Archivio del Tag ‘manifestazioni’
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Eurogendfor, la Gestapo europea non risponde ai giudici
I Paesi Bassi sono il luogo dove l’Italia ha cambiato la propria storia negli ultimi 25 anni, non solo legandosi al Trattato di Maastricht, con la cessione della sovranità monetaria e legislativa, ma per poter definitivamente abbandonare la veste di Stato sovrano era necessario rinunciare all’esclusività delle funzioni delle forze armate sul proprio territorio, con l’istituzione di una milizia sovranazionale. Questo passaggio è avvenuto nel 2007 a Velsen, piccola municipalità dei Paesi Bassi, dove è stato firmato un trattato congiuntamente a Francia, Spagna, Paesi Bassi e Portogallo che istituisce la gendarmeria europea, l’Eurogendfor, che andrà ad esautorare le forze dell’ordine nella gestione dell’ordine pubblico. Uno scenario irrealistico, ma che è stato messo nero su bianco con la legge di ratifica numero 84 del 14 maggio 2010, votata dal Parlamento con 443 voti favorevoli su 444 presenti, solamente un astenuto. L’Eurogendfor sarà la milizia che si incaricherà della gestione delle crisi (scioperi, manifestazioni) sul territorio italiano, e non risponderà più direttamente alle istituzioni parlamentari.La nuova super-polizia, scrive Cesare Sacchetti su “L’Antidioplomatico”, non risponderà più neppure al presidente della Repubblica, che è il comandante in capo delle forze armate secondo la Costituzione italiana. Eurogendfor obbedirà solo agli ordini del Cimin, l’alto comando interministeriale composto dai rappresentanti dei ministeri delle parti firmatarie, che ha il compito di governare la gendarmeria europea. «Nelle democrazie costituzionali il controllo delle forze armate deve rispondere a criteri di trasparenza e sono previsti precisi meccanismi di controllo sul loro operato», ricorda Sacchetti. Eurogendfor, invece, «si colloca gerarchicamente al di sopra delle forze di polizia italiane, indirizzandone le attività ordinarie e persino d’intelligence». Potrà infatti «condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico, monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi compresa l’attività d’indagine penale». Inoltre potrà assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence. «I servizi segreti italiani potranno trovarsi tagliati fuori nella gestione dell’intelligence, con gravi rischi per la sicurezza nazionale».Ma l’aspetto più inquietante, secondo Sacchetti, è l’immunità penale che questo trattato attribuisce ai membri della gendarmeria europea: «I membri del personale di Eurogendfor – recita la normativa – non potranno subire alcun procedimento relativo all’esecuzione di una sentenza emanata nei loro confronti nello Stato ospitante o nello Stato ricevente per un caso collegato all’adempimento del loro servizio». Super-polizia sovrana, al di sopra della magistratura: niente informazioni, controlli, perquisizioni, indagini. «Le autorità delle parti non potranno entrare nei locali e negli edifici senza il preventivo consenso del comandante Egf o, ove possibile, del comandante della Forza Egf», si legge. «Gli archivi di Eurogendfor saranno inviolabili». E l’inviolabilità degli archivi «si estenderà a tutti gli atti, la corrispondenza, i manoscritti, le fotografie, i film, le registrazioni, i documenti, i dati informatici, i file informatici o qualsiasi altro supporto di memorizzazione dati appartenente o detenuto da Eurogendfor, ovunque siano ubicati nel territorio delle parti».In linea teorica, segnala Sacchetti, «Egf potrebbe avere già un archivio (illegale) dove vengono schedati cittadini che per qualche motivo sono sotto osservazione». Archivio ovviamente «precluso l’accesso alle autorità italiane». L’obbligatorietà dell’azione penale, alla quale è tenuta la magistratura italiana? «In questo modo è annullata, e viene meno uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, attraverso il trapianto di una milizia sovranazionale sul territorio italiano con sede a Vicenza, le cui spese sono a carico dello Stato italiano come previsto dall’articolo 10 del trattato». Milizia che «non risponde all’autorità giudiziaria dello Stato, e non è tenuta ad osservare le sentenze emesse dai suoi tribunali». L’inviolabilità delle sedi e l’impossibilità di intercettare le comunicazioni della gendarmeria europea «è una situazione di extra legem, ovvero la completa inefficacia degli atti giuridici nazionali». Per Sacchetti, «il Trattato di Velsen rappresenta una chiara violazione della Carta, poiché le forze armate non debbono e non possono possedere un’immunità penale nell’esercizio delle loro funzioni, né tantomeno sono escluse dalla possibilità di essere intercettate e le loro sedi possono essere perquisite su mandato della magistratura». Di fatto, «la gendarmeria di Velsen non risponde alle leggi italiane e alla sua Costituzione».Chi ha concepito e firmato quel trattato «ha pensato di istituire una forza di polizia che non appartenesse direttamente agli Stati nazionali, da poter utilizzare violando le fondamentali procedure di controllo democratiche». Storia: «Gli esempi di polizie che non rispondono a principi democratici sono da rintracciare nel passato come la Gestapo della Germania nazista, o la Ceka dell’Unione Sovietica, vere e proprie polizie politiche incaricate di perseguire gli avversari dei rispettivi regimi», scrive Sacchetti. «La gendarmeria europea è stata utilizzata ad Atene nel 2010 durante le manifestazioni contro la Troika, e non è da escludersi che possa operare prossimamente sul nostro territorio per reprimere il dissenso montante nei confronti delle politiche di austerità». Col pretesto dei tagli alla spesa, l’Italia di Renzi torna a parlare di riordino delle forze dell’ordine (troppi corpi di polizia) ma definisce fantascienza la sparizione dell’Arma dei carabinieri, assorbita da altre strutture. Sicuri che siano solo fantasie? L’articolo 3 della legge di ratifica di Velsen dice chiaramente che «la forza di polizia italiana a statuto militare per la forza di gendarmeria europea è l’Arma dei carabinieri».I Paesi Bassi sono il luogo dove l’Italia ha cambiato la propria storia negli ultimi 25 anni, non solo legandosi al Trattato di Maastricht, con la cessione della sovranità monetaria e legislativa, ma per poter definitivamente abbandonare la veste di Stato sovrano era necessario rinunciare all’esclusività delle funzioni delle forze armate sul proprio territorio, con l’istituzione di una milizia sovranazionale. Questo passaggio è avvenuto nel 2007 a Velsen, piccola municipalità dei Paesi Bassi, dove è stato firmato un trattato congiuntamente a Francia, Spagna, Paesi Bassi e Portogallo che istituisce la gendarmeria europea, l’Eurogendfor, che andrà ad esautorare le forze dell’ordine nella gestione dell’ordine pubblico. Uno scenario irrealistico, ma che è stato messo nero su bianco con la legge di ratifica numero 84 del 14 maggio 2010, votata dal Parlamento con 443 voti favorevoli su 444 presenti, solamente un astenuto. L’Eurogendfor sarà la milizia che si incaricherà della gestione delle crisi (scioperi, manifestazioni) sul territorio italiano, e non risponderà più direttamente alle istituzioni parlamentari.
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Eurogendfor, la super-polizia Ue contro chi sciopera
L’Unione Europea si sta preparando a usare reparti militari antisommossa in tutti gli Stati membri, per reprimere il dissenso contro la grande crisi che sta devastando il continente. A rilanciare l’allarme su Eurogendfor, la nuova “gendarmeria europea” con poteri speciali con base a Vicenza, è il deputato tedesco Andrej Hunko, secondo cui si stanno creando i presupposti legali per dislocare in tutta Europa le unità speciali, e al tempo stesso «la Commissione Europea sta lavorando intensamente sulla creazione di una polizia Ue come di una magistratura Ue». L’utilizzo della “European Gendarmerie Forces” sarebbe legittimato dal ricorso alla “clausola di solidarietà”, anche se in realtà «l’Ue ha già un meccanismo di mutua assistenza in caso di disastro». La novità è che «verrano impiegate forze di polizia con status militare». Portogallo, Spagna, Italia, Francia e Paesi Bassi sono i fondatori della Eurogendfor, che opererà in tutto il continente anche presso le unità di polizia nazionali, la Nato e l’Onu. La “clausola” «segna ulteriormente il passo verso la militarizzazione della politica interna» europea.La “clausola di solidarietà”, spiega Hunko su “Global Research” in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, impegna gli Stati membri dell’Ue a una nuova forma di assistenza reciproca, qualora avvenga «un disastro o un non ben definito stato di crisi». Un paese potrà invocare la “clausola” se una crisi superasse le sue capacità di risposta. «L’adozione della clausola da parte del Consiglio degli Affari Generali ha avuto luogo in segreto», è la denuncia di Hunko. «Il punto non trovava menzione nell’agenda dell’incontro e neanche la stampa ne era stata informata». La “clausola di solidarietà” «amplifica il ruolo dei due intelligence service stile Ue come unità di crisi, e crea inoltre il presupposto giuridico per la possibilità della Commissione Europea di dispiegare unità speciali di polizia del “Network Atlas”», di cui fa parte il Gsg 9, il corpo di unità d’élite della polizia tedesca, già all’opera nel 2013 con esercitazioni su larga scala, condotte con analoghi reparti di altri paesi europei.In Italia, pochissime voci fuori dal coro si sono levate sull’ambiguo statuto giuridico di Eurogendfor, che non sarebbe sottoposta ad alcuna restrizione: gli operatori della polizia speciale non risponderebbero alla legge di nessun paese e a nessuna magistratura ordinaria, neppure in caso di danni a cose e persone, fino all’omicidio. Una svolta di questo genere prelude senz’altro a una imminente «militarizzazione della politica interna», dal momento che «personale militare può essere inviato ad un altro Stato membro, su richiesta». Aggiunge Hunko: «Io sono molto preoccupato che questa versione “ad uso domestico” dell’articolo 5 sulla reciproca assistenza: potrebbe essere applicata in situazioni che potrebbero avere un effetto dannoso sulla popolazione, sull’ambiente e sul diritto alla proprietà privata». Per consentire il ricorso all’uso della forza da parte di Eurogendfor piotrebbero bastare manifestazioni, normali scioperi, nonché «serrate politicamente motivate nelle aree dell’energia e dei trasporti». Anziché di una “super-polizia militare” protetta dall’impunità, conclude il parlamentare tedesco, «avremmo bisogno di un meccanismo che andasse a rinforzare le politiche di solidarietà civile all’interno dell’Ue».L’Unione Europea si sta preparando a usare reparti militari antisommossa in tutti gli Stati membri, per reprimere il dissenso contro la grande crisi che sta devastando il continente. A rilanciare l’allarme su Eurogendfor, la nuova “gendarmeria europea” con poteri speciali con base a Vicenza, è il deputato tedesco Andrej Hunko, secondo cui si stanno creando i presupposti legali per dislocare in tutta Europa le unità speciali, e al tempo stesso «la Commissione Europea sta lavorando intensamente sulla creazione di una polizia Ue come di una magistratura Ue». L’utilizzo della “European Gendarmerie Forces” sarebbe legittimato dal ricorso alla “clausola di solidarietà”, anche se in realtà «l’Ue ha già un meccanismo di mutua assistenza in caso di disastro». La novità è che «verrano impiegate forze di polizia con status militare». Portogallo, Spagna, Italia, Francia e Paesi Bassi sono i fondatori della Eurogendfor, che opererà in tutto il continente anche presso le unità di polizia nazionali, la Nato e l’Onu. La “clausola” «segna ulteriormente il passo verso la militarizzazione della politica interna» europea.
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Repressione: l’Eurogendfor in Ucraina, Moldavia e Georgia
Hanno firmato per associarsi all’Ue, ma non sanno cosa li aspetta: a far rispettare l’ordine pubblico, in Stati “difficili” come la Georgia, la Moldavia e soprattutto l’Ucraina potrebbe intervenire il pugno di ferro dell’Eurogendfor, la nuova gendarmeria multinazionale europea con poteri speciali, di cui i media continuano a non parlare. L’accordo verso Bruxelles coi paesi dell’Est Europa è stato presentato come «una svolta decisiva per la democrazia e i diritti umani», osserva Andrei Akulov, ma la micidiale disinformazione sull’intesa ha evitato di estendere all’opinione pubblica alcuni fondamentali dettagli. «Un bel giorno le popolazioni di questi Stati potrebbero avere un risveglio più duro di quanto avrebbero mai potuto immaginarsi», specie se si sognassero di esprimere malcontento sociale. Sulla loro “buona condotta”, infatti, in base al trattato appena siglato “vigilerà” l’Eurogendfor, polizia militare anti-crisi costituita nel 2006 da Francia, Italia, Olanda, Portogallo, Romania e Spagna.La caratteristica principale di Eurogendfor è la flessibilità, scrive Akulov in un post su “Strategic Culture” ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Può intervenire velocemente in qualsiasi conflitto ad alta intensità, rispondendo a controllo militare (formalmente sarebbe sotto controllo civile), agendo congiuntamente ad altre forze militari o in maniera indipendente». Eurogendfor «può anche intervenire in qualsiasi momento della fase iniziale di un conflitto per ricostituire l’ordine precedente assieme alle forze dell’ordine locali o indipendentemente». La super-polizia europea potrà rimpiazzare le polizie nazionali, di fatto scavalcando la sovranità dei paesi, se i governi ne chiederanno l’intervento di fronte a situazioni di pericolo per l’ordine pubblico. Il contingente, oggi forte di 2.500 uomini in grado di intervenire in 30 giorni in ogni angolo del mondo, non potrà subirà alcun processo per i danni che dovesse causare a cose e persone: nessun giudice potrà fermare i Robocop europei. «Per cui, ad esempio, potranno andare in Ucraina e sparare indiscriminatamente senza affrontare alcuna conseguenza», rileva Akulov.Secondo il trattato che avvicina Ucraina, Moldavia e Georgia all’Unione Europea, Eurogendfor è configurata come forza operativa «rapidamente dispiegabile» per «sostenere la politica di sicurezza comune e difesa, anche se utilizzata in strutture esterne all’Ue». Si domanda Akulov: «Le popolazioni di Georgia, Ucraina e Moldavia sono informate di tutto questo? Ne sono consapevoli? Qualcuno si è preso la briga di spiegar loro cosa significa?». Bruxelles accelera: il 24 giugno il Consiglio Europeo ha deciso regole e procedure per la “clausola di solidarietà” che stabilisce che l’Unione e suoi membri devono agire congiuntamente per difendere uno Stato membro, se vittima di attacchi terroristici o disastri naturali. Al che, l’Unione è tenuta a mobilitare le forze speciali in suo possesso. Sempre il 24 giugno è stato inoltre attivato l’accordo di “Risposta Politica Integrata alle Crisi”, per disporre immediate contromisure in caso di gestione strategica di una crisi locale: gli organi dell’Ue saranno quindi obbligati a intervenire, anche con risorse militari.Tra i pochissimi politici che protestano c’è il tedesco Andrej Hanko, parlamentare della Linke, secondo cui la “clausola di solidarietà” «rafforza il corso verso la militarizzazione degli affari interni, poichè il personale militare può essere inviato in un altro Stato membro a richiesta», anche solo per reprimere manifestazioni e scioperi. Per il britannico Nigel Farage, leader indipendentista dello Ukip, ci si prepara a fronteggiare «la prospettiva di malcontento civile diffuso, persino una rivoluzione in Europa». Aggiunge Akulov: «Viene alla mente la situazione in Ucraina, Moldavia e Georgia. È un finto segreto che questi Stati siano di fronte al pericolo di manifestazioni di malcontento popolare durante l’attuazione delle misure richieste dagli accordi stipulati. La gente sarà felice del crollo degli standard di vita a cui è abituata? E se iniziassero a pensare, e a chiedere informazioni circa la situazione? Per loro c’è l’Eurogendfor».Hanno firmato per associarsi all’Ue, ma non sanno cosa li aspetta: a far rispettare l’ordine pubblico, in Stati “difficili” come la Georgia, la Moldavia e soprattutto l’Ucraina potrebbe intervenire il pugno di ferro dell’Eurogendfor, la nuova gendarmeria multinazionale europea con poteri speciali, di cui i media continuano a non parlare. L’accordo verso Bruxelles coi paesi dell’Est Europa è stato presentato come «una svolta decisiva per la democrazia e i diritti umani», osserva Andrei Akulov, ma la micidiale disinformazione sull’intesa ha evitato di estendere all’opinione pubblica alcuni fondamentali dettagli. «Un bel giorno le popolazioni di questi Stati potrebbero avere un risveglio più duro di quanto avrebbero mai potuto immaginarsi», specie se si sognassero di esprimere malcontento sociale. Sulla loro “buona condotta”, infatti, in base al trattato appena siglato “vigilerà” l’Eurogendfor, polizia militare anti-crisi costituita nel 2006 da Francia, Italia, Olanda, Portogallo, Romania e Spagna.
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Palombarini: No-Tav, la legge secondo i giudici di Torino
Dopo il filosofo Gianni Vattimo, fermamente contrario alla costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione, anche lo scrittore Erri De Luca dovrà affrontare un processo penale davanti al Tribunale di Torino. È stato infatti rinviato a giudizio per rispondere del delitto di istigazione a delinquere. Un reato, questo, che la Corte Costituzionale non ha cancellato perché riguarda, o dovrebbe riguardare, solo i comportamenti concretamente idonei a provocare la commissione di altri reati, ferma però la libertà di manifestazione del pensiero garantita dalla Costituzione. Ma, allora, se un intellettuale dice che «la Tav va sabotata» e che «le cesoie sono utili perché servono a tagliare le reti», ovviamente nell’ambito di un giudizio positivo del movimento di resistenza alla costruzione della faraonica linea ferroviaria Torino-Lione (270 chilometri di lunghezza, 55 dei quali in galleria), esprime un’opinione o invece può concretamente indurre altre persone a commettere delitti?Da un quarto di secolo c’è in Val di Susa un movimento popolare che tenta di spiegare all’opinione pubblica nazionale le ragioni dell’opposizione all’opera. Dalla tutela della salute, essendo la montagna da scavare ricca di uranio e amianto, alla caduta verticale degli scambi europei di merci sulla direzione est-ovest, dalla ridotta utilizzazione della ferrovia già esistente di cui sarebbe possibile il potenziamento, allo spreco di ingenti risorse in un periodo di grave crisi economica. E però, parallelamente, è andato crescendo il tasso di repressione penale con riferimento agli interventi di intellettuali a sostegno del movimento No Tav e agli scontri fra manifestati e polizia avvenuti in occasione di alcune pubbliche manifestazioni di protesta contro l’iniziativa.Ormai da qualche tempo si ha la sensazione di una complessiva forzatura dell’azione penale quando si leggono le imputazioni ascritte ad alcuni intellettuali o che l’autorità giudiziaria torinese formula nei confronti di giovani e meno giovani protagonisti delle lotte contro la costruzione della linea ferroviaria. Quasi che l’autorità giudiziaria torinese si considerasse investita non solo e non tanto del compito di reprimere i fatti penalmente illeciti, ma anche, immediatamente, della tutela dell’ordine pubblico, così contribuendo, a fianco di tutta una serie di poteri forti interessati alla realizzazione dell’opera, a che i lavori si svolgano rapidamente. La sensazione è rafforzata dal fatto che nei processi della Val di Susa più di una volta è intervenuta la Corte di Cassazione non solo per annullare singoli provvedimenti dei magistrati torinesi, ma anche per precisare i principi ai quali essi dovrebbero ispirarsi.Così, di recente, la Cassazione si è pronunciata sulla misura cautelare emessa il 5 dicembre 2013 nei confronti di quattro attivisti No Tav per i delitti di “attentato per finalità di terrorismo” e “atti di terrorismo” ai sensi degli articoli 280 e 280 bis codice penale; e ha annullato l’ordinanza. In altra occasione la Suprema Corte era intervenuta con una sentenza del 7 settembre 2012 per ricordare che l’ordinamento, a parte i fenomeni associativi di tipo mafioso, non tollera automatismi di carcerazione preventiva collegati alla sola gravità dei fatti, ma richiede un giudizio di pericolosità per ogni imputato, e che nella scelta di una misura restrittiva eventualmente necessaria occorre partire dalla valutazione dell’efficacia di quelle meno afflittive, prima di giungere alla più grave misura del carcere. È auspicabile che si apra presto un dibattito su queste tematiche, non solo fra i giuristi, in quanto le scelte della magistratura torinese e i relativi contrasti investono ormai il ruolo del giudice.(Giovanni Palombarini, “Dai No Tav al ruolo di giudice”, da “Il Mattino di Padova” del 12 giugno 2014, articolo ripreso da “NoTav.info”. Palombarini è stato procuratore generale aggiunto presso la Corte di Cassazione).Dopo il filosofo Gianni Vattimo, fermamente contrario alla costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione, anche lo scrittore Erri De Luca dovrà affrontare un processo penale davanti al Tribunale di Torino. È stato infatti rinviato a giudizio per rispondere del delitto di istigazione a delinquere. Un reato, questo, che la Corte Costituzionale non ha cancellato perché riguarda, o dovrebbe riguardare, solo i comportamenti concretamente idonei a provocare la commissione di altri reati, ferma però la libertà di manifestazione del pensiero garantita dalla Costituzione. Ma, allora, se un intellettuale dice che «la Tav va sabotata» e che «le cesoie sono utili perché servono a tagliare le reti», ovviamente nell’ambito di un giudizio positivo del movimento di resistenza alla costruzione della faraonica linea ferroviaria Torino-Lione (270 chilometri di lunghezza, 55 dei quali in galleria), esprime un’opinione o invece può concretamente indurre altre persone a commettere delitti?
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Filingeri contro Chiamparino, il populista privatizzatore
«Un mondo migliore? Me lo immagino con un contagio culturale che parta dai movimenti che hanno animato le marce per la pace, le manifestazioni della valle di Susa e che percorrono tutta l’Italia fino ad arrivare alla Sicilia con i NoMuos. Bisogna partire da persone che si scrollino di dosso l’indifferenza e la rassegnazione non solo per gridare la loro rabbia nelle piazze dei forconi, ma per tornare ad essere capaci di sognare un futuro migliore pensando ad un altro modello di sviluppo». Mauro Filingeri, 36 anni, chimico in mobilità, sindacalista Cgil e animatore dei comitati di lotta dei pendolari, è il volto nuovo della sinistra piemontese, deciso a sfidare alle regionali il Pd di Chiamparino con la lista “L’altro Piemonte a sinistra”, consonante con “L’Altra Europa con Tsipras”. Chiamparino? Impossibile definirlo “di sinistra”: «E’ il simbolo dell’attuale modello governativo nazionale in cui contano i rapporti preferenziali con la finanza e la grande industria, a scapito dei diritti e dei bisogni dei lavoratori e dei piccoli imprenditori».Anche Torino, per cent’anni capitale della Fiat, è in crisi: delocalizzazioni e disoccupazione, mentre la Fca di Marchionne emigra. «Bisognerebbe provare a frenare le multinazionali, e nel settore auto puntare anche su altri produttori, per esempio di motori elettrici». I critici dicono che i sindacati si sono lasciati ingabbiare nella concertazione, rassegnandosi alla perdita progressiva dei diritti del lavoro. «Certamente la concertazione ha contribuito a limitare la resistenza del mondo del lavoro», ammette il candidato di sinistra, «ma questo non ci impedirà di lottare: contro la riforma Fornero, l’articolo 8 e le modifiche all’articolo 18. Nelle crisi, bisogna incentivare i contratti di solidarietà e la riduzione dell’orario». Ma intanto siamo nella fabbrica-mondo: le aziende scappano, dove il lavoro costa meno. Proprio per questo, dice Filingeri, bisogna battersi contro il Ttip, il Trattato Transatlantico, che tutela le multinazionali e demolisce lo spazio sociale europeo. Il trattato è incostituzionale, e «la stessa Regione Piemonte, presente nel Comitato delle Regioni Ue, può avere voce in capitolo in materia di ambiente, istruzione e salute».«Per uscire dalle scelte nefaste delle multinazionali e dalla crisi è centrale l’intervento pubblico», indispensabile per «per mettere in campo un vero e proprio “Piano del Lavoro”, con risorse certe», per creare occupazione e stabilizzare i precari. Il guaio è che «a differenza del passato, oggi lo sviluppo non porta automaticamente a nuova occupazione: ogni aumento di produttività, se non regolato, comporta la contrazione dell’occupazione e dei salari». Per Filingeri servono “reti sociali”, ora più che mai, per rimediare ai disastri della malapolitica al servizio dei poteri forti: No-Tav, acqua pubblica, nuova finanza sociale per la gestione della Cassa Depositi e Prestiti. «Una miriade di realtà che in genere nascono dicendo “no”, proprio perché non accettano questo modello di sviluppo». Il loro grande “nemico” è proprio il Pd, che si dichiara ancora “di sinistra”. «Definire di sinistra personaggi che stanno facendo politiche di destra e che non si vergognano non solo di governarci assieme alla destra moderata, ma nemmeno di essere meri esecutori di politiche neoliberiste e tagli sociali che vengono imposti dalla Bce, è sicuramente un tranello in cui cadono tutti coloro che continuano a votare per il Pd convinti che mettere una crocetta su quel simbolo significhi essere di sinistra e serva per “evitare che vada al governo la destra”!».«La politica della “limitazione del danno”, che ha pervaso in questi anni gran parte della sinistra del nostro paese», secondo Filingeri «ci ha portato alla tragica situazione politico-sociale in cui oggi ci ritroviamo». Chiamparino, transitato dal Pci-Pds al Comune, poi alla fondazione bancaria di Intesa SanPaolo e ora proiettato in Regione, ne è un simbolo perfetto. «Un populista», lo definisce Filingeri. Che spiega: «Il populismo di Berlusconi si rivolge di più a chi vede nello Stato la controparte, l’esattore che sottrae risorse ai privati cittadini e ne limita con le leggi la libertà di sfruttare, speculare e di potersi arricchire, mentre il populismo di Chiamaprino è rivolto a chi crede che basti promuovere eventi sportivi o grandi opere (come le olimpiadi e il Tav) per dimostrare di far parte dell’Italia “sana”», tralasciando per carità di patria lo scempio ambientale delle strutture olimpiche di Torino 2006, trasformatesi in cattedrali nel deserto. «Il problema è che mentre tutti si ricordano che il condannato Berlusconi ha fondato Forza Italia con il latitante Dell’Utri, nessuno sembra si ricordi i tempi in cui La Ganga faceva il vicerè a Torino per conto di Craxi e che oggi è nuovamente tra i dirigenti del Pd torinesi. Una cosa hanno però in comune Berlusconi e Chiamparino, la volontà di privatizzare i servizi pubblici locali, i trasporti, l’acqua, la sanità, i beni comuni, che rappresentano la centralità della stato sociale del nostro paese, per favorire le imprese private. nelle scelte concrete sembrano diversi, ma sono uguali».Per il candidato di “L’altro Piemonte”, il “bisogno di sinistra” oggi è «una ribellione alle politiche di sfruttamento messe in atto dalla finanza mondiale e dalle multinazionali, che vedono le persone come consumatori o come forza lavoro al pari di un macchinario». Non solo merci, ma diritti civili, contro chi vedere solo praterie da sfruttare per arricchirsi, e non beni da preservare per le generazioni future. «Serve una rete solidale di persone che sappia creare anche un’economia solidale». Pessimo spettacolo, però, quello offerto dai partiti di sinistra. «Facile commuoversi per i barconi dei migranti e gli operai sui tetti, più difficile mettere in pratica i propri principi». Colpa dei militanti? «Sì, dovrebbero svegliarsi. Ma ora la crisi sta mettendo con le spalle al muro molte persone». Un brusco risveglio potrebbe essere anche il voto europeo: Tsipras punta a combattere «la sovrastruttura tecnocratica che reprime la democrazia». Chi lo voterà spera in una legislatura “costituente”, che possa colpire l’oligarchia finanziaria e risollevare l’economia reale dei lavoratori. «Oggi, scegliere Tsipras ha un valore simbolico per la sinistra, esprime il tentativo di recuperare l’idea di vera democrazia».“L’altra Europa” dichiara guerra all’austerity ma teme l’uscita dalla moneta unica: «Abbandonare l’euro non sarebbe indolore (aumento del debito, dell’inflazione, dei costi delle importazioni, della povertà) e non restituirebbe ai paesi il governo della moneta, ma ci renderebbe più che mai dipendenti da mercati incontrollati, dalla potenza Usa o dal marco tedesco. Soprattutto – aggiunge Filingeri – segnerebbe una ricaduta nei nazionalismi autarchici, e in sovranità fasulle. Noi siamo per un’Europa politica e democratica che faccia argine ai mercati, alla potenza Usa, e alle le nostre stesse tentazioni nazionaliste e xenofobe». Secondo il candidato piemontese, è possibile cambiare rotta anche usando le risorse esistenti, a partire dal Piemonte: «Per treni efficienti e puliti i soldi ci sono, basta vedere quello che spendono per il Tav!». E’ possibile «finanziare le cosiddette imprese ricostituite ai lavoratori, cioè le situazioni di uscita dalle crisi aziendali in forma di gestione cooperativa», che spesso hanno «performance superiori».A fine 2012 il Piemonte (Regione e Provincia di Torino) ha chiuso, per “spending review”, il suo centro strategico per l’agricoltura biologica, il Crab, guida tecnica di uno dei pochissimi settori economici in espansione, per di più ecologico. L’agricoltura, secondo Filingeri, è esattamente uno dei comparti in cui i finanziamenti non mancano, se solo li si sa utilizzare bene: «Il programma europeo di sviluppo rurale 2014-2020 dovrà essere impostato per essere Ogm-free. I fondi devono essere usati per dare impulso a un’agricoltura a basso impatto sull’ambiente, liberata dalla chimica, che valorizzi le produzioni biologiche, capace di mantenere il livello produttivo necessario alle esigenze della popolazione. Inoltre, siamo per un intervento sul sistema della distribuzione, favorendo il consumo di prodotti locali, a chilometri zero, per il passaggio diretto produttore-consumatore». Sono temi cari alla galassia dei nuovi movimenti, che ora rialzano la testa, No-Tav in primis. «Più riusciranno a contarstare il modello neoliberista, più ci sono probabilità che il risveglio porti a qualcosa». Mauro Filingeri cita Saint Exupéry: «Se vuoi costruire una nave, non devi dividere il lavoro, dare ordini e convincere gli uomini a raccogliere la legna. Devi insegnargli, invece, a sognare il mare aperto e sconfinato».«Un mondo migliore? Me lo immagino con un contagio culturale che parta dai movimenti che hanno animato le marce per la pace, le manifestazioni della valle di Susa e che percorrono tutta l’Italia fino ad arrivare alla Sicilia con i NoMuos. Bisogna partire da persone che si scrollino di dosso l’indifferenza e la rassegnazione non solo per gridare la loro rabbia nelle piazze dei forconi, ma per tornare ad essere capaci di sognare un futuro migliore pensando ad un altro modello di sviluppo». Mauro Filingeri, 36 anni, chimico in mobilità, sindacalista Cgil e animatore dei comitati di lotta dei pendolari, è il volto nuovo della sinistra piemontese, deciso a sfidare alle regionali il Pd di Chiamparino con la lista “L’altro Piemonte a sinistra”, consonante con “L’Altra Europa con Tsipras”. Chiamparino? Impossibile definirlo “di sinistra”: «E’ il simbolo dell’attuale modello governativo nazionale in cui contano i rapporti preferenziali con la finanza e la grande industria, a scapito dei diritti e dei bisogni dei lavoratori e dei piccoli imprenditori».
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Chomsky e Barnard: se gridare di rabbia non basta più
«C’erano due milioni di italiani a manifestare contro la guerra in Iraq a Roma nel 2003… per un giorno. Bravi. Ma li vedi tu per il resto dell’anno passare di casa in casa a informare le masse? Dai. Se lo facessero allora sì che, assieme a nuovi metodi di comunicazione, le cose cambierebbero». Così Paolo Barnard scrive a Noam Chomsky, il linguista statunitense che il “New York Times” considera il maggior intellettuale vivente. Si tratta di un carteggio privato, datato 2007, cioè «prima dell’esplosione della crisi finanziaria, che ha sbattuto in faccia al mondo quanto in realtà ci siamo involuti e non evoluti nella difesa dei diritti dell’uomo e nella gestione dell’interesse pubblico». Tema cruciale: che fare, per cambiare le cose. Chomsky si appella a una variante della scommessa di Pascal: «Se decidiamo di rinunciare alla speranza, siamo certi che il peggio accadrà. Se invece manteniamo la speranza, possiamo immaginare che un futuro migliore arriverà». Barnard invece non ci crede più, non gli basta. Vede che tutto il nostro attivismo per i diritti finisce nel tritacarne del mainstream, senza che le atrocità del mondo vengano minimamente arginate.«Ancora non riusciamo a fermare l’orrore delle guerre, le ingiustizie su macro-scala, la fame di milioni di bambini, l’avanzare del Vero Potere, la dittatura dei mercati», scrive oggi Barnard. «Ebbi quindi un’idea. Scrissi a Chomsky e gli proposi la formazione di un pannello di esperti a livello mondiale che per la prima volta studiassero “che cosa cambia l’umanità in meglio”, partendo da cosa l’ha cambiata in passato, per arrivare a cosa la può veramente cambiare oggi. Un pannello di storici, antropologi, psicologi, intellettuali e veri combattenti». Assioma di partenza: «Non possiamo dare per scontato che ciò che è riuscito a stemperare la barbarie di 5.000 anni – passando per la Rivoluzione Francese e illuminista, quella socialista, per quella femminista, sulla scia dell’olocausto delle guerre mondiali, durante il prodigioso arrivo della rivoluzione delle tecnologie e mezzi di comunicazione – possa funzionare anche oggi. Talmente tanto è cambiato, soprattutto il Vero Potere ha ottenuto una tale rivincita a livello planetario, che dire – come diceva proprio Noam Chomsky – che “l’umanità è sempre uscita dalla barbarie e non c’è motivo per cui questo non debba continuare”, mi appariva superficiale».Se gli attivisti che lottano “per un mondo migliore” sbagliano l’analisi e gli strumenti per il cambiamento, rischiano di consegnarsi alla vittoria finale di quello che Barnard chiama “Vero Potere”. Sì, «c’è motivo di dubitare che l’attivismo possa ottenere qualcosa», ammette Chomsky, secondo cui però “ieri si stava peggio”. Ovvero: se si crede che il punto di svolta negativo e irreparabile sia maturato negli anni ‘70, fino al fallimento dell’opinione pubblica mondiale che non è riuscita a scongiurare la guerra in Iraq, il grande intellettuale americano cita gli anni ‘60, in cui «gli Usa compivano atrocità ben peggiori di quelle fatte in Iraq». Un solo esempio, il Vietnam: «Già nel 1967 il più rispettato storico militare sul Vietnam, Bernard Fall, dubitava che quel paese potesse persino sopravvivere ad attacchi di quella ferocia. Ma le proteste erano minime. In Europa non si mosse un dito mentre mezzo milione di soldati americani, coreani, thailandesi e mercenari stavano devastando il Vietnam del sud». L’Iraq? «E’ certamente un crimine, ma non si avvicina neppure pallidamente alle atrocità della guerra in Vietnam».Non si tratta di «rinunciare alla speranza», replica Barnard, ma – al contrario – dobbiamo «prendere atto del terrificante cambiamento nelle dinamiche sociali che ha reso apatici milioni di occidentali, e trovare un antidoto a questo finché possiamo». Secondo il giornalista, già inviato di “Report”, «i tempi migliori per la rivolta sociale alla brutalità vennero negli anni ‘70, che rappresentano il culmine, la “crema” se si vuole, di 250 anni di rivoluzioni sociali». La triste novità, invece, è «la paralisi odierna delle masse occidentali, frutto di 35 anni di “esistenza commerciale” e “cultura della visibilità massmediatica”, che hanno eroso la nostra psiche collettiva, e che va peggiorando. Sono due fenomeni che vedono la luce anch’essi negli anni ‘70 e lì iniziarono ad avvelenarci». Sono due fenomeni «interamente nuovi nella storia dell’umanità», mai tanto manipolata, «così come è inedito l’effetto di addormentamento oppiaceo che hanno sulle masse». In concreto, «la nostra esistenza oggi ci priva del tempo di capire, studiare e attivarci contro la barbarie del Vero Potere, ci toglie l’autostima per essere liberi pensatori (con conseguenze catastrofiche fra i sindacati italiani e i loro lavoratori)».Per Barnard, questi sconvolgenti cambiamenti «sono una “prima” assoluta nelle dinamiche sociali umane da 5.000 anni, non possono non aver causato mutamenti nel nostro sviluppo sociale». Sono troppo enormi per essere scartati e il giornalista vi scorge «la più grave minaccia alla nostra capacità di organizzazione collettiva contro i poteri». Dunque, aggiunge: «Io invoco che noi scopriamo la chiave di quella minaccia e la disattiviamo». Questa paralizzante mutazione antropologica, replica Chomsky, in realtà «iniziò negli anni ‘20 per poi massimizzarsi negli anni ‘70». Ha certo «plasmato il pubblico», ma secondo il linguista «con risultati del tutto diversi da quelli che il potere voleva ottenere», se è vero che «l’attivismo dagli anni ‘80 ha raggiunto cime mai viste prima, e ora sta inventandosi altri percorsi creativi». I movimenti tuttavia non sono all’altezza della sfida, né dei nuovi mezzi di cui pure disponiamo? «Argomento interessante», ammette Chomsky: «Un’idea intrigante, ma non so come misurarla».«La speranza, Noam, è nei nuovi metodi», risponde Barnrad, perché «quelli consueti nell’attivismo sono diventati privi di significato», siamo assuefatti anche alla protesta, che il mainstream digerisce senza turbarsi. E allora, «che senso ha continuare ad appellarsi a masse drogate da quei e fenomeni? Quindi perché non cercare nuovi metodi, che sappiano raggiungere le immense masse di maggioranza, quelle che non sanno neppure cosa significhino le parole Fondo Monetario, quelle che credono che la Palestina sia nata da Isreale, che non s’immaginano neppure lontanamente cosa veramente costi alle vite dei contadini africani la nostra tazza di caffè della mattina?. La speranza c’è a tonnellate, Noam, ma solo se abbiamo l’umiltà di accettare che i vecchi metodi sono morti e che un nuovo arsenale va costruito». Chomsy non è d’accordo: è «travolto da richieste di conferenze, interviste, attivismo». E poi, quali sarebbero le nuove forme di lotta? Neppure Barnard lo sa, ma – almeno – è certo che i “girotondi”, le raccolte di firme e i cortei di protesta non servano più a niente.«Quali erano le vecchie forme di lotta? Nominiamole: conferenze sempre piene di fans già convertiti; le solite manifestazioni; pubblicazioni e libri, di nuovo però ospitati da editori e media “amici”; i forum sociali, ancora zeppi di amici degli amici già simpatizzanti; l’equo-solidale col Sud, ok, bene, ma sempre minuti gruppi di “belle anime”. Insomma, le “belle anime” che parlano fra di loro Noam, sempre. Ma dimmi: è sufficiente ’sta roba a combattere una macchina colossale di potere finanziario, mediatico, industriale, politico e massmediatico che ha intrappolato 800 milioni di persone in una frenesia di vita e di indebitamento? Dimmi, Noam: le “belle anime” stanno convincendo e dando potere al taxista, al negoziante, all’impiegato, al pensionato, ai tifosi, alle discotecare, ai poliziotti, ai contadini, agli operai, ai conservatori, ai manager, ai colletti bianchi, gli anziani, ai qualunquisti, ai confusi, a chi non ha tempo per respirare la sera a casa? Sono milioni e votano! Non so, forse negli Usa avete fatto una miracolo, ma qui il movimento No-Global è conosciuto dal 99% come i black block che spaccano le vetrine, e nessuno sa nulla delle loro battaglie contro il Wto e i trattati di libero scambio coi poveri del Sud».«Gli Usa – replica Chomsky – sono oggi una nazione molto più civile di prima, e non è stato per magia. Questo include anche le aggressioni militari. Oggi nessun presidente qui potrebbe cavarsela con quello che hanno fatto Kennedy e Johnson nel sud est asiatico. E lo sanno». Chomsky è felice di essere riuscito a tenere una conferebza a mille cadetti e ufficiali di West Point sul tema della “guerra giusta”. E’ vero, il più delle volte la platea è fatta di “amici”, ma comunque «anni fa gli amici erano tre persone in una chiesa, oggi possono essere 5.000 di ogni estrazione in alcuni dei posti più reazionari d’America, e che ti ascoltano con attenzione. Questo è il risultato di molti anni di attivismo da parte di un sacco di gente, e mi sembra un’ottima cosa». Era solo il 2007, Chomsky non aveva ancora visto la Grande Crisi nella sua espressione più disumana, quella europea: un pugno di criminali, ha detto di recente, ha distrutto l’Europa. «Si credono i padroni del mondo. Dobbiamo fermarli». Già, ma come?«C’erano due milioni di italiani a manifestare contro la guerra in Iraq a Roma nel 2003… per un giorno. Bravi. Ma li vedi tu per il resto dell’anno passare di casa in casa a informare le masse? Dai. Se lo facessero allora sì che, assieme a nuovi metodi di comunicazione, le cose cambierebbero». Così Paolo Barnard scrive a Noam Chomsky, il linguista statunitense che il “New York Times” considera il maggior intellettuale vivente. Si tratta di un carteggio privato, datato 2007, cioè «prima dell’esplosione della crisi finanziaria, che ha sbattuto in faccia al mondo quanto in realtà ci siamo involuti e non evoluti nella difesa dei diritti dell’uomo e nella gestione dell’interesse pubblico». Tema cruciale: che fare, per cambiare le cose. Chomsky si appella a una variante della scommessa di Pascal: «Se decidiamo di rinunciare alla speranza, siamo certi che il peggio accadrà. Se invece manteniamo la speranza, possiamo immaginare che un futuro migliore arriverà». Barnard invece non ci crede più, non gli basta. Vede che tutto il nostro attivismo per i diritti finisce nel tritacarne del mainstream, senza che le atrocità del mondo vengano minimamente arginate.
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Un mondo diverso: quello che non ci avete lasciato
Stavo guardando su Facebook una lunga serie di fotografie risalenti agli anni ‘60 e ‘70. Le lotte, le manifestazioni, scontri con la polizia, gli striscioni, i colori visibili anche in bianco e nero, gli slogan, rabbia, molta rabbia, anche molta voglia di stare insieme, di condividere gli spazi, i sogni, il destino. Sì, bello, affascinante e tutto quanto. Poi però i nostalgici di anni mai vissuti – accusati di essere rimasti ad allora solo perché di quegli anni invidiano la partecipazione, la radicalità, il realismo dell’utopia – pensano subito all’oggi, al deserto di oggi. Ogni volta mi viene da pensare che quelle piazze stracolme e così rebeldi erano fatte di gente in carne e ossa; altro non sono che i nostri genitori, o nonni. E mi domando, sempre, cosa ci avete lasciato? Perché ci avete tirato su così ferocemente calcolatori, disinteressati, pavidi?Noi, che siamo i figli di quella generazione, siamo probabilmente – anzi no: ne sono sicuro – la gioventù o post gioventù più conformista e innocua che l’Italia da inizio ‘900 in poi abbia conosciuto. Ed è vero che il crollo delle ideologie, il consumismo, la televisione, il web eccetera, ok. È vero però che qualcuno dovrà pur averci educato, e forse non lo ha fatto bene, o forse quella ribellione di allora non era così sincera, o forse nel frattempo chi combattevate vi ha blandito e infine comprato. Fosse solo una questione economica, poi. I soldi dopotutto non ci sono mai mancati, anche adesso che il lavoro scarseggia, perché c’eravate e ci siete voi.Quel che non ci avete insegnato è invece il poter credere che esista un’altra possibilità oltre all’adesione ad un sistema che ci è stato raccontato così, come se fosse dio, come se fosse legge di natura. Perché dovevamo essere performanti, noi. Pragmatici come lo siete diventati voi. Meno coraggio, meglio un sei politico esistenziale. Meno utopia, più piccola bottega. E comunque tranquilli, perché la cosa più bella che ci avete regalato è una: l’incoscienza. Il progresso è finito da un pezzo, le cose vanno oggettivamente peggio e noi non ce ne stiamo nemmeno accorgendo.(Matteo Pucciarelli, “Quel che non ci avete lasciato”, da “Micromega” del 13 aprile 2014).Stavo guardando su Facebook una lunga serie di fotografie risalenti agli anni ‘60 e ‘70. Le lotte, le manifestazioni, scontri con la polizia, gli striscioni, i colori visibili anche in bianco e nero, gli slogan, rabbia, molta rabbia, anche molta voglia di stare insieme, di condividere gli spazi, i sogni, il destino. Sì, bello, affascinante e tutto quanto. Poi però i nostalgici di anni mai vissuti – accusati di essere rimasti ad allora solo perché di quegli anni invidiano la partecipazione, la radicalità, il realismo dell’utopia – pensano subito all’oggi, al deserto di oggi. Ogni volta mi viene da pensare che quelle piazze stracolme e così rebeldi erano fatte di gente in carne e ossa; altro non sono che i nostri genitori, o nonni. E mi domando, sempre, cosa ci avete lasciato? Perché ci avete tirato su così ferocemente calcolatori, disinteressati, pavidi?
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Chiamateli ultras o black bloc, sono manovalanza impunita
Un ricordo lontano: Genova 2001. Un giovane di borgata, che mi raccontava un strana storia. Una storia di ultras, della Roma e della Lazio, di quelli pieni di diffide, precedenti per rissa e svastiche sulle braccia, convocati in commissariato per una interessante proposta. «Vi va di andare a menare un po’ le mani? Di divertirvi a pestare zecche? Ci sarebbe da andare a Genova». Non ho mai avuto altre conferme, ma quella storia mi è rimasta in testa. Ed è una storia che spiega molti misteri di questa ennesima notte di follia calcistica in finale di Coppa: perché un soggetto come lo sparatore, che aveva persino fatto sospendere un derby, fosse a piede libero dopo una prescrizione rapidissima e in possesso di una pistola; perché un altro soggetto vicino alla camorra, come Genny ‘a carogna, potesse mettersi a trattare con le forze dell’ordine a nome di un’intera curva ostentando una maglietta che inneggia all’assassino di un poliziotto. Immaginatevi un NoTav, con una maglietta del genere, e poi mi dite.Di quali protezioni godono allora i capi ultrá, e soprattutto perché? Si tratta solo di “questioni di sicurezza”, o costoro vengono trattati in guanti bianchi perché sono “a disposizione” per un altro genere di lavori sporchi? Chi sono quei famosi “infiltrati” con i cappucci neri che durante certe manifestazioni da mandare in malora tirano sassi e bruciano cassonetti, costosi poliziotti travestiti o ultras in servizio gratuito, che avranno in cambio dei loro servigi l’impunitá e il rispetto nello stadio? D’altronde, è normale che lo Stato si serva di bassa manovalanza per certi lavoretti, e serve un vivaio che prepari e mantenga il “personale specializzato”. Lo stadio istruisce, lo stadio protegge.Certo, il prezzo da pagare è vedere questori e prefetti che trattano in diretta Tv con Genny ‘a carogna, lo Stato che si umilia davanti alle belve che di nascosto poi userá, ma i gesti di rispetto sono indispensabili. Così come le impunitá, mafia insegna. Ci consola pensare che a tanto schifo non si piega soltanto lo Stato italiano, ma pare essere una prassi di tanti paesi. A Odessa, il 2 maggio, tra coloro che hanno bruciato il palazzo dei sindacati con la gente dentro c’erano tantissimi ultras. Pure loro, mandati a divertirsi e pestare zecche da ordini superiori.(Debora Billi, “Ultras, la bassa manovalanza dello Stato impunita e rispettata”, dal blog “L’Estremista” del 4 maggio 2014).Un ricordo lontano: Genova 2001. Un giovane di borgata, che mi raccontava un strana storia. Una storia di ultras, della Roma e della Lazio, di quelli pieni di diffide, precedenti per rissa e svastiche sulle braccia, convocati in commissariato per una interessante proposta. «Vi va di andare a menare un po’ le mani? Di divertirvi a pestare zecche? Ci sarebbe da andare a Genova». Non ho mai avuto altre conferme, ma quella storia mi è rimasta in testa. Ed è una storia che spiega molti misteri di questa ennesima notte di follia calcistica in finale di Coppa: perché un soggetto come lo sparatore, che aveva persino fatto sospendere un derby, fosse a piede libero dopo una prescrizione rapidissima e in possesso di una pistola; perché un altro soggetto vicino alla camorra, come Genny ‘a carogna, potesse mettersi a trattare con le forze dell’ordine a nome di un’intera curva ostentando una maglietta che inneggia all’assassino di un poliziotto. Immaginatevi un NoTav, con una maglietta del genere, e poi mi dite.
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L’Ucraina come la Siria. Obiettivo Nato: assediare Mosca
La vera posta in gioco della rivolta a Kiev è l’entrata dell’Ucraina nella Nato, cosa che costituirebbe una minaccia diretta alla sicurezza nazionale della Russia. E attenzione: al netto delle spinte filo-occidentali di una parte dell’opinione pubblica, la cui maggioranza resta però filo-russa, a condurre il gioco sono le stesse manipolazioni di intelligence che in Siria hanno trasformato la iniziale protesta democratica in una guerra civile, fino al punto da usare i gas tossici come il Sarin facendo strage di civili per poi incolpare il regime. «In Ucraina si stanno mettendo in atto gli schemi già visti in Libia e Siria, che poi sono quelli elaborati da famigerati enti, come l’Einstein Institution, tanto amati dalla nostra sinistra buonista», sostiene “Megachip”. «La variante è dovuta al contesto: i tagliagole di Al-Qa’ida e Al-Nusra che gli Usa e loro alleati hanno scagliato contro la Siria, in Ucraina hanno come degno corrispettivo i neonazisti di Svoboda», pronti anche a usare le armi.«Non è vero che questo partito sia marginale nella rivolta e solo molto attivo e vociferante, come alcuni vogliono far credere», scrive “Piotr” in un’analisi su “Megachip”. Due anni fa, alle politiche, Svoboda ottenne il 10,45% dei voti, conquistando 38 seggi in Parlamento. Oggi proprio Svoboda «forma il nerbo delle manifestazioni, la parte più decisa, quella che conduce gli scontri, ammazza i poliziotti, li rapisce e li tortura». Da giorni, aggiunge “Piotr”, i suoi militanti ricercavano lo scontro sanguinoso con le forze di polizia. E alla fine ci sono riusciti. «Ai neonazisti si è accodato a quanto sembra Anatoli Gritsenko», già ministro della difesa dell’oligarca Julia Timoshenko, che «ha avuto la splendida idea di incitare i manifestanti ad armarsi», precisando con delinquenziale ipocrisia che l’appello era rivolto «solo a quelli che hanno il porto d’armi».Restano per ora soltanto comprimari i gruppi fondamentalisti dei Tatari della Crimea, in particolare «gruppi di soldati di ventura che hanno appena finito di combattere in Siria», e che certamente non condividono con gli ultra-nazionalisti di Svoboda le aspirazioni indipendentiste della penisola sul Mar Nero. Tutte queste componenti sono comunque coinvolte nella vertenza per chiedere l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue, da cui Kiev spera di ottenere denaro: il prestito di 15-20 miliardi di dollari promesso dalla Russia all’Ucraina lo potrebbe rimborsare la Ue, sempre che le vada, aggiungendo anche il prezzo pieno (quasi dimezzato da Putin nell’accordo di pochi giorni fa) del gas russo comprato dall’Ucraina. Poi, però, «dopo un probabile periodo di attesa per stabilizzare la situazione e non disgustare subito gli ucraini», su quel paese si abbatterebbe «la scure dell’austerity europea». Ma il vero obiettivo, «il boccone grosso e proibito», è l’ingresso dell’Ucraina nella Nato.«Con l’Ucraina, la Nato finirebbe a ridosso di Mosca», osserva “Megachip”, in aperta violazione dei trattati di Parigi e di Helsinki, ovvero «gli accordi di garanzia della sicurezza europea che sono seguiti alla caduta della cortina di ferro». In altre parole, «Ucraina nella Nato e riarmo sono sinonimi». Molto dipenderà ora dagli altri leader dell’opposizione: se dimostreranno buon senso, «l’Ucraina potrebbe uscire dalla crisi con un nuovo governo che potrebbe sfruttare al meglio i rapporti sia con la Ue (standosene fuori) sia con la Russia (che la premierebbe per star fuori dalla Nato)». Una scelta simile «farebbe molto bene all’Europa dei popoli», aggiunge “Piotr”, ma il guaio è che alla Nato e alla Ue non sembra interessare una soluzione pacifica. Al contrario, «stanno facendo di tutto per obbligare ad una scelta secca: o noi o la Russia». Nessuna sorpresa se un giorno si scoprirà che in Ucraina stanno già arrivando fiumi di dollari.La vera posta in gioco della rivolta a Kiev è l’entrata dell’Ucraina nella Nato, cosa che costituirebbe una minaccia diretta alla sicurezza nazionale della Russia. E attenzione: al netto delle spinte filo-occidentali di una parte dell’opinione pubblica, la cui maggioranza resta però filo-russa, a condurre il gioco sono le stesse manipolazioni di intelligence che in Siria hanno trasformato la iniziale protesta democratica in una guerra civile, fino al punto da usare i gas tossici come il Sarin facendo strage di civili per poi incolpare il regime. «In Ucraina si stanno mettendo in atto gli schemi già visti in Libia e Siria, che poi sono quelli elaborati da famigerati enti, come l’Einstein Institution, tanto amati dalla nostra sinistra buonista», sostiene “Megachip”. «La variante è dovuta al contesto: i tagliagole di Al-Qa’ida e Al-Nusra che gli Usa e loro alleati hanno scagliato contro la Siria, in Ucraina hanno come degno corrispettivo i neonazisti di Svoboda», pronti anche a usare le armi.
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C’era una volta la rivolta: serve un lieto fine (elettorale)
In questi giorni la rabbia popolare sta trovando dei canali, molto spontanei e poco organizzati, per sbattere in faccia all’intera classe politica italiana il disagio profondo di coloro che, secondo il linguaggio della nostra democrazia, dovrebbero esserne “rappresentati”. Questo disagio, va detto, è ancora inarticolato, irriflesso. Se dovessimo utilizzare l’idioma della psicologia, potremmo affermare che siamo dinnanzi ad un “acting out” di massa. Queste proteste, così come sono, testimoniano l’impoverimento di numerose categorie di persone, unite da un facile risentimento verso la Casta. Che siano tutti da mandare a casa è, difatti, un concetto semplicistico, ma efficace. Non nascondo che a volte, preso da grillite acuta, ho utilizzato anch’io questo gergo per denotare lo schifo che provo nei confronti di una classe politica che, ormai da vent’anni e oltre, funge da cinta muraria per contenere l’insofferenza popolare e lasciare che la grande finanza si ingrassi alle nostre spalle.
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Mdf: cari forconi, la rivoluzione parte dai consumi
Cari concittadini (lavoratori, studenti, pensionati, disoccupati…) giustamente stufi e al limite della sopportazione, condividendo la preoccupazione di chi è sceso in piazza ed evitando considerazioni personali sul colore delle manifestazioni (fermo restando il rifiuto della violenza, aspetto che vogliamo ribadire), vorremmo solo condividere alcune riflessioni con voi. Siamo pienamente in sintonia con le motivazioni alla base della protesta (corruzione e sbando della classe politica, globalizzazione, finanza e mercato selvaggi e senza limiti che strangolano il piccolo commercio locale, etc); riteniamo, tuttavia, che un’alternativa migliore debba partire da noi e che il cambiamento di questo sistema economico deve essere attuato con azioni concrete.Con il massimo rispetto e pienamente consci della diversità delle situazioni che ognuno sta vivendo e dei drammi personali, vogliamo porre – anche in maniera provocatoria – alcune domande. Perché il punto fondamentale è chiedersi quale futuro (e quale modello di società) auspichiamo. Commercianti, artigiani, piccoli imprenditori, è evidente quanto la crisi che stiamo vivendo si sia abbattuta su di voi con violenza; ma vi chiediamo, quando chiudete il vostro negozio la sera, dove andate a comprare il pasto duramente sudato? All’ipermercato o in un piccolo negozio a km0 o magari da un gruppo di acquisto solidale che si rifornisce da piccoli contadini? Sapete che buona parte delle arance e dei pomodori che trovate nei supermercati sono raccolte da persone in condizioni di schiavitù, vendute ad un prezzo ridicolo dal produttore alla grande distribuzione che poi le rivende negli ipermercati vicino a casa?Cittadini e lavoratori, anche noi, seppure sosteniamo la riduzione della giornata lavorativa (“lavorare meno, lavorare tutti”), l’autoproduzione e la riduzione dei consumi, abbiamo bisogno di andare a lavorare, ci scontriamo con la precarietà e abbiamo il timore che i soldi che ci vengono versati in contributi non li vedremo mai; ma quando chiamiamo un elettricista o andiamo dal barbiere, chiediamo la ricevuta fiscale? Abbiamo il coraggio di spendere 20 euro in più o di rinunciare a qualche consumo – magari superfluo – scegliendo di pagare “il giusto” e premiare chi paga le tasse e contribuisce a sostenere le scuole, gli ospedali e il nostro sistema previdenziale? Scegliamo di orientare i nostri consumi verso chi paga le persone rispettando i diritti? Se scopriamo che il pub dove andiamo regolarmente paga i suoi baristi in nero, siamo disposti a cambiare per andare in un posto dove magari la birra costa 0,50€ in più ma dove la legalità è di casa? E se quei 50 centesimi in più fossero un problema sareste disposti a far massa critica con altre persone e chiedere insieme un prezzo più basso e/o competitivo?!Non cadiamo nel qualunquismo del “tutti rubano, tutti se ne fregano…”. Alzi la mano chi è disposto a comprare dell’olio da un gruppo di acquisto solidale pagandolo 3-4 euro in più al litro, invece di quello della grande distribuzione che, seppure prodotto in Italia, è ottenuto da olive che vengono da fuori l’Europa, mentre i nostri contadini sono allo stremo! A tutti coloro che ritengono come noi che la finanza sta distruggendo l’economia reale e le banche siano istituzioni corrotte e spesso immorali chiediamo: dove avete posto i vostri risparmi? Avete pensato di investirli nell’economia reale, nelle banche etiche o in mille altri luoghi dove non saranno oggetto di speculazione? Certo, non avremo il 3-4% di interesse come promettono (e probabilmente mantengono) alcune banche on-line… vi siete chiesti cosa se ne fanno dei vostri soldi?Anche noi, che nella vita di tutti giorni siamo presi dalle nostre difficoltà, speranze e mille impegni, vorremmo che la politica desse risposte ai nostri problemi. Ci piacerebbe vedere nei programmi politici come punti fondamentali diritti, ambiente, lotte alle speculazioni, alle mafie e tutti coloro che impediscono alle persone di poter realizzare il diritto a vivere senza patimenti e liberi di poter perseguire la propria felicità. Dopodiché, se questo non accade, dobbiamo imparare dalla frase di Gandhi “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Le cose possiamo cambiarle anche noi dal basso e subito senza chiedere niente a nessuno (senza per questo rinunciare al nostro diritto di manifestare e urlare la nostra rabbia se necessario). Domani forse inizia un altro giorno di proteste. Ma possiamo anche provare a informarci di più, cambiare le nostre abitudini e costruire un nuovo futuro a partire da noi stessi e dalle nostre scelte. Ora!(“Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo! Una nostra riflessione sulle recenti manifestazioni di protesta”, lettera-appello a cura del Circolo Mdf di Torino, pubblicata dal sito del Movimento per la Decrescita Felice il 12 dicembre 2013).Cari concittadini (lavoratori, studenti, pensionati, disoccupati…) giustamente stufi e al limite della sopportazione, condividendo la preoccupazione di chi è sceso in piazza ed evitando considerazioni personali sul colore delle manifestazioni (fermo restando il rifiuto della violenza, aspetto che vogliamo ribadire), vorremmo solo condividere alcune riflessioni con voi. Siamo pienamente in sintonia con le motivazioni alla base della protesta (corruzione e sbando della classe politica, globalizzazione, finanza e mercato selvaggi e senza limiti che strangolano il piccolo commercio locale, etc); riteniamo, tuttavia, che un’alternativa migliore debba partire da noi e che il cambiamento di questo sistema economico deve essere attuato con azioni concrete.
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Ue, tolleranza zero: in galera chi si professa comunista?
La parola “comunista” in Europa sta per diventare ufficialmente un insulto, e probabilmente un reato: né più né meno come le parole razzismo, xenofobia, antisemitismo, omofobia. L’alzata d’ingegno porta la firma del Consiglio Europeo, presieduto da un politico-fantasma come il belga Herman Van Rompuy, di strettissima osservanza Bilderberg. Liquidare il comunismo come fosse l’equivalente del nazismo? Il pericolo, come sempre, è nascosto in un dettaglio, dietro il paravento delle buone intenzioni. Tipo: “promozione della tolleranza”, per al quale predisporre un quadro normativo europeo. «Non credo che l’Unione Europea sia una buona idea», protesta Tim Worstall, «ma sembra che questa volta siano venuti fuori veramente con un jolly: stanno proponendo che ci dovrebbe essere una nuova legge sulle libertà civili e che questa legge dovrebbe rendere un reato penale per chiunque il proporre o promuovere il comunismo. Il che è una cosa un po’ strana per un programma di libertà civili, ma ciò sembra proprio quello che stanno facendo».A prima vista, premette Worstall in un intervento su “Forbes” ripreso da “Come Don Chisciotte”, potrebbe sembrare «la solita lista dei desideri della sinistra sui diritti umani». Ma, se si dà un’occhiata al documento più da vicino, nella sezione 2 (scopo) si spiega che l’obiettivo è quello di «eliminare i crimini d’odio», «condannare tutte le manifestazioni di intolleranza basate su preferenze, fanatismo e pregiudizi», e soprattutto «intraprendere azioni concrete per combattere l’intolleranza, in particolare al fine di eliminare il razzismo, i pregiudizi di colore, la discriminazione etnica, l’intolleranza religiosa, le ideologie totalitarie, la xenofobia, l’antisemitismo, l’anti-femminismo e l’omofobia». Attenzione, dice Worstal, a quella “ideologia totalitaria”. Comunismo? «Quindi lo scopo della legge è quello di assicurarsi che sia eliminato». Come? Lo spiega la sezione 7, che prefigura sanzioni penali. Ideologie intolleranti? Saranno considerate «reati punibili come reati aggravati». In dettaglio: diffamazione e incitamento alla violenza contro gruppi, nonché «la palese approvazione di una ideologia totalitaria», e «l’approvazione pubblica o la negazione dell’Olocausto», ma anche «di qualsiasi altro atto di genocidio la cui esistenza è stata determinata da una corte penale internazionale o da un tribunale».La palese approvazione di una ideologia totalitaria sarà dunque un reato penale? E’ singolare, ironizza Worstall, che siano ancora a piede libero i deputati comunisti appena eletti nella Repubblica Ceca, dopo aver ottenuto il 17% dei voti. Non solo: «Ci sono anche alcuni deputati comunisti nel Parlamento Europeo: sarà interessante vedere se lo voteranno, questo documento». Una proposta di legge incredibile, indecente: «E’ uno dei pezzi più illiberali della legislazione che nessun regime totalitario di ogni tempo abbia mai proposto finora», accusa Worstall, «perché quello che realmente propone è che la libertà di parola di tutti sul continente europeo sarà limitata a ciò che alcuni benpensanti penseranno che sarà consentito come libertà di parola alla gente». Una sconcertante nota esplicativa si premura infatti di spiegare che «non vi è alcun bisogno di essere tolleranti con gli intolleranti», che potrebbero “abusare” della libertà di espressione. Questo accade nell’Unione Europea, nel 2013.La parola “comunista” in Europa sta per diventare ufficialmente un insulto, e probabilmente un reato: né più né meno come le parole razzismo, xenofobia, antisemitismo, omofobia. L’alzata d’ingegno porta la firma del Consiglio Europeo, presieduto da un politico-fantasma come il belga Herman Van Rompuy, di strettissima osservanza Bilderberg. Liquidare il comunismo come fosse l’equivalente del nazismo? Il pericolo, come sempre, è nascosto in un dettaglio, dietro il paravento delle buone intenzioni. Tipo: “promozione della tolleranza”, per al quale predisporre un quadro normativo europeo. «Non credo che l’Unione Europea sia una buona idea», protesta Tim Worstall, «ma sembra che questa volta siano venuti fuori veramente con un jolly: stanno proponendo che ci dovrebbe essere una nuova legge sulle libertà civili e che questa legge dovrebbe rendere un reato penale per chiunque il proporre o promuovere il comunismo. Il che è una cosa un po’ strana per un programma di libertà civili, ma ciò sembra proprio quello che stanno facendo».