza; fine delle politiche di austerity e maggiore rispetto per l’ambiente. Ben poco di tutto ciò favorisce i poteri forti mondiali e, quindi, le soluzioni militari è destabilizzanti sono, come sempre nella storia, in agguato. Molto dipenderà dalla evoluzione democratica che dovrebbe puntare – ma è una cosa necessaria e difficile – a un maggior controllo della cittadinanza su moneta e tecnologie disponibili.(Nino Galloni, “Usa, Cina e Borse mondiali”, dal newsmagazine “Scenari Economici” del 14 maggio 2019).La questione dei dazi commerciali Usa contro la Cina e le corrispondenti ritorsioni sono attese dagli esperti in attenuazione a medio termine; ma potrebbero nel frattempo generare nuovi equilibri interni alle due più importanti potenze economiche del pianeta. Oltre un certo limite, infatti, che potrebbe essere quello del 25%, i dazi spingeranno gli americani a produrre di più, con la conseguenza che aumenterebbero occupazione e salari interni: quanto Trump ha promesso ai propri connazionali e non può ottenere senza dazi se la Fed non accetta politiche monetarie di indebolimento del dollaro. D’altra parte gli Usa sono avvantaggiati dal fatto che le loro esportazioni strategiche riguardano servizi ad alto valore aggiunto. Anche per la Cina la situazione che si sta venendo a creare spinge nella stessa direzione, vale a dire esportare meno, rallentare la crescita ma investire di più all’interno facendo crescere salari e occupazione: vedere risoluzioni in tal senso del comitato centrale del partito comunista.
-
+Europa? I peggiori di sempre: hanno disastrato l’Italia
Il 2011 sembra ieri, ma se da un lato gli italiani hanno una memoria politica cortissima, dall’altro alle elezioni europee di domenica 26 maggio andranno a votare molti giovanissimi, che nel 2011 erano undicenni alle prese con gli insiemi di matematica e i primi turbamenti ormonali. Dunque, meglio rinfrescare a tutti la memoria. I partiti europeisti che si presentano all’agone politico delle prossime europee fanno proposte, analisi e dichiarazioni come se fossero appena arrivati sulla scena. Invece, dietro il trucco nominalistico di sofistica memoria e l’italica abitudine al trasformismo non solo poggiano i loro culi nei parlamenti di tutta Europa da decenni, ma in Italia hanno proprio governato, e persino senza esserne eletti come maggioranza (!). La formazione più europeista di tutte, +Europa, che per la prima volta si presenta alle elezioni europee, è rappresentata sui manifesti di propaganda da Emma Bonino, già minstro per il commercio internazionale con Prodi e ministro degli esteri con Letta (…), è stata commissaria europea. Deputata all’Europarlamento per 4 legislature, è stata nel Parlamento italiano per ben 7 legislature. A Palazzo Chigi entrò a 28 anni, e oggi ne ha 71. In pratica stiamo parlando di una sequoia della politica italiana e internazionale, con più poltrone che denti. Roba da far impallidire Andreotti.Il segretario nazionale della neonata formazione +Europa è Benedetto Della Vedova. Anche per lui un curriculum politico lunghissimo che parte dai Radicali (movimento cuore di +E) e passa per il governo Monti, il governo tecnico voluto da Bruxelles e che arrivò alla maggioranza in Parlamento nel novembre del 2011 dopo aver rovesciato il governo precedente con la vetusta tecnica della Rivoluzione Parlamentare. Tecnica usata per la prima volta in Italia da Agostino Depretis nel 1876 e che consiste nel condizionari i parlamentari a formare governi diversi da quelli indicati dai cittadini col voto. Della Vedova, oggi leader con la Bonino di +Europa, fu sostenitore di Monti ed eletto nel 2013 tra le fila del suo partito, poi continuò la carriera come sottosegretario agli esteri nei governi europeisti di Renzi e Gentiloni. Questi i nomi più noti della lista, che però annovera tantissimi altri politicanti che hanno esercitato già la loro attività come decisori di cose pubbliche, da Pizzarotti a Taradash. Ebbene, come andò l’Italia negli anni di Mario Monti e Letta, che governarono grazie all’appoggio ideologico +europeista?Secondo diversi media, con l’arrivo dell’austerità voluta dai tecnici, Monti in primis, in Italia aumentarono i suicidi economici. I dati non sembrano confermare questa convinzione, che sarebbe dunque in linea con quanto avveniva purtroppo anche negli anni precedenti. Ciò che è fuori discussione, invece, sono gli altri dati macroeconomici. Il Prodotto Interno Lordo, cioè la ricchezza del paese, con Monti calò drasticamente fino a far parlare qualche economista di depressione stile 1929. Se escludiamo il calo del 2008/2009 che riguardò tutte le economie avanzate dell’Occidente causa bolla americana, nel 2012, anno di governo europeista di Monti, mentre tutti i paesi risalivano la china, l’Italia fece un capitombolo a -2,4 (reale: -2,8 secondo la fonte Ameco). La produzione industriale risulta essere in calo da anni, e non è questo il momento di andare a vedere il perché. Ma se il calo era stato contenuto, con una media di circa -1,8, è con Mario Monti ed Enrico Letta che arriva il disastro: -3,6 per cento di produzione industriale con Monti e -2,7 con Letta.La tendenza all’aumento della disoccupazione risale all’ultimo governo Berlusconi, ma lo scettro spetta ancora una volta a Monti. E’ con lui che abbiamo il più grande (e grave) contributo alla disoccupazione italiana. Con il governo dell’austerità, infatti, la disoccupazione aumentò dell’1,3 per cento in media all’anno e del 3,7 per il settore giovanile. Con Monti e Letta (da aprile 2012 a fine 2013) la disoccupazione giovanile raggiunse il picco della storia superando abbondantemente il 40 per cento. Tanto per fotografare meglio il dato sulla disoccupazione, basta osservare che oggi gli italiani disoccupati sono il 10,8 per cento, mentre con Monti sfioravano il 12. Tra i giovani era disoccupato il 40 per cento, mentre oggi lo è il 32. “Già, ma Monti fu nominato per risolvere il problema dello spread”. Già mi sembra di sentire la solita solfa europeista sul terrore (immotivato) dello spread. Ma accettiamo la sfida e vediamolo nel dettaglio. Il rapporto deficit/Pil prima del governo piùeuropeista era del 116%. Quando Monti si dimetterà, nel 2013, era al 130%. Lo spread tra i titoli di Stato italiani Btp e i Bund tedeschi aveva sfondato i 500 punti a novembre 2011, ed era stato il dato macroeconomico che aveva convinto i parlamentari italiani a rovesciare il governo politico e a sostituirlo con quello tecnico di Monti.Monti governò circa un anno e mezzo, e per tutti quei mesi lo spread oscillò tra i 300 e i 500 punti. Per molti mesi, anzi, per tutto l’inizio del mandato, lo spread “di Monti” sarà più verso quota 500 che 300, ma a luglio 2012 Draghi pronunciò un famoso discorso durante il quale sostenne che i titoli dei paesi in difficoltà sarebbero comunque stati acquistati, ed ecco che allora (e solo allora) lo spread cominciò un lento calo. Persino l’inflazione non andò bene, con quei governi, perché ci furono tasse per i consumatori (aumento dell’Iva) e gabelle per i risparmiatori (bollo sui depositi). Secondo molti analisti, e soprattutto secondo i numeri, che non hanno colore, i governi piùeuropeisti della prima metà del decennio sono stati di gran lunga i peggiori della storia repubblicana. I danni che hanno fatto in termini occupazionali, di relazioni tra gli italiani, di produzione e di welfare li stiamo ancora pagando cari, a cinque anni di distanza. +Europa per entrare nel Parlamento Europeo dovrebbe superare la quota di sbarramento del 4 per cento. E non ce la farà, perché gli italiani sono smemorati, sì, ma non stupidi.(Massimo Bordin, “Quelli di +Europa hanno già governato, ecco come andò”, dal blog “Micidial” del 23 maggio 2019).Il 2011 sembra ieri, ma se da un lato gli italiani hanno una memoria politica cortissima, dall’altro alle elezioni europee di domenica 26 maggio andranno a votare molti giovanissimi, che nel 2011 erano undicenni alle prese con gli insiemi di matematica e i primi turbamenti ormonali. Dunque, meglio rinfrescare a tutti la memoria. I partiti europeisti che si presentano all’agone politico delle prossime europee fanno proposte, analisi e dichiarazioni come se fossero appena arrivati sulla scena. Invece, dietro il trucco nominalistico di sofistica memoria e l’italica abitudine al trasformismo non solo poggiano i loro culi nei parlamenti di tutta Europa da decenni, ma in Italia hanno proprio governato, e persino senza esserne eletti come maggioranza (!). La formazione più europeista di tutte, +Europa, che per la prima volta si presenta alle elezioni europee, è rappresentata sui manifesti di propaganda da Emma Bonino, già minstro per il commercio internazionale con Prodi e ministro degli esteri con Letta (…), è stata commissaria europea. Deputata all’Europarlamento per 4 legislature, è stata nel Parlamento italiano per ben 7 legislature. A Palazzo Chigi entrò a 28 anni, e oggi ne ha 71. In pratica stiamo parlando di una sequoia della politica italiana e internazionale, con più poltrone che denti. Roba da far impallidire Andreotti.
-
Fuga da Bruxelles, grazie ai velleitari pasticcioni gialloverdi
Vuoi vedere che Salvini e Di Maio alla fine riusciranno a liberare l’Italia dall’euro-schiavitù? In che modo, lo spiega Marco Della Luna: la fuga da Bruxelles potrebbe rivelarsi obbligatoria, per evitare la super-stangata in arrivo. Lega e 5 Stelle? Prima hanno fatto promesse “impossibili”, poi si sono rassegnati a una parodia del “cambiamento”. Eppure, anche solo le briciole portate a casa – deficit al 2%, mini-reddito di cittadinanza, quota 100 – ci costeranno così care, restando nell’Eurosistema, da far capire a tutti, a quel punto, che per mettersi in salvo (evitando la catastrofe di una patrimoniale) non resterà che sfilarsi dal club dell’euro-rigore. «Salvini e Di Maio hanno impiccato se stessi, e insieme a sé tutta l’Italia, a promesse elettorali demagogiche, incompatibili con la condizione del paese», premette Della Luna, autore di saggi come “Euroschiavi” e “Cimiteuro”. Reddito di cittadinanza, decreto dignità, quota 100 e Flat Tax sono «misure fattibili solo in uno Stato poco indebitato e in crescita economica, oppure padrone della propria moneta, come Usa e Giappone». Da quelle promesse «i due non possono smarcarsi prima delle elezioni europee, nonostante che emerga sempre più la loro insostenibilità». E dato che l’Italia è fortemente indebitata ed economicamente bolsa, e in più «deve farsi finanziare da investitori esterni in una moneta che non controlla», il governo gialloverde «ha dovuto rinviare o ridurre di molto le promesse iniziali».Peggio: le poche misure attuate hanno già prodotto «effetti sfavorevoli sul piano finanziario», ovvero «aumento di spread e di rendimenti sul debito pubblico, contrazione del credito, uscita di capitali, sfavore di ampi settori produttivi». E pare avranno effetti negativi pure su quello economico, «per giunta in una fase recessiva che li amplificherà, soprattutto se si andrà a sbattere contro il muro delle clausole di salvaguardia, col rialzo dell’Iva che il governo smentisce ma lo ha già iscritto nel Def». Dopo tanti anni di crisi e di contrazione del reddito, i provvedimenti redistributivi «sono in sé moralmente giusti e riscuotono consenso», ma purtroppo – osserva Della Luna – producono «reazioni di sistema in senso opposto, che pareggiano o superano i loro effetti benefici e riequilibranti, perché ricadono proprio sui ceti deboli che quei provvedimenti volevano aiutare». E così calano il credito, i servizi, gli investimenti. «La lezione della storia, mai imparata dai politici volenterosi ma con attitudini culturali inadeguate al loro ruolo, è che lo sforzarsi di ‘correggere’ pettinando contropelo un sistema dinamico, complesso, che tu non controlli e che reagisce, e che è molto più grosso di te, risulta nei fatti sempre controproducente, e ti fa fare perdere il carisma».Il controllo di un sistema economico è cosa complicata, aggiunge Della Luna, ma certo comincia con quello della moneta e con la liberazione dai meccanismi indebitanti. «E l’Italia è in una condizione oggettiva che le impedisce persino di incominciare a farlo: una condizione che la destina a un costante declino». La geopolitica globale, dagli anni ’80, si è finanziarizzata: «Ha definanziato l’economia produttiva e coltiva l’indebitamento irreversibile dei governi e dei privati, la riduzione dei servizi, dei salari, dei diritti dei lavoratori; quindi non vi sarà un rilancio economico generale». L’Italia poi non è affatto indipendente: è sottoposta a interessi stranieri, «e le sue politiche economiche sono asservite ad essi». Siamo «oggetto di una programmatica sottrazione di risorse attraverso l’Ue». In particolare, «l’Eurosistema bancario-monetario, bloccando gli aggiustamenti fisiologici dei cambi tra le monete nazionali senza mettere in comune i rispettivi debiti pubblici», all’Italia «fa perdere capitali, industrie e cervelli in favore dei paesi più efficienti, aggravando il suo debito pubblico», e al tempo stesso «fa in modo che essa disponga della metà della liquidità pro capite che hanno Francia e Germania: così in Italia manca il denaro per la domanda interna e per pagare i debiti anche tributari», mentre gli stranieri hanno i soldi per rilevare i nostri asset, «che dobbiamo svendere per procurarci quella liquidità che ci viene artatamente negata».Il nostro sistema-paese, inoltre, «è storicamente zavorrato da prassi di ruberie e inefficienze, sprechi, parassitismo». Tutto fattori che abbassano la nostra efficienza, costringendo lo Stato a notevoli esborsi per aree improduttive. «E tutto ciò si traduce in un sovraccarico tributario tale, a carico delle aree produttive, che mina la loro efficienza e spinge capitali, imprenditori e tecnici ad emigrare, portando con sé la clientela e le tecnologie, per fare concorrenza dall’estero». Queste “zavorre”, aggiunge Della Luna, non possono essere eliminate «perché coincidono con gli interessi immediati di buona parte dell’elettorato e della classe politico-burocratica, che prospera grazie ad esse, e che si è formata attraverso una selezione centrata sullo sfruttamento di tali anomalie e non sullo sviluppo di competenze e capacità utili per il sistema-paese». Una classe che ormai «risponde più a banche e interessi stranieri, che alla nazione». Pertanto, «qualsiasi leader politico italiano sa che può fare ben poco per il paese, essendo stretto tra i vincoli suddetti». Però sa anche che il popolo non ne è consapevole, e quindi non rinuncia a sperare: per questo, il politico «sa che può promettere soluzioni impossibili e essere creduto e votato per qualche tempo, fino a che non sbatterà contro i medesimi vincoli: così hanno fatto Prodi, Berlusconi, Renzi».Ma i nostri Dioscuri, Salvini e Di Maio, che fanno? Uscire o farsi estromettere dall’euro «sarebbe in linea di principio opportuno e indispensabile, per rilanciare l’economia e l’occupazione, evitando il declino totale e la svendita del paese». Però Lega e 5 Stelle, che in passato propugnavano l’Eurexit, «hanno poi smesso di parlarne, visto che non vi sono le condizioni politiche: la gente comune (che non pensa oltre al domani e niente sa di macroeconomia) non capisce la situazione, teme le conseguenze dell’uscita». Al tempo stesso, «gli interessi stranieri, coi loro fiduciari interni al paese, sono forti e controllano i media, con cui fanno propaganda pro-euro e pro-Ue». E così il governo Conte l’anno scorso ha lanciato all’Ue una iniziale sfida («o pseudo-sfida, perché non metteva in discussione l’euro né i vincoli di bilancio»), quella del 2,4% di deficit sul Pil, ma presto ha dovuto mettere la coda tra le gambe e ripiegare al 2,04 (che poi salirà al 2,7 per effetto della mancata crescita rispetto alle previsioni ufficiali). «Questa ingloriosa operazione – avverte Della Luna – è costata ai contribuenti diversi miliardi di interessi aggiuntivi sul debito pubblico, e dovrebbe aver insegnato anche ai poveri di spirito che è meglio non lanciare sfide a chi è molto più forte di te: se non hai la volontà e la forza per liberarti dal padrone, ti conviene obbedire e risparmiarti le legnate».Forse, l’unica strategia realistica e per liberarci dal rigore imposto dall’euro, secondo Della Luna è proprio quella avviata (inconsapevolmente?) dal nostro governo: «Senza dirlo, attraverso misure indebitanti e destabilizzanti come il codiddetto reddito di cittadinanza e la quota cento, si porta nei fatti l’Italia a una situazione di squilibrio finanziario tanto grave che, quando arriverà il momento di fare la legge finanziaria, per evitare una stangata tributaria anche patrimoniale (di nuovo la casa) congiunta a tagli dei servizi, non resterà che uscire dall’euro, magari “temporaneamente”». Secondo Della Luna, la situazione porterebvbe finalmente l’opinione pubblica a «percepire il costo del restare nell’euro», facendo scattare la voglia di fuga. L’elettorato potrebbe manifestarla «in modo tanto energico che Mattarella non ripeta ciò che il suo predecessore fece nel 2011». In altre parole, «si tratta di far sì che il popolo tema molto più la permanenza nell’euro, che l’uscita da esso». Psicologia: «E’ provato che il timore di una perdita di 100 ha una forza motivazionale molto più potente della prospettiva di un guadagno di 100. Oggi la maggioranza del popolo, pur non valutando positivamente l’euro e la stessa Unione Europea, non vuole uscirne per il timore di una perdita economica: sceglie il male minore». La politica economica del governo “legastellato”, «con la sua apparente goffaggine», può invertire i rapporti e «far sì che l’uscita diventi o appaia al popolo come il male minore, creando così le condizioni di consenso popolare per l’uscita».Vuoi vedere che Salvini e Di Maio alla fine riusciranno a liberare l’Italia dall’euro-schiavitù? In che modo, lo spiega Marco Della Luna: la fuga da Bruxelles potrebbe rivelarsi obbligatoria, per evitare la super-stangata in arrivo. Lega e 5 Stelle? Prima hanno fatto promesse “impossibili”, poi si sono rassegnati a una parodia del “cambiamento”. Eppure, anche solo le briciole portate a casa – deficit al 2%, mini-reddito di cittadinanza, quota 100 – ci costeranno così care, restando nell’Eurosistema, da far capire a tutti, a quel punto, che per mettersi in salvo (evitando la catastrofe di una patrimoniale) non resterà che sfilarsi dal club dell’euro-rigore. «Salvini e Di Maio hanno impiccato se stessi, e insieme a sé tutta l’Italia, a promesse elettorali demagogiche, incompatibili con la condizione del paese», premette Della Luna, autore di saggi come “Euroschiavi” e “Cimiteuro”. Reddito di cittadinanza, decreto dignità, quota 100 e Flat Tax sono «misure fattibili solo in uno Stato poco indebitato e in crescita economica, oppure padrone della propria moneta, come Usa e Giappone». Da quelle promesse «i due non possono smarcarsi prima delle elezioni europee, nonostante che emerga sempre più la loro insostenibilità». E dato che l’Italia è fortemente indebitata ed economicamente bolsa, e in più «deve farsi finanziare da investitori esterni in una moneta che non controlla», il governo gialloverde «ha dovuto rinviare o ridurre di molto le promesse iniziali».
-
Federico Caffè fu fatto sparire dai killer di Palme e Sankara
Non abbiate paura, il Deep State non è più un monolite oscuro: tra le sue fila oggi ci sono anche i “buoni”, che vigilano sui politici coraggiosi. Tesi firmata da Gioele Magaldi, frontman italiano della massoneria progressista sovranazionale e autore del saggio “Massoni”, che nel 2014 ha svelato il vero volto – supermassonico – dell’oligarchia reazionaria che da decenni regge le sorti del pianeta. In vena di rivelazioni, Magaldi oggi si spinge oltre. Il caso Julian Assange? Aspettate e vedrete: non tutti i mali vengono per nuocere. Può darsi che il suo ruvido arresto non preluda a chissà quale punzione: niente di più facile che si ritorca contro i personaggi messi in imbarazzo proprio dal fondatore di Wikileaks (come Hillary Clinton, accusata di aver truccato le primarie democratiche Usa, che in realtà sarebbero state vinte dall’outsider Bernie Sanders). E non è tutto: il 3 maggio, a Milano, sono in arrivo rivelazioni potenzialmente esplosive sul mistero del professor Federico Caffè, insigne economista keynesiano scomparso da Roma il 15 aprile 1987. Dietro, anticipa Magaldi, c’è la stessa mano che un anno prima aveva assassinato il premier svedese Olof Palme, e che di lì a poco avrebbe ucciso Thomas Sankara, leader rivoluzionario del Burkina Faso. Tre personaggi scomodi, che ostacolavano il dominio globale neoliberista. Oggi però – altra notizia – non sarebbe più possibile eliminarli: «Fare il gioco sporco, ai nemici della democrazia, non conviene più: sanno perfettamente che in quello stesso Deep State ci sono anche elementi progressisti».Unico indizio a disposizione, per ora: la sicurezza italiana. Tra il 2015 e il 2016, dopo la strage nella redazione parigina di Charlie Hebdo, l’intera Europa sembrava sul punto di trasformarsi in un mattatoio. Eppure, Magaldi annunciò: vedrete che il nostro paese non subirà attentati. Motivo: l’antiterrorismo italiano è “pulito” e coopera strettamente con settori della Cia altrettanto leali. Il terrorismo targato Isis, aggiunse, può colpire solo in paesi dove i servizi segreti sono infiltrati dagli agenti della strategia della tensione: la Francia in primis, ma anche – come si è visto – il Belgio e la Spagna, il Regno Unito e la Germania. In altre parole: se i “cattivi” hanno orchestrato il terrore per affermare il loro potere (magari impaurendo Hollande per poi lanciare Macron), sul fronte opposto i “buoni” si sono accordati per unire le forze e proteggere almeno uno Stato europeo: non un paese a caso, naturalmente, ma l’Italia che di lì a poco sarebbe diventata gialloverde. Messaggio: non siete più onnipotenti, se c’è un pezzo di Europa che resta al riparo del vostro stragismo che spara nel mucchio, mietendo vittime tra i passanti. E sarà proprio l’Italia la prima pietra su cui costruire una nuova Europa, finalmente democratica.Missione compiuta? Solo a metà: gli ultimi anni in Italia sono trascorsi senza sangue, ma il governo Conte si è lasciato ugualmente spaventare da Bruxelles. Colpa del Deep State, ammette il deputato grillino Pino Cabras: al governo, dice, insieme ai 5 Stelle e alla Lega c’è anche un terzo incomodo, lo “Stato profondo” che ha potentissimi terminali anche al Quirinale, e lavora per sabotare il cambiamento. Nel bloccare la nomina di Paolo Savona al ministero dell’economia, Sergio Mattarella spiegò che “i mercati” (veri padroni della situazione, quindi, a prescindere dalle elezioni) non l’avrebbero gradito, quel ministro. Con Savona all’economia, non avrebbero esitanto a mettere nei guai l’Italia con il ricatto dello spread. Dal convegno londinese sul New Deal Europeo, organizzato dal Movimento Roosevelt, Cabras ha rincarato la dose: lo “Stato profondo” è insediato ovunque, anche nei ministeri oltre che al Colle, e sta frenando qualsiasi cambio di paradigma: «Lega e 5 Stelle sono divisi su tutto, tranne che su un punto: resistere al Deep State, nel tentativo di dare più soldi agli italiani». Magaldi apprezza il coraggio di Cabras, la cui denuncia – clamorosa – è passata sotto silenzio, letteralmente ignorata dai media. «Il Deep State, però, non può diventare un alibi: perché il governo gialloverde non ci ha nemmeno provato, a rompere le regole Ue con un bel 10% di deficit. Si è limitato a quel misero e inutile 2%, prendendo schiaffoni a Bruxelles e tornando a Roma con la coda tra le gambe».Poteva andare diversamente? «Doveva», dice Magaldi. Che spiega: tutto sta cambiando, ai piani alti. «E già oggi, i politici intenzionati a lavorare per il benessere della collettività non hanno più motivo di avere paura di essere soli, di fronte a chi vorrebbe delegittimarli con la diffamazione o addirittura ucciderli, come nel caso di Palme e Sankara, o magari farli sparire, come accadde a Federico Caffè». Ed ecco la rivelazione, che Magaldi anticipa il 15 aprile a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming settimanale del lunedì, su YouTube: al convegno milanese del 3 maggio (“Nel segno di Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara, contro la crisi globale della democrazia”) sarà lo stesso Magaldi a fornire dettagli inediti sui mandanti della sparizione di Caffè. Altre notizie clamorose saranno fornite dall’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt e già allievo di Federico Caffè. Il professore era il più importante economista keynesiano: formò personaggi come Mario Draghi e Marcello De Cecco, Bruno Amoroso e Ignazio Visco (Bankitalia), Franco Archibugi e Giorgio Ruffolo. E poi Luigi Spaventa, Enrico Giovannini, Ezio Tarantelli (assassinato dalle Br) e lo stesso Alberto Bagnai, ora senatore leghista.Persino Wikipedia scrive che Federico Caffè fu uno dei principali diffusori della dottrina keynesiana in Italia, occupandosi tanto di politiche macroeconomiche che di “economia del benessere”: «Al centro delle sue riflessioni economiche ci fu sempre la necessità di assicurare elevati livelli di occupazione e di protezione sociale, soprattutto per i ceti più deboli». In altre parole, era il “cervello” dell’economia democratico-progressista: piena occupazione e welfare, cioè l’esatto contrario della politica del rigore che avrebbe preso il sopravvento, diventando un dogma – lo strapotere dei “mercati” – cui sembra piegarsi anche il Quirinale. La sua improvvisa scomparsa è un mistero rimasto irrisolto? Ufficialmente sì, ma non per Magaldi: secondo il presidente del Movimento Roosevelt, il convegno di Milano strapperà finalmente il velo sul caso Caffè. «C’è un filo rosso – avverte – che lega la sua sparizione agli omicidi di Olof Palme e Thomas Sankara». Palme, carismatico leader socialdemocratico svedese, era il faro del socialismo europeo: aveva varato il miglior welfare del continente e stava per essere eletto segretario generale dell’Onu. Una carica che gli avrebbe consentito di vegliare anche sull’Europa, scongiurando l’avvento del feroce ordoliberismo mercantilista che, da Maastricht in poi, ha rimesso in sella l’élite impoverendo il 99% della popolazione.Quanto a Sankara, parla per lui l’esodo dei migranti che sbarcano in Italia partendo dall’Africa Subsahariana affamata dal neocolonialismo: tre mesi prima di essere assassinato, il giovane leader del Burkina Faso aveva chiesto la cancellazione del debito estero e la fine degli aiuti finanziari all’Africa, vere e proprie catene post-coloniali. Il sogno del socialista Sankara? Un’Africa libera e sovrana, padrona a casa propria, capace di crescere basandosi sulle sue forze. «C’è un nesso che collega l’omicidio di Sankara e quello di Palme alla sparizione di Federico Caffè», insiste Magaldi, preparandosi a fornire dettagli inediti su quegli eventi che, nella seconda metà degli anni ‘80, hanno contribuito a plasmare lo sconfortante scenario di oggi. Un nome esemplare? Mario Draghi: il super-banchiere della Bce «non ha seguito il suo maestro, Federico Caffè, e oggi è nel gotha dei burattinai, degli artefici della involuzione post-democratica dell’Europa e del mantenimento del paradigma ideologico neoliberista in Europa e nel mondo». Paradigma spietato, per il quale ha duramente lavorato il Deep State massonico reazionario di cui lo stesso Draghi, secondo Magaldi, è un autorevolissimo esponente.Si può credere, a Magaldi? Qualcuno, di fronte al saggio “Massoni” (bestseller italiano, ignorato dai media mainstream) si è ritratto, rifugiandosi dietro l’assenza di prove documentali. Falso problema, assicura l’autore, che in premessa avverte: «Chiunque si senta diffamato me lo segnali, ed esibirò le carte che lo riguardano: dispongo di 6.000 pagine di documenti, troppo ingombranti per essere inseriti in un volume». Corollario: nessuno dei tantissimi big menzionati – Napolitano e Monti, lo stesso Draghi – si è azzardato a smentire alcunché. Meglio la consegna del silenzio. Ma il meccanismo innescato da quel libro sembra inesorabile: operazione trasparenza. Nel 2015, Magaldi ha fondato il Movimento Roosevelt. A fine marzo, ha promosso a Londra un confronto strategico tra economisti e politologi per mettere a fuoco un possibile New Deal europeo, basato sul recupero di Keynes (spesa pubblica strategica) per abbattere l’ideologia dell’austerity e restituire benessere alla popolazione. E ora è in arrivo l’assise milanese su Rosselli, Palme e Sankara, con anche le inedite news sulla sorte di Federico Caffè. «Questo incontro serve a dire: viviamo da decenni sotto la cappa di un’ideologia imperante e pervasiva, egemonizzante – il neoliberismo – che noi adesso rifiutiamo radicalmente».Il Movimento Roosevelt, continua Magaldi, si ispira alla lezione di Rosselli, Palme e Sankara: «Il nostro è un laboratorio politico che ha iniziato il suo percorso rivoluzionario a Londra, e a Milano affronta la sua seconda tappa». Teoria e pratica del Piano-B: «La nostra è un’ideologia social-liberale, opposta al neoliberismo: vogliamo proporla in Europa e nel mondo, ridando fiato a una corrente di pensiero che è stata rimossa, nei vari centrosinistra e centrodestra di tutto l’Occidente, a favore di una pervasività dogmatica del neoliberismo». Non si scherzava, ai tempi di Rosselli, ucciso su mandato del regime fascista di Mussolini. Ma c’era poco da ridere anche all’epoca di Palme, unico premier europeo assassinato mentre era in carica: freddato nella civilissima Svezia all’uscita di un cinema, nel cuore dell’Europa democratica. Il killer? Rimasto nell’ombra, ma fino a un certo punto: gli svedesi ricordano benissimo la strana morte del giallista Stieg Larsson, che al caso Palme si era interessato svolgendo indagini accurate, fino a consegnare alla polizia svariati documenti. La pista: servizi segreti, Deep State oscuro. Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, Gianfranco Carpeoro – dirigente del Movimento Roosevelt – ricorda che, alla vigilia dell’omicidio Palme, un certo Licio Gelli indirizzò al senatore statunitense Philip Guarino il seguente telegramma: “La palma svedese sta per cadere”.Se ti metti contro il Deep State, puoi rischiare la pelle: succede spesso, ed è capitato anche a Julian Assange. «Puoi essere fatto fuori con la diffamazione e la delegittimazione, con il fango che ti gettano addosso, oppure puoi essere eliminato». Assange? «Ha avuto coraggio», ammette Magaldi: «C’è dell’eroismo, nel suo agire». Per Magaldi, però, il destino del fondatore di Wikileaks non è segnato: «La questione è estremamente complessa», si limita per ora a dire l’autore di “Massoni”, lasciando capire che attorno al giornalista australiano si muovono forze diverse e opposte, e che l’estradizione richiesta da Trump potrebbe non trasformarsi in una feroce vendetta nei confronti di Assange. Il motivo? Sempre lo stesso: starebbe cambiando la natura del Deep State. O meglio, la sua composizione. «Oggi, se si ha il coraggio di svolgere il proprio mandato democratico – dichiara Magaldi – lo si può fare senza più il timore di essere eliminati, perché nel Deep State c’è stata, è in corso e si sta irrobustendo di mese in mese una riorganizzazione dei circuiti massonici progressisti, i quali non consentiranno – come è stato in passato – che nessun sincero politico democratico venga assassinato o eliminato in modo improprio».Beninteso: il nemico è ancora molto potente. Uomini che hanno conquistato i posti chiave della finanza, dell’economia, degli Stati. Magaldi li definisce «gli alfieri della massoneria neoaristocratica, i costruttori dell’ideologia neoliberista: quelli che tuttora gestiscono una globalizzazione di merci e capitali che non è fatta anche di diritti, di democrazia e di giustizia sociale». Ma aggiunge: «Credetemi, oggi a quei signori non conviene giocare sporco, nel momento in cui nella questione sono coinvolti anche i massoni democratico-progressisti che hanno la stessa consuetudine con il Deep State. Non gli conviene, è un problema di calcolo». E insiste: «Se c’è qualcuno che vuole agire a beneficio del popolo non abbia paura, non si lasci fermare da minacce o blandizie. Vada avanti per la sua strada, perché c’è chi è in grado, con la sua sola presenza, di frapporsi alle indebite interferenze da parte di rappresentanti del Deep State che vogliono sovvertire le regole del gioco democratico, piegandole a interessi opachi di natura privata». Per questo, aggiunge Magaldi, non hanno più scuse tutti quei politici «divenuti maggiordomi e camerieri, senza più quella forza di elaborazione politica che a molti, nel Novecento, è costata la vita».Oggi, assicura Magaldi, i politici che volessero davvero «difendere il senso e la dignità del proprio mandato, operando al servizio della collettività», possono evitare di farsi intimidire o corrompere per eseguire gli ordini dei soliti burattinai: «Li invito a cercare proprio nell’ambito del Deep State quei circuiti progressisti che sono impegnati per la difesa della democrazia, e che quindi potranno garantire che il Deep State oscuro non interferisca più con lo svolgimento di una normale dialettica democratica». Magaldi è stato affiliato alla Thomas Paine, la più progressista delle 36 Ur-Lodges che gestiscono il back-office del potere mondiale. Il suo Grande Oriente Democratico, movimento massonico d’opinione, è collegato alle superlogge progressiste. E’ in corso una sorta di guerra inframassonica: dopo decenni di letargo, la componente democratica si starebbe risvegliando. Le prove del contrattacco in corso? Tanto per cominciare, la sicurezza di cui ha goduto l’Italia durante l’ultima stagione dell’infame auto-terrorismo europeo, targato Isis ma gestito da settori inquinati dell’intelligence. E ora, dice Magaldi, i cavalieri oscuri del peggior Deep State si preparino: il convegno di Milano svelerà dettagli clamorosi anche sulla misteriosa scomparsa di Federico Caffè.Non abbiate paura, il Deep State non è più un monolite oscuro: tra le sue fila oggi ci sono anche i “buoni”, che vigilano sui politici coraggiosi. Tesi firmata da Gioele Magaldi, frontman italiano della massoneria progressista sovranazionale e autore del saggio “Massoni”, che nel 2014 ha svelato il vero volto – supermassonico – dell’oligarchia reazionaria che da decenni regge le sorti del pianeta. In vena di rivelazioni, Magaldi oggi si spinge oltre. Il caso Julian Assange? Aspettate e vedrete: non tutti i mali vengono per nuocere. Può darsi che il suo ruvido arresto non preluda a chissà quale punizione: niente di più facile che si ritorca contro i personaggi messi in imbarazzo proprio dal fondatore di Wikileaks (come Hillary Clinton, accusata di aver truccato le primarie democratiche Usa, che in realtà sarebbero state vinte dall’outsider Bernie Sanders). E non è tutto: il 3 maggio, a Milano, sono in arrivo rivelazioni potenzialmente esplosive sul mistero del professor Federico Caffè, insigne economista keynesiano scomparso da Roma il 15 aprile 1987. Dietro, anticipa Magaldi, c’è la stessa mano che un anno prima aveva assassinato il premier svedese Olof Palme, e che di lì a poco avrebbe ucciso Thomas Sankara, leader rivoluzionario del Burkina Faso. Tre personaggi scomodi, che ostacolavano il dominio globale neoliberista. Oggi però – altra notizia – non sarebbe più possibile eliminarli: «Fare il gioco sporco, ai nemici della democrazia, non conviene più: sanno perfettamente che in quello stesso Deep State ci sono anche elementi progressisti».
-
Galloni, euro-suicidio 2020. Paracadute: moneta parallela
Se tutto resta com’è, in Europa, entro il 2020 l’insostenibilità sociale diverrà assoluta, con esiti imprevedibili. Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, in un’analisi su “Scenari Economici” nella quale fotografa i possibili sviluppi: potremmo assistere a un accordo tra Stati per metter fine alla disastrosa Eurozona prima che la moneta unica imploda, oppure è possibile che sia proprio il maggior paese europeo, la Germania, a salutare la compagnia. Alternative? Una: attrezzarsi con moneta statale parallela per aggirare le forche caudine della finanza “privatizzata” che ricatta il sistema pubblico. Fuori discussione, in ogni caso, l’aggravarsi della crisi generale se perdurasse la situazione attuale. In caso di “invarianza”, dice Galloni, faremmo i conti – sempre di più – con l’insostenibile architettura dell’euro, introdotto per un modello economico orientato alla ricerca di competitività, con un obiettivo preciso: deflazione salariale e compressione della domanda interna, e quindi disoccupazione e precarizzazione del lavoro, pagato sempre meno. «Se si fosse voluta una maggiore competitività dei mercati – osserva Galloni – si sarebbe dovuto partire dalla convergenza tributaria, non dalla moneta unica».Siamo ai fondamentali della macroeconomia: se si punta tutto sull’export «anche a costo di sacrificare i salari e l’occupazione, vale a dire la domanda interna», non si può fingere di non sapere che «le esportazioni di un paese sono le importazioni di un altro». Quindi il modello scelto «presuppone l’esistenza di uno squilibrio, nella bilancia commerciale, che spinge sia all’aumento della remunerazione del capitale finanziario (per attirare capitali dall’estero, onde riallineare la bilancia dei pagamenti), sia a perseverare nella deflazione salariale e occupazionale». In questo modo, scrive Galloni, si ottiene un duplice effetto negativo sui conti pubblici, «dovuto all’aumento dei tassi di interesse sul debito pubblico e all’esigenza di aggravare la pressione fiscale sui ceti meno abbienti e più numerosi, già provati dalla deflazione». La società, dunque, «si divide tra una maggioranza che si impoverisce sempre più per effetto della deflazione, dell’aumento del carico tributario e del peggioramento dei servizi pubblici, e una minoranza che può scaricare sulla clientela i maggiori oneri, compresi gli stessi incrementi di tasse». Non deve stupire, quindi, se questa maggioranza cerchi di esprimere il proprio disagio nei vari modi possibili: dalle elezioni alle proteste di piazza, fino alla prospettiva della disobbedienza civile.Dentro l’attuale cornice dell’euro e dell’Unione Europea, ribadisce Galloni, lo scenario sociale «può esser definito solo come insostenibile in maniera assoluta». Sul fronte finanziario, benché i dati disponibili siano più che allarmanti, «il sistema internazionale appare ancora in grado di resistere». Motivo? «Non hanno limiti, le risorse monetarie producibili dalle banche centrali per gestire le incredibili tossicità debitorie create dai grandissimi intermediari: è sempre possibile “collateralizzare” un titolo, magari allungandone la scadenza, se la banca centrale lo accetta a garanzia in cambio di moneta a corso legale e a “costo zero”». L’attuale capitalismo ultra-finanziario ha superato la scarsità dei mezzi di pagamento, e la sua sostenibilità (relativa) si basa sul fatto che «l’immensa liquidità non arriva all’economia reale». Infatti, precisa Galloni, il credito bancario verso le aziende è bloccato dalle regole vigenti. Lo stesso credito, virtualmente illimitato, resta però ampiamente disponibile per le operazioni speculative, e così la giostra continua. Potrà essere fermata solo «da un cambiamento delle regole imposto dalla politica», e dall’atteggiamento delle banche centrali: nella seconda metà del 2019 la Bce dovrebbe allinearsi alla condotta più restrittiva della Fed (a meno che Trump non le faccia cambiare indirizzo, e sempre che la Germania confermi di voler chiudere i rubinetti della Bce, quando ne sarà alla guida).Nel frattempo, aggiunge Galloni, l’acuta insostenibilità sociale dell’Eurozona «sarà confermata dai necessarissimi – ma mancati – superamenti del paradigma capitalistico e di quello della scarsità». Nei comparti produttivi ad elevata redditività, infatti, la domanda di lavoro è decrescente: sempre meno addetti garantiranno i beni materiali e i servizi ad alto valore aggiunto di cui abbiamo bisogno. L’aumento dei profitti sarà consistente, ma inferiore all’effetto di riduzione del Pil dovuto al calo occupazionale, dove le retribuzioni possono essere più elevate, e sarà anche inferiore alla necessità di investimenti tecnologici. «La soluzione, almeno parziale, sarebbe la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, ma gli stessi percettori di profitti vi si oppongono perché ne percepiscono solo l’effetto reditributivo a loro avverso». In più «non ne percepiscono neanche l’effetto di insostenibilità sull’economia complessiva, sicché si può considerare storicamente esaurita la spinta sociale del capitalismo stesso».Morale: crescono solo i profitti, non l’occupazione e nemmeno il Pil. E resta scarsamente conveniente investire in tecnolgia, perché l’industria è meno redditizia della speculazione finanziaria. «Ciò vuol dire che, presto, lo Stato dovrà riprendere a fare investimenti non solo “strategici”, ma anche industriali». Invece, nei comparti dove l’occupazione deve crescere (servizi di cura delle persone, dell’ambiente, del patrimonio esistente) il paradigma capitalistico «non può essere applicato, perché il fatturato – che dipende dal reddito disponibile dei cittadini – è inferiore al costo (il lavoro necessario, appunto)». Che fare, dunque? Possibile che i membri dell’Ue si mettano d’accordo per riformare le regole, ovvero abbandonare – finalmente – il catastrofico euro? «Scenario molto teorico, visti gli interessi di chi ha continuato a prosperare alle spalle degli altri consociati». Unica speranza: la politica potrebbe «raggiungere la consapevolezza di un modello economico sostenibile, vale a dire caratterizzato dal comune obiettivo di sostituire importazioni», ovvero: favorire le economie locali, «restituendo alla crescita della domanda interna il suo fondamentale ruolo di traino». Le elezioni europee di fine maggio 2019 ci diranno qualcosa, in proposito. Ma per ora, ammette Galloni, questo scenario appare decisamente il più improbabile.Più realistico invece il terzo scenario: l’esplosione-implosione dell’euro-sistema. Una calamità, se l’evento fosse accidentale, per la quale – come già ipotizzato da Paolo Savona – sarebbe fondamentale «essersi dotati tempestivamente di un “Piano B” in grado di realizzare, in tempi e modi accettabili, un ritorno improvviso alla valuta nazionale». E se invece – quarto scenario – fosse un grande paese europeo a lasciare l’Eurozona? «Premesso che l’abbandono di Italia, Francia o Germania porterebbe quasi sicuramente al crollo dell’euro», scrive Galloni, se c’è uno Stato che potrebbe essere tentato dalla “fuga” è proprio la Germania: Berlino infatti «ha già capitalizzato tutti i vantaggi della situazione». E adesso «avrebbe più ragioni di guardare verso la Russia, soprattutto se l’Unione Europea dovesse continuare a manifestare una scarsa indipendenza internazionale dagli Usa». Ma gli Stati Uniti lo vorrebbero davvero, uno sfaldamento dell’Ue? O piuttosto, si domanda Galloni, temono un allargamento dell’Europa – ma non certo di questa Ue – alla Federazione Russa?Resta, in compenso, una soluzione alternativa: quella della moneta parallela. «Un qualsiasi tipo di abbandono dell’euro – ragiona Galloni – non porrebbe più problemi di quanti ne risolverebbe». Eppure, nell’opinione pubblica «prevale il disagio», di fronte all’ipotesi del ritorno alla valuta nazionale. «Vi sono, invece, molte buone ragioni per proporre una soluzione più pratica e di facile applicazione: vale a dire l’introduzione di una valuta parallela statale, a sola circolazione nazionale, non convertibile ma a corso legale, con cui sarebbe possile, soprattutto, pagare le tasse». La moneta parallela non è contemplata (e quindi, nemmeno proibita) dal Trattato di Lisbona – dove si parla, appunto, di banconote e non di “statonote”. «La competenza sottratta alle banche nazionali per essere attribuita alla Bce, infatti, riguarda la sola “moneta a debito”, non la sovranità monetaria dello Stato, che può essere o non essere esercitata per sola volontà amministrativo-politica interna».Il vantaggio di una simile soluzione? Presto detto: un’immissione di mezzi di pagamento “alternativi” per una quota non superiore al 3% del Pil basterebbe a finanziare spese pubbliche necessarie (come le assunzioni nella pubblica amministrazione) senza aggravare disavanzi o debito. Sarebbero risorse a costo zero: «Avrebbero lo stesso segno algebrico delle tasse e si sommerebbero ad esse, controbilanciando il livello della spesa». Riassumendo: l’intera impalcatura dell’Unione risulta in crisi. Le tensioni tra Italia e Francia (dall’affaire Gheddafi ai Gilet Gialli) sono persino più gravi degli eccessi del capitalismo ultrafinanziario internazionale, considerate le “luci” dei paesi emergenti come Cina e India. Quello che manca è la convergenza su un “programma minimo”. Cioè: meglio rinunciare alle parole d’ordine più nette, «giuste ma divisive» (“fuori dall’Unione, fuori dall’euro”). Secondo Galloni, conviene innanzitutto trovare un primo e fondamentale elemento di coagulo. Il paradigma capitalistico della scarsità è già in crisi. E può essere superato proprio «attraverso l’introduzione di una valuta parallela», capace di finanziare investienti e occupazione, ma «senza creare ulteriore debito».Se tutto resta com’è, in Europa, entro il 2020 l’insostenibilità sociale diverrà assoluta, con esiti imprevedibili. Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, in un’analisi su “Scenari Economici” nella quale fotografa i possibili sviluppi: potremmo assistere a un accordo tra Stati per metter fine alla disastrosa Eurozona prima che la moneta unica imploda, oppure è possibile che sia proprio il maggior paese europeo, la Germania, a salutare la compagnia. Alternative? Una: attrezzarsi con moneta statale parallela per aggirare le forche caudine della finanza “privatizzata” che ricatta il sistema pubblico. Fuori discussione, in ogni caso, l’aggravarsi della crisi generale se perdurasse la situazione attuale. In caso di “invarianza”, dice Galloni, faremmo i conti – sempre di più – con l’insostenibile architettura dell’euro, introdotto per un modello economico orientato alla ricerca di competitività, con un obiettivo preciso: deflazione salariale e compressione della domanda interna, e quindi disoccupazione e precarizzazione del lavoro, pagato sempre meno. «Se si fosse voluta una maggiore competitività dei mercati – osserva Galloni – si sarebbe dovuto partire dalla convergenza tributaria, non dalla moneta unica».
-
Galloni: agenzia di rating italiana, e salta il ricatto-spread
Il ministro Giovanni Tria bene ha fatto a tirare dritto, nonostante le critiche sul Def di Europa, Bankitalia e Fmi. Anche perché, se il governo abbassasse il tiro, si indebolirebbe da ogni punto di vista. A Roma diciamo: chi si fa pecora, il lupo se la magna. Bisogna partire dal principio. Questo governo nasce, anche per merito del presidente della Repubblica, con un compromesso: non si può continuare con le vecchie politiche economiche, ma non si può arrivare all’uscita dall’euro. Questo è il solco: si resta in Europa e nell’euro, ma considerando quella che è la situazione italiana. Noi abbiamo enormi ricchezze non valorizzate: archeologiche, artistiche, lavorative, tecnologiche. E di contro, abbiamo 10 milioni di poveri assoluti, 20 milioni di poveri relativi, 4 milioni di imprese alla canna del gas, 3 milioni di disoccupati ufficiali. Bruxelles ci chiede di continuare con le politiche che hanno creato questa situazione. Noi cosa dovremmo fare? In queste condizioni non è che si può stare a pensare agli zero virgola. Se Bruxelles si scatena perché finora l’Italia non aveva mai alzato la testa, è un problema di Bruxelles.L’Italia fa bene a tirar dritto e a continuare sul solco di quel compromesso di cui dicevamo. Anche se, paradossalmente, con più coraggio, con una manovra ancora più espansiva, si avrebbe un effetto sul Pil più marcato e quindi un’effettiva riduzione del debito. Avremmo anche una movimentazione pesante di centinaia di migliaia di posizioni lavorative aggiuntive. Ma per fare questo bisogna risolvere due questioni. Oltre all’Europa c’è il prolema dei mercati. Bisogna fare in modo che le nostre banche non siano spiazzate da un cattivo rating. Il vero problema non è lo spread, ma il rating. Se ci abbassassero ancora di rating, potrebbe accadere che le stesse banche non abbiano alcun interesse a mantenere titoli italiani o non lo possano addirittura fare. Una soluzione? Dobbiamo immediatamente attrezzarci con un’agenzia di rating nostra e con un accordo con le grandi banche. Se non si fanno queste due cose è come voler andare ad affrontare i carri armati a mani nude o con le fionde. Ci vogliono invece i bazooka. Il governo deve immediatamente pensare a predisporre delle difese preventive affinché lo spread non influisca troppo sui tassi d’interesse delle nuove emissioni.Dunque, un’agenzia di rating italiana. Poi, se ci accordiamo con altri grandi paesi è ancora meglio. L’importante sono i criteri: questa agenzia dev’essere fatta da professionisti seri, non quelli che fanno parte delle agenzie statunitensi, che consigliavano ai loro clienti dieci minuti prima del crollo dei titoli di acquistarli, come capitato con Lehman Brothers. Servono professionisti bravi che spieghino in base a cosa danno il rating. Da quando esiste la macroeconomia, il rating di un paese dipende dalle sue capacità di esportare e di sostituire importazioni. In pratica, dipende dalla capacità di avere una bilancia commerciale sostenibile. Siccome l’Italia da questo punto di vista sta andando bene, stiamo esportando: siamo la terza potenza mondiale, in quanto a diversificazione merceologica dell’export. E inoltre stiamo sostituendo moltissime importazioni. Non vedo perché dobbiamo avere dei fondamentali negativi. Dovremmo avere anche noi le tre “A”.(Nino Galloni, dichiarazioni rilasciate a Carmine Gazzanni per l’intervista “Un’agenzia italiana di rating per far saltare il ricatto dello spread. L’Italia tiri dritto, basta pensare allo zero virgola”, pubblicata da “La Notizia” l’11 ottobre 2018. Insigne economista post-keynesiano e presidente del Centro Studi Monetari, Galloni è vicepresidente del Movimento Roosevelt).Il ministro Giovanni Tria bene ha fatto a tirare dritto, nonostante le critiche sul Def di Europa, Bankitalia e Fmi. Anche perché, se il governo abbassasse il tiro, si indebolirebbe da ogni punto di vista. A Roma diciamo: chi si fa pecora, il lupo se la magna. Bisogna partire dal principio. Questo governo nasce, anche per merito del presidente della Repubblica, con un compromesso: non si può continuare con le vecchie politiche economiche, ma non si può arrivare all’uscita dall’euro. Questo è il solco: si resta in Europa e nell’euro, ma considerando quella che è la situazione italiana. Noi abbiamo enormi ricchezze non valorizzate: archeologiche, artistiche, lavorative, tecnologiche. E di contro, abbiamo 10 milioni di poveri assoluti, 20 milioni di poveri relativi, 4 milioni di imprese alla canna del gas, 3 milioni di disoccupati ufficiali. Bruxelles ci chiede di continuare con le politiche che hanno creato questa situazione. Noi cosa dovremmo fare? In queste condizioni non è che si può stare a pensare agli zero virgola. Se Bruxelles si scatena perché finora l’Italia non aveva mai alzato la testa, è un problema di Bruxelles.
-
Magaldi: cade il governo? Tanto meglio per Lega e 5 Stelle
Cade il governo Conte, in autunno? Non reggerà alla prova del fuoco rappresentata dal bilancio 2019 da sottoporre a Bruxelles? Tanto meglio: Lega e 5 Stelle farebbero il pieno di voti, nel caso di elezioni anticipate. Facile profezia: l’eventuale nuovo esecutivo avrebbe un programma meno timido e sarebbe pronto a rompere in modo ancora più netto con l’attuale governance europea, fondata sulla grande menzogna del rigore ammazza-Stati spacciato per amara medicina. Gioele Magaldi non ha dubbi: se l’esecutivo gialloverde dovesse davvero cadere, l’establishment politico-mediatico violentemente ostile a leghisti e pentastellati avrà ben poco di cui rallegrarsi, perché gli elettori premieranno Salvini e Di Maio con un autentico plebiscito, come ben si è visto dagli applausi dei genovesi scrosciati all’arrivo dei due vicepremier ai funerali delle vittime del viadotto Morandi. Tutto si tiene, nei drammi estivi che hanno scosso l’Italia: la responsabilità politica del disastro di Genova ricade sulla stessa élite che ha privatizzato la penisola, regalandola agli “amici degli amici”, salvo poi imporre a un paese impoverito di accogliere senza fiatare i migranti (quasi un milione, negli ultimi tre anni) che l’Europa vorrebbe che restassero interamente a carico nostro.«Ecco perché applaudo Salvini: per una volta, il ministro dell’interno ha “tenuto il punto”, rinunciando a piegarsi ai diktat dell’oligarchia europea», dice Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. Troppo comodo – e ipocrita – il moralismo di chi accusa il leader della Lega di mancanza di umanità, specie se l’attacco proviene dal potere neoliberista che ha razziato l’Africa e imposto, ai lavoratori italiani, il “dumping” salariale dei neo-schiavi, costretti a fare concorrenza sleale alla nostra forza lavoro, accettando condizioni disumane di sfruttamento. Dov’era, il centrosinistra che oggi si scaglia con inaudita violenza contro Salvini, quando si trattava di gestire l’economia in modo equo, evitando di far sprofondare il paese nella crisi più nera? Bersani “impiccava” lo Stato al nodo scorsoio del pareggio di bilancio, insieme al cappio della legge Fornero sulle pensioni, prima ancora che Renzi facesse piazza pulita – con il Jobs Act – degli ultimi diritti sindacali. Ed ecco oggi la “guerra tra poveri”, che oppone lavoratori italiani e stranieri, vittime – tutti – della stessa catastrofe macroeconomica: lo Stato in bolletta, impossibilitato a investire denaro per produrre lavoro grazie a una gestione privatistica dell’euro, senza neppure il paracadute degli eurobond a garantire il necessario debito pubblico.Nel lucido ragionamento di Magaldi, la tragedia di Genova e la rissa mediatica sui naufraghi a bordo della nave Diciotti («con le accuse surreali rivolte a Salvini dalla magistratura») sono due facce, drammatiche, della stessa medaglia: da una parte la vecchia élite che ha prodotto solo macerie (infrastrutturali e sociali) e dall’altra il primo governo “sovranista”, da 25 anni a questa parte, che cerca di rimediare allo sfacelo. «Per fortuna – insiste Magaldi – Salvini ha inaugurato la linea necessaria, quella della fermezza: che non ha certo per bersaglio i migranti, ma l’ipocrisia con cui Bruxelles vorrebbe continuare a non-gestire un fenomeno vergognoso come l’esodo da paesi africani letteralmente depredati dell’élite europea». Azione necessaria, quella del governo Conte, ma non sufficiente: «Sarà meglio che, anche sui provvedimenti econonici, Salvini e Di Maio comincino a passare dalle parole ai fatti, cercando di attuare quello che hanno promesso agli italiani. Nel caso non ce la dovessero fare, però – aggiunge Magaldi – non sarebbe affatto un male». Già, perché dopo eventuali elezioni anticipate, aggiunge, la coalizione “gialloverde”, ormai strategicamente coesa, farebbe l’en plein e ripartirebbe con maggiore slancio, per abbattere il Muro di Bruxelles fondato sulla “teologia” dell’austerity.Keynesiano e progressista, Magaldi non ha dubbi: tutta l’Europa è in crisi, perché negli ultimi decenni il continente è caduto, letteralmente, nelle mani di una ristretta cerchia di oligarchi. Hanno contrabbandato per virtù l’ideologia del rigore di bilancio, con trattati-capestro che hanno amputato gli Stati del potere sovrano di investire nell’economia. Risultato: classe media in via di estinzione, popoli impoveriti, democrazie svuotate ed élite divenute improvvisamente miliardarie, padrone di tutto ciò che prima era pubblico – acqua, energia, trasporti, telefonia e Poste, persino le autostrade. Nel bestseller “Massoni”, Magaldi ha fornito nomi e cognomi della cabina di regia – supermassonica – che ha pilotato questa globalizzazione selvaggia e senza diritti, a beneficio esclusivo delle multinazionali finanziarie. Il complottismo degli ultimi anni punta il dito contro le malefatte della Trilaterale? «Ma quella è solo una emanazione, peraltro piuttosto trasparente, della Ur-Lodge “Three Eyes”», a lungo ispirata da personaggi come Kissinger, Rockefeller e Brzezisnki.I blogger più esasperati, come Daniel Estulin, se la prendono con il Bilderberg e i suoi invitati, da Lilli Gruber al segretario di Stato vaticano Pietro Parolin? «Aprite gli occhi: le notizie che lo stesso Bilderberg lascia filtrare servono solo a produrre il gossip necessario a distogliere l’attenzione dai veri manovratori, i “fratelli controiniziati” delle Ur-Lodges reazionarie: personaggi che, certo, non finiscono sui giornali». Che fare, dunque? Esattamente quello che sta facendo il governo Conte, ribadisce Magaldi, fautore di un risveglio democratico europeo, di cui l’Italia “gialloverde” sembra destinata a fare da apripista. Una “profezia” che il presidente del Movimento Roosevelt (“metapartito” nato proprio per rianimare lo scenario politico italiano in senso progressista) aveva formulato in tempi non sospetti: vedrete, aveva annunciato, che alla fine sarà proprio questa scassatissima Italia a invertire il corso della storia, mettendo in campo forze politiche in grado di smascherare la grande impostura neoliberista che ha impoverito l’Europa spolpando Stati e popoli.Quelle a cui stiamo assistendo oggi, in fondo, sono le prove generali di una rivoluzione culturale: verrà il giorno in cui la parola “spread” perderà ogni significato, perché la finanza pubblica sarà tornata a garantire pienamente tutto il deficit necessario a rimettere in piedi il paese, cominciando dalla ricostruzione delle troppe infrastrutture fatiscenti, lasciate agonizzare da governi costretti a elemosinare “a strozzo” gli euro della Bce. «A proposito: spero che i familiari delle vittime di Genova non si rivalgano solo sugli eventuali responsabili della società autostradale, ma chiedano di essere risarciti anche dai governi precedenti, che hanno creato le premesse del disastro». In ogni caso, Magaldi è ottimista: «Che il governo Conte regga o meno alla prova d’autunno, è irrilevante: indietro non si torna. La destrutturazione politica della Seconda Repubblica è ormai nei fatti». Gli italiani sembrano aver capito che centrodestra e centrosinistra fingevano soltanto di essere alternativi. Nella realtà non hanno fatto altro che obbedire ai diktat dei grandi privatizzatori neoliberisti: quelli che oggi sparano su Salvini, temendo che l’Italia si stia davvero risvegliando.Cade il governo Conte, in autunno? Non reggerà alla prova del fuoco rappresentata dal bilancio 2019 da sottoporre a Bruxelles? Tanto meglio: Lega e 5 Stelle farebbero il pieno di voti, nel caso di elezioni anticipate. Facile profezia: l’eventuale nuovo esecutivo avrebbe un programma meno timido e sarebbe pronto a rompere in modo ancora più netto con l’attuale governance europea, fondata sulla grande menzogna del rigore ammazza-Stati spacciato per amara medicina. Gioele Magaldi non ha dubbi: se l’esecutivo gialloverde dovesse davvero cadere, l’establishment politico-mediatico violentemente ostile a leghisti e pentastellati avrà ben poco di cui rallegrarsi, perché gli elettori premieranno Salvini e Di Maio con un autentico plebiscito, come ben si è visto dagli applausi dei genovesi scrosciati all’arrivo dei due vicepremier ai funerali delle vittime del viadotto Morandi. Tutto si tiene, nei drammi estivi che hanno scosso l’Italia: la responsabilità politica del disastro di Genova ricade sulla stessa élite che ha privatizzato la penisola, regalandola agli “amici degli amici”, salvo poi imporre a un paese impoverito di accogliere senza fiatare i migranti (quasi un milione, negli ultimi tre anni) che l’Europa vorrebbe che restassero interamente a carico nostro.
-
Altro che Torino-Lione, c’è da salvare un’Italia a pezzi
Quando un viadotto autostradale si sbriciola in un secondo seppellendo morti e feriti, tutte le parole sono inutili. Ma quelle di chi incolpa la pioggia, il fulmine, il cedimento strutturale, la tragica fatalità imprevedibile, il destino più cinico e più baro della “costante manutenzione”, sono offensive. Se l’ennesima catastrofe da cemento disarmato si potesse prevedere, lo accerteranno i tecnici e i giudici. Ma che si potesse prevenire già lo sappiamo, visto che il ponte Morandi aveva due gemelli italiani, di cui uno già a pezzi e l’altro in manutenzione: per tenere sotto osservazione il terzo non occorreva uno scienziato, bastava il proverbio “non c’è il 2 senza il 3”. Se “il monitoraggio era costante”, allora faceva schifo. Se non c’erano “avvisaglie”, è perché non erano state rilevate. Ora, come dopo ogni terremoto o alluvione di media entità e di enorme tragicità, rieccoci a far la conta dei morti e dei danni, mentre le “autorità” giocano allo scaricabarile. E i palazzinari e i macroeconomisti si fregano le mani per gli affari e gli effetti sul Pil della ricostruzione.Se il “governo del cambiamento” vuole cambiare qualcosa, deve partire proprio di qui. Cioè da zero. Con scelte di drastica discontinuità col passato: rivedere le concessioni ai privati che lucrano sui continui aumenti delle tariffe in cambio di manutenzioni finte o deficitarie; e annullare le grandi opere inutili, dal Tav Torino-Lione in giù, per dirottare le enormi risorse (anche ridiscutendone la destinazione con l’Ue) su piccole e medie opere di manutenzione, prevenzione e ammodernamento delle infrastrutture esistenti (finora ignorate perché la grandezza dei lavori e delle spese è direttamente proporzionale a quella delle mazzette). Da quando i partiti che hanno sgovernato finora hanno perso le elezioni e il potere, non fanno che esortare i successori a non disperdere il grande patrimonio ereditato. Invece proprio questo un “governo del cambiamento” deve fare: buttare a mare la pseudocultura dello “sviluppo” gigantista e della “crescita” faraonica; e invertire la scala dei valori e delle priorità.Il crollo di ieri ci dice che un ponte pericolante, figlio di un sistema marcio e corrotto, fa più danni di tutti i terroristi islamici, i migranti clandestini, le epidemie di morbillo e le altre “emergenze” farlocche o gonfiate che occupano l’agenda industrial-politico-mediatica. Se vuole cambiare seriamente, il governo si occupi di cose serie con politiche serie. Confindustria, Confcommercio, Confquesta, Confquellaltra e i loro giornaloni si metteranno a strillare? Buon segno: è a furia di dar retta a lorsignori che siamo finiti tutti sotto quel ponte.(Marco Travaglio, estratto dall’editoriale “Sotto i ponti” pubblicato dal “Fatto Quotidiano” il 15 agosto 2018 e ripreso da “Il Bene Comune Newsletter”).Quando un viadotto autostradale si sbriciola in un secondo seppellendo morti e feriti, tutte le parole sono inutili. Ma quelle di chi incolpa la pioggia, il fulmine, il cedimento strutturale, la tragica fatalità imprevedibile, il destino più cinico e più baro della “costante manutenzione”, sono offensive. Se l’ennesima catastrofe da cemento disarmato si potesse prevedere, lo accerteranno i tecnici e i giudici. Ma che si potesse prevenire già lo sappiamo, visto che il ponte Morandi aveva due gemelli italiani, di cui uno già a pezzi e l’altro in manutenzione: per tenere sotto osservazione il terzo non occorreva uno scienziato, bastava il proverbio “non c’è il 2 senza il 3”. Se “il monitoraggio era costante”, allora faceva schifo. Se non c’erano “avvisaglie”, è perché non erano state rilevate. Ora, come dopo ogni terremoto o alluvione di media entità e di enorme tragicità, rieccoci a far la conta dei morti e dei danni, mentre le “autorità” giocano allo scaricabarile. E i palazzinari e i macroeconomisti si fregano le mani per gli affari e gli effetti sul Pil della ricostruzione.